Rompere la subalternità. Le responsabilità politiche degli educatori
NapoliMONiTOR - Tuesday, January 9, 2024Dal numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città
Di recente la Corte europea per i diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per trattamento inumano di una migrante minore. Una ragazza ghanese, vittima di violenze sessuali, arrivata in Italia nel 2016 a cui è stata concessa la protezione internazionale solo il 22 dicembre 2017 in seguito alla denuncia effettuata dal suo avvocato presso la Corte europea.
La condanna dell’Italia serve come elemento contestualizzante quando si affrontano temi come quelli legati ai fatti, avvenuti a pochi giorni uno dall’altro, degli stupri di minorenni a Palermo e Caivano, e dell’omicidio a Napoli di un ventiquattrenne per mano di un sedicenne in seguito a una lite per futili motivi. La contestualizzazione consente di attribuire un senso alle cose dandoci la possibilità di non essere travolti dalla piena ipocrita di chi rivendica giustizia con la clava in mano. Il fatto che uno stato venga condannato dalla Corte europea per i diritti umani per abuso su un “minore” dà l’esatta misura della sensibilità con la quale quella comunità si rivolge ai “minori”, sia quando li piange sia quando reclama nei loro confronti punizioni esemplari. Anche la mediocrità del dibattito pubblico è un indicatore del modo in cui una comunità è educata a leggere la realtà, a conoscere e comprendere gli eventi che caratterizzano la sua vita.
Questa premessa può mettere nella giusta prospettiva le ricorsive denunce di abbandono da parte dello stato, le passerelle istituzionali sui luoghi del dramma, come l’incapacità di chi esercita un lavoro educativo di esprimere un pensiero o prendere una posizione nel merito. Una comunità che nel suo insieme abusa di una ragazza è una società nella quale gli educatori non contano niente e non servono a niente, perché non hanno la capacità incidere nelle dinamiche sociali nemmeno per operare quel minimo di protezione verso bambini e ragazzi di cui ci sarebbe bisogno in un contesto strutturalmente violento.
L’anomia degli educatori fa da contraltare alla retorica della pena certa; non importa quanto le carceri italiane siano dei buchi neri dai quali si fugge togliendosi la vita, ci sarà sempre posto per un nuovo marginale, che sia un immigrato, un invertito, uno psicotico o un “baby-criminale”. E non importa neanche sapere se la deterrenza funzioni veramente, se la paura della pena certa abbia davvero una qualche forma di efficacia nello scoraggiare comportamenti devianti. Basterebbe parlare dei dati certi e non delle impressioni soggettive per fare un’analisi efficace dei crimini commessi. Ma i dati reali non sono suggestivi, non consentono di costruire narrazioni cariche di pathos sulle quali ognuno sia libero di vomitare le proprie ansie, frustrazioni e angosce.
PEDAGOGIA DELLA PRECARIETÀ
L’omicidio del giovane Giovanbattista Cutolo a Napoli ha mostrato non tanto la spettacolarizzazione del dolore quanto il meccanismo della sua socializzazione: rendere patrimonio di tutti il legittimo e personale dolore della madre per il lutto insensato e improvviso che ha dovuto subire, crea un sentimento pubblico falso, perché basato sulla condivisione di un dolore non condivisibile, sul quale si costruisce una percezione paranoide delle relazioni sociali e una inesistente dicotomia tra una presunta componente sociale “giusta”, “buona”, “illuminata” e una ontologicamente “cattiva”, “violenta” e “ottusa”.
La partecipazione incondizionata al lutto da parte di chi potrebbe e dovrebbe mantenere una distanza da quanto accaduto perché chiamato a lavorare quotidianamente con quella parte “guasta” della società, annulla ogni prospettiva di cambiamento e lascia spazio alla sola possibilità dello scontro. L’essenzializzazione morale delle componenti sociali rende vano ogni discorso educativo, cioè ogni discorso che abbia come presupposto processi di trasformazione. Se la città diventa il campo di scontro tra le forze del bene e quelle del male, allora è legittimo chiamare in campo la polizia, l’esercito, il carcere e un domani, perché no?, la pena di morte.
Questa narrazione dei rapporti sociali da un lato occulta le dinamiche strutturali che determinano gli squilibri alla base dei fenomeni di marginalità e dall’altro, guardando le cose da un’angolazione che potrebbe essere propria di un educatore, nasconde il fatto che i modelli di riferimento delle “forze del bene” e delle “forze del male” sono semplicemente gli stessi, cambiano solo le possibilità materiali di accaparramento della ricchezza.
Tirare in ballo la disedonia, l’incapacità di provare piacere da stimoli o attività solitamente gratificanti, come è stato fatto a proposito dell’omicidio di Giovanbattista Cutolo, può servire da punto di partenza per una riflessione sui cambiamenti enormi che stanno avvenendo nelle strutture cognitive ed emotive delle giovani generazioni, ma non per motivare distinzioni “ab origine” tra ragazzi buoni e ragazzi cattivi. Ed è qui che l’educatore, cui fin dalla culla delle aule universitarie è stato spiegato che l’educazione ha necessariamente implicazioni politiche, dovrebbe avere la capacità di spostare il dibattito dal piano dell’emotività soggettiva a quello della visione politica.
Quando si propone e si dispone il Daspo urbano per un adolescente si sta negando la possibilità del discorso educativo, si sta negando la responsabilità sociale ed economica dell’emarginazione e si sta riducendo la funzione pubblica alla mera pratica repressiva: lo stato, le regioni, i comuni, tutto ciò che fa riferimento al pubblico, assume il solo scopo di liberare il campo dai possibili ingombri all’attività produttiva, all’estrazione di profitto; tutto ciò che macchia l’immagine posticcia di un contesto urbano allestito come la scenografia di un cabaret della belle époque, tutto tavolini e magna magna, va messo sotto il tappeto o comunque lontano dagli occhi, magari nel deserto di una qualche periferia. Salvo poi recuperare quella periferia attraverso la “fiction”, la finzione filmica, con la quale si forniscono involontariamente modelli identificativi a chi pensa di poter rompere le catene della propria marginalità utilizzando l’unica risorsa che possiede: il proprio corpo, l’uso del proprio corpo come arma, per soggettivarsi, per accaparrare quella ricchezza che, a quanto pare, è indispensabile per poter essere.
La dimensione politica dell’educazione non ha nulla a che vedere con le sceneggiature dei dibattiti televisivi e la presa di posizione degli educatori dovrebbe essere attinente a un livello di radicalità che nessuna pantomima elettorale può risolvere. Quello che qui si vuole dire è che attualmente il problema è cosi radicato, strutturale, da andare ben al di là dei rituali e dei passaggi previsti dalla democrazia formale.
Quando si fa riferimento alla dimensione strutturale non si intende tirare in ballo la sfera emotiva per farne una metafisica del disagio, come succede quando si essenzializzano i comportamenti ascrivendoli a una presunta natura umana, ma si chiamano in causa i modi precisi attraverso cui il sistema di produzione organizza le relazioni sociali per i suoi fini: gli educatori in Italia, e al sud in modo più radicale che al nord, sono stati oggetto di una violenta pedagogia della precarietà che è andata di pari passo con la definizione del loro statuto professionale. Lo strumento attraverso il quale si è esercitata questa pedagogia è stato, ed è ancora, il terzo settore: la cooperazione e l’associazionismo, lungi dal rappresentare la possibilità di una trasformazione riformista, progressiva ed emancipatoria dei rapporti tra capitale e lavoro, hanno assunto di fatto il ruolo di Cavallo di Troia dello sfruttamento incondizionato dei lavoratori e della loro precarizzazione esistenziale, giocando sulla prossimità che in queste forme di organizzazione societaria esiste tra i vertici e la base. Il Cavallo di Troia è rappresentato dall’investimento emotivo, dal carico di responsabilità attribuito ai lavoratori del privato sociale in virtù delle loro prestazioni di cura, a fronte di trattamenti contrattuali ed economici discontinui, insufficienti e mortificanti. L’elemento pedagogico è consistito nell’abituare i lavoratori a ritenere che le loro condizioni lavorative fossero normali e inevitabili e che, al limite, per poter campare meglio, l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di vincere la lotteria di un concorso pubblico, magari nella scuola o in un ente locale.
Considerando che il lavoro educativo si gioca nel corpo delle persone – nel senso che tutta la persona dell’educatore e dell’educando è chiamata in causa nella relazione educativa –, quando un educatore è in posizione così subalterna nell’organizzazione del lavoro diventerà inevitabilmente un moltiplicatore di rassegnazione, un missionario dell’ineluttabilità dei rapporti di sfruttamento e della precarietà esistenziale. Di fronte ai conflitti generati dal modo di produzione e dalla violenza delle relazioni sociali, esacerbate dalla continua sottrazione di risorse economiche a tutte quelle istituzioni che dovrebbero essere deputate al riequilibrio degli squilibri sociali – come la scuola e la sanità pubbliche, la previdenza sociale, l’edilizia popolare, la salvaguardia del territorio –, l’approccio subalterno di chi svolge un lavoro educativo lo riduce all’irrilevanza.
La violenza che caratterizza una parte del mondo giovanile andrebbe letta in questo contesto e i soggetti più adatti a farlo dovrebbero essere proprio quelli che nel mondo giovanile sono quotidianamente immersi. Quando a ogni scoppio di violenza che cattura l’attenzione del pubblico si ripropone l’istituzione di una cabina di regia pubblico-privato sociale per dare una risposta alle disfunzioni dei territori, si ragiona come se negli ultimi trenta anni non fosse successo nulla, come se il privato sociale avesse ancora qualcosa da dire e non fosse invece parte in causa del fallimento di un modello di welfare che ha come presupposto il taglio alla spesa sociale, la compressione del costo del lavoro e la sua sostanziale precarizzazione.
UN LAVORO PUBBLICO
Forse bisognerebbe avere il coraggio di dire una cosa semplice: se ci deve essere un lavoro educativo questo deve fare capo al pubblico. Uscire fuori dalle mistificazioni significa coprire di piume e pece il ministro che da un lato taglia i fondi alla scuola pubblica, aumenta quelli alle paritarie, accorpa gli istituti scolastici proprio lì dove ci sarebbe bisogno di un rapporto minimo tra docenti e alunni e poi straparla di tutor e scuole aperte anche il pomeriggio. Lo stato deve metterci i soldi, nella scuola, nei servizi socio-educativi, deve assumere educatori e non solo assistenti sociali, deve individuare spazi sul territorio e aprire centri pubblici per bambini e bambine, ragazzi e ragazze.
Ci vogliono i soldi per iniziare a colmare il pozzo senza fondo della marginalità. I Laboratori di educativa territoriale – sono ventisei su tutto il comune di Napoli – esistono da oltre venti anni, ma non hanno una sede: in oltre venti anni il Comune non è stato capace di individuare sul suo territorio ventisei luoghi fisici stabili per erogare un suo servizio, per cui questo si svolge nei luoghi più disparati, dai locali scolastici agli appartamenti presi in fitto a prezzi di mercato. Se si volesse cambiare qualcosa bisognerebbe assumere gli educatori e aprire degli spazi pubblici, metterci direttamente le mani e la faccia. Questo è quello che dovrebbero fare le istituzioni e questo dovrebbero esigere gli educatori. In questa prospettiva assumerebbe un senso diverso la dialettica tra pubblico ed esperienze militanti sul territorio, che potrebbe diventare terreno fertile di innovazione e sperimentazione. Oggi, invece, il pubblico risponde solo al privato sociale, che ha un rapporto prevalentemente concorrenziale con le esperienze militanti.
Gli educatori devono essere il perno di una prospettiva politica di questo tipo perché né il pubblico, né il privato sociale, né il mondo militante hanno interesse a portare avanti questo discorso. È compito degli educatori prendere coscienza delle implicazioni politiche del lavoro educativo e scandagliarle in tutte le direzioni assumendosene la responsabilità etica.
Gli educatori, quando non sono direttamente chiamati a proporre una norma sociale a cui gli educandi dovrebbero disciplinatamente aderire, vengono adoperati come ammortizzatori degli squilibri di un’organizzazione sociale che a livello istituzionale è rappresentata dal committente dei servizi. Se l’educatore accetta questo mandato presuppone come inevitabili quegli squilibri che lo chiamano in causa come ammortizzatore. Se invece non lo accetta non può far altro che rendere la relazione educativa il luogo della messa in discussione di quegli stessi presupposti che giustificano la sua esistenza come professionista: in questo caso l’educatore rifiuta il ruolo di ammortizzatore per assumere quello di detonatore. Questo non vuol dire diventare degli agit-prop, ma svelare le contraddizioni e i nodi di sofferenza; svelare, per esempio, la funzione performativa delle piattaforme social, il modo in cui l’obbligo della visibilità impone una disciplina dura dell’essere come tutti si aspettano che ognuno sia. La disciplina della visibilità compensa il vuoto dell’irrilevanza riservata ai giovani, ma pretende in cambio un agire immediato, nel senso che le emozioni non mediate da un’azione riflessiva diventano un agente compulsivo. L’azione educativa deve rompere l’automatismo insito in questi comportamenti, consentendo ai ragazzi e alle ragazze di collocarsi e percepirsi coscientemente.
Gli adolescenti oggi sembrano sospesi tra fluidità e disciplinamento conformistico, adottano codici comunicativi spietati e apparentemente freddi sui quali si dipana un apparato valoriale che ha pochi punti di contatto già con quello di persone di qualche anno più grandi. Questa situazione è amplificata dal fatto che ormai a livello internazionale la soglia della gioventù si è elevata a quarantaquattro anni. La scomparsa del mondo adulto, a favore di quello dell’adultità, se da un lato ha sancito che cambiare è sempre possibile e che le relazioni educative non riguardano solo bambini e adolescenti, dall’altro avverte gli educatori del fatto che non ci sono più tradizioni alle quali aggrapparsi: né il buon senso della nonna, né il precettino libertario sono sufficienti ad affrontare questa transizione.
Gli educatori sono chiamati a calarsi in questo flusso mettendosi nella disposizione a fare la storia e non a subirla né a esserle subalterni. Il ripetersi ciclico di episodi di una violenza aberrante ci pone di fronte ai nostri limiti, soprattutto ci spinge a liberarci da quella retorica della salvezza che tanto gratifica il narcisismo e a così poco serve concretamente. Fare la storia significa prendere parte, schierarsi, decidere qual è l’orizzonte di senso nel quale ci si muove, contro quali pulsioni di morte ci si batte, verso quali spinte vitalistiche. Ma un educatore dovrebbe sapere soprattutto che l’educazione è nella relazione, nella relazione trasformativa e quindi nessuno si salva da solo, nessuno educa da solo, nessuno è educato da solo. Questa è la dimensione politica, sapere che le mie possibilità di educatore sono inscindibilmente legate al contesto nel quale vivo e lavoro e che nessuna reale trasformazione individuale è possibile senza una trasformazione del contesto. Poi si tratta di capire se per trasformare il contesto sia sufficiente qualche riforma o sia necessario altro. (emiliano schember)