Tag - linee

Alla fiera del sud. Colonialismo e storytelling in Puglia
(collage di stefania spinelli) C’è una musica incalzante e un pugile sul ring. Se ne sta buono nell’angolo mentre si fa riempire di pugni, ha smesso di combattere ma nessuno osa gettare la spugna. Sul viso ha una smorfia di estasi perversa, la scarica di colpi produce una voglia inconcepibile di farsi gonfiare di botte fino a perdere i connotati. Con la stessa smorfia beata e fiera il presidente della Puglia Michele Emiliano ha presentato un mese fa il nuovo marchio unico della regione, esito di un “progetto di identità visiva” che ha prodotto, oltre al logo che affiancherà lo stemma regionale, anche un video promozionale che mi si è conficcato nel petto come il pugnale delle Addolorate di cartapesta portate in processione il venerdì santo. Il logo è un ottagono, simbolo di Castel del Monte, con dentro linee curve intrecciate che rimandano ai rami d’ulivo (ché solo rami secchi ci sono rimasti, non le chiome, dopo oltre dieci anni di “affare xylella”). Ecco come si fondono il patrimonio storico e artistico della regione e “l’integrazione delle diversità, peculiarità dei pugliesi, popolo storicamente vocato all’accoglienza”. Lo spiega Antonio Romano, creatore del nuovo marchio oltre che esperto di “brand identity” e fondatore di Inarea, a cui si devono tra l’altro i loghi di Rai, Enel, Trenitalia. Al logo si aggiunge un claim evocativo: “Puglia, l’Italia levante”. A detta di Rocco De Franchi, direttore regionale della comunicazione istituzionale, lo slogan rimanda alla posizione geografica della regione più a est della penisola, ma soprattutto alla “direttrice aspirazionale di persone accomunate dalla volontà di risollevarsi”. CAFONI IN PARADISO La vera linfa al branding territoriale arriva dal video che accompagna il nuovo logo, in cui si succedono a ritmo folle immagini pensate per tenere insieme la prospettiva di continua crescita e la presenza rassicurante di elementi tradizionali. Il filmato si apre con una sfilza di centri storici patinati, trulli ristrutturati, orecchiette con cime di rapa, pasticciotti, lo sguardo ammaliato di una turista col panama, una famiglia felice in vacanza al mare, feste con fuochi d’artificio e luminarie. Tutto scorre così veloce che quasi sfuggono alcuni fotogrammi frapposti tra le immagini di taralli, calici di vino e spiagge. Se giochiamo a trovare l’intruso e rallentiamo la riproduzione, spuntano macchinari futuristici, pale eoliche su un colle, vigneti a spalliera, distese di pannelli fotovoltaici. Insomma, il gioco è applicare forzatamente schemi precostituiti alla realtà locale, benché prima si dica di assecondare la vocazione del territorio e valorizzare le peculiarità. La scarica di pugni e il ritmo serrato culminano in alcune frasi patetiche: “Puglia, tante identità in una”, “la terra che vede per prima la luce del giorno”, “lo spirito solare dei suoi abitanti nell’elevare il proprio destino”. Si fa leva sul presunto spirito d’identità per abbassare la guardia e lasciar passare come normali, come dato di fatto compiuto, una serie di scenari che non hanno nulla di naturale né di caratteristico all’interno della realtà pugliese. Premere il tasto del sentimento, dei riti e delle tradizioni significa restare nell’ambito del pre-politico, al di qua della storia. Mi soffermo su un’immagine di fitte reti e serbatoi galleggianti su una superficie verdastra. Ammesso che si tratti di un allevamento di cozze, sono sicura che non sia a Taranto né altrove in Puglia. In effetti, con Google lens scopro che è un allevamento superintensivo di mitili nella provincia di Rayong, in Thailandia, e da Greenpeace scovo altre immagini che mostrano i danni provocati dall’industria sulle popolazioni locali e sull’ambiente. “L’allevamento di cozze è situato accanto alla centrale elettrica a carbone BLCP nella zona industriale di Map Ta Phut, nota per i suoi problemi di inquinamento”, spiega una didascalia. “Le cozze prosperano in acque inquinate e i mitilicoltori sono pagati da BLCP per il loro lavoro”, mentre la stessa industria racconta di migliorare lo stile di vita dei nativi da cacciatori ad allevatori. Tutto questo ha del grottesco: non un intruso innocuo, ma una realtà simile a quella di Taranto, dove la mitilicoltura convive con il disastro dell’Ilva, il più grande stabilimento siderurgico italiano. Le recenti gestioni della regione e la trovata del video promozionale non sono funghi velenosi inspiegabilmente cresciuti su un terreno rigoglioso, ma quel terreno è marcio quanto il fungo. Allora non c’è nessun pugile, non è un ring ma un recinto per animali alla fiera del bestiame, e non sono pugni che ci stanno sfinendo ma i colpi del banditore d’asta: progetti, appalti, marketing territoriale, manipolazione della storia e della cultura locali, finanziamenti pubblici attribuiti in modo da alimentare il consenso per le forze politiche al potere. Romano, padre del nuovo logo, vanta le sue origini pugliesi e sogghigna: “Un tempo questa era la terra da cui si emigrava e noi per primi non capivamo cosa avevamo. In Salento le masserie erano il simbolo della sconfitta dell’agricoltura, oggi provate a comprare una masseria in Salento e poi mi fate sapere”. Da cafoni all’inferno arretrati e incapaci di apprezzare la terra che abitano (ché il sottoproletariato è la brutta faccia della medaglia da tenere rovesciata, dimenticando gli emigrati macinati come manodopera a basso costo per l’industria del nord), a fortunati figli della terra della gioia di vivere e delle masserie trasformate in resort. Da terra promessa per poveri senza speranza (ricordando gli anni in cui ogni notte albanesi, kosovari, curdi, bengalesi sbarcavano sulle coste pugliesi) a regione vocata all’accoglienza di turisti, investitori, speculatori. LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA Un documentario del 1962 per la nascita dell’Italsider a Taranto si apre con una sequenza in cui terra rossa e ulivi secolari vengono annientati dalle ruspe di un enorme cantiere in costruzione. “Gli ulivi, il sole, le cicale, significavano sonno, abbandono, rassegnazione, miseria”, invece, spiega la voce fuori campo, “acciaio significa vita”. La retorica sviluppista e il mito della società industriale si sono consumati, le promesse di crescita e di futuro sono state disattese, conviviamo con le eredità di un modello di produzione che ha piegato alla logica del profitto l’ambiente e la salute. Eppure la stessa logica ritorna, celata dietro piani di “rigenerazione territoriale”, “sviluppo sostenibile”, “transizione ecologica”. Il mantra è muoversi a qualunque costo, voltare pagina è l’unica soluzione per un futuro migliore. Verdi narrazioni di speranza mascherano un land grabbing spietato, l’istituzione della ZES Unica del Sud, spacciata come volano per il meridione, spiana la strada al consumo di suolo e regala autorizzazioni a complessi turistici di extra lusso. Il tutto in una situazione sistematicamente deregolamentata: solo 46 comuni pugliesi su 257 hanno adottato in via definitiva un Piano urbanistico generale, manca un piano energetico regionale con l’individuazione delle aree non idonee agli impianti industriali di rinnovabili e l’assenza di una politica regionale in materia fa da tappeto alle speculazioni energetiche. L’obiettivo al 2030 stabilito dal Piano energia e clima da raggiungere con la potenza da impianti eolici offshore è di 2,1 GW. Solo le proposte di impianti di fronte alle coste pugliesi raggiungono una potenza complessiva pari a 27,5 GW, “tanto da configurarsi una saturazione complessiva del mare aperto con impianti eolici posti a corona continua delle coste vincolate per legge o per il loro notevole interesse pubblico”. Lo si legge in un documento dello scorso aprile in cui la Soprintendenza speciale per il PNRR esprime parere negativo al progetto di un parco eolico marino nel Gargano. “Nella regione Puglia è in atto, già da tempo, una complessiva azione per la realizzazione di impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore e offshore), tale da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica, oltre il fabbisogno regionale previsto”. Lo sfruttamento dei territori e l’appropriazione privata di risorse naturali sono tratti del colonialismo, che controlla lo spazio pubblico attraverso la neutralizzazione del dissenso e “cattura” la scelta pubblica, condizionando gli attori istituzionali a favore degli interessi economici delle multinazionali, a discapito degli interessi della collettività. INVASIONE DEI CLONI Il comparto turistico e l’industria culturale sono caratterizzati dalle stesse finalità predatorie di qualsiasi altra industria. La deregolamentazione come precisa linea politica si accompagna a narrazioni semplificate che, oltre a non rendere giustizia alla complessa storia del territorio, celano un altro inganno. Lo storytelling dell’accoglienza e della resilienza su cui è costruito il  nuovo marchio regionale non si limita a descrivere la realtà, ma vuole produrne una ad hoc, cementare una morale comune, trasformare il modo di guardare prima che l’oggetto guardato. Si insiste sull’identità praticando una profonda mistificazione livellatrice, inducendo i pugliesi a identificarsi con costumi cuciti dall’alto fino a restare in contatto solo con la finzione di sé. L’operazione di marketing non è difficile da cogliere, ma c’è anche il sintomo di un disagio profondo, il tentativo di darsi un’identità omogenea mentre cresce la disgregazione del tessuto sociale. Una comunità frantumata ha disperato bisogno di simboli e riti, tanto da convincersi che i simulacri propinati ai turisti corrispondano alla realtà. Mettiamo in piedi il teatrino estivo e ci dimentichiamo di smontarlo d’inverno, finiamo per diventare marionette mosse da mani potenti. Così lo storytelling plasma il territorio e diventa strumento di pacificazione, in una pandemia dell’immaginario che ricorda L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e anche, come scriveva Leogrande, La città sostituita di Philip Dick. Si appropriano di linguaggi e pratiche svuotandoli di senso e piegandoli a scopi altri, così cominciano ad affollarmi la testa gli scritti di Baudrillard, Wittgenstein, Kripke: la conoscenza del significato di una parola si manifesta nel modo in cui si usa quella parola, una parola ha un certo significato oggi perché l’abbiamo usata in un certo modo nel passato. Se il significato di una parola è dato dall’uso che se ne fa oggi, la rideterminazione semantica in atto deve metterci in guardia che tale uso non sia in accordo con l’uso passato. Mentre il consenso continua ad addensarsi dalla parte sbagliata, facciamo una fatica enorme per trovare una nuova grammatica che interpreti la crisi. La Puglia è tra i luoghi iper-raccontati, eppure la sovraesposizione mediatica non copre affatto tutta la realtà narrabile. Anzi, finisce per non (far) vedere la Puglia per quello che è: una regione fatta di viscere, frammenti. Nell’iper-racconto si smarrisce quella disperata vitalità che impregna campagne e paesi, quella visione lucida delle cose che resiste nelle pieghe dei territori. Da queste pieghe dobbiamo ripartire per analizzare le narrazioni dominanti e disarticolarle, per costruire un discorso critico sul meridione. E per riuscire ad ascoltare la voce subalterna serve cambiare registro, lontano dai vocabolari ufficiali consunti, risemantizzare il vivere politico. (chiara romano)
January 15, 2025 / NapoliMONiTOR
Un’altra strada è possibile. Sulla conferenza autogestita per la salute mentale
(disegno di cyop&kaf) “[Le cure] le ho subìte non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire”. In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Paolo Cognetti, premio Strega per Le otto montagne, ha raccontato due settimane di ricovero in psichiatria a seguito di un Tso, determinato dopo essere “stato morso dalla depressione”, cui sono seguite fasi maniacali che hanno procurato allarme tra gli amici: “C’era il timore, per me infondato – afferma lo scrittore – che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”. Nel Reparto psichiatrico di diagnosi e cura, dice ancora Cognetti, “ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta”. Non abbiamo gli strumenti né vogliamo qui approfondire la vicenda personale dello scrittore, non sappiamo se il morso della depressione fosse stato in qualche modo precedentemente preso in carico e curato, tuttavia ci pare importante interrogare quello che resta tra gli spazi bianchi di alcuni passaggi di questa intervista: sono stati realizzati tutti i tentativi, pure previsti dalla legge, per convincere e non costringere la persona alle necessità della cura, o la presenza della polizia ad accompagnare l’ambulanza era già costrizione? Quello che sembra essere prevalentemente un trattamento psicofarmacologico molto pesante (“non ho fatto altro che dormire”, “ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti”) può rappresentare lo strumento prevalente della cura alla sofferenza psichica? Un’affermazione come quella per cui si esce da un reparto ospedaliero solo facendo quello che il personale sanitario si aspetta, quale tipologia di istituzione racconta? Ancora, quando Cognetti afferma: “Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. […] Per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato”, quanto ci sta dicendo sullo stigma che ancora circonda il mondo del disagio psichico? Quanto appartiene a questo ordine del discorso il passaggio in cui l’intervistatore, senza motivazione palese, ci tiene a sottolineare che Cognetti parla di questa esperienza con i capelli tinti di rosso? E quanto, ancora, l’allarme determinato da comportamenti legati a una sofferenza psichica è davvero giustificato, o quanto è legato ai processi di normalizzazione sociale? Questa intervista a Cognetti ci interroga sullo stato della cura della salute mentale in Italia. Lo stesso interrogativo da cui si è mossa la seconda Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale, convocata da decine di organizzazioni nazionali e territoriali, e che si è svolta il 6 e 7 dicembre a Roma, ritrovando grande partecipazione (almeno cinquecento persone, più di centocinquanta interventi tra plenarie e tavoli tematici, di utenti, familiari, associazioni, operatori, ricercatori), la significativa presenza di tanti giovani, l’impegno, a partire dal riconoscimento della centralità politica del tema della salute mentale, a una nuova stagione di mobilitazione sociale per “riprendere” quei diritti sempre più negati dal depauperamento culturale, operativo ed economico dei servizi pubblici di settore. Perché, come ha messo in evidenza nella relazione introduttiva la presidente dell’Unasam Gisella Trincas, siamo di fronte a «una crisi profonda del Servizio sanitario nazionale, in cui si concretizzano forme di neo-istituzionalizzazione senza alcun intervento nei servizi di comunità. C’è un impoverimento progressivo dei servizi di salute mentale e, come mostra il Ddl Zanfini, si manifesta una tragica nostalgia del manicomio. Eppure a tutti noi non servono ambulatori psichiatrici che dispensano farmaci a vita senza consenso, ma centri di salute mentale di comunità. Resistono comunque importanti esperienze nei servizi pubblici e il cambiamento è possibile». La necessità di non lasciarsi sopraffare dal disfattismo e di mettere in campo forme di resistenza anche radicali è riecheggiata in più interventi. Come ha ricordato la sociologa Mariagrazia Giannichedda: «Dobbiamo tenere insieme la delusione e la rabbia per quanto si è determinato con la speranza che un’altra strada è possibile. Insomma, come pure faceva Franco Basaglia, bisogna ritornare a Gramsci, contrapponendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà e della prassi». Un ottimismo che certo si scontra con l’abbandono cui sono troppe volte destinate le persone che si affidano ai servizi, come ha raccontano il giovane attivista per la salute mentale Elio Pitazalis, o, come ha sottolineato la psichiatra Giovanna Del Giudice, con il permanere di pratiche che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale (innanzitutto la contenzione, che pure non solo permane quale intervento routinario in tanti reparti psichiatrici ospedalieri, coinvolgendo un numero crescente di minori, ma è utilizzata anche nelle strutture per anziani, nelle comunità per persone con disabilità, in tutte quelle nuove forme di internamento che, rispondendo a logiche prevalentemente securitarie e di profitto, interessano oltre trecentomila persone in Italia). Con la contenzione tornano anche strumenti che in troppi immaginavano erroneamente appartenere al passato, come l’elettroshock, con alcune Aziende sanitarie, come la Roma 5, che investono parte dei sessanta milioni di euro destinati nel 2021 al rafforzamento dei Dipartimenti di salute mentale (tra altro proprio per il superamento della contenzione meccanica in tutti i luoghi di cura della salute mentale) nell’acquisto di nuovi macchinari per la terapia elettroconvulsivante. La contenzione sembra essere utilizzata anche nei Centri di permanenza per i rimpatri destinati ai migranti, i cui dispositivi manicomializzanti sono stati al centro di molti interventi che ne hanno denunciato disumanità e stretta relazione con le questioni inerenti alla salute mentale. Relazione che sussiste, evidentemente, anche con il carcere, altro tema che pure è stato più volte richiamato e discusso. Tra gli aspetti più significativi di questa due giorni, infatti, c’è stata proprio la tensione a superare lo specialismo disciplinare della psichiatria, il tentativo di tornare a porre la questione della salute mentale nel suo intreccio con i più complessivi fenomeni di quella realtà che Sergio Piro ci ha insegnato essere costituita da “esclusione, sofferenza e guerra” nelle sue dimensioni interconnesse globali e intra-soggettive. È in questa prospettiva che si comprende il senso sia delle parole utilizzate da Fabio Lotti, per il quale la «salute mentale è un imperativo per la pace», sia della connessione, evidenziata da Maurizio Landini, tra Ddl Sicurezza e Ddl Zanfini, quali risultati di una «stessa logica che discende da una involuzione autoritaria, da una pericolosa deriva sociale, politica e culturale», rispetto alle quali il segretario della Cgil ha rivendicato la necessità di una «rivolta sociale, anche per contrastare quella pandemia neoliberale che ha portato al dominio del mercato anche nel campo della salute».  Quindi, come ha sottolineato lo psichiatra Alessandro Saullo, a fronte di un «violento attacco al lavoro in salute mentale, che si sta realizzando anche imputando nuove responsabilità di tipo securitario agli operatori» bisogna reagire «ponendo al centro i diritti sociali delle persone marginali, contrastando la violenza istituzionale opacizzata da anni di discorsi sulla violenza sugli operatori, stabilendo delle questioni che facciano da spartiacque». La conferenza si è conclusa approvando un documento che contiene dieci proposte rivolte a governo, regioni e comuni, un decalogo che vuole rappresentare la base programmatica sulla quale lavorare e per la quale lottare, a partire dai prossimi mesi, in difesa di quella Legge 180 che, come ha sottolineato Stefano Cecconi, membro del coordinamento della conferenza, travalica i confini della salute mentale e rappresenta un cardine della nostra democrazia. Non possiamo sapere quali saranno i reali risultati di questo impegno alla mobilitazione, abbiamo attraversato troppe stagioni per non avere contezza del rischio che lo stesso ceda il passo alla disillusione. C’è però un elemento di novità che sembra emergere da questa conferenza e da tanti incontri di questi ultimi mesi: la partecipazione attiva di tanti giovani insoddisfatti da una formazione accademica che pure in settori come la psichiatria, l’antropologia, la sociologia, la bioetica, appare sempre più vacua e standardizzata, incapace di saziare il desiderio di conoscenza e rispondere ai reali bisogni dei giovani e della società. Se riusciremo ad ascoltarli senza la pretesa di impartire lezioni, se non avremo paura di rinunciare agli ossequi accademici e alle commemorazioni monumentali, se sapremo metterci in dialogo accettando la ricchezza del conflitto generazionale, se avremo l’umiltà di imparare che da questi ragazzi si può, si deve imparare, forse non saremo costretti ad arrenderci alla banalità del non può essere altrimenti. Ricordando, come ha fatto Cognetti nella sua intervista, che “è vivere la cura per riuscire a vivere”. (antonio esposito)
December 20, 2024 / NapoliMONiTOR
Sapere e morte
(disegno di enrico pantani) È in libreria da fine novembre a Napoli, Roma, Milano e Torino (nei prossimi giorni sarà a Bologna e poi in altre città italiane) il numero 13 de Lo stato delle città. Pubblichiamo da pagina 5 l’editoriale di Stefano Portelli, Sapere e morte.  “Se fai una cosa abbastanza a lungo, il mondo l’accetterà”, ha detto l’ex direttore del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano Daniel Reisner, secondo un articolo di Ha’aretz del 2009. “Un’azione oggi vietata diventa lecita se a compierla è un numero sufficiente di paesi”, ha aggiunto. Reisner è un “esperto di diritto internazionale”, collaboratore abituale della Tel Aviv University, dove istruisce studenti e studentesse su come piegare trattati e organismi Onu al progetto sionista di pulizia etnica della Palestina. Le università israeliane per decenni ci sono state presentate come spazi di incontro e dialogo, addirittura roccaforti del dissenso e del pacifismo. Nel libro Torri d’avorio e d’acciaio: come le università israeliane sostengono l’apartheid della popolazione palestinese (Alegre, 2024) l’antropologa Maya Wind espone invece il catalogo degli orrori, finora accessibile solo a chi leggeva l’ebraico: ogni aspetto di queste istituzioni sostiene, promuove ed estende la colonizzazione della Palestina e la disumanizzazione del suo popolo.  Non si tratta solo di dual use, cioè, per esempio, che la tecnologia di riconoscimento facciale può servire per accendere il cellulare ma anche come strumento di morte o di apartheid (i droni che riconoscono chi uccidere, i check-point chi non far passare). Tutte le discipline, anche le meno sospette, servono la colonizzazione della Palestina e il suprematismo sionista. L’archeologia è interamente improntata a eliminare le prove della presenza palestinese e a esagerare l’importanza degli antichi insediamenti ebraici. Le scienze giuridiche cercano di legittimare torture, stupri e sterminio come legalmente accettabili. L’orientalistica, mizrahinut in ebraico, offre basi pseudo-scientifiche ai pregiudizi contro i palestinesi, come l’idea che la cultura araba “venera la morte”. Architettura e urbanistica plasmano i territori per rendere invisibile, o invivibile, tutto ciò che non è ebraico. Addirittura i dipartimenti di filosofia e di etica aiutano l’esercito a stabilire “quale sia il numero eticamente accettabile di civili palestinesi da poter uccidere nel tentativo di assassinare un palestinese considerato da Israele come un miliziano, al fine di salvare la vita di anche un solo cittadino israeliano”. Prima del 2024 questo “tasso di cambio”, come lo chiama il comico palestinese Bassem Youssef, era calcolato come poco più di tre a uno, anche se ne uccidevano già moltissimi di più. L’importante era che passasse il messaggio: che questi orrori sono misurabili. Oltre a essere luoghi di legittimazione della violenza coloniale, e di formazione dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti, le università israeliane sono anche fisicamente avamposti militari intorno a cui nascono gli insediamenti, come la Hebrew University a Gerusalemme Est; sono culle per le start up dell’industria delle armi, sperimentate quotidianamente sui civili palestinesi; e think tank delle strategie comunicative dell’estrema destra, che cercano di rendere impossibile anche solo parlare di alternative alla guerra e alla distruzione del pianeta. Il libro di Maya Wind ci fa riflettere sul sistema infernale che lega indissolubilmente la produzione del sapere alla macchina di morte dell’esercito israeliano; ma dobbiamo approfittarne anche per capire le nostre implicazioni. La matrice del permanente sostegno “scientifico” alla brutalità coloniale, naturalmente, è statunitense; il sistema accademico che Israele porta a compimento è quello statunitense. Ma le università europee non hanno alcuna difficoltà nel difendere e riprodurre questa commistione tra avorio e acciaio, tra scienza e guerra. Le università di tutto l’Occidente, scrive Bana Abu Zuluf, dottoranda palestinese in diritto internazionale per un’università irlandese, hanno creato un “muro di ferro” intorno al colonialismo israeliano e al genocidio dei palestinesi: sono “fortezze intellettuali” che “si assicurano che le critiche al sionismo siano sterilizzate, spogliate della loro potenza, nascoste dietro eufemismi come ‘conflitto’ e ‘sicurezza’”. L’intero sistema accademico europeo si basa su questi eufemismi e su questa sterilizzazione della critica; e non solo verso il sionismo. In tutta Europa, chi vuole fare ricerca subisce un addestramento, formale o informale, perché inquadri strettamente le sue percezioni in un ambito disciplinare, per impararne il gergo e usarlo per trasformare le sue idee in opinioni inattaccabili e referenziate. Il gergo, i termini tecnici, la stessa divisione arbitraria tra le discipline, permettono di nascondere la disumanizzazione e il disprezzo verso i poveri e i colonizzati, ammantandoli con strati di retorica pseudoscientifica. Si viene addestrati a trascurare la propria lingua, a scrivere solo per il colonizzatore, per le grandi compagnie editoriali che sfruttano il nostro lavoro, e a ignorare il proprio contesto e il dibattito locale. Le forme sono forse meno sfacciate che nell’accademia israeliana, ma il modello è lo stesso: rafforzare i quadri di senso su cui si basano l’esclusione sociale, l’ingiustizia sistemica e il dominio militare.  L’Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università pubblica quotidianamente notizie sulla deriva bellicista delle università italiane. L’Università di Bologna collabora nelle esercitazioni della Marina; l’Orientale ha relazioni con la Nato; i rettori più importanti d’Italia sono nel think tank Med-Or, con cui l’impresa di armamenti Leonardo legittima la vendita di morte e il profitto sul genocidio in MedioOriente. Ma anche la nostra archeologia, la nostra architettura, la nostra urbanistica, riproducono logiche coloniali; la storia e la filosofia trascurano le basi dell’umanità, riproponendo ancora la sequenza crociana e cristiana dei grandi uomini della Storia dello Spirito; le scienze ambientali ci presentano la catastrofe climatica come una questione che riguarda il nostro futuro, per impedirci di riconoscerla nel presente (lo spiega Amitav Ghosh nel suo libro del 2021, La maledizione della noce moscata); la sociologia incanala la rabbia per le morti in mare in una sotto-disciplina che studia le migrazioni, strutturalmente organizzata per non produrre nessun cambiamento. Mentre un gruppo di accademici israeliani scrive una proposta di sostituzione etnica per Gaza, chiamandola “deradicalizzazione”, l’architetto italiano Stefano Boeri più mitemente devasta con l’urbanistica la capitale di un’ex colonia italiana, Tirana, sostituendo il tessuto tradizionale con grattacieli e boulevard colossali, denominati “distretto green”. Intanto, il Politecnico di Milano stringe un accordo con Edison per la ricerca sull’energia nucleare, nonostante il referendum che ne proibisce l’applicazione in Italia; e la Sapienza continua a costruire avamposti per la gentrificazione di San Lorenzo, come Columbia aveva fatto con Harlem. Addirittura l’antropologia, la scienza potenzialmente più in grado di riconoscere le implicazioni coloniali, riduce costantemente ogni tentativo di discriminare e di avanzare nella conoscenza dell’umanità a un chiacchiericcio relativista sulla complessità e l’ambiguità di tutto, che termina sempre riaffermando la propria irrilevanza. C’è qualcosa di strutturale, che connette la produzione accademica del sapere con le politiche della guerra e della colonizzazione. Siccome ci siamo immersi dentro, è difficile riconoscerlo; come i pesci non vedono l’acqua, chi è inserito in un sistema ideologico non è in grado di capirne le regole. Siamo stati abituati a considerare più rispettabili e serie proprio le forme di sapere che rendono accettabile il classismo e la violenza sistemica, nascondendone le conseguenze e le ingiustizie. Tutte le altre forme di espressione ci sembrano naïf, semplicistiche, troppo schierate, di parte, non oggettive, parziali, “militanti”, quando non inappropriate o diretta- mente ridicole. Fortunatamente, il sistema ideologico in cui siamo immersi è sempre più inquinato, e pian piano iniziamo a intravedere l’acqua. Cominciamo a capire quanto il colonialismo sia entrato nel nostro linguaggio, nel nostro pensiero; come diceva Eduardo Galeano: “Il colonialismo visibile ti mutila senza nasconderlo: ti proibisce di dire, ti proibisce di fare, ti proibisce di essere. Il colonialismo invisibile, invece, ti convince che la servitù è il tuo destino e l’impotenza la tua natura: ti convince che non si può dire, non si può fare, non si può essere”. Che lavoro dobbiamo fare? Estirpare le radici di questa impotenza; riconoscerla nelle parole che usiamo, nell’autocensura e nei vizi linguistici. Chi è dentro l’università ha continuamente davanti scelte del genere: produrre articoli che alimentano la macchina o cercare di tirar fuori il sapere, usarlo per nutrire chi la combatte? Bisogna elaborare nuovi linguaggi, che non fingano “oggettività”, e sviluppare mezzi di comunicazione che ci permettano di usarli, di tradurli in azioni. Dobbiamo capire perché ci siamo ridotti a credere che sia più importante pubblicare che dire quello che pensiamo; perché ci siamo convinti che quello che scriviamo non ha importanza, che si scrive solo per aumentare il ranking, il curriculum o la propria visibilità mediatica. Serve un’ingegneria inversa del pensiero: se non vogliamo fare il gioco di questo sistema, dobbiamo eliminare eufemismi, parole vuote, frasi storte e involute, articoli ripetitivi e autoreferenziali; ma anche ricostruire perché siamo stati costretti a esprimerci così, perché crediamo sempre di dover nascondere, travestire quello che vogliamo dire, per renderlo più conforme al linguaggio dominante, al gergo neutrale e inumano degli algoritmi. ChatGPT al massimo può servire a capire come non si scrive. L’omologazione è la radice della nostra neutralizzazione. Le parole hanno un potere incredibile di trasformazione, ma devono essere quelle giuste. Se a monte ci obblighiamo a usare quelle sbagliate, anche il pensiero ne risentirà. Ogni volta che alimentiamo le false scienze, quelle che legittimano lo status quo, perdiamo un’occasione per costruire terreno fertile per il vero sapere. Nessuno può sconfiggere questo orrore da solo. Bisogna unire le forze, ma non sotto le vecchie forme sclerotizzate che condividono il linguaggio autoassolutorio e identitario delle università e delle altre istituzioni coloniali. Nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone Weil spiega che, a differenza dei partiti, le riviste garantiscono la fluidità del discorso, lasciando che tutti i collaboratori mantengano le proprie posizioni. “Quando frequentiamo amichevolmente chi dirige la rivista, o chi ci scrive, o quando ci scriviamo noi stessi, siamo in contatto con il mezzo di produzione, ma non sappiamo se ne siamo parte; perché non esiste una distinzione netta tra chi è dentro e chi è fuori. Ci sono i lettori che conoscono una o due persone che vi scrivono; i lettori assidui che vi trovano ispirazione; e i lettori occasionali. Ma a nessuno viene in mente di dire: ‘Siccome sono legato a questa rivista, allora devo pensare che…’”. Questo è il senso de Lo stato delle città: creare uno spazio di pensiero collettivo, non identitario, che ci aiuti ad attaccare su tutti i fronti queste torri di acciaio e di avorio, a cacciarne i mercanti di morte. (stefano portelli)
December 19, 2024 / NapoliMONiTOR