(disegno di cyop&kaf)
Questa mattina, alle ore 10:30 all’università L’Orientale (palazzo Giusso, largo
San Giovanni Maggiore Pignatelli), Enrico Gargiulo – docente di sociologia
generale all’università di Torino – e Gaia Tessitore – avvocato del foro di
Napoli e studiosa del processo penale – terranno un seminario sulle difficoltà
di fare ricerca, scientifica e non solo, sui corpi di polizia del nostro paese.
Pubblichiamo a seguire una riflessione scritta proprio da Gargiulo sul rapporto
tra “integrazione”, retorica delle classi dominanti e conservazione dello status
quo.
* * *
Qualche volta mi capita di guardare la trasmissione televisiva Otto e mezzo.
La puntata del 13 gennaio aveva come argomento principale gli scontri che hanno
segnato alcune delle manifestazioni per Ramy Elgaml. Il diciannovenne, cittadino
egiziano sebbene residente in Italia da anni, è morto il 24 novembre a
Milano schiantandosi contro un cartello stradale dopo che tre pattuglie dei
carabinieri hanno inseguito per otto chilometri, e probabilmente speronato, lo
scooter su cui era a bordo, guidato dall’amico Fares Bouzidi, di ventidue anni.
Il tema oggetto di discussione era piuttosto caldo. Come mostra anche un
altro video, girato a Bologna pochi giorni prima dei fatti di Milano, inseguire
uno scooter per il solo fatto che non si è fermato a una richiesta di stop o a
un posto di blocco, cercando di speronarlo e augurandosi che chi lo guida perda
il controllo del mezzo e cada, è un comportamento ricorrente per i carabinieri.
Un comportamento che dovrebbe essere contestato, o quantomeno analizzato in
maniera critica, da rappresentanti istituzionali realmente preoccupati della
tenuta democratica del paese.
Eppure, come prevedibile, nulla di tutto questo è accaduto durante il programma
televisivo. Tra gli ospiti chiamati a commentare, Italo Bocchino, obtorto collo,
ha riconosciuto il diritto di manifestare, dichiarando però, allo stesso tempo,
che i “facinorosi” e i “delinquenti, perché di delinquenti si tratta, vanno
impacchettati, arrestati e tenuti dentro per quello che decideranno i giudici”.
Anziché mettere in discussione l’operato delle forze dell’ordine, il politico di
destra ha addirittura detto che “da che mondo e mondo quando si forza un posto
di blocco c’è un inseguimento. Voglio dire, l’abbiamo imparato da bambini
guardando i film americani”. Un altro ospite, Massimo Cacciari, ha finito per
fargli da contrappunto: pur enfatizzando l’importanza della partecipazione per
la vita democratica, soprattutto in scenari politici ed economici foschi come
quello attuale, si è di fatto allineato su posizioni analoghe sul tema degli
scontri, sostenendo che i “provocatori che si infiltrano nei cortei solo per
fare casino” devono essere isolati.
Insomma, a svilupparsi senza intoppi fino a quel momento era il copione,
prevedibile e noioso, di un programma che non riserva molte sorprese. L’armonia,
però, si è interrotta poco dopo, quando Bocchino ha detto che “l’atteggiamento
del papà di Ramy è un atteggiamento tipico di un buon immigrato che si vuole
integrare, l’atteggiamento dei manifestanti è un atteggiamento delinquenziale”.
A queste parole, Cacciari ha reagito in maniera scomposta: “Chi lo decide chi è
il buon immigrato integrato? Lo decido io? Lo decide Bocchino? Il buon
immigrato, integrato, che si integra, chi è? Che cos’è? La capanna dello zio
Tom?”.
Il filosofo veneziano, in modo implicito ma comunque efficace, ha mostrato
quanto un termine del tutto incapace di intercettare la realtà delle interazioni
quotidiane, che quindi dovrebbe risultare improponibile come categoria legale e
amministrativa, sia in realtà centrale nell’azione politica e burocratica,
venendo imposto a persone non italiane o, comunque, considerate diverse sul
piano culturale; in pratica, ha svelato l’assurdità delle richieste
istituzionali. La reazione di Cacciari mi ha stupito ma, soprattutto, mi ha
trasmesso un senso di sollievo. Da anni, infatti, coltivo un fastidio, che nel
tempo si è trasformato in vera e propria avversione, per il concetto di
integrazione, a cui ho dedicato diversi lavori e, di recente, anche un libricino
divulgativo, Contro l’integrazione: ripensare la mobilità, pubblicato nella
collana Posizionamenti della rete Sociologia di posizione.
La mia repulsione non è però molto condivisa, né a livello accademico né, meno
che mai, in ambito politico. La parola integrazione, infatti, è talmente diffusa
che il suo uso è scontato e, di fatto, normalizzato. Anche in contesti
progressisti, dove tutt’al più si fanno distinguo ma non si mette in discussione
l’idea che “ci si debba integrare”. La mia visione radicalmente critica della
parola integrazione è dovuta al fatto che il suo significato è interpretato in
termini prevalentemente, per non dire esclusivamente, culturalisti. Integrarsi,
in sostanza, equivale a mettere da parte la propria cultura – di base concepita
come “nazionale” – per accettare quella del paese di arrivo. Questioni materiali
come le diseguaglianze economiche e giuridiche – banalmente, la dipendenza da un
permesso di soggiorno per poter vivere in modo stabile in un luogo –, le
asimmetrie di potere, la segregazione occupazionale e abitativa non sono prese
in considerazione o, quantomeno, non sono considerate centrali. La partita
dell’integrazione si gioca al tavolo della cultura. Come se le persone fossero
portatrici di una sorta di abito culturale ben definito e identificabile,
trasmesso loro dalla famiglia di appartenenza, la quale, a sua volta, non
sarebbe altro che l’espressione coerente di valori e comportamenti tipici della
comunità nazionale di provenienza. Un abito, peraltro, che manterrebbe la sua
forma e le sue caratteristiche a prescindere dal contesto materiale in cui è
indossato.
La pretesa che le persone immigrate si integrino finisce per generare i
paradossi che Cacciari, seppur in maniera implicita e poco analitica, ha
evidenziato, mettendo brutalmente in luce, per prima cosa, l’arbitrarietà dei
discorsi e delle politiche che si fondano sull’idea di integrazione: chi e su
quali basi decide chi si può integrare e come si debba integrare? L’arbitrio
decisionale, peraltro, va a braccetto con l’asimmetria che caratterizza le
misure integrative. In molti paesi, a chi vuole entrare o protrarre il soggiorno
è richiesta la partecipazione a corsi di lingua e di educazione civica ed è
imposto il superamento di test e prove. La civic integration – questo è il nome
che hanno oggi le politiche di integrazione – prevede la stipula di “patti”.
Questa parola, però, nasconde la natura coercitiva delle misure imposte alle
persone migranti: nessun “accordo” simmetrico tra parti uguali ma l’imposizione
unilaterale, a chi arriva da fuori, di requisiti da soddisfare per non perdere
l’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno.
Lo sfogo di Cacciari ha fatto emergere poi un’altra questione importante: l’idea
di integrazione è radicalmente conservatrice, nel senso che è antitetica alla
volontà di trasformare la realtà: “È quello che obbedisce, il buon immigrato? Io
voglio cambiare dove sto, non integrarmi dove sto, io non sono un integrato,
sono uno che rispetta le leggi ma che molte di queste leggi vorrebbe cambiarle.
In questo mondo vuole che mi integri? In Italia? Con due milioni di famiglie
sotto i livelli da fame?”. L’indignazione del filosofo veneziano, insomma, porta
a formulare una domanda strategica: cosa vuol dire integrarsi? Nell’accezione
dominante della parola, equivale a promuovere il mantenimento dello status quo e
a ostacolare il cambiamento, facendo passare una persona per “deviante”, ossia
per non integrata, per il solo fatto che contesta l’ordine esistente.
Che quello di integrazione sia un concetto conservatore non è un fatto
sorprendente, se pensiamo alle sue origini: si afferma nelle scienze sociali
europee, e poi anche nordamericane, tra la metà dell’Ottocento e la prima parte
del Novecento, ossia nel contesto di un capitalismo che si consolida
legittimando, a livello giuridico e morale, comportamenti acquisitivi e
predatori. In uno scenario del genere, l’integrazione rimanda alla tenuta
complessiva del tessuto sociale: vale a dire, ai meccanismi della
socializzazione e del controllo che, favorendo l’introiezione degli orientamenti
normativi maggioritari, garantirebbero la stabilità del sistema. Oggi come ieri,
dunque, un’introiezione efficace dei valori dominanti fa sì che gli individui
evitino di “deviare” e di entrare in conflitto con la società, cioè di metterne
in discussione gli assunti costitutivi, a cominciare dalla proprietà privata e
dalle diseguaglianze che si generano nella produzione prima ancora che nella
redistribuzione.
Quanto l’integrazione possa diventare uno strumento dissuasivo e punitivo nei
confronti di chi lotta “per cambiare il posto dove sta” lo dimostra il caso di
Madalina Gavrilescu, una cittadina rumena attivista dei movimenti per il diritto
all’abitare di Roma che, nel 2019, si è vista recapitare un provvedimento di
allontanamento dal territorio italiano “per motivi di sicurezza non imperativi”,
motivato sulla base del fatto che “gli atti e i comportamenti posti in essere,
anche reiteratamente, dal soggetto sopra generalizzato evidenziano la mancanza
di integrazione”. Il suo caso mostra dunque che il portare avanti un certo tipo
di rivendicazioni politiche – anche in assenza di infrazioni o reati – può
essere letto come incapacità, o mancanza di volontà, di integrarsi. Il concetto
di integrazione, insomma, è un potente agente di normalizzazione, vale a dire un
dispositivo linguistico e giuridico che impone una certa forma alla realtà
fingendo che quella forma sia naturale e non l’effetto di interventi
istituzionali. Così facendo, equipara la società a un organismo: la rappresenta
cioè come un corpo sano che deve essere protetto dal rischio di ammalarsi.
Come ha fatto notare Alessandro Dal Lago in un testo del 1980, considerare la
società un organismo permette di trasformare i conflitti in questioni
patologiche, come tali oggettive e non riconducibili a volontà parziali, e porta
a de-politicizzarne la gestione: la politica diventa un’attività neutrale e
tecnica di amministrazione dell’esistente. Da una prospettiva organicistica e
medicalizzante, insomma, costruire integrazione significa prevenire i mali per
evitare poi di doverli “curare”, considerando anche che la “cura”,
inevitabilmente repressiva, può portare alla morte, come il caso di Ramy ha
mostrato in modo drammatico. Chi ragiona in questi termini legge la cultura in
cui le persone “non autoctone” sono chiamate a integrarsi come un elemento
coerente, complessivo e totalizzante. Esisterebbe cioè una cultura italiana, che
bisogna conoscere e a cui bisogna aderire.
Da una prospettiva del genere, così come esiste la cultura italiana esiste
anche la cultura di chi immigra. A non essere considerata, invece, è l’idea che
esistano sub-sistemi culturali i quali, più che integrati, possono essere in
conflitto tra loro. Rifiutarsi di vedere quanto le “culture” siano oggetti
complessi, internamente articolati e contraddittori, rende difficile comprendere
una questione basilare. Le persone “di seconda generazione”, a seconda delle
condizioni, soprattutto materiali, in cui si trovano a vivere, adottano in modo
selettivo – e a volte anche strategico – tratti e aspetti di diverse “culture”.
Compongono così sub-culture che non sono riconducibili né alla presunta cultura
nazionale e familiare di origine né all’altrettanto presunta cultura del paese
in cui vivono.
Ragionare in termini di culture nazionali granitiche ed eterne e non di
sub-culture a geometria mutevole e variabile è comodo. Come tutte le
semplificazioni, aiuta a ridurre gli sforzi cognitivi e dà l’illusione di poter
progettare politiche efficaci. Produce però effetti paradossali, svelando che il
processo di integrazione – qualunque cosa sia – può avere come esito
l’assimilazione di tratti e aspetti non proprio “gradevoli”. A evocare questa
possibilità, nella puntata di Otto e mezzo, è stata Lilly Gruber. Polemizzando
in maniera indiretta con Bocchino, il quale affermava ossessivamente la natura
criminale di chi osa rompere una vetrina, la conduttrice ha affermato che “un
buon immigrato è come un buon italiano che non spacca le vetrine, che paga le
tasse”.
Gruber, in sostanza, ha sollevato un problema interessante, evidenziando
indirettamente un cortocircuito nella logica integrazionista. Nonostante alcuni
progressi registrati negli ultimi anni, l’Italia presenta livelli di evasione
fiscale più alti di quelli registrati negli altri paesi europei. Se quindi il
non pagare le tasse è un’abitudine italiana piuttosto diffusa, allora dovremmo
dedurne che evadere il fisco è un indicatore di “buona integrazione”. Deviare,
in altre parole, può significare integrarsi se la “deviazione” è un tratto
culturale costitutivo di una comunità nazionale.
Mi viene in mente a questo punto una barzelletta che ho ascoltato diverse volte
in occasione di momenti di formazione con persone che lavorano nel campo
dell’assistenza e dell’accoglienza. Ne esistono sicuramente diverse versioni.
Questa è quella che ricordo io. Un signore marocchino si reca in prefettura per
espletare le pratiche legate alla sua domanda di cittadinanza. Arrivato allo
sportello, un impiegato piuttosto scocciato e sbrigativo gli dice che ci vuole
un po’ di tempo, dato che ci sono moduli da compilare e, soprattutto, un test di
integrazione da sostenere. Il signore marocchino, calmo e per nulla spazientito,
gli risponde che non ci sono problemi, deve solo allontanarsi qualche minuto per
spostare la macchina che ha lasciato in doppia fila. A quel punto, il volto
dell’impiegato si illumina in un grande sorriso e il suo atteggiamento cambia
completamente: “Non si preoccupi, siamo a posto così: il test è già superato!”.
(enrico gargiulo)
Tag - linee
(collage di stefania spinelli)
C’è una musica incalzante e un pugile sul ring. Se ne sta buono nell’angolo
mentre si fa riempire di pugni, ha smesso di combattere ma nessuno osa gettare
la spugna. Sul viso ha una smorfia di estasi perversa, la scarica di colpi
produce una voglia inconcepibile di farsi gonfiare di botte fino a perdere i
connotati. Con la stessa smorfia beata e fiera il presidente della Puglia
Michele Emiliano ha presentato un mese fa il nuovo marchio unico della regione,
esito di un “progetto di identità visiva” che ha prodotto, oltre al logo che
affiancherà lo stemma regionale, anche un video promozionale che mi si è
conficcato nel petto come il pugnale delle Addolorate di cartapesta portate in
processione il venerdì santo.
Il logo è un ottagono, simbolo di Castel del Monte, con dentro linee curve
intrecciate che rimandano ai rami d’ulivo (ché solo rami secchi ci sono rimasti,
non le chiome, dopo oltre dieci anni di “affare xylella”). Ecco come si fondono
il patrimonio storico e artistico della regione e “l’integrazione delle
diversità, peculiarità dei pugliesi, popolo storicamente vocato
all’accoglienza”. Lo spiega Antonio Romano, creatore del nuovo marchio oltre che
esperto di “brand identity” e fondatore di Inarea, a cui si devono tra l’altro i
loghi di Rai, Enel, Trenitalia. Al logo si aggiunge un claim evocativo: “Puglia,
l’Italia levante”. A detta di Rocco De Franchi, direttore regionale della
comunicazione istituzionale, lo slogan rimanda alla posizione geografica della
regione più a est della penisola, ma soprattutto alla “direttrice aspirazionale
di persone accomunate dalla volontà di risollevarsi”.
CAFONI IN PARADISO
La vera linfa al branding territoriale arriva dal video che accompagna il nuovo
logo, in cui si succedono a ritmo folle immagini pensate per tenere insieme la
prospettiva di continua crescita e la presenza rassicurante di elementi
tradizionali. Il filmato si apre con una sfilza di centri storici patinati,
trulli ristrutturati, orecchiette con cime di rapa, pasticciotti, lo sguardo
ammaliato di una turista col panama, una famiglia felice in vacanza al mare,
feste con fuochi d’artificio e luminarie. Tutto scorre così veloce che quasi
sfuggono alcuni fotogrammi frapposti tra le immagini di taralli, calici di vino
e spiagge. Se giochiamo a trovare l’intruso e rallentiamo la riproduzione,
spuntano macchinari futuristici, pale eoliche su un colle, vigneti a spalliera,
distese di pannelli fotovoltaici. Insomma, il gioco è applicare forzatamente
schemi precostituiti alla realtà locale, benché prima si dica di assecondare la
vocazione del territorio e valorizzare le peculiarità. La scarica di pugni e il
ritmo serrato culminano in alcune frasi patetiche: “Puglia, tante identità in
una”, “la terra che vede per prima la luce del giorno”, “lo spirito solare dei
suoi abitanti nell’elevare il proprio destino”.
Si fa leva sul presunto spirito d’identità per abbassare la guardia e lasciar
passare come normali, come dato di fatto compiuto, una serie di scenari che non
hanno nulla di naturale né di caratteristico all’interno della realtà pugliese.
Premere il tasto del sentimento, dei riti e delle tradizioni significa restare
nell’ambito del pre-politico, al di qua della storia. Mi soffermo su un’immagine
di fitte reti e serbatoi galleggianti su una superficie verdastra. Ammesso che
si tratti di un allevamento di cozze, sono sicura che non sia a Taranto né
altrove in Puglia. In effetti, con Google lens scopro che è un allevamento
superintensivo di mitili nella provincia di Rayong, in Thailandia, e da
Greenpeace scovo altre immagini che mostrano i danni provocati
dall’industria sulle popolazioni locali e sull’ambiente. “L’allevamento di cozze
è situato accanto alla centrale elettrica a carbone BLCP nella zona industriale
di Map Ta Phut, nota per i suoi problemi di inquinamento”, spiega una
didascalia. “Le cozze prosperano in acque inquinate e i mitilicoltori sono
pagati da BLCP per il loro lavoro”, mentre la stessa industria racconta di
migliorare lo stile di vita dei nativi da cacciatori ad allevatori. Tutto questo
ha del grottesco: non un intruso innocuo, ma una realtà simile a quella di
Taranto, dove la mitilicoltura convive con il disastro dell’Ilva, il più grande
stabilimento siderurgico italiano.
Le recenti gestioni della regione e la trovata del video promozionale non sono
funghi velenosi inspiegabilmente cresciuti su un terreno rigoglioso, ma quel
terreno è marcio quanto il fungo. Allora non c’è nessun pugile, non è un ring ma
un recinto per animali alla fiera del bestiame, e non sono pugni che ci stanno
sfinendo ma i colpi del banditore d’asta: progetti, appalti, marketing
territoriale, manipolazione della storia e della cultura locali, finanziamenti
pubblici attribuiti in modo da alimentare il consenso per le forze politiche al
potere. Romano, padre del nuovo logo, vanta le sue origini pugliesi e sogghigna:
“Un tempo questa era la terra da cui si emigrava e noi per primi non capivamo
cosa avevamo. In Salento le masserie erano il simbolo della sconfitta
dell’agricoltura, oggi provate a comprare una masseria in Salento e poi mi fate
sapere”. Da cafoni all’inferno arretrati e incapaci di apprezzare la terra che
abitano (ché il sottoproletariato è la brutta faccia della medaglia da tenere
rovesciata, dimenticando gli emigrati macinati come manodopera a basso costo per
l’industria del nord), a fortunati figli della terra della gioia di vivere e
delle masserie trasformate in resort. Da terra promessa per poveri senza
speranza (ricordando gli anni in cui ogni notte albanesi, kosovari, curdi,
bengalesi sbarcavano sulle coste pugliesi) a regione vocata all’accoglienza di
turisti, investitori, speculatori.
LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA
Un documentario del 1962 per la nascita dell’Italsider a Taranto si apre con una
sequenza in cui terra rossa e ulivi secolari vengono annientati dalle ruspe di
un enorme cantiere in costruzione. “Gli ulivi, il sole, le cicale, significavano
sonno, abbandono, rassegnazione, miseria”, invece, spiega la voce fuori campo,
“acciaio significa vita”. La retorica sviluppista e il mito della società
industriale si sono consumati, le promesse di crescita e di futuro sono state
disattese, conviviamo con le eredità di un modello di produzione che ha piegato
alla logica del profitto l’ambiente e la salute. Eppure la stessa logica
ritorna, celata dietro piani di “rigenerazione territoriale”, “sviluppo
sostenibile”, “transizione ecologica”. Il mantra è muoversi a qualunque costo,
voltare pagina è l’unica soluzione per un futuro migliore. Verdi narrazioni di
speranza mascherano un land grabbing spietato, l’istituzione della ZES Unica del
Sud, spacciata come volano per il meridione, spiana la strada al consumo di
suolo e regala autorizzazioni a complessi turistici di extra lusso. Il tutto in
una situazione sistematicamente deregolamentata: solo 46 comuni pugliesi su 257
hanno adottato in via definitiva un Piano urbanistico generale, manca un piano
energetico regionale con l’individuazione delle aree non idonee agli impianti
industriali di rinnovabili e l’assenza di una politica regionale in materia fa
da tappeto alle speculazioni energetiche.
L’obiettivo al 2030 stabilito dal Piano energia e clima da raggiungere con la
potenza da impianti eolici offshore è di 2,1 GW. Solo le proposte di impianti di
fronte alle coste pugliesi raggiungono una potenza complessiva pari a 27,5 GW,
“tanto da configurarsi una saturazione complessiva del mare aperto con impianti
eolici posti a corona continua delle coste vincolate per legge o per il loro
notevole interesse pubblico”. Lo si legge in un documento dello scorso aprile in
cui la Soprintendenza speciale per il PNRR esprime parere negativo al progetto
di un parco eolico marino nel Gargano. “Nella regione Puglia è in atto, già da
tempo, una complessiva azione per la realizzazione di impianti da fonte
rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore e offshore), tale da
prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del
paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia
elettrica, oltre il fabbisogno regionale previsto”.
Lo sfruttamento dei territori e l’appropriazione privata di risorse naturali
sono tratti del colonialismo, che controlla lo spazio pubblico attraverso la
neutralizzazione del dissenso e “cattura” la scelta pubblica, condizionando gli
attori istituzionali a favore degli interessi economici delle multinazionali, a
discapito degli interessi della collettività.
INVASIONE DEI CLONI
Il comparto turistico e l’industria culturale sono caratterizzati dalle stesse
finalità predatorie di qualsiasi altra industria. La deregolamentazione come
precisa linea politica si accompagna a narrazioni semplificate che, oltre a non
rendere giustizia alla complessa storia del territorio, celano un altro inganno.
Lo storytelling dell’accoglienza e della resilienza su cui è costruito il nuovo
marchio regionale non si limita a descrivere la realtà, ma vuole produrne una ad
hoc, cementare una morale comune, trasformare il modo di guardare prima che
l’oggetto guardato. Si insiste sull’identità praticando una profonda
mistificazione livellatrice, inducendo i pugliesi a identificarsi con costumi
cuciti dall’alto fino a restare in contatto solo con la finzione di sé.
L’operazione di marketing non è difficile da cogliere, ma c’è anche il sintomo
di un disagio profondo, il tentativo di darsi un’identità omogenea mentre cresce
la disgregazione del tessuto sociale. Una comunità frantumata ha disperato
bisogno di simboli e riti, tanto da convincersi che i simulacri propinati ai
turisti corrispondano alla realtà. Mettiamo in piedi il teatrino estivo e ci
dimentichiamo di smontarlo d’inverno, finiamo per diventare marionette mosse da
mani potenti. Così lo storytelling plasma il territorio e diventa strumento di
pacificazione, in una pandemia dell’immaginario che ricorda L’invasione degli
ultracorpi di Don Siegel e anche, come scriveva Leogrande, La città
sostituita di Philip Dick.
Si appropriano di linguaggi e pratiche svuotandoli di senso e piegandoli a scopi
altri, così cominciano ad affollarmi la testa gli scritti di Baudrillard,
Wittgenstein, Kripke: la conoscenza del significato di una parola si manifesta
nel modo in cui si usa quella parola, una parola ha un certo significato oggi
perché l’abbiamo usata in un certo modo nel passato. Se il significato di una
parola è dato dall’uso che se ne fa oggi, la rideterminazione semantica in atto
deve metterci in guardia che tale uso non sia in accordo con l’uso passato.
Mentre il consenso continua ad addensarsi dalla parte sbagliata, facciamo una
fatica enorme per trovare una nuova grammatica che interpreti la crisi. La
Puglia è tra i luoghi iper-raccontati, eppure la sovraesposizione mediatica non
copre affatto tutta la realtà narrabile. Anzi, finisce per non (far) vedere la
Puglia per quello che è: una regione fatta di viscere, frammenti.
Nell’iper-racconto si smarrisce quella disperata vitalità che impregna campagne
e paesi, quella visione lucida delle cose che resiste nelle pieghe dei
territori. Da queste pieghe dobbiamo ripartire per analizzare le narrazioni
dominanti e disarticolarle, per costruire un discorso critico sul meridione. E
per riuscire ad ascoltare la voce subalterna serve cambiare registro, lontano
dai vocabolari ufficiali consunti, risemantizzare il vivere politico. (chiara
romano)
(disegno di cyop&kaf)
“[Le cure] le ho subìte non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa
un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre,
causa farmaci, non ho fatto che dormire”.
In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, Paolo Cognetti, premio Strega
per Le otto montagne, ha raccontato due settimane di ricovero in psichiatria a
seguito di un Tso, determinato dopo essere “stato morso dalla depressione”, cui
sono seguite fasi maniacali che hanno procurato allarme tra gli amici: “C’era il
timore, per me infondato – afferma lo scrittore – che potessi compiere gesti
estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”. Nel Reparto psichiatrico di
diagnosi e cura, dice ancora Cognetti, “ti svegliano alle sei di mattina e ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se
fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o
partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se
dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta”.
Non abbiamo gli strumenti né vogliamo qui approfondire la vicenda personale
dello scrittore, non sappiamo se il morso della depressione fosse stato in
qualche modo precedentemente preso in carico e curato, tuttavia ci pare
importante interrogare quello che resta tra gli spazi bianchi di alcuni passaggi
di questa intervista: sono stati realizzati tutti i tentativi, pure previsti
dalla legge, per convincere e non costringere la persona alle necessità della
cura, o la presenza della polizia ad accompagnare l’ambulanza era già
costrizione? Quello che sembra essere prevalentemente un trattamento
psicofarmacologico molto pesante (“non ho fatto altro che dormire”, “ti
obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti”) può rappresentare lo
strumento prevalente della cura alla sofferenza psichica? Un’affermazione come
quella per cui si esce da un reparto ospedaliero solo facendo quello che il
personale sanitario si aspetta, quale tipologia di istituzione racconta? Ancora,
quando Cognetti afferma: “Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico
in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice.
Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. […] Per me è tempo di
alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la
verità, a costo di essere sfrontato”, quanto ci sta dicendo sullo stigma che
ancora circonda il mondo del disagio psichico? Quanto appartiene a questo ordine
del discorso il passaggio in cui l’intervistatore, senza motivazione palese, ci
tiene a sottolineare che Cognetti parla di questa esperienza con i capelli tinti
di rosso? E quanto, ancora, l’allarme determinato da comportamenti legati a una
sofferenza psichica è davvero giustificato, o quanto è legato ai processi di
normalizzazione sociale?
Questa intervista a Cognetti ci interroga sullo stato della cura della salute
mentale in Italia. Lo stesso interrogativo da cui si è mossa la seconda
Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale, convocata da decine di
organizzazioni nazionali e territoriali, e che si è svolta il 6 e 7 dicembre a
Roma, ritrovando grande partecipazione (almeno cinquecento persone, più di
centocinquanta interventi tra plenarie e tavoli tematici, di utenti, familiari,
associazioni, operatori, ricercatori), la significativa presenza di tanti
giovani, l’impegno, a partire dal riconoscimento della centralità politica del
tema della salute mentale, a una nuova stagione di mobilitazione sociale per
“riprendere” quei diritti sempre più negati dal depauperamento culturale,
operativo ed economico dei servizi pubblici di settore. Perché, come ha messo in
evidenza nella relazione introduttiva la presidente dell’Unasam Gisella Trincas,
siamo di fronte a «una crisi profonda del Servizio sanitario nazionale, in cui
si concretizzano forme di neo-istituzionalizzazione senza alcun intervento nei
servizi di comunità. C’è un impoverimento progressivo dei servizi di salute
mentale e, come mostra il Ddl Zanfini, si manifesta una tragica nostalgia del
manicomio. Eppure a tutti noi non servono ambulatori psichiatrici che dispensano
farmaci a vita senza consenso, ma centri di salute mentale di comunità.
Resistono comunque importanti esperienze nei servizi pubblici e il cambiamento è
possibile».
La necessità di non lasciarsi sopraffare dal disfattismo e di mettere in campo
forme di resistenza anche radicali è riecheggiata in più interventi. Come ha
ricordato la sociologa Mariagrazia Giannichedda: «Dobbiamo tenere insieme la
delusione e la rabbia per quanto si è determinato con la speranza che un’altra
strada è possibile. Insomma, come pure faceva Franco Basaglia, bisogna ritornare
a Gramsci, contrapponendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà
e della prassi». Un ottimismo che certo si scontra con l’abbandono cui sono
troppe volte destinate le persone che si affidano ai servizi, come ha raccontano
il giovane attivista per la salute mentale Elio Pitazalis, o, come ha
sottolineato la psichiatra Giovanna Del Giudice, con il permanere di pratiche
che violano i diritti umani delle persone con sofferenza mentale (innanzitutto
la contenzione, che pure non solo permane quale intervento routinario in tanti
reparti psichiatrici ospedalieri, coinvolgendo un numero crescente di minori, ma
è utilizzata anche nelle strutture per anziani, nelle comunità per persone con
disabilità, in tutte quelle nuove forme di internamento che, rispondendo a
logiche prevalentemente securitarie e di profitto, interessano oltre
trecentomila persone in Italia). Con la contenzione tornano anche strumenti che
in troppi immaginavano erroneamente appartenere al passato, come l’elettroshock,
con alcune Aziende sanitarie, come la Roma 5, che investono parte dei sessanta
milioni di euro destinati nel 2021 al rafforzamento dei Dipartimenti di salute
mentale (tra altro proprio per il superamento della contenzione meccanica in
tutti i luoghi di cura della salute mentale) nell’acquisto di nuovi macchinari
per la terapia elettroconvulsivante.
La contenzione sembra essere utilizzata anche nei Centri di permanenza per i
rimpatri destinati ai migranti, i cui dispositivi manicomializzanti sono stati
al centro di molti interventi che ne hanno denunciato disumanità e stretta
relazione con le questioni inerenti alla salute mentale. Relazione che sussiste,
evidentemente, anche con il carcere, altro tema che pure è stato più volte
richiamato e discusso. Tra gli aspetti più significativi di questa due giorni,
infatti, c’è stata proprio la tensione a superare lo specialismo disciplinare
della psichiatria, il tentativo di tornare a porre la questione della salute
mentale nel suo intreccio con i più complessivi fenomeni di quella realtà che
Sergio Piro ci ha insegnato essere costituita da “esclusione, sofferenza e
guerra” nelle sue dimensioni interconnesse globali e intra-soggettive. È in
questa prospettiva che si comprende il senso sia delle parole utilizzate da
Fabio Lotti, per il quale la «salute mentale è un imperativo per la pace», sia
della connessione, evidenziata da Maurizio Landini, tra Ddl Sicurezza e Ddl
Zanfini, quali risultati di una «stessa logica che discende da una involuzione
autoritaria, da una pericolosa deriva sociale, politica e culturale», rispetto
alle quali il segretario della Cgil ha rivendicato la necessità di una «rivolta
sociale, anche per contrastare quella pandemia neoliberale che ha portato al
dominio del mercato anche nel campo della salute».
Quindi, come ha sottolineato lo psichiatra Alessandro Saullo, a fronte di un
«violento attacco al lavoro in salute mentale, che si sta realizzando anche
imputando nuove responsabilità di tipo securitario agli operatori» bisogna
reagire «ponendo al centro i diritti sociali delle persone marginali,
contrastando la violenza istituzionale opacizzata da anni di discorsi sulla
violenza sugli operatori, stabilendo delle questioni che facciano da
spartiacque».
La conferenza si è conclusa approvando un documento che contiene dieci proposte
rivolte a governo, regioni e comuni, un decalogo che vuole rappresentare la base
programmatica sulla quale lavorare e per la quale lottare, a partire dai
prossimi mesi, in difesa di quella Legge 180 che, come ha sottolineato Stefano
Cecconi, membro del coordinamento della conferenza, travalica i confini della
salute mentale e rappresenta un cardine della nostra democrazia.
Non possiamo sapere quali saranno i reali risultati di questo impegno alla
mobilitazione, abbiamo attraversato troppe stagioni per non avere contezza del
rischio che lo stesso ceda il passo alla disillusione. C’è però un elemento di
novità che sembra emergere da questa conferenza e da tanti incontri di questi
ultimi mesi: la partecipazione attiva di tanti giovani insoddisfatti da una
formazione accademica che pure in settori come la psichiatria, l’antropologia,
la sociologia, la bioetica, appare sempre più vacua e standardizzata, incapace
di saziare il desiderio di conoscenza e rispondere ai reali bisogni dei giovani
e della società. Se riusciremo ad ascoltarli senza la pretesa di impartire
lezioni, se non avremo paura di rinunciare agli ossequi accademici e alle
commemorazioni monumentali, se sapremo metterci in dialogo accettando la
ricchezza del conflitto generazionale, se avremo l’umiltà di imparare che da
questi ragazzi si può, si deve imparare, forse non saremo costretti ad
arrenderci alla banalità del non può essere altrimenti. Ricordando, come ha
fatto Cognetti nella sua intervista, che “è vivere la cura per riuscire a
vivere”. (antonio esposito)
(disegno di enrico pantani)
È in libreria da fine novembre a Napoli, Roma, Milano e Torino (nei prossimi
giorni sarà a Bologna e poi in altre città italiane) il numero 13 de Lo stato
delle città. Pubblichiamo da pagina 5 l’editoriale di Stefano Portelli, Sapere e
morte.
“Se fai una cosa abbastanza a lungo, il mondo l’accetterà”, ha detto l’ex
direttore del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano
Daniel Reisner, secondo un articolo di Ha’aretz del 2009. “Un’azione oggi
vietata diventa lecita se a compierla è un numero sufficiente di paesi”, ha
aggiunto. Reisner è un “esperto di diritto internazionale”, collaboratore
abituale della Tel Aviv University, dove istruisce studenti e studentesse su
come piegare trattati e organismi Onu al progetto sionista di pulizia etnica
della Palestina.
Le università israeliane per decenni ci sono state presentate come spazi di
incontro e dialogo, addirittura roccaforti del dissenso e del pacifismo. Nel
libro Torri d’avorio e d’acciaio: come le università israeliane sostengono
l’apartheid della popolazione palestinese (Alegre, 2024) l’antropologa Maya Wind
espone invece il catalogo degli orrori, finora accessibile solo a chi leggeva
l’ebraico: ogni aspetto di queste istituzioni sostiene, promuove ed estende la
colonizzazione della Palestina e la disumanizzazione del suo popolo.
Non si tratta solo di dual use, cioè, per esempio, che la tecnologia di
riconoscimento facciale può servire per accendere il cellulare ma anche come
strumento di morte o di apartheid (i droni che riconoscono chi uccidere, i
check-point chi non far passare). Tutte le discipline, anche le meno sospette,
servono la colonizzazione della Palestina e il suprematismo sionista.
L’archeologia è interamente improntata a eliminare le prove della presenza
palestinese e a esagerare l’importanza degli antichi insediamenti ebraici. Le
scienze giuridiche cercano di legittimare torture, stupri e sterminio come
legalmente accettabili. L’orientalistica, mizrahinut in ebraico, offre basi
pseudo-scientifiche ai pregiudizi contro i palestinesi, come l’idea che la
cultura araba “venera la morte”. Architettura e urbanistica plasmano i territori
per rendere invisibile, o invivibile, tutto ciò che non è ebraico. Addirittura i
dipartimenti di filosofia e di etica aiutano l’esercito a stabilire “quale sia
il numero eticamente accettabile di civili palestinesi da poter uccidere nel
tentativo di assassinare un palestinese considerato da Israele come un
miliziano, al fine di salvare la vita di anche un solo cittadino israeliano”.
Prima del 2024 questo “tasso di cambio”, come lo chiama il comico palestinese
Bassem Youssef, era calcolato come poco più di tre a uno, anche se ne uccidevano
già moltissimi di più. L’importante era che passasse il messaggio: che questi
orrori sono misurabili. Oltre a essere luoghi di legittimazione della violenza
coloniale, e di formazione dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti,
le università israeliane sono anche fisicamente avamposti militari intorno a cui
nascono gli insediamenti, come la Hebrew University a Gerusalemme Est; sono
culle per le start up dell’industria delle armi, sperimentate quotidianamente
sui civili palestinesi; e think tank delle strategie comunicative dell’estrema
destra, che cercano di rendere impossibile anche solo parlare di alternative
alla guerra e alla distruzione del pianeta.
Il libro di Maya Wind ci fa riflettere sul sistema infernale che lega
indissolubilmente la produzione del sapere alla macchina di morte dell’esercito
israeliano; ma dobbiamo approfittarne anche per capire le nostre implicazioni.
La matrice del permanente sostegno “scientifico” alla brutalità coloniale,
naturalmente, è statunitense; il sistema accademico che Israele porta a
compimento è quello statunitense. Ma le università europee non hanno alcuna
difficoltà nel difendere e riprodurre questa commistione tra avorio e acciaio,
tra scienza e guerra. Le università di tutto l’Occidente, scrive Bana Abu Zuluf,
dottoranda palestinese in diritto internazionale per un’università irlandese,
hanno creato un “muro di ferro” intorno al colonialismo israeliano e al
genocidio dei palestinesi: sono “fortezze intellettuali” che “si assicurano che
le critiche al sionismo siano sterilizzate, spogliate della loro potenza,
nascoste dietro eufemismi come ‘conflitto’ e ‘sicurezza’”.
L’intero sistema accademico europeo si basa su questi eufemismi e su questa
sterilizzazione della critica; e non solo verso il sionismo. In tutta Europa,
chi vuole fare ricerca subisce un addestramento, formale o informale, perché
inquadri strettamente le sue percezioni in un ambito disciplinare, per impararne
il gergo e usarlo per trasformare le sue idee in opinioni inattaccabili e
referenziate. Il gergo, i termini tecnici, la stessa divisione arbitraria tra le
discipline, permettono di nascondere la disumanizzazione e il disprezzo verso i
poveri e i colonizzati, ammantandoli con strati di retorica pseudoscientifica.
Si viene addestrati a trascurare la propria lingua, a scrivere solo per il
colonizzatore, per le grandi compagnie editoriali che sfruttano il nostro
lavoro, e a ignorare il proprio contesto e il dibattito locale. Le forme sono
forse meno sfacciate che nell’accademia israeliana, ma il modello è lo stesso:
rafforzare i quadri di senso su cui si basano l’esclusione sociale,
l’ingiustizia sistemica e il dominio militare.
L’Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università
pubblica quotidianamente notizie sulla deriva bellicista delle università
italiane. L’Università di Bologna collabora nelle esercitazioni della Marina;
l’Orientale ha relazioni con la Nato; i rettori più importanti d’Italia sono nel
think tank Med-Or, con cui l’impresa di armamenti Leonardo legittima la vendita
di morte e il profitto sul genocidio in MedioOriente. Ma anche la nostra
archeologia, la nostra architettura, la nostra urbanistica, riproducono logiche
coloniali; la storia e la filosofia trascurano le basi dell’umanità,
riproponendo ancora la sequenza crociana e cristiana dei grandi uomini della
Storia dello Spirito; le scienze ambientali ci presentano la catastrofe
climatica come una questione che riguarda il nostro futuro, per impedirci di
riconoscerla nel presente (lo spiega Amitav Ghosh nel suo libro del 2021, La
maledizione della noce moscata); la sociologia incanala la rabbia per le morti
in mare in una sotto-disciplina che studia le migrazioni, strutturalmente
organizzata per non produrre nessun cambiamento. Mentre un gruppo di accademici
israeliani scrive una proposta di sostituzione etnica per Gaza, chiamandola
“deradicalizzazione”, l’architetto italiano Stefano Boeri più
mitemente devasta con l’urbanistica la capitale di un’ex colonia italiana,
Tirana, sostituendo il tessuto tradizionale con grattacieli e
boulevard colossali, denominati “distretto green”. Intanto, il Politecnico di
Milano stringe un accordo con Edison per la ricerca sull’energia nucleare,
nonostante il referendum che ne proibisce l’applicazione in Italia; e la
Sapienza continua a costruire avamposti per la gentrificazione di San Lorenzo,
come Columbia aveva fatto con Harlem. Addirittura l’antropologia, la scienza
potenzialmente più in grado di riconoscere le implicazioni coloniali, riduce
costantemente ogni tentativo di discriminare e di avanzare nella conoscenza
dell’umanità a un chiacchiericcio relativista sulla complessità e l’ambiguità di
tutto, che termina sempre riaffermando la propria irrilevanza.
C’è qualcosa di strutturale, che connette la produzione accademica del sapere
con le politiche della guerra e della colonizzazione. Siccome ci siamo immersi
dentro, è difficile riconoscerlo; come i pesci non vedono l’acqua, chi è
inserito in un sistema ideologico non è in grado di capirne le regole. Siamo
stati abituati a considerare più rispettabili e serie proprio le forme di
sapere che rendono accettabile il classismo e la violenza sistemica,
nascondendone le conseguenze e le ingiustizie. Tutte le altre forme di
espressione ci sembrano naïf, semplicistiche, troppo schierate, di parte, non
oggettive, parziali, “militanti”, quando non inappropriate o diretta- mente
ridicole. Fortunatamente, il sistema ideologico in cui siamo immersi è sempre
più inquinato, e pian piano iniziamo a intravedere l’acqua. Cominciamo a capire
quanto il colonialismo sia entrato nel nostro linguaggio, nel nostro pensiero;
come diceva Eduardo Galeano: “Il colonialismo visibile ti mutila senza
nasconderlo: ti proibisce di dire, ti proibisce di fare, ti proibisce di essere.
Il colonialismo invisibile, invece, ti convince che la servitù è il tuo
destino e l’impotenza la tua natura: ti convince che non si può dire, non si
può fare, non si può essere”.
Che lavoro dobbiamo fare? Estirpare le radici di questa impotenza; riconoscerla
nelle parole che usiamo, nell’autocensura e nei vizi linguistici. Chi è dentro
l’università ha continuamente davanti scelte del genere: produrre articoli che
alimentano la macchina o cercare di tirar fuori il sapere, usarlo per nutrire
chi la combatte? Bisogna elaborare nuovi linguaggi, che non fingano
“oggettività”, e sviluppare mezzi di comunicazione che ci permettano di usarli,
di tradurli in azioni. Dobbiamo capire perché ci siamo ridotti a credere che
sia più importante pubblicare che dire quello che pensiamo; perché ci siamo
convinti che quello che scriviamo non ha importanza, che si scrive solo per
aumentare il ranking, il curriculum o la propria visibilità mediatica.
Serve un’ingegneria inversa del pensiero: se non vogliamo fare il gioco di
questo sistema, dobbiamo eliminare eufemismi, parole vuote, frasi storte e
involute, articoli ripetitivi e autoreferenziali; ma anche ricostruire perché
siamo stati costretti a esprimerci così, perché crediamo sempre di dover
nascondere, travestire quello che vogliamo dire, per renderlo più conforme al
linguaggio dominante, al gergo neutrale e inumano degli algoritmi. ChatGPT al
massimo può servire a capire come non si scrive. L’omologazione è la radice
della nostra neutralizzazione. Le parole hanno un potere incredibile di
trasformazione, ma devono essere quelle giuste. Se a monte ci obblighiamo a
usare quelle sbagliate, anche il pensiero ne risentirà. Ogni volta che
alimentiamo le false scienze, quelle che legittimano lo status quo, perdiamo
un’occasione per costruire terreno fertile per il vero sapere.
Nessuno può sconfiggere questo orrore da solo. Bisogna unire le forze, ma non
sotto le vecchie forme sclerotizzate che condividono il linguaggio
autoassolutorio e identitario delle università e delle altre istituzioni
coloniali. Nel Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone Weil
spiega che, a differenza dei partiti, le riviste garantiscono la fluidità del
discorso, lasciando che tutti i collaboratori mantengano le proprie posizioni.
“Quando frequentiamo amichevolmente chi dirige la rivista, o chi ci scrive, o
quando ci scriviamo noi stessi, siamo in contatto con il mezzo di produzione, ma
non sappiamo se ne siamo parte; perché non esiste una distinzione netta tra chi
è dentro e chi è fuori. Ci sono i lettori che conoscono una o due persone che
vi scrivono; i lettori assidui che vi trovano ispirazione; e i lettori
occasionali. Ma a nessuno viene in mente di dire: ‘Siccome sono legato a questa
rivista, allora devo pensare che…’”. Questo è il senso de Lo stato delle
città: creare uno spazio di pensiero collettivo, non identitario, che ci aiuti
ad attaccare su tutti i fronti queste torri di acciaio e di avorio, a cacciarne
i mercanti di morte. (stefano portelli)
Sono passati dieci anni da quando, la notte tra il 4 e il 5 settembre 2014, il
sedicenne Davide Bifolco veniva ucciso da un carabiniere in servizio, al termine
di un inseguimento cominciato per un grossolano scambio di persona [...]
Capita ciclicamente in questa città che tutta la violenza, la povertà, il
malgoverno, tutto l’odio e la diffidenza tra le classi, l’incuria amministrativa
e l’ipocrisia istituzionale, tutte queste cose improvvisamente collassino [...]
Sono passati meno di sei mesi da quando, in seguito ai gravi fatti avvenuti a
Caivano e a Palermo, e all’uccisione del giovane musicista Giovanbattista Cutolo
a Napoli, il governo emanò, sull’onda di una ennesima emergenza [...]
La morte della piccola Michelle di sei anni, folgorata dalla corrente elettrica
il 13 gennaio in via Carraffiello a Giugliano, non è un incidente. È la diretta
conseguenza di un sistema che ha relegato centinaia di persone a vivere [...]
Di recente la Corte europea per i diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia
per trattamento inumano di una migrante minore. Una ragazza ghanese, vittima di
violenze sessuali, arrivata in Italia nel 2016 a cui è stata [...]