Ogni maledetta emergenza. Violenza giovanile e decreto Caivano
NapoliMONiTOR - Thursday, January 25, 2024Sono passati meno di sei mesi da quando, in seguito ai gravi fatti avvenuti a Caivano e a Palermo, e all’uccisione del giovane musicista Giovanbattista Cutolo a Napoli, il governo emanò, sull’onda di una ennesima emergenza, il cosiddetto Decreto Caivano (divenuto poi legge a novembre).
A dispetto degli effetti del provvedimento (Paolo Siani parla sul Mattino di un aumento del sedici per cento dei minori in carcere) negli ultimi giorni “l’emergenza” è tornata, almeno secondo i giornali, per le strade. Molto scalpore ha destato l’agguato dello scorso mercoledì al corso Arnaldo Lucci, durante il quale sono stati sparati ottanta colpi di pistola; un agguato che coinvolgeva sì dei giovani, ma che era riconducibile a precise ed esplicite dinamiche camorristiche (nell’ambito del conflitto tra Alleanza di Secondigliano e clan Mazzarella).
Il Mattino, gli altri quotidiani, e di riflesso giuristi, intellettuali e preti, sono tornati a esprimersi sul tema della violenza giovanile, facendo confusione, questa volta, persino tra azioni di criminalità organizzata e atti di violenza di adolescenti che riproducono le dinamiche di sopraffazione tipiche del mondo che li circonda (sugli stessi giornali abbondava la cronaca nera del “mondo degli adulti”: “Quartieri Spagnoli, rapinatore ucciso dal clan”; “Occhiali a forma di pistola, bufera su spot Tik Tok”; “Trascinata a terra per una rapina, due malviventi finiscono in cella”; “Mio padre picchia mia mamma! Sedicenne minaccia di darsi fuoco”; “In due mi hanno presa e penetrata. Parla la ragazza trans violentata a Napoli”).
Una pericolosa “osmosi” riguarderebbe invece “bande giovanili e rampolli di dinasty camorristiche napoletane”, come teorizza a mezzo stampa il questore Maurizio Agricola. Il Mattino non esita a far sua la linea, riproponendola in coda a ogni articolo della settimana. “Asse tra bulli e giovani boss” e “Faida dei ventenni”, i titoli. “Feroci gang di giovanissimi” (Francesco Emilio Borrelli, parlamentare), e “saldatura tra devianze giovanili e criminalità organizzata” (Piero Sorrentino, giornalista), le sentenze.
I più spietati, però, sono come sempre i magistrati. “Troppo buonismo verso i ragazzi ha determinato questa esplosione di violenza da parte di giovani che, pur minorenni, si rendono protagonisti di comportamenti criminali che nulla hanno di diverso rispetto a quelli dei maggiorenni. […] Una criminalità minorile feroce […] senza che vi sia una risposta adeguata. Serve un intervento repressivo che non permetta a chi commette questi reati di farsi scudo con l’età” (Elisabetta Garzo, presidente del tribunale di Napoli).
Analisi e proposte sono tutte fondate su militarizzazione, repressione, arresti, circuito penale. Ancora Garzo: “L’intervento repressivo e di controllo dello Stato rimane indispensabile. Il problema è garantire continuità. […] Caivano ci dimostra che laddove la presenza dello Stato si fa sentire, il fenomeno criminale si attenua. […] Per riproporre lo stesso schema a Napoli, o in tutta l’area metropolitana, servirebbe un numero molto elevato di appartenenti alle forze dell’ordine”. “Ho proposto – spiega invece Paola Brunese, presidente del tribunale per i minori – di procedere per tutti i reati in materia di armi, e quindi anche per il porto dei coltelli, con il rito processuale direttissimo”.
Nell’ultimo numero de Lo stato delle città abbiamo messo insieme alcuni tasselli che ci possono aiutare a leggere vicende che ci vengono invece sempre cucinate alla stessa maniera; a tracciare i tentativi di politica e magistratura per abbassare l’età imputabile, con le loro ragioni ed esigenze; a ribadire le potenzialità economiche che l’esistenza di ogni “emergenza” porta con sé (dagli interventi tampone alle ristrutturazioni giuridiche, fino ai finanziamenti per i provvedimenti specifici); abbiamo analizzato lo sciagurato e strumentale Decreto Caivano, un provvedimento che ignora l’esistenza e l’esigenza di una legislazione processuale ad hoc per i minorenni (richiamata anche nelle convenzioni internazionali) e la necessità che le misure per i minori non abbiano in alcun modo carattere afflittivo, ma ricostruttivo di un contesto familiare, educativo, sociale, della cui disgregazione il minore non ha colpe.
Riteniamo pertanto utile proporre questo testo. (-nm)
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Dopo il decreto Caivano. L’imputabilità dei minori oltre l’emergenza
di gaia tessitore
In una lunga intervista rilasciata al critico Armando Andria qualche anno fa, il regista Antonio Capuano spiegava la genesi del suo primo film, Vito e gli altri (1991). Il film racconta la storia di Vito, un bambino napoletano che ha assistito all’omicidio della madre da parte del padre, e che passa le giornate in strada con gli amici, nel disinteresse della zia che dovrebbe accudirlo, tra piccoli furti, marchette, scippi e rapine. “Il film – racconta Capuano – nasce da una storia vera che mi toccò profondamente, nel 1987, quella di un bambino che fu messo in carcere a soli dodici anni. Di quella vicenda si parlò molto, ci fu addirittura un’interrogazione parlamentare. Io mi domandai: come si può finire in carcere a quell’età? Immaginai un secondino che apriva la cella a un ragazzino così piccolo, un secondino che poi diventa per forza di cose il simbolo di un intero sistema giudiziario. Quel ragazzino subì in carcere molte violenze. E io più ci pensavo più mi convincevo di dover raccontare la sua storia. Volevo rendere consapevole di questa stortura orribile quanta più gente possibile”.
A oltre trent’anni dall’uscita di quel film, nell’agosto di quest’anno, scoppia nella periferia di Napoli un altro di quei casi di violenza che periodicamente coinvolgono bambini o adolescenti nel paese. Da una fuga di notizie, successiva al sequestro di alcuni cellulari, emerge che un gruppo di giovanissimi avrebbe abusato per mesi di due bambine di dieci e dodici anni, filmando talvolta le violenze e minacciando le due cugine di diffondere le immagini in caso di ribellione. Le violenze avvenivano in alcuni dei luoghi più isolati del Parco Verde di Caivano, come il centro sportivo ex Delphina, assurto a simbolo del degrado dell’intera area di case popolari (un impianto da venticinquemila metri quadri, abbandonato da sei anni, che adesso Regione e Coni si sono impegnati a ristrutturare). Negli stessi giorni si diffonde la notizia della violenza sessuale avvenuta a Palermo, da parte di sette ragazzi, tra cui uno o due minorenni, ai danni di una giovane donna. I sette avrebbero picchiato e violentato, a turno, la diciannovenne, in un cantiere abbandonato nella zona del Foro Italico.
Le due vicende suscitano reazioni emotive, se non isteriche, sul fronte mediatico e politico. Il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza si riunisce in una scuola di Caivano, in un clima da stato di guerra con magistrati, prefetto e capo della polizia, insieme a numerose figure governative. Le parole d’ordine sono quelle di un territorio che dovrà essere “bonificato”, in cui lo stato “ha fallito”, inneggiando alla sicurezza come pilastro dell’azione governativa. Intanto, il presidente del Tribunale per i minori di Napoli si dice convinto, in una intervista rilasciata al Mattino, “della necessità di abbassare l’età imputabile per fronteggiare una deriva che è sotto gli occhi di tutti”. Sostiene che “bambini di dodici e quattordici anni […] sono coscienti nel disvalore delle loro azioni” e che sono “scanzonati” e “arroganti” nei confronti dell’autorità incaricata di fermarli. Una ricetta sarebbe, a suo avviso, “tenerli sotto custodia cautelare almeno quarantott’ore”. Viene data, inoltre, grande rilevanza alla campagna attivata dalla famiglia di Giovanbattista Cutolo, un giovane musicista ucciso a fine agosto a Napoli da un minorenne armato di pistola, che chiede il processo per direttissima per il killer del figlio “per aver commesso un crimine contro l’umanità”; in particolare la madre, che ha incontrato molte delle massime cariche dello stato in pochi giorni, esplicita il desiderio che all’assassino di suo figlio, e ai minori che si rendono protagonisti di un omicidio, venga comminato l’ergastolo.
Quelli relativi all’arresto in flagranza, al fermo di polizia giudiziaria e soprattutto all’abbassamento dell’età imputabile per i minori di quattordici anni sono temi che periodicamente ritornano nei dibattiti giuridici e politici. Già nel 2003, per esempio, un disegno di legge presentato alla Camera dei deputati dall’onorevole Biondi (Forza Italia) prevedeva un abbassamento a tredici anni; in tempi più recenti, nel 2019, una proposta di legge (A.C.1580; Cantalamessa, Lega con Salvini Premier) intendeva ridurre il limite di età per l’imputabilità del soggetto minorenne da quattordici a dodici anni.
Idee di questo tipo non fanno i conti con il tema centrale, ovvero la possibilità da parte di chi giudica di attribuire al minore, in virtù di un’età molto giovane, piena consapevolezza del compimento di un fatto-reato. Si tratta di un terreno assai scivoloso, se si pensa che finanche nel diritto romano, nel processo criminale di età giustinianea, solo nel caso degli impuberes, e solo se prossimi alla pubertà, si poteva ritenere il soggetto come responsabile, e solo se, valutato il caso concreto e il tipo di reato commesso, si fosse ritenuto esistente il dolo a commettere quel fatto.
Prima il diritto canonico-medioevale e poi il codice rivoluzionario francese, si concentrarono sul “discernimento” (nel primo caso basato sui principi religiosi, nel secondo su quelli morali), inteso come capacità del minore di “distinguere” il bene dal male. Successivamente, la dottrina germanica dell’Ottocento ritenne necessario che nel fanciullo vi fosse la presenza di ulteriori capacità oltre la semplice distinzione tra il bene e il male, e cioè la coscienza della antigiuridicità del fatto compiuto. In Italia, nel 1889 entrò in vigore il codice Zanardelli, primo codice penale unitario, che individuava due criteri fondamentali per differenziare i minorenni di fronte alla pena: l’età e l’elemento del “discernimento” per stabilire l’imputabilità. In particolare, si distinguevano quattro intervalli anagrafici, prevedendo per ciascuno di essi un diverso trattamento, a seconda della possibilità di considerarli imputabili o capaci di discernimento.
Nei lavori preparatori al codice Rocco del 1930, si registrano complicate discussioni sul precoce sviluppo delle nuove generazioni, sulla loro scolarizzazione, sulla capacità di studiare problemi complessi, così da superare il dubbio sul discernimento a favore della presunzione assoluta di non imputabilità del minore di quattordici anni e l’obbligo dell’accertamento della imputabilità per l’infra-diciottenne, identificando, quest’ultima, con la capacità di intendere e di volere, come per l’adulto. Persino in quel codice, con i suoi inequivocabili linguaggi e obiettivi, si delinea una netta distinzione tra i soggetti che si riteneva fossero in condizioni di “normalità biologica e psichica”, e quindi imputabili (per i quali la pena aveva una funzione retributiva) e quelli in condizioni di “non normalità biologica e psichica”, per i quali, se non era provata in concreto la loro imputabilità, la pena, sotto forma di misura di sicurezza, aveva funzione “terapeutica” e di “difesa sociale”.
IL DECRETO
Il clamore suscitato dalle violenze di Caivano e Palermo, e il dibattito che ne scaturisce, ha dato la possibilità al governo di procedere a velocità estrema, così come accaduto in occasione di un’altra presunta emergenza, a cui ha fatto seguito l’emanazione del cosiddetto “decreto Cutro”, e come sta accadendo dopo gli sbarchi di fine estate a Lampedusa.
E così il 7 settembre viene data notizia dell’approvazione di un decreto legge che prenderà il nome di “decreto Caivano” (pubblicato in Gazzetta ufficiale la settimana successiva): il provvedimento interviene sul comune di Caivano, con un finanziamento per la “riqualificazione” del territorio (gestito da un commissario governativo e dalla società Invitalia), con azioni straordinarie per le infrastrutture e l’assunzione di quindici unità di personale di polizia locale. Ma prevede anche la modifica di numerose disposizioni giuridiche, inasprendo le misure che intervengono sulla prevenzione e sulla sanzione nei confronti dei minori, ma anche dei loro genitori o di coloro che ne gestiscono la tutela.
Le modalità di azione del governo ricalcano quelle utilizzate in occasione di ogni altra “emergenza”, sulla spinta di incontenibili bombardamenti mediatici: prima lo shock, l’indignazione collettiva, poi la promessa di interventi straordinari e risolutori, infine l’emanazione di provvedimenti legislativi emergenziali, lautamente finanziati. Poco importa se si fa riferimento a un universo particolare come quello della giustizia minorile, che ha regole e pianificazioni normative che dovrebbero muoversi in senso opposto rispetto a questo tipo di chiamata alle armi. Ma su questo si tornerà in seguito.
Gli interventi previsti nel provvedimento sono numerosi: c’è il cosiddetto Daspo urbano, la cui applicabilità viene estesa ai minorenni maggiori di quattordici anni, nei cui confronti è possibile prevedere il divieto di accesso a particolari aree delle città (si approfitta dell’estensione ai minori per aumentarne anche la durata); sono inasprite le sanzioni per il reato di porto abusivo di armi e aumentata quella per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti nei casi di lieve entità; viene reso possibile applicare anche ai minori la misura dell’avviso orale da parte del questore, con la previsione che questi possa proporre all’autorità giudiziaria di vietare di possedere o utilizzare telefoni cellulari e altri dispositivi, nel caso in cui siano stati utilizzati per condotte che hanno determinato l’avviso orale; viene introdotto, per i minori di età compresa tra i dodici e i quattordici anni, l’ammonimento del questore, che convocherà il minore reo di aver commesso un delitto insieme ad almeno uno dei genitori, il quale dovrà a sua volta dimostrare di non aver potuto impedire il delitto o dovrà pagare una sanzione amministrativa (dai duecento ai mille euro).
L’impostazione di tutto il provvedimento è di marca evidentemente securitaria: dal momento che provare a far comprendere all’autore di un misfatto le proprie mancanze – e convincere lo stesso a una ri-adesione ai valori offesi della comunità – è operazione che richiede tempo, energie e risorse (ma soprattutto convinzione), si punta a costringere il minore, non solo sul terreno della punizione, ma anche su quello della prevenzione.
UN PATTO FALSO
Una delle questioni che il decreto sembra dimenticare è l’esistenza di una legislazione processuale ad hoc per i minorenni, che si ispira a principi richiamati anche nelle convenzioni internazionali, nel tentativo di plasmare un diritto “a misura di minore”. Il d.P.R. n. 448 del 1988 si apre, in effetti, con una dichiarazione d’intenti a riguardo, specificando che le misure contenute al suo interno devono essere “applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne”. In accordo con questo principio il giudice deve individuare le azioni idonee, in riferimento alla situazione concreta che si trova a giudicare ma anche, e soprattutto, l’ambiente familiare, le problematiche personali, il percorso educativo passato o eventualmente in atto. Solo tenendo conto di questi fattori si sostiene possibile perseguire il fine educativo e di reinserimento sociale cui l’intero sistema ambisce a tendere.
Ora, tra gli istituti di maggiore impatto elaborati nel 1988 (tanto da essere stato poi trasposto anche nel processo per gli adulti), c’è la sospensione del procedimento con messa alla prova, che consente al minore di evitare il contatto con il processo, venendo affidato ai servizi sociali per svolgere attività trattamentali e di sostegno, con la necessaria partecipazione del nucleo sociale di appartenenza. Il d.P.R. tenta, così, di preservare il percorso evolutivo di crescita del minore, evitando che il processo interferisca sulla continuità educativa, puntando piuttosto sulla sua attitudine responsabilizzante. Un impianto così ideato, però, soffre di una contraddittorietà di fondo, ovvero l’esistenza, al suo interno, di direttive ambivalenti: da un lato si prova a evitare al minore il marchio dell’essere imputato, ricorrendo a istituti come la messa alla prova, il perdono giudiziale o il proscioglimento per irrilevanza penale del fatto; dall’altro, se non si ritiene soddisfatta una serie di condizioni, si procede in quella direzione stigmatizzante senza immaginare alternative possibili.
Il processo penale minorile risulta essere così perennemente in bilico tra educazione e repressione: teso verso la punizione ma anche al perdono, senza elaborazione; con la proposta di una garanzia all’imputato-minorenne in termini di specializzazione (di giudici, difensori e operatori), ma sostenendo, di contro, una non-specializzazione (della comunità chiamata a collaborare nell’impegno verso il recupero sociale).
Non può, d’altronde, negarsi che l’istituto della messa alla prova sia molto complicato da applicarsi efficacemente, rappresentando un percorso di crescita spesso incompatibile con i tempi della giustizia, ma comunque una strada necessaria per evitare che il processo possa compromettere situazioni già abbastanza disastrate. È in effetti assai difficile che gli strumenti offerti dalla messa alla prova riescano a modificare la situazione che ha portato il minore a commettere il reato. Inoltre, la valutazione rispetto alla “inadeguatezza” della crescita del minore implica un giudizio di valore generico, e d’altronde il concetto stesso di “idoneità” è suscettibile di contenuti diversi che variano a seconda delle diverse culture, estrazioni sociali, esperienze di vita. Alla luce di una situazione così complessa l’intervento penale dovrebbe costituire un momento altamente strutturato e allo stesso tempo eccezionale, necessario solo se capace di fornire coordinate intorno alle quali il minore può costruirsi un diverso percorso evolutivo.
Questo breve excursus mette in evidenza la controtendenza intrapresa dal “decreto Caivano” che, tra le altre cose, introduce la possibilità di concludere anticipatamente il procedimento sulla base dell’adesione da parte del minore a un percorso di reinserimento. Un percorso che presuppone lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, la collaborazione a titolo gratuito con enti no profit, lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità per un periodo da uno a sei mesi, e che, è evidente, ha un carattere afflittivo, niente affatto ricostruttivo di un contesto problematico. Cosa ancora più grave, se il minore si rifiuta di intraprendere il percorso (o se questo viene per qualche motivo interrotto) allo stesso verrà negata la possibilità di accedere a un istituto di certo migliorabile nelle sue applicazioni, ma di gran lunga più tutelante per il minore, come la messa alla prova.
È evidente che il problema del destino del minore protagonista di un comportamento penalmente rilevante vada messo al centro. Assodato che l’intervento processuale nei suoi confronti dovrebbe essere una extrema ratio, ne deriva che l’ingerenza penale andrebbe ridotta al minimo. Il sistema che regola gli interventi giudiziari nei confronti degli adulti non può essere in alcun modo riprodotto, con il suo iter di indagini, processo, detenzione, nella giustizia minorile, e allo stesso tempo le alternative proposte oggi risultano inadeguate perché non forniscono risorse coerenti, tanto in termini materiali (l’incerto e mal governato ambito della messa alla prova) quanto culturali (il perdono giudiziale, che si riduce a una paternalistica “pacca sulla spalla” piuttosto che a un’assunzione di responsabilità da parte del minore, perché non è seguito da un percorso che lo accompagni in un’analisi del comportamento tenuto).
Insieme a un consistente arretramento dell’intervento penale, sarebbe necessario allora ricostruire un intero ambito di azione che abbia la forza di presupporre per ogni singolo caso un’analisi globale del contesto sociale, familiare, dei percorsi educativi, e un accompagnamento basato sull’intervento di figure capaci di farsi carico e mettere a sistema anche i fallimenti, a cui un ambito di questo genere va inevitabilmente incontro. Quali sono i possibili percorsi alternativi alla chiusura di un adolescente all’interno di un carcere? È realistico immaginare la creazione di un codice ad hoc che preveda una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio, come suggerisce, tra gli altri, l’associazione Antigone?
Il sistema penale, che per sue stesse caratteristiche necessita un’astrazione dal caso particolare, non può riprodursi in un ambito che dal contesto è totalmente assorbito e influenzabile, e che si forma in gran parte per imitazione, come quello infantile e adolescenziale. Pregni di contributi su tali questioni sono il dibattito e la letteratura tecnico-giuridica, le convenzioni internazionali, gli indirizzi del decreto 121 del 2018 sull’ordinamento penitenziario minorile, le riflessioni sulla giustizia riparativa. Eppure, ogni singolo caso Caivano o Palermo, con le conseguenti strumentalizzazioni politiche e mediatiche, è sufficiente a cancellare anni di impercettibili migliorie, e allo stesso tempo qualsiasi spinta mirata a una razionalizzazione delle risorse che pure vengono massicciamente spese, puntando su indirizzi di crescita e non di punizione. Un dovere che dovrebbe esistere nei confronti di chiunque, e soprattutto delle persone più giovani.