Fuori dalla palude. Alcune domande sul futuro di Napoli Est

NapoliMONiTOR - Wednesday, February 7, 2024
(disegno di martina di gennaro)

L’area orientale di Napoli è uno di quei posti condannati a nascondersi in piena vista. Lo pensavo osservando le colonne dei container che allo svincolo San Giovanni – Zona Industriale, segnalano che si è “tornati a casa”. In molti mi hanno raccontato come, fino a poco più di trent’anni fa, il bentornato dell’area est fosse una festa tremenda per i sensi, storditi dal fetore degli scarichi a cielo aperto, assuefatti all’odore acre della benzina e all’armonia ritmica delle presse meccaniche, o rapiti dalla fiamma sulla torre di raffinazione. La Napoli Est industriale non era più immediatamente “attraente” rispetto a quella grossomodo deindustrializzata di oggi. Anch’essa nascondeva in piena vista i semi del proprio fallimento, interrati insieme a carburanti pronti a esplodere oppure sparpagliati nel grigiore caotico delle fabbriche tra le case. Quella Napoli Est riusciva a nascondere in bella vista persino il tratto caratterizzante l’ecosistema preposto ad accoglierla: la potenza creatrice dell’acqua, che per millenni aveva dato forma alla piana alluvionale costiera del Sebeto e fatto affiorare quelle paludi che dagli angioini fino al Novecento avrebbero alimentato di prodotti orticoli l’intera città. Nel secolo industriale, una simile potenza era sì ridotta alle profondità del sottosuolo dai continui emungimenti industriali, ma anche visibilmente umiliata dalle diverse forme di inquinamento¹.

Con la deindustrializzazione, la palude che riemerge dal sottosuolo non è più la base materiale dello sviluppo, ma una minaccia concreta per le più scellerate edificazioni del passato, come il Centro Direzionale. Sorta di iceberg artificiali, i grattacieli sono finora rimasti a galla grazie al lavoro costante di pompe idrovore sotterranee, ma il continuo innalzamento della falda, conseguente la forte riduzione degli emungimenti industriali, ha reso il tutto via via più precario². Ne è al corrente l’amministrazione comunale, che da anni ragiona sulla fragilità ecologica e sulla desertificazione di quel luogo, mettendone in discussione la funzione di cittadella dei servizi e immaginando una progressiva riqualificazione in insediamento per usi misti. Non è chiaro, invece, come tutto questo possa convivere con la realizzazione in via Galileo Ferraris della nuova sede unica della Regione Campania, che pare un incomprensibile spreco di suolo, a fronte dei grattacieli vuoti già esistenti e dei nuovi collegamenti previsti a servizio del Centro Direzionale.

Collegamenti intermodali sono, anzi, al centro del progetto Porta Est, come razionalizzazione dell’hub infrastrutturale Porta Nolana-Piazza Garibaldi-Centro Direzionale, da realizzarsi attraverso l’integrazione tra nuove forme di viabilità e l’eliminazione di reti viarie obsolete. Nelle parole della vicesindaca Laura Lieto – in un incontro presso l’Ismed-Cnr di Napoli il 19 gennaio scorso – Porta Est non sarebbe che il primo passo di una più ampia strategia di intervento pubblico per l’area orientale che pare avere il grande pregio di non ambire a soluzioni totalizzanti, ma rivendicare il proprio carattere processuale. In altre parole, si coglie l’intenzione di “aprire una porta” sulle problematiche dei quartieri Gianturco, Poggioreale, Barra, Ponticelli e San Giovanni; problematiche così sedimentate nel tempo da essere – al solito – a un tempo scontate e invisibili. È per questo che bisogna rivolgersi anche alla storia, urbana e ambientale, di un comprensorio che spesso pare immobile e cristallizzato nel tempo.

MARE CHIUSO
Pur a quarantacinque anni di distanza dall’avvio dell’esperienza del Piano delle Periferie della giunta Valenzi, a trenta dalla pubblicazione degli Indirizzi di Pianificazione della prima giunta Bassolino e a venti dal Piano Regolatore Generale vigente, è legittimo tentare nuovamente di partire dai margini per proporre un nuovo modello di città. Cercando, anzi, di apprendere dagli errori del passato. Si può tornare, allora, al discorso sull’intermodalità, partendo da quella impossibile, come nel caso della movimentazione dei container nel porto. Con Accordo di programma del 23 dicembre 2000, si prevedeva sulla parte più occidentale della costa di San Giovanni la realizzazione del “terminal di levante”: uno scalo merci di grandissime dimensioni da cementificare e popolare di container. Era uno dei primi tasselli del mosaico della Variante orientale del 1996-98 a venir meno e, con esso, si arenavano sia la rifunzionalizzazione a porto turistico della fascia costiera orientale, sia il progetto di delocalizzazione della logistica petrolifera. A oggi, il
 Master Plan del porto di Napoli immagina una riorganizzazione delle banchine entro il 2030, prevedendo “l’allungamento del nuovo Terminal di Levante e la destinazione dell’area adiacente (zona ex Corradini) a polo della logistica”. Non è tutto. “A ridosso del nuovo terminal contenitori si svilupperà il fascio di binari di 750 metri di lunghezza per far in modo che l’intermodalità nel trasporto sia una realtà per lo scalo partenopeo, attualmente caratterizzato dall’assenza di trasporto su ferro per il trasferimento della merce”.

Qualora tale progetto si concretizzi, su circa metà della fascia costiera di San Giovanni si andrebbero a creare due nuove e invalicabili barriere all’accesso al mare, già negato dall’inquinamento, dalla presenza di aree dismesse, dalla centrale termoelettrica, dalla darsena petroli, ecc. Senza neppure citare le potenzialità economiche di una riqualificazione imperniata sul valore del patrimonio culturale esistente (il forte di Vigliena, le Officine San Carlo), che rimarrebbe umiliato da un potenziamento della logistica. Ora, al di là di reclami e indignazioni, dove si può concretamente operare per contrastare queste previsioni? È il nodo dell’intermodalità – quello attorno al quale ruota la fetta maggiore di finanziamenti europei – il tallone d’Achille dell’intero progetto? Anche in questo caso, si attendono più nette prese di posizione da parte dell’amministrazione. Di certo, la creazione di un nodo intermodale nel porto di Napoli, in grado di far transitare treni container di grandi dimensioni quasi “in banchina” – come previsto anche a Genova e ad Augusta –, va affrontata tenendo conto dei limiti morfologici e delle necessità strutturali dell’area orientale, opponendo una visione ambientalista e democratica all’ennesimo scempio ecologico privo di qualunque ricaduta sull’economia locale. Un coordinamento con le altre realtà cittadine della penisola minacciate da progetti analoghi pure sembra necessario.

Da parte sua, la rete di comitati civici e ambientalisti presenti nell’area orientale – ora più connessa grazie alla nascita del coordinamento “Bonifichiamo Napoli Est”, ma ben conscia delle differenze al proprio interno – ha avviato un processo di maturazione delle forme di lotta e delle rivendicazioni, grazie alla vittoria contro le multinazionali Q8 ed Edison Energia, promotrici dell’ormai naufragato progetto Gnl sulla costa di Vigliena, e grazie alla costanza con la quale si porta avanti, dal 2021, la lotta per la bonifica della discarica abusiva di via Mastellone a Barra. Insomma, la parte attiva della cittadinanza si farà trovare pronta quando la si metterà “al centro […] nei processi di rigenerazione urbana”, come ha sostenuto la vicesindaca. Per inciso, ci si augura che analoghe forme di collaborazione non vengano meno nel cantiere appena aperto per la demolizione e ricostruzione di via Taverna del Ferro.

IL MURO DELL’AREA PETROLI
Nell’immediato futuro, invece, il ruolo dello stoccaggio di carburanti e il destino della bonifica del Sito di Interesse Nazionale diverranno argomenti non più dilazionabili. Una volta aperta la porta verso oriente, infatti, sarà inevitabile scontrarsi con il muro dell’area petroli. Tra due anni scadranno i termini del protocollo d’intesa firmato nel 2006 con la KRC (Kuwait Raffinazione e Chimica) “per soddisfare, nelle more della definitiva delocalizzazione, la domanda campana di prodotti petroliferi”. Nei diciotto anni trascorsi, è plausibile ipotizzare che il peso degli impianti di stoccaggio della KRC sul rifornimento delle attività produttive regionali si sia contratto drasticamente, complice anche il dimezzamento dell’area operativa della compagnia. Un risultato raggiunto solo in seguito al sequestro giudiziario del 2013³. Il peso relativo della KRC e delle altre compagnie presenti in zona (Sonatrach, Esso) sull’economia regionale dovrebbe essere materia di approfondimento da parte dei decisori e ancor più dello spauracchio, spesso evocato, delle “scorte d’obbligo” nazionali⁴ che – come tutte le soglie con valore politico – può essere esito di contrattazioni ai vari livelli della macchina amministrativa. Peraltro, si ha come l’impressione che le posizioni della KRC sulla propria permanenza a Napoli siano tutt’altro che omogenee: se negli anni trascorsi alcune dichiarazioni rivelavano malcelata insofferenza nei confronti delle incertezze su tempi e oneri della bonifica, il naufragato progetto Gnl può anche essere letto come un tentativo di venir fuori da una situazione divenuta ormai diseconomica per la Q8. Ironicamente, alla fine persino le compagnie petrolifere potrebbero essersi “impaludate” a Napoli Est. Per tutte queste ragioni occorre agire con rapidità, promuovendo il recupero e l’aggiornamento degli studi prodotti sin dal 1971 sulla delocalizzazione dei petroli e garantendo l’indipendenza economica delle comunità energetiche e solidali – presenti e future – in quanto alternativa ambientalista e democratica al monopolio insostenibile dei combustibili fossili.

Sul futuro urbanistico delle aree liberate dalla presenza petrolifera non si può non richiamare la perdurante necessità, a suo tempo evocata dalla pianificazione municipale, di dotare Napoli di green belts che la crisi climatica globale rende sempre più urgenti. È noto che la normativa vigente prescriva il coordinamento tra le opere di riqualificazione urbanistica e i lavori di bonifica, e che all’atto pratico le destinazioni produttive possano ammettere concentrazioni maggiori di inquinanti nel suolo, rispetto al verde e alle residenze. È anche vero che nei casi in cui bonifica e riqualificazione di aree dismesse (sia a parco che in attività produttive-commerciali) hanno avuto maggior successo negli Stati Uniti, ciò è dovuto al fatto che si sia prevista la rimozione degli hot spots (le aree maggiormente contaminate), insieme all’eliminazione dei possibili percorsi di esposizione umana⁵: in altre parole, si sono realizzate pratiche di messa in sicurezza permanente a geografia non omogenea, che scaricano la maggior parte dei costi sulla fase di controllo e alleggeriscono i costi immediati degli interventi. Invece, tra il 2001 e oggi risultano impegnati circa 123 milioni di euro di fondi pubblici⁶ per una bonifica, quella del Sito di Interesse Nazionale di Napoli Orientale che non solo procede a rilento come la maggior parte dei SIN, ma è persino capace di andare a ritroso. Per la bonifica della falda acquifera, al 2016 i progetti approvati costituiscono il sedici per cento e quelli conclusi il sedici per cento del totale, mentre al 2022 la percentuale si è ridotta rispettivamente al nove e al sette per cento⁷. Se è rassicurante sapere che il 26 dicembre 2023 sono stati stanziati, grazie ad apposita convenzione con la Sogesid, venticinque milioni di euro per la bonifica della falda, le ragioni di questo passo indietro nel completamento delle opere andrebbero chiarite.

Nel ragionare sull’urgenza e sulla necessaria trasparenza delle politiche ambientali per l’area orientale occorrerebbe tenere sempre a mente la gravità, ma anche la relativa obsolescenza, degli indicatori disponibili sulla salute pubblica. Stando al Registro epidemiologico cittadino, redatto tra il 2009 e il 2017 dal gruppo epidemiologico della Consulta popolare per la salute e la sanità della città di Napoli⁸, tutta la VI Municipalità presenta elevatissimi tassi di mortalità e di decessi attesi e osservati, superiori alla già poco rassicurante media cittadina. Il Registro nominativo delle cause di morte del comune di Napoli – certo datato poiché rimasto inalterato dal biennio 2004-2005, ma riferimento valido in assenza di profondi mutamenti ambientali – ci dice che la VI Municipalità è al secondo posto nell’area metropolitana per mortalità da tumore, oltre a presentare frequenti picchi di incidenza di linfomi, leucemie, malattie polmonari croniche ostruttive. A dispetto della gravità dell’allarme nascosto in questi registri, il riconoscimento e soprattutto l’aggiornamento dei dati sembra essere eternamente rimandato⁹.

Da quanto detto possono emergere le continue ambiguità di un territorio che è anche metaforicamente “palude”, come spazio di costante riproduzione di precarietà. Un ecosistema anfibio in grado di mescolare senza mai risolvere problematiche strutturali e continue promesse di trasformazione che risultano disciolte in parti uguali nella stessa, indistinguibile, miscela. È un terreno ostile dal quale è giusto tentare di uscire un passo alla volta, evitando i punti dove si è già affondati nel fango. (valerio caruso)

¹ Su questi temi, e in prospettiva storica, rimando a quanto scritto in Caruso V., The Swamp of East Naples. Environmental History of an Unruly Suburb, The White Horse Press, Cambridgeshire, 2021.

² Definito progetto “prettamente speculativo” sin dalla prima proposta del 1967, la battaglia contro il Centro Direzionale e per la difesa delle attività manifatturiere preesistenti in zona riuscì ad accomunare le spesso antitetiche posizioni del Pci e della emergente rete ambientalista napoletana.

³ Vd. Camera dei Deputati, Senato della Repubblica. XVII Legislatura, Disegni di Legge e relazioni. Documenti, Doc. XXIII n.52, Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad essere correlati, istituita con legge 7 gennaio 2014, n. 1. Relazione territoriale sulla Regione Campania, approvata dalla Commissione nella seduta del 28 febbraio 2018, pp. 572-82.

⁴ Ogni impresa petrolifera dotata di capacità logistica è tenuta ad assicurare stabilmente scorte d’obbligo. Per una dettagliata mappatura dei siti della logistica petrolifera – premessa essenziale per un efficace coordinamento nazionale delle pratiche rivendicative – cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, “Le caratteristiche generali del comparto della logistica”, p. 26, via agcm.it

⁵ Cfr. i casi della Betlehem Steel, Pennsylvania e della Seattle Gas Works, Stato di Washington in Auriemma G., De Vivo B., Manno M., Il risanamento di un sito industriale dismesso. Bagnoli, davvero un caso unico al mondo?, La Valle del Tempo, Napoli, 2022, p. 102-4.

⁶ Trentacinque assegnati nel 2001 ma, al 2013, solo ventotto effettivamente impegnati; sessanta attraverso il Patto per Napoli del 2016; trentacinque sbloccati in dicembre 2023.

⁷ Cfr. Senato della Repubblica, Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, 2018 cit., p. 571 e Ministero della Transizione Ecologica. Direzione Generale Uso Sostenibile del Suolo e delle Risorse Idriche. Relazione su “SIN – Siti di Interesse Nazionale. Stato delle procedure per la bonifica”, giugno 2022, via isprambiente.gov.it

⁸ Con la collaborazione di ordinari di Medicina delle Università di Milano, Genova e Napoli. Lo studio citato è stato validato da due congressi scientifici nazionali nel 2019. Cit. in Osservazioni al procedimento di valutazione di impatto ambientale del progetto “Deposito GNL nel Porto di Napoli”, presso il Molo Vigliena, “Osservazione 9. Impatto del progetto sulla salute della comunità”, a cura di Paolo Fierro, vicepresidente di Medicina Democratica-Napoli e della Consulta popolare per la salute e sanità della città di Napoli. Documento protocollato dal MAATM il 14/06/2021. Liberamente accessibile online al sito minambiente.it

⁹ Altro fattore da rilevare è l’esclusione del SIN Napoli Orientale (e del SIN Bagnoli Coroglio) dal Progetto Sentieri, ovvero lo Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, promosso dal Ministero della Salute-ISS sin dal 2006. Sentieri ha preso in considerazione solo 44 dei 57 SIN riconosciuti, “poiché si è convenuto che alcuni di essi non avessero i requisiti idonei a soddisfare le finalità dello studio”. Nel nostro caso, trattasi di siti di piccole dimensioni all’interno di grandi aree urbane, da cui “la difficoltà di interpretazione dei dati di mortalità”. Cit. SENTIERI – Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento: Risultati, via salute.gov.it, p. 21.