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L’impresa del bene. I grandi enti del terzo settore nella Napoli del turismo
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli) È uscito la settimana scorsa nelle librerie, per le edizioni Carocci, il volume di Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. Dalla quarta di copertina: “L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha prodotto  cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il paesaggio del centro storico e la stessa struttura socio-economica della città. In questo contesto si muovono i soggetti al centro di questa ricerca : i grandi enti del Terzo settore attivi in tre quartieri del centro – Sanità, Quartieri spagnoli e Forcella – che oggi forniscono un ventaglio di servizi che va ben oltre il classico intervento socio-assistenziale, operando sul crinale tra sfera pubblica e mercato. Questi enti esercitano un’influenza crescente sulle scelte dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città. La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla  convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza ostacoli le proprie attività. Queste  dinamiche, sullo sfondo della “città del turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi enti nelle loro dichiarazioni programmatiche: non la vivibilità dei quartieri, la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa, lavorativa ed esistenziale dei suoi  abitanti più fragili”. Ne pubblichiamo a seguire due brevi estratti. *     *     *  Gli enti di maggiori dimensioni presenti nelle tre aree che abbiamo esaminato sono: la Fondazione di comunità San Gennaro nel rione Sanità, la Fondazione Foqus nei Quartieri spagnoli e l’associazione L’Altra Napoli, operante sia a Forcella che alla Sanità. Le caratteristiche principali di questi enti, che li rendono un unicum rispetto al contesto socio-economico in cui operano, sono sostanzialmente tre: la quantità di risorse di cui dispongono, fuori scala rispetto agli altri attori associativi e più in generale rispetto a tutti gli attori economici del territorio; le relazioni ad alto livello istituzionale e imprenditoriale che sono in grado di attivare e rendere operative; la costante (e benevola) attenzione mediatica che le loro iniziative riescono a sollecitare. Sono i tre fattori decisivi, quelli che determinano un impatto sui territori di riferimento, sul dibattito pubblico e sulle stesse politiche urbane che va ben oltre le singole iniziative messe in campo e che gli altri enti (quelli intermedi e quelli informali) non sono in grado di eguagliare se non agganciandosi alla locomotiva rappresentata da questi enti maggiori, che definiamo “ultracorpi”. Tali fattori sono poi al servizio di un’ideologia che, seppur con differenze pratiche tra un’esperienza e l’altra, appare fondata su principi e rappresentazioni comuni, che da un lato informano l’azione locale degli ultracorpi, dall’altro ambiscono ad affermarsi in un campo più vasto, che concerne le politiche di governo e la forma futura della città. Gli obiettivi e gli strumenti che i dirigenti degli ultracorpi hanno messo a punto nel corso del tempo, di pari passo con la crescita delle loro “creature”, possono essere ricostruiti e analizzati attraverso i numerosi interventi in pubblico, la pubblicazione di articoli e libri, le interviste rilasciate ai giornali e ad altri media. Uno dei cardini della loro ideologia è l’insofferenza per tutto ciò che riguarda l’azione pubblica. Nelle parole dei dirigenti degli ultracorpi la parola stessa, “pubblico”, fa rima con burocrazia, invadenza, lentezza, inconcludenza, e più in generale costituisce il termine di paragone in opposizione al quale si autodefinisce con orgoglio la propria identità. Scrive per esempio Rachele Furfaro, fondatrice di Foqus: “Le scuole Dalla Parte dei Bambini hanno deciso nel 2012 di trasferire le proprie metodologie ed esperienze all’interno di un quartiere povero e critico di Napoli, i Quartieri spagnoli, […] hanno avviato il progetto, per poi costituire una fondazione a cui ne è stata affidata la gestione e lo sviluppo. Il progetto di rigenerazione urbana a base educativa gestito dalla Fondazione Quartieri spagnoli non nasce quindi da una strategia di sviluppo pubblica, dal premio di qualche bando europeo, né dall’iniziativa di qualche assessorato. Trova spinta ideativa (e investimento iniziale) da una scuola”¹. Padre Antonio Loffredo, ispiratore della Fondazione San Gennaro del rione Sanità, sostiene: “Il potere pubblico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi, codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune non sa come gestirlo; ma dallo al quartiere, dico io. Facciamo come con le catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze. Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi dovrò lasciare”². Ancora più esplicito il manager Ernesto Albanese, fondatore dell’associazione L’Altra Napoli, che finanzia progetti sociali e culturali tra il rione Sanità e Forcella. Nel 2021, alla domanda di una giornalista sui conti in rosso e le disfunzioni dell’ente municipale, risponde così: “[Si dovrebbe] iniziare a trattare il comune di Napoli come un’azienda privata di servizi. L’azienda privata ha una caratteristica importante: sceglie gli uomini e se non vanno bene li cambia. Meccanismo che nella pubblica amministrazione spesso non può avvenire, perché la politica per sua natura è compromesso e quindi inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà politica e non con quella economica”³. […] All’origine dei grandi enti che stiamo considerando, abbiamo tre soggetti forti: la Chiesa cattolica, in una delle sue incarnazioni locali più dinamiche (imprenditoriale e antistatalista); la scuola, nella sua declinazione privata, sperimentale e progressista, fortemente imperniata sul concetto di impresa; infine, la borghesia delle professioni dirigenziali, che in buona parte vive e lavora fuori Napoli ma considera un punto d’onore la possibilità di contribuire attivamente al “riscatto” della propria città. In tutti i casi, come abbiamo visto, l’enfasi è posta con insistenza sulla soluzione imprenditoriale, considerata sia per il suo versante decisionista, che consente di operare senza troppi vincoli per “valorizzare” adeguatamente beni e servizi, ma anche per le sue virtù emancipatorie, come stimolo ad assumersi delle responsabilità e di conseguenza come occasione di crescita personale. Ogni azione intrapresa sarà quindi immancabilmente indirizzata verso il “bene comune”, ma dovrà essere anche conveniente, redditizia, remunerativa. Potremmo quasi evincerne che dove non ci sia un utile economico allora mancherà la possibilità stessa di fare del bene. *     *    *  In questa fase di pieno dispiegamento dell’industria turistica, superato anche l’ostacolo alla mobilità globale rappresentato dalla pandemia, il discorso pionieristico dei grandi enti del Terzo settore, ormai fatto proprio dalle maggiori istituzioni cittadine, sembra arrivato al culmine della sua parabola: come una trama di fondo solida e affidabile, esso incrocia e sorregge le politiche pubbliche, incoraggiandole a proseguire nella direzione intrapresa, quella della privatizzazione, della deregolamentazione, della crescita illimitata. È il film che si proietta in ogni convegno, dibattito, inaugurazione in cui i partner istituzionali si danno appuntamento – il sindaco, il vescovo, il rettore, la giornalista, il manager del Terzo settore, l’assessora, il sociologo, l’architetto, il prete imprenditore – per condividere in pubblico le loro convergenti testimonianze. Ma se solo si cominciano ad analizzare i fenomeni, ad ascoltare le persone, a connettere i rari studi a disposizione, lo stesso film ci appare da una prospettiva diversa, con tutti i suoi elementi al rovescio, come se lo guardassimo dall’altro lato dello schermo. L’azione degli enti del Terzo settore, anche di quelli che dispongono di maggiori risorse, nonostante una progressiva espansione, resta per il momento subordinata alle scelte dei poteri pubblici, i quali, orientando in un senso o nell’altro le risorse comuni – umane e finanziarie –, hanno ancora la possibilità di incidere in modo determinante sugli assetti economici e sociali delle comunità. I grandi enti possono fornire modelli e stimoli, influenzando anche profondamente i rappresentanti politici, ma il grosso delle risorse e la titolarità delle decisioni restano in capo a chi amministra la cosa pubblica. Di questo, i maggiori dirigenti del Terzo settore hanno una chiara consapevolezza: “Il Fondo [per il contrasto della povertà educativa minorile] – ha scritto Marco Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i bambini – è una grandissima opportunità […], ma nonostante i complessivi oltre 600.000.000 di euro messi a disposizione è necessario che tali pratiche diventino politica pubblica; con ben altre risorse, partendo dalla messa a sistema di quelle ordinarie, con una visione temporale più lunga e articolata e ascoltando i bambini/e, i ragazzi/e, il territorio”⁴. E così padre Antonio Loffredo: “Con il Terzo settore non possiamo risolvere le cose. Possiamo dare dei segni di speranza, fare dei piccoli laboratori per far capire che è possibile. Non dobbiamo mai stancarci di farlo, ma chiaramente è lo Stato che ha le chiavi del cambiamento strutturale”⁵. È innanzitutto per questo, come abbiamo visto, che i grandi enti indirizzano gli sforzi del loro “fare politica” verso il campo dei decisori pubblici con l’obiettivo di influenzarne le scelte secondo i propri interessi e valori. In ogni città, nei singoli quartieri, l’insieme dell’azione associativa costituisce un potenziale fattore di vitalità, uno stimolo alla mobilità sociale e alla partecipazione civica; nella realtà, però, questa azione si spinge raramente oltre un orizzonte paternalista, garantito dall’alto, in cui le priorità sono stabilite da chi detiene il denaro e il potere. Le pratiche informali, che pure mostrano come sia possibile la solidarietà tra pari, la partecipazione diretta, la messa in discussione degli assetti dati, restano ancora troppo episodiche e isolate per fornire una base su cui provare a costruire delle alternative. Nel suo complesso, l’azione associativa non è stata in grado in questi anni di incidere sulle condizioni di vita, sulle diseguaglianze strutturali, sulla subalternità culturale degli strati marginali della popolazione; questo perché non ha voluto (Terzo settore) o non è stata capace (gruppi informali) di produrre trasformazioni politiche di più ampio respiro. Nel frattempo, la conformazione spiccatamente imprenditoriale che hanno assunto i maggiori enti del Terzo settore, e molti di quelli intermedi, ha trasferito sul piano della convenienza economica, della competitività, della reputazione mediatica, ogni aspetto dell’azione associativa che li riguarda. Nei grandi enti, questo tipo di azione si è sempre più differenziata, affiancando all’abituale sfera socio-assistenziale l’intervento in nuovi settori di mercato; questo senza rinunciare alla consolidata rete filantropica che continua a fruttare loro donazioni, finanziamenti diretti e in generale un’abbondanza di risorse che, tra le altre cose, li colloca in una posizione di vantaggio rispetto agli operatori con cui sono direttamente in competizione. A Napoli queste prassi hanno trovato un terreno fertile nel contesto economico, culturale e politico generato dall’impatto del turismo di massa sul centro storico della città. La dimensione imprenditoriale assunta da questi enti ha però bisogno di essere continuamente alimentata e per farlo è necessario che il contesto in cui essa fiorisce si espanda, allargando indefinitamente i propri confini. A Napoli questo significa che i grandi enti del Terzo settore, che abbiamo definito ultracorpi, sono stati e sono tuttora tra i più attivi e convinti sostenitori della diffusione dei flussi turistici in ogni interstizio della città. La responsabilità di questa espansione incontrollata, come abbiamo visto, ricade in gran parte sulle istituzioni pubbliche, mentre i costi, le “esternalità negative”, gravano sulle spalle di chi presta lavoro nei gradini più bassi della fabbrica del turismo; e poi su quei nuclei familiari esposti senza tutele alla riconversione turistica dell’abitare e all’impennata dei valori immobiliari; ricadono inoltre sulla generalità dei residenti, che si trovano a dover dividere risorse e servizi, già cronicamente scarsi, con un gran numero di visitatori temporanei divenuti nel giro di poco tempo l’oggetto d’attenzione privilegiato dei loro governanti. I grandi enti, che pure avrebbero relazioni influenti e uditori qualificati per farsi ascoltare, di questi “effetti collaterali” non parlano. Il loro discorso non contempla lati oscuri, contraddizioni, problemi non risolti. È liscio, levigato, percorso da una sottile euforia: come una lieve scossa elettrica, che riattiva il corpo ma non fa danno. L’emancipazione, nella loro visione, si conquista innanzitutto nel cimento imprenditoriale. La mobilità sociale si realizza attraverso un processo di selezione naturale. Il loro modo di “fare politica” è quindi rivolto verso un obiettivo ben preciso: la preparazione del terreno più propizio allo sviluppo delle imprese; innanzitutto le loro, ma inevitabilmente anche quelle degli altri. Molti enti del Terzo settore sono infatti imprese a tutti gli effetti (o consorzi di imprese, o incubatori di imprese) e, come tali, perseguono innanzitutto i propri interessi. Le maggiori, come abbiamo visto, tendono ad allargare i propri confini sommando, all’attività educativa e assistenziale, altri campi d’azione e settori di mercato. Per farlo si dotano di apparati sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, che lentamente fanno sparire, sotto un’accattivante cortina di fumo, i dati concreti, gli obiettivi reali, i referenti ultimi del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici, lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non fa eccezione. Nella città in preda a repentini cambiamenti, queste imprese si battono per conquistarsi un posto al sole; la loro attività è votata al servizio dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita e dei valori immobiliari, la precarietà lavorativa, l’espulsione degli abitanti dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte ai danni strutturali arrecati da questo processo a una platea molto più vasta di quella dei loro “beneficiari”. Inoltre, questi ultracorpi non si limitano a fare impresa, ma con sempre maggiore convinzione ambiscono a “fare politica”, ovvero a estendere i propri metodi e valori in ambiti ancora più vasti. Essi dichiarano di lavorare per il bene comune, ma gli interessi che descrivono come generali, se si getta lo sguardo appena fuori dal loro giardino, si sovrappongono in molti casi a quelli perseguiti da un manipolo di imprenditori che, nel contesto della “città del turismo”, stanno accumulando influenza e profitti attraverso l’allargamento dell’area del lavoro irregolare e della precarietà abitativa. I grandi enti pensano di poter rimediare all’illegalità, alla speculazione, allo sfruttamento diffusi nell’industria del turismo semplicemente attraverso il buon esempio. Ma l’affermata virtuosità di questi enti, per esempio sul piano della regolarità dei rapporti di lavoro, non si trasmette per contagio – come essi invece lasciano intendere – ad altri enti o imprese attive negli stessi ambiti o territori. Come l’azienda di moda dell’imprenditore napoletano Mario Valentino, che negli anni Settanta esportava i suoi prodotti nei lussuosi atelier di Parigi e New York, vantando l’impiego di trecento dipendenti con regolare contratto nel moderno stabilimento delle Fontanelle alla Sanità, così oggi questi grandi enti incassano le lodi e i riconoscimenti internazionali portando in alto il nome proprio e quello dei loro quartieri; ma come la fabbrica delle Fontanelle era attorniata da decine di bassi e sottoscala dove uomini e donne della Sanità fabbricavano scarpe e borse in nero, inalavano collanti e si buscavano la polinevrite, così i grandi enti fingono di ignorare che la “rinascita” dei loro quartieri si sta realizzando sulla pelle della manodopera sfruttata nell’industria del turismo e su quella di anziani e famiglie senza risorse, che spesso vi abitano da generazioni e si vedono costretti a lasciare i propri appartamenti per fare posto ai turisti. _________________________ ¹R. Furfaro, La buona scuola. Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza, Feltrinelli, Milano 2022, p. 229. ²A. Polito, Paranza & C. I nuovi santi della Sanità, in inserto “Buone notizie” del “Corriere della Sera”, 18 giugno 2019, p. 6. ³F. Sabella, Intervista a Ernesto Albanese: «Iniziamo a gestire il Comune come un’azienda di servizi», in “il Riformista”, 16 novembre 2021. ⁴M. Rossi-Doria, Una comunità che apprende, in R. Quaglia, Quartiere educante. L’esperienza della Scuola diffusa nei Quartieri spagnoli di Napoli, Zeroseiup, Bergamo 2022, p. 10. ⁵G. Renzi, Dal rione Sanità un modello di sviluppo, in “L’Osservatore Romano”, 11 settembre 2023.
January 24, 2025 / NapoliMONiTOR
Spiagge privatizzate e mare negato. Il governo proroga ancora le concessioni balneari
(disegno di ginevra naviglio) Il 6 novembre il Senato ha approvato con voto di fiducia il decreto cosiddetto Salva-infrazioni, con l’obiettivo di “agevolare la chiusura di 15 procedure d’infrazione” con l’Unione Europea.  Uno degli articoli più discussi è quello che riguarda l’assegnazione delle concessioni balneari. La riforma prevede che i concessionari potranno mantenere installati “fino all’aggiudicazione della nuova gara i manufatti amovibili, come prefabbricati e depositi”. Soprattutto, la legge proroga la chiusura delle nuove gare per l’affidamento delle concessioni al 30 giugno 2027. Esclude inoltre dall’applicazione della direttiva Bolkestein i circoli sportivi e le associazioni sportive dilettantistiche che svolgono attività in via “stabile e principale” con finalità sociali e ricreative, purché siano iscritte al Registro nazionale e usino il demanio marittimo per attività non economiche.  Anziché intervenire sul problema, in sostanza, la legge lo aggira, prorogando ancora una volta le concessioni in essere (l’ultima proroga risaliva al Milleproroghe del febbraio 2023), non affrontando in alcun modo il tema dell’utilizzo libero e gratuito da parte dei cittadini di spiagge e mare, e anzi normalizzando l’anomalia per la quale l’Unione Europea aveva più volte richiamato ed esortato vari governi italiani a intervenire.  Su quanto sta accadendo abbiamo intervistato alcuni attivisti e attiviste del comitato Mare libero, pulito e gratuito di Napoli.  *     *     * «Dal nostro punto di vista  la riforma rappresenta un attacco all’idea stessa di “beni comuni”; fa un grosso regalo alla lobby dei balneari che continueranno senza nuove gare a dettare legge sulle spiagge e a fare profitti, pagando cifre irrisorie per le concessioni. Nel rispetto della Costituzione, delle leggi e delle norme che regolano i beni demaniali, le spiagge e l’intera linea di costa non possono essere ridotte a semplici risorse da cui trarre profitto. Il codice civile per esempio ci dice che i beni demaniali sono beni a utilizzo collettivo, in quanto, per la loro naturale attitudine a soddisfare interessi pubblici, non possono che essere accessibili a tutti. «Questa legge mira a porre rimedio alle ben quindici procedure d’infrazione accumulate negli anni dall’Italia per essere stata inadempiente sulle direttive europee in merito di libera concorrenza, quindi non solo rispetto alle concessioni balneari. Nel concreto, si prosegue sulla linea della mercificazione di ciò che dovrebbe rimanere patrimonio naturale di tutti, e come se non bastasse la riforma non arriva dopo un confronto parlamentare, perché l’adozione di un voto di fiducia ha impedito ogni dibattito. Da un punto di vista tecnico, poi, è in contrasto con la giurisprudenza, come sancito dal Consiglio di Stato, che ha stabilito che tutti i rinnovi delle concessioni demaniali oltre il 2023 devono essere considerati nulli. «Il punto che più ci interessa è che con la proroga automatica non si discuterà del riequilibrio, previsto dalla legge Draghi, delle percentuali tra le spiagge libere e quelle in concessione, una percentuale che oggi è totalmente sbilanciata sulle seconde. È fuorviante focalizzare lo sguardo, l’attenzione e tutto il dibattito sul rinnovo o la messa a bando delle concessioni: il problema vero riguarda il diritto di accesso libero e gratuito al mare. Che mettano a bando o rinnovino le concessioni per noi è secondario rispetto alla necessità di garantire ciò che già da molti anni è normato in termini di legge: il diritto di accesso gratuito e libero, oltre che di fruizione, della battigia e del mare, anche in caso di un arenile dato in concessione (legge 296 del 2006, articolo 1, comma e254; legge 217 del 2011, articolo 11, comma 2; legge 118 del 2022, articolo 4, comma 2). La questione non è semplicemente di fare nuovi bandi per le concessioni, quanto piuttosto di cambiare l’impianto di questi bandi, affinché nel rispetto del libero accesso di tutti alle spiagge e al mare le concessioni siano esclusivamente di servizi e non, come accade illecitamente e tacitamente oggi, delle vere e proprie occupazioni di suolo. «La riforma non affronta in alcun modo il problema della scarsità e della vulnerabilità delle risorse marine, mettendo a rischio l’ecosistema costiero. L’errore più eclatante è che, ancora una volta, non sono stati coinvolti i legittimi proprietari delle spiagge, cioè i cittadini. Ciò che era ben chiaro agli antichi romani duemila e passa anni fa riguardo la res communes omnium oggi sfugge ai più, e si persevera nel trattare la natura come una merce da cui trarre profitto, Nella sua ratio la riforma svilisce il valore del mare e del libero accesso a esso, riducendolo a uno spazio turistico-ricreativo, equiparandolo a una merce da vendere, dimenticando tra l’altro che “il bene comune mare” svolge un ruolo fondamentale per la salute pubblica e per il benessere psicofisico dei cittadini, come dimostrato da innumerevoli studi e ricerche. «Per quanto concerne il contesto napoletano, la riforma porterà al consolidamento dell’inaccettabile situazione di negazione del diritto di accessoal mare. Va ricordato che a Napoli solo il cinque per cento della costa è liberamente accessibile, e per di più negli ultimi anni, in molti casi, solo attraverso una prenotazione. Grazie alle mobilitazioni la consapevolezza della situazione è aumentata, e con essa anche la rabbia per non poter liberamente e gratuitamente fare un bagno a mare, per questo siamo convinti che a partire dalla primavera ci siano gli estremi per una mobilitazione ancora più ampia, con azioni di protesta e sensibilizzazione per far comprendere la necessità di mantenere libere le nostre coste da qualunque tipo di privatizzazione, abusi e inquinamento. Da parte nostra continueremo a rivendicare il ripristino morfologico della linea di costa e a lottare per le bonifiche a Bagnoli e San Giovanni, oltre che oer il libero accesso alle spiagge a cui oggi si accede solo attraverso le proprietà private di Posillipo. «Un elemento su cui dobbiamo insistere è il fatto che il decreto  lascia comunque alle autorità locali la possibilità di fare nuovi bandi e rivedere i piani concessori anche prima del 2027. Per quanto ci riguarda eserciteremo tutta la pressione possibile affinché questo avvenga e perché il comune di Napoli si assuma finalmente e per intero questa responsabilità. Porteremo avanti la battaglia per superare la principale anomalia che riguarda la città, ovvero il fatto che la gestione della costa è ancora in capo all’Autorità Portuale piuttosto che al Comune: un passaggio già previsto da diversi accordi che doveva avvenire entro il 2022 e che non è avvenuto. Si tratta di un passaggio necessario, in quanto preliminare alla riscrittura della pianificazione sulla costa, al bilanciamento tra le percentuali di spiagge libere e in concessione, e all’elaborazione delle modalità con cui verranno scritti i bandi. Il Comune ha approvato nei mesi scorsi una Consulta sul mare aperta ai comitati e alle associazioni ma non l’ha ancora attivata: dovrà essere quello, e non un altro, il luogo per la riscrittura di un nuovo piano, che dovrà avere come priorità il libero e gratuito accesso di tutti al mare. Naturalmente, parallelamente all’azione politica diretta continueremo a esplorare tutte le possibili azioni legali contro la lobby delle spiagge, così come abbiamo fatto in questi anni. Attendiamo la primavera del 2025 per le sentenze contro il numero chiuso e la prenotazione on-line con divieto ai minori non accompagnati alla spiaggia delle Monache, di Donn’Anna e della Gaiola, imposti dal Comune. Nel frattempo, continueremo a sollecitare palazzo San Giacomo e l’Autorità Portuale per ripristinare l’accesso a Riva Fiorita e cercheremo di allargare il fronte organizzando una conferenza internazionale sul mare libero a Napoli». (intervista a cura di riccardo rosa)
November 19, 2024 / NapoliMONiTOR
Il diritto di restare: espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia. Un estratto dal libro di Stefano Portelli
(disegno di bambi kramer) Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia (Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.  A seguire ne pubblichiamo un estratto.  *     *     *  È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre 1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di movimenti per la casa e per i servizi. Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono – compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue. La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa. Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale, anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le istituzioni. Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato, minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera” inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un “residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle case da cui furono mandate via quindici anni fa. Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di altri a una continua peregrinazione intorno alla città. Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità” rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale. Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici, oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al displacement. Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati, come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli sgomberi, e che li ricordava così: «Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la sua organizzazione». Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […] Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire, Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti. Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa, Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze. Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti. Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una città diversa. Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum: l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”, nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati” dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo collettivo creato nel vecchio quartiere. «La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto della scavatrice di Pasolini, Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch’è spento dolore. In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e politica. Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex “baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti, che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati. All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni (2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere. Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti, sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e colpevole per natura. Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni, sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e culturali. Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata, prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo in gioco gli stessi corpi. Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun). Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte», dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita: come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in affitto. L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini: «Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa; l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali, smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia. Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi. Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere. Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato immutabile. Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
November 15, 2024 / NapoliMONiTOR
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April 2, 2024 / Radio Blackout 105.25FM