Quello che mostra Erasmus in Gaza, documentario d’apertura di Astradoc

NapoliMONiTOR - Wednesday, February 14, 2024
(disegno di escif)

Riccardo Corradini si è laureato in medicina a Siena, nel pieno della pandemia da Covid-19, con una tesi sulla chirurgia delle ferite da arma da fuoco. Ha maturato questa scelta sul campo del suo Erasmus nel 2019 a Gaza, un luogo in cui nessuno studente al mondo era entrato in questa veste prima di lui. La sua esperienza è oggetto del documentario Erasmus in Gaza di Chiara Avesani e Matteo Delbò (Spagna-Italia, 2021, 88 minuti, distribuito in Italia da Feltrinelli e a livello internazionale dalla francese Java Films), che venerdì 9 febbraio, a Napoli, ha aperto la rassegna “Astradoc. Viaggio nel cinema del reale” nella sala di via Mezzocannone. Il documentario è disponibile su alcune piattaforme di streaming ed è stato creato un indirizzo mail per l’organizzazione di visioni nelle scuole: erasmusgaza@gmail.com.

I due registi hanno seguito Riccardo dal principio alla fine dell’esperienza, da quando si è diffusa la notizia dell’accordo, senza precedenti, tra un’università europea (quella di Siena) e l’Università islamica di Gaza per un soggiorno Erasmus, con il patrocinio dell’Unione Europea, qui impegnata una volta tanto in un’azione di autentica diplomazia culturale. Per i due registi, d’altronde, non ci sarebbe stata alternativa al farsi “rinchiudere” per quattro mesi e mezzo con Riccardo dentro la Striscia, che è sotto embargo, e in cui è difficilissimo entrare quanto uscire. Quindi tutti ospiti delle stesse persone, spinti a intessere e stringere gli stessi legami.

Ma la narrazione (lo sguardo dei registi) resta sorprendentemente impersonale: i luoghi, gli ambienti, i dialoghi si producono sotto i nostri occhi con ammirevole effetto di spontaneità e intimità. Ci si dimentica che nello spazio, spesso un interno, vi siano altri (peraltro stranieri) insieme a Riccardo e alle persone con cui entra in relazione (i professori, i medici, i colleghi) e che diventeranno i suoi amici (in particolare Adam Jad, il giovane avvocato che lo ospita con la sua famiglia, e Sadi, suo collega all’università).

I primi tempi, prevedibilmente e comprensibilmente, sono per lui molto duri. È andato lì per capire se è tagliato per la medicina d’urgenza in luoghi attraversati da conflitti armati. La scena del suo arrivo nella Striscia è tra le poche in cui lo sguardo dei registi sospende la dissimulazione: quando il pullman si avvicina al valico settentrionale di Erez la macchina da presa corre con una vertigine lungo il muro chilometrico che rinchiude il territorio della Striscia. Nel camminamento pedonale che immette dal valico, lungo e ingabbiato da reticolo, Riccardo è solo ed esitante, mentre guarda all’esterno carretti trainati da animali e greggi condotte da pastori.

Ben accolto dai professori dell’Università islamica dove seguirà i suoi corsi come studente Erasmus, il primo giorno viene accompagnato in una visita guidata alle aule dell’ateneo. Gli vengono mostrate delle foto in una vetrina: i docenti gliene indicano alcune di tenore governativo, commemoranti la fondazione di Hamas. Riccardo ne addita un’altra in cui riconosce Arafat.

Passa davvero poco tempo prima che Riccardo sia messo in contatto diretto con i pazienti, feriti e mutilati (anche ragazzini). Si parla delle differenze di approccio allo studio della medicina tra Gaza e Italia: qui, commenta Riccardo, il primo contatto con i pazienti è davvero precoce, in Italia è rinviato a dopo la laurea. Ai genitori in videochiamata racconta sorpreso e commosso di cosa voglia dire essere accolti, come stranieri, in una terra che non solo non conosce l’industria moderna del turismo di massa, ma che vive prigioniera di un lembo di terra da cui non si può uscire e in cui è difficile che uno straniero entri anche solo per lavoro. Nei pasti consumati in compagnia, nelle chiacchiere in riva al mare o sul terrazzo di casa di Adam, da cui si abbraccia con lo sguardo la Striscia fino ai suoi confini, i suoi nuovi amici sono capaci di ricostruire intorno a lui la comfort zone (si esprimono proprio così, in un territorio come Gaza) che sentiva di aver lasciato a Siena.

Un giorno, mentre è in reparto, parlando con il collega e amico Sadi viene fuori la questione delle ragazze, la domanda sul perché mai non si possa lavorare fianco a fianco con le colleghe, a cui è destinato un altro settore dell’università. Riccardo teme di aver potuto turbare l’amico con questo discorso ma in momento successivo, all’esterno, è proprio Sadi a rassicurarlo, in una scena molto bella in cui sono ripresi entrambi di spalle. Le differenze dei mondi sono note, dice Sadi, metterle a tema creerebbe un inutile muro che invece il reciproco rispetto annulla totalmente.

Ma infine Riccardo ha l’occasione di conoscere anche una ragazza: Jumana. Grazie alla sua mediazione è introdotto nella sala operatoria di un ospedale del nord della Striscia dove ogni venerdì giungono le ambulanze con i feriti della “Marcia per il ritorno”, una manifestazione che appunto ogni venerdì, da un anno (siamo nel 2019), rivendica il diritto per i palestinesi di ritornare alle case che gli avi hanno dovuto abbandonare con la Nakba del 1948 (Riccardo si era proposto come osservatore, ma immediatamente viene coinvolto in giornate interminabili di interventi chirurgici).

Dall’anno precedente (il 2018, settantesimo anniversario della Nakba, l’esodo forzato indotto dalle forze sioniste ancor prima della dichiarazione di indipendenza di Israele), ogni venerdì, migliaia di giovani disarmati si ammassano alla barriera di filo spinato che segna la frontiera della Striscia e rispondono ai proiettili e ai lacrimogeni lanciati dai droni israeliani scagliando pietre contro i cecchini appostati oltre i reticolati. Un’intera generazione gambizzata, con tiri di precisione alle caviglie e alle ginocchia, che tuttavia spesso uccidono. C’è una scena in cui Jumana parla di tutto questo, dell’impossibilità per gli abitanti di Gaza di accettare una situazione che va avanti da settant’anni (siamo nel 2019). L’unica “fede” di cui parla Jumana è quella nei diritti dei palestinesi.

La voce di Chiara Avesani si sente in un’unica occasione, durante un bombardamento (il 2019 è un periodo di “pace” per Gaza, il che vuol dire che la città è sottoposta a razionamento di acqua ed energia elettrica e viene bombardata regolarmente per qualche giorno circa una volta ogni mese e mezzo, in risposta ai lanci di razzi di Hamas; alla prima Riccardo è stato invitato dalle autorità a lasciare la Striscia e si è spostato temporaneamente a Betlemme, in Cisgiordania): quando fuggono nel seminterrato per proteggersi dal bombardamento imminente, uno dei ragazzi le chiede se ha lasciato volutamente la telecamera sul bordo della finestra, e lei risponde di sì. Così possiamo vedere in diretta il momento in cui, a non più di un isolato, un edificio viene centrato in pieno, e collassa su sé stesso.

La foto di gruppo con cui al termine dei suoi quattro mesi di Erasmus Riccardo si congeda dai giovani di Gaza è in un campetto, dopo una partita di calcetto che ha coinvolto due squadre improvvisate miste di ragazzi e ragazze. La sequenza successiva lo riprende di nuovo a casa, in Italia, durante la proclamazione della laurea, in videochiamata per le misure di contrasto alla pandemia. I titoli di coda sono accompagnati dalla voce fuori campo di Riccardo che recita il giuramento di Ippocrate, con enfasi finale sul comma che parla dell’uguaglianza universale del diritto alle cure.

Dai titoli apprendiamo cosa ne è stato dal 2019 al 2021 (nei due anni che sono occorsi per il montaggio) delle persone che abbiamo conosciuto in video: dopo la laurea Sadi è impegnato all’università come assistente; Jumana lavora ancora come fixer (mediatrice, facilitatrice) per la stampa estera; ad Adam, che pure aveva ottenuto il visto per l’Italia, il governo israeliano ha negato l’uscita. All’altezza della confezione definitiva del film sono tutti vivi, ma gran parte dei luoghi ripresi sono stati distrutti dai bombardamenti israeliani del 2021. A cui sono seguiti i pesanti bombardamenti nell’agosto 2022, a cui stanno seguendo dallo scorso ottobre i bombardamenti sistematici, poi l’invasione di terra, quindi le demolizioni controllate. Più di ventisettemila morti a oggi, più di un milione e trecentomila sfollati ammassati ora a Rafah, nel sud della Striscia, la città che prima era stata additata da Israele come rifugio per i civili e ora è presa di mira dai recenti piani del gabinetto di guerra.

Uno degli aspetti straordinari di questo documentario è il suo essere insieme il racconto di un Erasmus così come potrebbe svolgersi in qualunque altro paese europeo (per l’aspetto di scoperta, amicizia, nuova intimità, scherzo, leggerezza e insieme maturazione personale) e il racconto della vita in uno sterminato campo di prigionia con le risorse razionate e sotto il tiro perenne dell’aviazione di una potenza occupante. La sua forza sta nel raccogliere la testimonianza di vite in relazione, di mostrare una città nella sua costruzione materiale, nei suoi luoghi di lavoro, di scambio, di commercio, di svago, e soprattutto di cura e assistenza sanitaria. Tutto ciò che la potenza militare del più forte esercito del vicino Oriente intende distruggere, disperdere e cancellare per sempre. (antonio del castello)