(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione
della rassegna A fuoco!.
Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di
Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore
all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).
A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.
* * *
Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain
George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la
loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i
manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli
stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini,
che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva
inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco
lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e
il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione.
Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della
camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone
in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste
inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di
un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo
piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare
un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia
Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure
(2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In
francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che
esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un
rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia.
Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti.
Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza
lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in
amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti
lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla
questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare
la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il
cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora
intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso,
però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa,
ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza
l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio,
soprattutto dal giudizio morale.
Distruggere le tracce, dunque. In Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel
fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve
cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così
si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie
d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo
disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della
interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e
laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in Paris est une fête o
dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il
confine. È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della
terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore.
Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra
frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers
Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli
Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è
condannato a non avere documenti. In Paris est une fête, infine, gli scontri
urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile,
un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede
l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a
sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento
urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano
l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in
abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di
nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un
potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene.
Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza;
certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce
che balugina. (francesco migliaccio)
Tag - cinema
(archivio disegni napolimonitor)
Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe
Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e
sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori
portuali.
* * *
Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi
della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova
sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle
multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa
forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.
I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che
compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in
time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel
documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori
del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano
iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.
Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In
prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno
sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in
uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile
uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per
esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali
che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un
collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto
evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra
organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti.
Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di
mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione
subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita
per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.
La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi
del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la
tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui
avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base
Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia
sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta
senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in
diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie
del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei
confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento
ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come
afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.
Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp.
Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti
anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono
orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità.
Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di
questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime
scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo
– mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali
connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di
lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia
sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura
fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali
artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con
lo stato, né con le Br”.
A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione
di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali
genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto
piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena
conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno
parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che
una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di
lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un
trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è
troppo grande la contraddizione…”.
Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna
allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con
la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti
avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo
conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil
del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a
tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è
un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa
idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione
all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale,
sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche
grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a
stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità
con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri
vecchi”.
I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di
Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in
autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei
loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali
protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi
rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri
lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il
problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e
all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e
minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era
proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più
generale di burocratizzazione sindacale.
Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui
discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il
decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione
collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che
rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare,
ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.
Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi
lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei
loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso
frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo
cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli
anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.
Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di
lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce
un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato
più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni,
perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo
sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà
di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp
aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico,
contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico
desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea
bottalico)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
I film in proiezione quest’anno mostrano rivolte, rivoluzioni e improvvise
svolte nella storia. Tutti e tre palesano un’inquietudine. Nelle vie di Parigi
le manifestazioni contro la Loi Travail incontrano gli incubi notturni di una
città violenta ed escludente; la rivoluzione in Iran si apre al rimpianto per le
occasioni perdute; nella sollevazione contro Ceaușescu in Romania si
intravvedono strategie e interessi di vecchie e nuove classi dirigenti. Questa
inquietudine emerge grazie all’elaborazione e alla manipolazione dell’immagine,
in un movimento contrario al flusso della società dello spettacolo. La lotta
contro lo spettacolo, in sé rivoluzionaria, può allora essere un tentativo di
risvegliare il contenuto sopito e addomesticato del passato.
26 marzo
Ore 15:30, Accademia delle Belle Arti (largo Nanni Loy)
Masterclass di Sylvain George
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Paris est une fête. Un film en 18 vagues
di Sylvain George
(Francia, B/N, 95’, 2017 | V.O. Sott. ITA)
Parigi città notturna, violenta e insensibile. Fra le luci di un capitalismo che
promette un benessere inarrivabile s’aggirano esistenze sopravviventi in un
incubo urbano. È il 2016 e la rabbia esplode in strada contro la loi Travail.
Place de la République è occupata dai manifestanti.
Al termine della proiezione seguirà incontro con il regista.
9 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Between Revolutions
di Vlad Petri
(Iran, Qatar, Colore, B/N, 68′, 2023 | V.O. Sott. ITA)
Lo scambio epistolare tra due donne mette in parallelo due rivoluzioni chiave
del Novecento, quella iraniana del ‘79 e quella rumena di dieci anni dopo. La
parabola – apparentemente inevitabile – sembra identica: si parte dai grandi
ideali e si finisce con un semplice cambio di potere.
Al termine della proiezione seguirà discussione da remoto con il regista.
23 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Videograms of a Revolution
di Harun Farocki e Andrei Ujică
(Germania, Romania, Colore, 106′, 1992 | V.O. Sott. ITA)
Dando corpo a una nuova forma di storiografia, basata interamente sui media,
questo film mostra la rivoluzione rumena del dicembre 1989. A Bucarest i
dimostranti occupano gli edifici della TV di Stato e trasmettono in diretta le
loro dichiarazioni, trasformando lo studio televisivo in un luogo di
manipolazione degli eventi storici.
(bestiari, erbari, lapidari)
Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima
Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito
di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in
tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante,
le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via
Mezzocannone.
Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi
alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per
scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte
essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una
intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul
Manifesto.
* * *
La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo
indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che
documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una
spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari,
Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla
Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film
saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla
ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della
realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro
film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e
che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare
come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in
tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto
attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una
conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante
tensione artistica comune.
Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una
prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua
presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a
questa riflessione?
Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che
gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una
del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da
filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo
vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha
detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro
lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto
che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più
importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come
spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le
avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche
se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle
pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il
nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si
studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche
fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le
pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per
le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più
metaforica come è quella della memoria.
Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola.
Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il
titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche
in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro
progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a
un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era
costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La
Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone
l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano
potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle
persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e
rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe
mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche
semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più
narrativo.
Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e
il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura
fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le
sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che
tipo di lavoro fate sulla scrittura?
Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della
pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo
drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno
della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo
scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel
quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si
allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene –
sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei
compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo
scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è
quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura
scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei
finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella
fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo
giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito
quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli
Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno
attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come
l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala
sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La
chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le
piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un
aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica,
dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando
nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un
paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo.
Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare
persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche
nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma
la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani
che sfogliano libri, scorrono pellicole…
Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno
della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in
questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai
un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa
eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca
svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e
Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove
abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli
altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i
compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve
essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian,
e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che
appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati
fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e
per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel
finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini,
è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli
diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere
nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai
sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli
un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello
sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in
questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di
questo mestiere.
(disegno di manincuore)
“Nel matrimonio ogni desiderio è una decisione”
Susan Sontag, Diari
Vittoria, al cinema questa settimana, è un film interessante sotto diversi punti
di vista. Anzitutto, la scelta dei due registi Alessandro Cassigoli e Casey
Kauffman, che per la terza volta utilizzano la provincia di Napoli (Torre
Annunziata) e le sue persone come materia viva del film, chiudendo
dopo Butterfly (2018) e Californie (2021) una inusuale trilogia, di genere
spurio (documentario, docufiction e fiction) legata da frammenti, personaggi
secondari o ambienti. Nella proliferazione di opere di cui si farebbe a meno che
hanno luogo a Napoli città, un buon segnale.
In Vittoria si assiste al desiderio di Jasmine, donna sulla quarantina, di
adottare, dopo la morte del padre, una figlia, poiché riceve dal defunto chiari
messaggi in sogno. La famiglia (un marito, Rino, e tre figli maschi, di cui uno
adulto e pronto a emigrare) è sbigottita prima ancora che contraria a questo
desiderio manifestamente irrazionale. Crisi, ansie e discussioni da ciò, con
Jasmine, madre, al centro del film.
Da una prospettiva critica, morale e politica il film risulta complesso perché
rischia moltissimo – sembra quasi peccare di ingenuità ideologica –, trattando
un tema di per sé scottante come quello delle adozioni estere. A ciò si
aggiungono ulteriori criticità: che l’adozione è come sottoposta a una specie di
vincolo, e cioè che l’adottata deve essere una femmina e non un maschio. Il
desiderio è preciso, la domanda se questo sia giusto oppure no quanto meno
lecita. Jasmine, soprattutto all’inizio, non ci pensa proprio ad adottare un
bambino. Sembra persino disposta a corrompere qualche burocrate pur di ottenere
una femmina. Questo è un pungolo politico. Siamo troppo spesso imbevuti di
cinema dalle buone intenzioni, lavori didascalici che svuotano la psicologia e
la moralità delle classi lavoratrici. Jasmine ci riporta un interrogativo etico,
una domanda assoluta sulla giustizia e sulla bontà, sulla ragione e sul
desiderio, sull’amore e sul dolore. Lo fa da una posizione proletaria, lei che
gestisce un salone di bellezza in una delle zone più evocative e difficili di
Torre, via Plinio. C’è questo centro commerciale gigantesco (Maximall) che deve
essere costruito, con “la discoteca più grande del mondo, anzi no, d’Europa” si
dice in una delle scene più riuscite del film, con una conversazione comica e
tragica insieme (il Maximall avrà senza dubbio al suo interno un salone di
bellezza che darà concorrenza al piccolo salone di Jasmine…) dove sentiamo la
lezione del cinema verità.
Emerge un altro rischio, quello sociale, quello di fare cioè di questa famiglia
torrese una specie di perfetto microcosmo di umiltà e amore, dove il senso della
famiglia è fortissimo ed esatto, dove “nonostante le difficoltà” si va avanti.
Jasmine ha perso il padre di cancro, che – accertato legalmente – è stato
provocato dall’amianto all’Ilva di Bagnoli. Tutto è politica, ma se fosse stato
questo il tema del film, Vittoria sarebbe un film mancato. L’aspetto
interessante, contraddittorio e a volte fastidioso è il volontarismo di una
madre che desidera – semplicemente desidera, e decide –, e per questo non
parlerei né di documentario, nonostante la storia sia vera e gli attori del film
siano gli stessi protagonisti della storia reale, peraltro in performance
eccellenti.
Film psicologico e psicanalitico al di là delle intenzioni di tutti, produttori
compresi (Lorenzo Cioffi, Giorgio Giampà e Nanni Moretti), stilisticamente
moderno con un montaggio velocissimo e una camera a mano agitata e inquieta come
i moti interiori dei protagonisti, reiterati nell’inquadratura coi visi, i
busti, gli scatti improvvisi; esiste un amore che al cinema si riverbera in
queste cose, un amore che emerge in Vittoria, film popolare per tutti e tutte,
privo di tesi e capace di scansare le buone intenzioni, che come insegnava
Wilde, rendono per lo più cattive le opere.
In questi giorni al cinema Filangieri, al cinema Vittoria, al cinema The Space e
in altre sale campane e italiane. (salvatore iervolino)
BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA - 0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’
Centro Studi Sereno Regis - Via Giuseppe Garibaldi, 13, 10122 Torino TO,
(venerdì, 27 settembre 20:00)
BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA
0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’
PROIEZIONE DEL FILM E PRESENTAZIONE DEL LIBRO
INTERVENGONO
CLAUDIO SABANI
LUIGI BONTEMPI
CLAUDIO PAPALIA
VALTER VISMARA
SU CINEMA E RIVOLTA, EDITORIA E PRODUZIONE INDIPENDENTE, SCUOLA E ALTERNATIVE
POSSIBILI... A PARTIRE DAL FILM DEL GRANDE CINEASTA FRANCESE.
LA SCUOLA PER VIGO È NON SOLO LA RAPPRESENTAZIONE DELLO SCONTRO TRA FORZE
SOCIALI CONTRAPPOSTE MA PIÙ SEMPLICEMENTE, RAPPRESENTAZIONE DI UNA RIVOLTA
UNIVERSALE CHE NON SI PONE IL FINE O I LIMITI DELLA CREAZIONE DI UN “ORDINE
SOCIALE IDEALE”, MA SOLO QUELLO DELLA LIBERAZIONE.
DAL RIFIUTO DELL’ORDINAMENTO DEI PRINCIPI DI COERCIZIONE NASCE LA SCHEGGIA
IMPAZZITA DELLA RIBELLIONE, L’INCOGNITA DEL DISORDINE SOCIETARIO, UN VENTO LARGO
CHE PUÒ SPAZZARE VIA TUTTO E IN OGNI DIREZIONE.
CINEFORUM E DIBATTITO: CIAK. RESISTENZA
Aula Occupata Shireen Abu Akleh - Corso Duca degli Abruzzi, 24
(giovedì, 25 luglio 18:00)
Cineforum con proiezione di "FEDAYIN": LA LOTTA DI GEORGES ABDALLAH" nell'aula
occupata "Shireen Abu Akleh" al Politecnico di Torino. Questo film ripercorre il
percorso di Georges Abdallah, dai campi profughi palestinesi alle mobilitazioni
internazionali per il suo rilascio. Questo potente film esplora la situazione di
uno dei prigionieri politici da più tempo detenuti in Europa.
Una retrospettiva integrale del cinema di Béla Tarr si terrà a Napoli dal 17
maggio al 2 giugno, in diverse sale e quartieri della città. Contemporaneamente
il regista ungherese terrà un workshop gratuito per giovani filmmaker [...]
IL CINEMA DI BLACKOUT - TRIPLETTA DI FILM DI RON FRICKE
Radio Blackout 105.250 - Via Cecchi 21/a, Torino
(domenica, 21 aprile 16:00)
Il Cinema Di Blackout presenta:
tripletta di film di Ron Fricke
Ron Fricke è uno dei nomi più importanti per quanto riguarda la cinematografia.
Il suo lavoro come direttore della fotografia e come regista è stato
rivoluzionario e ha segnato un punto di non ritorno sia a livello tecnico che
filosofico. Le sue opere non-verbali e non-narrative analizzano il rapporto tra
l'umanità e l'altro, tra i viventi e l'oltre, ma sono ottimi pure per farsi i
viaggioni.
Orari dei Trip:
ore 17:00 Chronos (1985, 42') un film astratto sulla relazione con il tempo
ore 18:00 Baraka (1992, 97') un film sulla vita, su come ogni creatura sfrutta
questa benedizione che è essere vivente
ore 20:00 Samsara (2011, 102') la naturale evoluzione di Baraka in cui viene
analizzato il rapporto che intercorre tra l'umanità e l'eternità
VIENI A SOSTENERE LE LIBERE FREQUENZE!
A FUOCO! Decifrare un conflitto è una rassegna cinematografica organizzata da
Napoli Monitor con la collaborazione dell'università L'Orientale. Nasce dal
bisogno di fare luce e riflettere, attraverso la lente del cinema documentario
di recente produzione [...]