(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima
proiezione della rassegna A fuoco!
Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e
Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco
Migliaccio.
* * *
Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video
realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del
regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato,
vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli
sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono
nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale
televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi
poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma
eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo
spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che
ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di
essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo
protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo
schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del
dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della
televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra
l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di
combattenti fedeli a Ceaușescu.
Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest.
Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza
per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il
passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il
cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in
posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce
dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito
è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il
paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori,
trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al
buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima
ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in
diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno
conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione
statale: una nuova, spettacolare Bastiglia.
Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta
ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla
camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione
dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una
sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto
ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima
volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i
termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le
persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del
discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per
quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i
punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non
esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori
dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive.
Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno
per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa,
seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La
voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […]
aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso
all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava
destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e
mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in
treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza
accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo.
Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la
Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso
dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a
distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza.
Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti
luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi
delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse,
la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco
migliaccio)
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(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani, mercoledì 9 aprile (ore 20:30 a Galleria Toledo), riprende la terza
edizione della rassegna A fuoco!. Il secondo film in proiezione sarà Between
Revolution (2023), di Vlad Petri. Alla proiezione seguirà un incontro in remoto
con il regista.
Pubblichiamo per introdurre il film un testo a cura di Maria Rosa.
* * *
Due studentesse di medicina si incontrano a Bucarest. Sono gli anni Settanta e
molti giovani dal Medio Oriente si recano nei paesi del blocco sovietico per
ragioni di studio. Zahra è iraniana, Maria, invece, romena. Quando Zahra torna
in Iran alla vigilia della rivoluzione, la loro amicizia si trasforma in un
rapporto epistolare che si innesta nelle immagini della grande storia. Una
storia divisa in due. Una storia ciclica. Due rivoluzioni nel giro di dieci
anni: Iran 1979, Romania 1989. Between Revolutions (2023) di Vlad Petri è uno
pseudo-documentario, creato da immagini d’archivio della Romania e dell’Iran a
cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Assieme storia di
due rivoluzioni, raccontate da due voci femminili all’unisono, e di una amicizia
confiscata dalla storia. L’amicizia tra due donne di finzione i cui sentimenti
sono ispirati da documenti che Petri ritrova tra quelli della polizia segreta
romena.
Lo spazio del film è architettato attraverso un collage di immagini sul quale
combaciano tempi diversi, e sovrapposti. Tempi, prima di tutto, emotivi. A
guidare è la voce delle due amiche. Quando Maria è ancora in una Romania in
bianco e nero, e solo a tratti rossa, scrive in solitudine: «La notte è come
sangue che fuoriesce dalla mia bocca. Un tempo eravamo una. Un tempo eravamo
una». Zahra si muove per le strade di un Iran a colori. Un Iran celeste e
arioso, che canta: «O tu che porti luce nella mia alba, senza di te sono un
deserto senza notte. O tu che colori la mia sofferenza di speranza, senza di te
sono prigioniero della mia trappola». Zahra ha lasciato la Romania, si è divisa
da Maria, per unirsi alla massa di persone e di cori che invadono le strade di
Teheran: «Uniti sconfiggeremo lo Shah, uniti sconfiggeremo l’imperialismo»,
«lavoratori, contadini e oppressi si uniranno per sconfiggere l’oppressione». La
rivoluzione irrompe nella storia del paese. «È una forza della natura» dice
Zahra. E Maria sente in Zahra l’energia dell’ideale, ma l’ideale in Iran si
dissolve presto. Fatta la rivoluzione le masse e le voci si frammentano. La
guerra con l’Iraq che dura fino al 1989, infine, spazza via tutto. Gli ideali di
speranza e cambiamento si incrociano con i moti della storia per poco tempo. Poi
si spezzano e si dividono, come l’amicizia tra Zahra e Maria.
Il tempo mobile delle possibilità e dell’apertura al futuro si trasforma in
tempo statico di disillusione e costrizione. Le storie si riallineano. In
Romania si soffoca. Il controllo sembra essersi inasprito e la polizia segreta
informa il padre di Maria della corrispondenza della figlia. Uomini in nero si
infiltrano nella loro vite, ne controllano i destini, in Romania come in Iran:
«Ovunque bisogna obbedire alle regole, fare come dicono loro». Mentre i corpi si
vestono del sistema, si muovono per il sistema. Respirano per il sistema. Il
sentimento è quello di essere in una trappola che aderisce così bene al proprio
corpo femminile tanto da farne parte. La propaganda romena parla di un felice
«destino biologico». Eppure, il vissuto è mortale: «Ho costruito mattone dopo
mattone, fino alle mie caviglie, fino al mio busto, fino al mio petto. Il mio
corpo diviene duplice dentro il muro. Il mio sangue fluisce nei mattoni dai miei
palmi, e rifluisce indietro bruciandomi nelle tempie. I miei capelli hanno un
inebriante odore di morte. I miei mattoni sono vicini come lame d’erba. Anelo
alla suprema intimità di quando il muro, stranamente, inizierà a bruciare come
me». E infine la Romania brucerà. La rivoluzione si manifesta di nuovo come
forza della natura. Le strade vengono invase e intasate. Le masse scorrono come
sangue nelle arterie della capitale. Terremoto della storia. Ancora una volta le
immagini d’archivio restituiscono l’impeto travolgente dei tempi. Un déjà-vu`.
Un nuovo tempo che avanza. Un nuovo tradimento. Questa volta la vittoria è
confiscata dalla miseria. Crolla il socialismo, avanza il capitalismo. Ora la
vita sta dietro le vetrine tirate a lucido. È irraggiungibile. Si può solo
ammirare al freddo di una nuova paura.
Brucia la bandiera americana per le strade di Teheran. Sventola per le strade di
Bucarest. Negativo e positivo della stessa immagine. Ciò che resta e accompagna
la storia, Maria, Zahra e lo spettatore è un sentimento di profonda nostalgia.
La nostalgia di un futuro che deve ancora avvenire, che richiede di tornare al
punto di partenza, al bianco e nero, per riaprire il ventaglio delle
possibilità`. «Vorrei ricominciare tutto daccapo», scrive Maria a Zahra.
«Torniamo a essere una, lottiamo assieme, come il tempo in cui stavi al mio
fianco».
LIBERAZIONI 2025
Casa del quartiere Donatello - Via Rostagni 23L , Cuneo (CN)
(domenica, 27 aprile 12:00)
Cuneo, Casa del Quartiere Donatello - via Rostagni 23/L, dalle ore 12
Pranzo di raccolta fondi per le/gli antifascist* che affrontano la repressione!
Interventi e materiali informativi.
Pomeriggio: Proiezione del corto “L’orecchio ferito del piccolo comandante”,
intervento del regista Daniele Gaglianone.
LIBERAZIONI 2025
Per un 25 aprile popolare e ribelle, lontano dalla retorica istituzionale,
vicino a chi lotta oggi.
A 80 anni esatti dall’insurrezione di quel 25 aprile che avrebbe dovuto liberare
tutti, definitivamente, dal fascismo, le istituzioni si apprestano a celebrare i
loro riti da sempre vuoti di significato e oggi più che mai intrisi di
propaganda patriottica.
Le destre accelerano con il revisionismo storico e le sinistre arrancano intorno
ad un antifascismo opportunista e di maniera, entrambi gli schieramenti
bene/dicono l'economia bellicista dimenticando i bisogni reali della gente.
Discorsi di circostanza sulla pace e la democrazia si sprecano mentre venti di
guerra e di morte agitano bandierine e nastri tricolori sulle lapidi polverose
dei partigiani caduti.
Chi aveva vent’anni e combatteva, armi in pugno, il nemico fascista, ormai non
c’è più per raccontare e la memoria di quei giorni liberi ed esaltanti non può
essere solo un bel mazzo di fiori o una canzone, la solita canzone, ben
intonata.
La memoria vive nelle lotte del presente, ogni giorno, contro il fascismo che
non se ne è mai andato abbastanza, che si aggiorna, che si rifà il trucco, che
ammorba la società e la trascina in un vortice di guerra, devastazione,
ignoranza, razzismo e sfruttamento.
Oggi più che mai bisogna essere partigiani, scegliere da che parte stare, senza
esitazione né paura.
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione
della rassegna A fuoco!.
Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di
Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore
all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).
A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.
* * *
Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain
George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la
loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i
manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli
stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini,
che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva
inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco
lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e
il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione.
Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della
camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone
in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste
inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di
un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo
piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare
un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia
Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure
(2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In
francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che
esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un
rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia.
Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti.
Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza
lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in
amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti
lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla
questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare
la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il
cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora
intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso,
però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa,
ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza
l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio,
soprattutto dal giudizio morale.
Distruggere le tracce, dunque. In Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel
fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve
cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così
si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie
d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo
disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della
interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e
laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in Paris est une fête o
dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il
confine. È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della
terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore.
Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra
frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers
Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli
Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è
condannato a non avere documenti. In Paris est une fête, infine, gli scontri
urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile,
un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede
l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a
sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento
urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano
l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in
abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di
nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un
potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene.
Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza;
certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce
che balugina. (francesco migliaccio)
(archivio disegni napolimonitor)
Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe
Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e
sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori
portuali.
* * *
Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi
della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova
sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle
multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa
forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.
I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che
compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in
time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel
documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori
del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano
iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.
Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In
prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno
sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in
uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile
uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per
esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali
che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un
collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto
evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra
organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti.
Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di
mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione
subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita
per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.
La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi
del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la
tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui
avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base
Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia
sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta
senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in
diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie
del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei
confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento
ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come
afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.
Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp.
Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti
anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono
orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità.
Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di
questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime
scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo
– mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali
connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di
lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia
sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura
fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali
artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con
lo stato, né con le Br”.
A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione
di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali
genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto
piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena
conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno
parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che
una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di
lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un
trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è
troppo grande la contraddizione…”.
Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna
allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con
la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti
avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo
conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil
del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a
tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è
un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa
idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione
all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale,
sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche
grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a
stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità
con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri
vecchi”.
I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di
Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in
autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei
loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali
protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi
rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri
lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il
problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e
all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e
minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era
proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più
generale di burocratizzazione sindacale.
Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui
discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il
decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione
collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che
rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare,
ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.
Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi
lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei
loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso
frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo
cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli
anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.
Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di
lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce
un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato
più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni,
perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo
sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà
di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp
aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico,
contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico
desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea
bottalico)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
I film in proiezione quest’anno mostrano rivolte, rivoluzioni e improvvise
svolte nella storia. Tutti e tre palesano un’inquietudine. Nelle vie di Parigi
le manifestazioni contro la Loi Travail incontrano gli incubi notturni di una
città violenta ed escludente; la rivoluzione in Iran si apre al rimpianto per le
occasioni perdute; nella sollevazione contro Ceaușescu in Romania si
intravvedono strategie e interessi di vecchie e nuove classi dirigenti. Questa
inquietudine emerge grazie all’elaborazione e alla manipolazione dell’immagine,
in un movimento contrario al flusso della società dello spettacolo. La lotta
contro lo spettacolo, in sé rivoluzionaria, può allora essere un tentativo di
risvegliare il contenuto sopito e addomesticato del passato.
26 marzo
Ore 15:30, Accademia delle Belle Arti (largo Nanni Loy)
Masterclass di Sylvain George
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Paris est une fête. Un film en 18 vagues
di Sylvain George
(Francia, B/N, 95’, 2017 | V.O. Sott. ITA)
Parigi città notturna, violenta e insensibile. Fra le luci di un capitalismo che
promette un benessere inarrivabile s’aggirano esistenze sopravviventi in un
incubo urbano. È il 2016 e la rabbia esplode in strada contro la loi Travail.
Place de la République è occupata dai manifestanti.
Al termine della proiezione seguirà incontro con il regista.
9 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Between Revolutions
di Vlad Petri
(Iran, Qatar, Colore, B/N, 68′, 2023 | V.O. Sott. ITA)
Lo scambio epistolare tra due donne mette in parallelo due rivoluzioni chiave
del Novecento, quella iraniana del ‘79 e quella rumena di dieci anni dopo. La
parabola – apparentemente inevitabile – sembra identica: si parte dai grandi
ideali e si finisce con un semplice cambio di potere.
Al termine della proiezione seguirà discussione da remoto con il regista.
23 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Videograms of a Revolution
di Harun Farocki e Andrei Ujică
(Germania, Romania, Colore, 106′, 1992 | V.O. Sott. ITA)
Dando corpo a una nuova forma di storiografia, basata interamente sui media,
questo film mostra la rivoluzione rumena del dicembre 1989. A Bucarest i
dimostranti occupano gli edifici della TV di Stato e trasmettono in diretta le
loro dichiarazioni, trasformando lo studio televisivo in un luogo di
manipolazione degli eventi storici.
(bestiari, erbari, lapidari)
Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima
Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito
di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in
tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante,
le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via
Mezzocannone.
Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi
alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per
scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte
essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una
intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul
Manifesto.
* * *
La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo
indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che
documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una
spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari,
Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla
Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film
saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla
ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della
realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro
film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e
che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare
come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in
tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto
attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una
conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante
tensione artistica comune.
Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una
prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua
presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a
questa riflessione?
Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che
gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una
del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da
filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo
vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha
detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro
lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto
che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più
importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come
spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le
avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche
se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle
pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il
nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si
studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche
fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le
pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per
le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più
metaforica come è quella della memoria.
Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola.
Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il
titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche
in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro
progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a
un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era
costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La
Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone
l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano
potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle
persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e
rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe
mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche
semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più
narrativo.
Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e
il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura
fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le
sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che
tipo di lavoro fate sulla scrittura?
Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della
pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo
drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno
della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo
scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel
quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si
allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene –
sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei
compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo
scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è
quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura
scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei
finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella
fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo
giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito
quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli
Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno
attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come
l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala
sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La
chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le
piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un
aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica,
dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando
nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un
paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo.
Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare
persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche
nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma
la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani
che sfogliano libri, scorrono pellicole…
Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno
della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in
questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai
un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa
eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca
svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e
Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove
abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli
altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i
compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve
essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian,
e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che
appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati
fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e
per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel
finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini,
è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli
diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere
nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai
sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli
un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello
sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in
questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di
questo mestiere.
(disegno di manincuore)
“Nel matrimonio ogni desiderio è una decisione”
Susan Sontag, Diari
Vittoria, al cinema questa settimana, è un film interessante sotto diversi punti
di vista. Anzitutto, la scelta dei due registi Alessandro Cassigoli e Casey
Kauffman, che per la terza volta utilizzano la provincia di Napoli (Torre
Annunziata) e le sue persone come materia viva del film, chiudendo
dopo Butterfly (2018) e Californie (2021) una inusuale trilogia, di genere
spurio (documentario, docufiction e fiction) legata da frammenti, personaggi
secondari o ambienti. Nella proliferazione di opere di cui si farebbe a meno che
hanno luogo a Napoli città, un buon segnale.
In Vittoria si assiste al desiderio di Jasmine, donna sulla quarantina, di
adottare, dopo la morte del padre, una figlia, poiché riceve dal defunto chiari
messaggi in sogno. La famiglia (un marito, Rino, e tre figli maschi, di cui uno
adulto e pronto a emigrare) è sbigottita prima ancora che contraria a questo
desiderio manifestamente irrazionale. Crisi, ansie e discussioni da ciò, con
Jasmine, madre, al centro del film.
Da una prospettiva critica, morale e politica il film risulta complesso perché
rischia moltissimo – sembra quasi peccare di ingenuità ideologica –, trattando
un tema di per sé scottante come quello delle adozioni estere. A ciò si
aggiungono ulteriori criticità: che l’adozione è come sottoposta a una specie di
vincolo, e cioè che l’adottata deve essere una femmina e non un maschio. Il
desiderio è preciso, la domanda se questo sia giusto oppure no quanto meno
lecita. Jasmine, soprattutto all’inizio, non ci pensa proprio ad adottare un
bambino. Sembra persino disposta a corrompere qualche burocrate pur di ottenere
una femmina. Questo è un pungolo politico. Siamo troppo spesso imbevuti di
cinema dalle buone intenzioni, lavori didascalici che svuotano la psicologia e
la moralità delle classi lavoratrici. Jasmine ci riporta un interrogativo etico,
una domanda assoluta sulla giustizia e sulla bontà, sulla ragione e sul
desiderio, sull’amore e sul dolore. Lo fa da una posizione proletaria, lei che
gestisce un salone di bellezza in una delle zone più evocative e difficili di
Torre, via Plinio. C’è questo centro commerciale gigantesco (Maximall) che deve
essere costruito, con “la discoteca più grande del mondo, anzi no, d’Europa” si
dice in una delle scene più riuscite del film, con una conversazione comica e
tragica insieme (il Maximall avrà senza dubbio al suo interno un salone di
bellezza che darà concorrenza al piccolo salone di Jasmine…) dove sentiamo la
lezione del cinema verità.
Emerge un altro rischio, quello sociale, quello di fare cioè di questa famiglia
torrese una specie di perfetto microcosmo di umiltà e amore, dove il senso della
famiglia è fortissimo ed esatto, dove “nonostante le difficoltà” si va avanti.
Jasmine ha perso il padre di cancro, che – accertato legalmente – è stato
provocato dall’amianto all’Ilva di Bagnoli. Tutto è politica, ma se fosse stato
questo il tema del film, Vittoria sarebbe un film mancato. L’aspetto
interessante, contraddittorio e a volte fastidioso è il volontarismo di una
madre che desidera – semplicemente desidera, e decide –, e per questo non
parlerei né di documentario, nonostante la storia sia vera e gli attori del film
siano gli stessi protagonisti della storia reale, peraltro in performance
eccellenti.
Film psicologico e psicanalitico al di là delle intenzioni di tutti, produttori
compresi (Lorenzo Cioffi, Giorgio Giampà e Nanni Moretti), stilisticamente
moderno con un montaggio velocissimo e una camera a mano agitata e inquieta come
i moti interiori dei protagonisti, reiterati nell’inquadratura coi visi, i
busti, gli scatti improvvisi; esiste un amore che al cinema si riverbera in
queste cose, un amore che emerge in Vittoria, film popolare per tutti e tutte,
privo di tesi e capace di scansare le buone intenzioni, che come insegnava
Wilde, rendono per lo più cattive le opere.
In questi giorni al cinema Filangieri, al cinema Vittoria, al cinema The Space e
in altre sale campane e italiane. (salvatore iervolino)
BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA - 0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’
Centro Studi Sereno Regis - Via Giuseppe Garibaldi, 13, 10122 Torino TO,
(venerdì, 27 settembre 20:00)
BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA
0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’
PROIEZIONE DEL FILM E PRESENTAZIONE DEL LIBRO
INTERVENGONO
CLAUDIO SABANI
LUIGI BONTEMPI
CLAUDIO PAPALIA
VALTER VISMARA
SU CINEMA E RIVOLTA, EDITORIA E PRODUZIONE INDIPENDENTE, SCUOLA E ALTERNATIVE
POSSIBILI... A PARTIRE DAL FILM DEL GRANDE CINEASTA FRANCESE.
LA SCUOLA PER VIGO È NON SOLO LA RAPPRESENTAZIONE DELLO SCONTRO TRA FORZE
SOCIALI CONTRAPPOSTE MA PIÙ SEMPLICEMENTE, RAPPRESENTAZIONE DI UNA RIVOLTA
UNIVERSALE CHE NON SI PONE IL FINE O I LIMITI DELLA CREAZIONE DI UN “ORDINE
SOCIALE IDEALE”, MA SOLO QUELLO DELLA LIBERAZIONE.
DAL RIFIUTO DELL’ORDINAMENTO DEI PRINCIPI DI COERCIZIONE NASCE LA SCHEGGIA
IMPAZZITA DELLA RIBELLIONE, L’INCOGNITA DEL DISORDINE SOCIETARIO, UN VENTO LARGO
CHE PUÒ SPAZZARE VIA TUTTO E IN OGNI DIREZIONE.
CINEFORUM E DIBATTITO: CIAK. RESISTENZA
Aula Occupata Shireen Abu Akleh - Corso Duca degli Abruzzi, 24
(giovedì, 25 luglio 18:00)
Cineforum con proiezione di "FEDAYIN": LA LOTTA DI GEORGES ABDALLAH" nell'aula
occupata "Shireen Abu Akleh" al Politecnico di Torino. Questo film ripercorre il
percorso di Georges Abdallah, dai campi profughi palestinesi alle mobilitazioni
internazionali per il suo rilascio. Questo potente film esplora la situazione di
uno dei prigionieri politici da più tempo detenuti in Europa.