Tag - cinema

Paris est une fête. Domani il primo film della rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).  A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *     *     * Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini, che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione. Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure (2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia. Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti. Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso, però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa, ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio, soprattutto dal giudizio morale. Distruggere le tracce, dunque. In  Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in  Paris est une fête o dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il confine.  È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore. Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è condannato a non avere documenti. In  Paris est une fête, infine, gli scontri urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile, un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene. Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza; certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce che balugina. (francesco migliaccio)
cinema
culture
Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri
(archivio disegni napolimonitor) Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali. *     *     * Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi. I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano. Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti. Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi. La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”. Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp. Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità. Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo – mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con lo stato, né con le Br”. A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è troppo grande la contraddizione…”. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale, sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri vecchi”. I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più generale di burocratizzazione sindacale. Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare, ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni. Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati. Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni, perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico, contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea bottalico)
cinema
culture
A Fuoco! Dal 26 marzo la terza edizione della rassegna
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) I film in proiezione quest’anno mostrano rivolte, rivoluzioni e improvvise svolte nella storia. Tutti e tre palesano un’inquietudine. Nelle vie di Parigi le manifestazioni contro la Loi Travail incontrano gli incubi notturni di una città violenta ed escludente; la rivoluzione in Iran si apre al rimpianto per le occasioni perdute; nella sollevazione contro Ceaușescu in Romania si intravvedono strategie e interessi di vecchie e nuove classi dirigenti. Questa inquietudine emerge grazie all’elaborazione e alla manipolazione dell’immagine, in un movimento contrario al flusso della società dello spettacolo. La lotta contro lo spettacolo, in sé rivoluzionaria, può allora essere un tentativo di risvegliare il contenuto sopito e addomesticato del passato. 26 marzo Ore 15:30, Accademia delle Belle Arti (largo Nanni Loy) Masterclass di Sylvain George  Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Paris est une fête. Un film en 18 vagues di Sylvain George  (Francia, B/N, 95’, 2017 | V.O. Sott. ITA) Parigi città notturna, violenta e insensibile. Fra le luci di un capitalismo che promette un benessere inarrivabile s’aggirano esistenze sopravviventi in un incubo urbano. È il 2016 e la rabbia esplode in strada contro la loi Travail. Place de la République è occupata dai manifestanti. Al termine della proiezione seguirà incontro con il regista. 9 aprile Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Between Revolutions di Vlad Petri (Iran, Qatar, Colore, B/N, 68′, 2023 | V.O. Sott. ITA) Lo scambio epistolare tra due donne mette in parallelo due rivoluzioni chiave del Novecento, quella iraniana del ‘79 e quella rumena di dieci anni dopo. La parabola – apparentemente inevitabile – sembra identica: si parte dai grandi ideali e si finisce con un semplice cambio di potere. Al termine della proiezione seguirà discussione da remoto con il regista. 23 aprile Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujică  (Germania, Romania, Colore, 106′, 1992 | V.O. Sott. ITA) Dando corpo a una nuova forma di storiografia, basata interamente sui media, questo film mostra la rivoluzione rumena del dicembre 1989. A Bucarest i dimostranti occupano gli edifici della TV di Stato e trasmettono in diretta le loro dichiarazioni, trasformando lo studio televisivo in un luogo di manipolazione degli eventi storici.
cinema
culture
Bestiari, Erbari, Lapidari. Il film di D’Anolfi e Parenti venerdì ad Astra Doc
(bestiari, erbari, lapidari) Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante, le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via Mezzocannone.  Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul Manifesto. *     *    * La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari, Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante tensione artistica comune. Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a questa riflessione? Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più metaforica come è quella della memoria. Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola. Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più narrativo. Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che tipo di lavoro fate sulla scrittura? Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene – sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica, dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo. Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani che sfogliano libri, scorrono pellicole… Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian, e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini, è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di questo mestiere.
interviste
cinema
iniziative
Storia di una madre a Torre Annunziata. Su Vittoria, film di Cassigoli/Kauffman
(disegno di manincuore) “Nel matrimonio ogni desiderio è una decisione” Susan Sontag, Diari Vittoria, al cinema questa settimana, è un film interessante sotto diversi punti di vista. Anzitutto, la scelta dei due registi Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che per la terza volta utilizzano la provincia di Napoli (Torre Annunziata) e le sue persone come materia viva del film, chiudendo dopo Butterfly (2018) e Californie (2021) una inusuale trilogia, di genere spurio (documentario, docufiction e fiction) legata da frammenti, personaggi secondari o ambienti. Nella proliferazione di opere di cui si farebbe a meno che hanno luogo a Napoli città, un buon segnale. In Vittoria si assiste al desiderio di Jasmine, donna sulla quarantina, di adottare, dopo la morte del padre, una figlia, poiché riceve dal defunto chiari messaggi in sogno. La famiglia (un marito, Rino, e tre figli maschi, di cui uno adulto e pronto a emigrare) è sbigottita prima ancora che contraria a questo desiderio manifestamente irrazionale. Crisi, ansie e discussioni da ciò, con Jasmine, madre, al centro del film. Da una prospettiva critica, morale e politica il film risulta complesso perché rischia moltissimo – sembra quasi peccare di ingenuità ideologica –, trattando un tema di per sé scottante come quello delle adozioni estere. A ciò si aggiungono ulteriori criticità: che l’adozione è come sottoposta a una specie di vincolo, e cioè che l’adottata deve essere una femmina e non un maschio. Il desiderio è preciso, la domanda se questo sia giusto oppure no quanto meno lecita. Jasmine, soprattutto all’inizio, non ci pensa proprio ad adottare un bambino. Sembra persino disposta a corrompere qualche burocrate pur di ottenere una femmina. Questo è un pungolo politico. Siamo troppo spesso imbevuti di cinema dalle buone intenzioni, lavori didascalici che svuotano la psicologia e la moralità delle classi lavoratrici. Jasmine ci riporta un interrogativo etico, una domanda assoluta sulla giustizia e sulla bontà, sulla ragione e sul desiderio, sull’amore e sul dolore. Lo fa da una posizione proletaria, lei che gestisce un salone di bellezza in una delle zone più evocative e difficili di Torre, via Plinio. C’è questo centro commerciale gigantesco (Maximall) che deve essere costruito, con “la discoteca più grande del mondo, anzi no, d’Europa” si dice in una delle scene più riuscite del film, con una conversazione comica e tragica insieme (il Maximall avrà senza dubbio al suo interno un salone di bellezza che darà concorrenza al piccolo salone di Jasmine…) dove sentiamo la lezione del cinema verità. Emerge un altro rischio, quello sociale, quello di fare cioè di questa famiglia torrese una specie di perfetto microcosmo di umiltà e amore, dove il senso della famiglia è fortissimo ed esatto, dove “nonostante le difficoltà” si va avanti. Jasmine ha perso il padre di cancro, che – accertato legalmente – è stato provocato dall’amianto all’Ilva di Bagnoli. Tutto è politica, ma se fosse stato questo il tema del film, Vittoria sarebbe un film mancato. L’aspetto interessante, contraddittorio e a volte fastidioso è il volontarismo di una madre che desidera – semplicemente desidera, e decide –, e per questo non parlerei né di documentario, nonostante la storia sia vera e gli attori del film siano gli stessi protagonisti della storia reale, peraltro in performance eccellenti. Film psicologico e psicanalitico al di là delle intenzioni di tutti, produttori compresi (Lorenzo Cioffi, Giorgio Giampà e Nanni Moretti), stilisticamente moderno con un montaggio velocissimo e una camera a mano agitata e inquieta come i moti interiori dei protagonisti, reiterati nell’inquadratura coi visi, i busti, gli scatti improvvisi; esiste un amore che al cinema si riverbera in queste cose, un amore che emerge in Vittoria, film popolare per tutti e tutte, privo di tesi e capace di scansare le buone intenzioni, che come insegnava Wilde, rendono per lo più cattive le opere. In questi giorni al cinema Filangieri, al cinema Vittoria, al cinema The Space e in altre sale campane e italiane. (salvatore iervolino)
cinema
[2024-09-27] BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA - 0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’ @ Centro Studi Sereno Regis
BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA - 0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’ Centro Studi Sereno Regis - Via Giuseppe Garibaldi, 13, 10122 Torino TO, (venerdì, 27 settembre 20:00) BREVE VIAGGIO NELLE IMMAGINI DELLA RIVOLTA 0 IN CONDOTTA DI JEAN VIGO’ PROIEZIONE DEL FILM E PRESENTAZIONE  DEL LIBRO INTERVENGONO CLAUDIO SABANI LUIGI BONTEMPI CLAUDIO PAPALIA VALTER VISMARA SU CINEMA E RIVOLTA, EDITORIA E PRODUZIONE INDIPENDENTE, SCUOLA E ALTERNATIVE POSSIBILI... A PARTIRE DAL FILM DEL GRANDE CINEASTA FRANCESE.   LA SCUOLA PER VIGO È NON SOLO LA RAPPRESENTAZIONE DELLO SCONTRO TRA FORZE SOCIALI CONTRAPPOSTE MA PIÙ SEMPLICEMENTE, RAPPRESENTAZIONE DI UNA RIVOLTA UNIVERSALE CHE NON SI PONE IL FINE O I LIMITI DELLA CREAZIONE DI UN “ORDINE SOCIALE IDEALE”, MA SOLO QUELLO DELLA LIBERAZIONE. DAL RIFIUTO DELL’ORDINAMENTO DEI PRINCIPI DI COERCIZIONE NASCE LA SCHEGGIA IMPAZZITA DELLA RIBELLIONE, L’INCOGNITA DEL DISORDINE SOCIETARIO, UN VENTO LARGO CHE PUÒ SPAZZARE VIA TUTTO E IN OGNI DIREZIONE.    
cinema
rivolta
presentazione
editoria indipendente
[2024-07-25] CINEFORUM E DIBATTITO: CIAK. RESISTENZA @ Aula Occupata Shireen Abu Akleh
CINEFORUM E DIBATTITO: CIAK. RESISTENZA Aula Occupata Shireen Abu Akleh - Corso Duca degli Abruzzi, 24 (giovedì, 25 luglio 18:00) Cineforum con proiezione di "FEDAYIN": LA LOTTA DI GEORGES ABDALLAH" nell'aula occupata "Shireen Abu Akleh" al Politecnico di Torino. Questo film ripercorre il percorso di Georges Abdallah, dai campi profughi palestinesi alle mobilitazioni internazionali per il suo rilascio. Questo potente film esplora la situazione di uno dei prigionieri politici da più tempo detenuti in Europa.
palestina
cinema
cineforum
Cineforum
spazioccupato
[2024-04-21] Il Cinema Di Blackout - tripletta di film di Ron Fricke @ Radio Blackout 105.250
IL CINEMA DI BLACKOUT - TRIPLETTA DI FILM DI RON FRICKE Radio Blackout 105.250 - Via Cecchi 21/a, Torino (domenica, 21 aprile 16:00) Il Cinema Di Blackout presenta: tripletta di film di Ron Fricke Ron Fricke è uno dei nomi più importanti per quanto riguarda la cinematografia. Il suo lavoro come direttore della fotografia e come regista è stato rivoluzionario e ha segnato un punto di non ritorno sia a livello tecnico che filosofico. Le sue opere non-verbali e non-narrative analizzano il rapporto tra l'umanità e l'altro, tra i viventi e l'oltre, ma sono ottimi pure per farsi i viaggioni. Orari dei Trip: ore 17:00 Chronos (1985, 42') un film astratto sulla relazione con il tempo ore 18:00 Baraka (1992, 97') un film sulla vita, su come ogni creatura sfrutta questa benedizione che è essere vivente ore 20:00 Samsara (2011, 102') la naturale evoluzione di Baraka in cui viene analizzato il rapporto che intercorre tra l'umanità e l'eternità VIENI A SOSTENERE LE LIBERE FREQUENZE!
cinema
cineforum
Radio Blackout
Cineforum
Rassegna cinematografica