“Come in un acquario”. I ritratti di Cesare Accetta al Blu di Prussia

NapoliMONiTOR - Friday, March 8, 2024
(foto di cesare accetta)

Vedere degli occhi vedenti è tanto pericoloso quanto vedere il sole.
È vedere l’invisibile. In generale, è ciò che si evita.
Si sa che è ciò che conta, essere guardati, ma fa paura
– persino essere guardati da sé stessi.
Si vuol vedere ciò che è visibile,
ma non si vuol vedere ciò che ci guarda.
E che è visibile come vedente invisibile
.
(J. Derrida, Pensare al non vedere)

Il 9 febbraio 2024 Cesare Accetta, in collaborazione con Alessandra D’Elia, ha inaugurato DRAMA, un progetto fotografico inedito site specific per gli spazi di Al Blu di Prussia: quattro grandi immagini di corpi in movimento accostate a ritratti e a video-ritratti.

La sua ultima mostra risaliva al 2016, quando realizzò al Madre un’installazione composta da cinquantaquattro videoritratti tracciati nel corso di un anno ed esposti in sequenza su un trittico di tre schermi.

«Io non sono uno che espone molto», dice Cesare Accetta, avvalendosi dei libri fotografici realizzati con Patrizio Esposito e di racconti al margine degli eventi per ripercorrere i meridiani della sua ricerca. Gli oggetti artistici e le mostre sono per lui occasioni germinative di incontri, conforto, contatto. Un dono: la possibilità di guardare, di sostare sulle fotografie.

Nei ritratti realizzati in studio i volti sono scavati nel nero. Nelle immagini ambientate in natura, lavorando con una luce non governabile, lo stesso gioco non è possibile; l’artista sceglie di smaterializzarla, la luce, abbandonandosi a una possibilità di lettura altra.

Nelle sue immagini compare sempre una presenza e traspare un’attenzione costantemente rivolta a indagare l’umano. «Sono passato all’immagine in movimento – continua – perché questa mi permetteva di studiare le variazioni di luce, indagando le modificazioni che avvenivano sul volto del soggetto. L’idea risale a un momento teatrale. Sul palco c’era Enzo Moscato che interpretava un suo monologo. Io variai la luce che lo colpiva e questo provocò un cambiamento della visione. Le dissolvenze generavano sul suo viso un’espressione nuova. Anni dopo quell’episodio, lavorai per memorizzare una sequenza luci, composta di variazioni e dissolvenze, da utilizzare per la serie di video-ritratti del Madre. Ritrassi anche Enzo, che vedendo la sua immagine mi disse di aver rivisto sua madre. Altri mi hanno confessato di aver vissuto un’esperienza simile a una seduta di analisi. L’ambiente buio, la privazione di ogni riferimento, trasportano il soggetto in una dimensione di profondo scavo emotivo e affiorano i ricordi».

Il video suggerisce ad Accetta un diverso modo di indagare l’elemento tempo, che diventa un fattore importante nella sua ricerca. Egli paragona i suoi video-ritratti a un acquario, nella pietrificazione ipnotica che consentono. E qui cita l’amato Tarkovskj, che definiva il cinema una scultura del tempo. Cesare è affascinato dal tema della ripetizione, e i video-ritratti in loop della mostra non hanno una pre-definizione di inizio o di fine. Sta a noi decidere per quanto tempo esporre l’immagine ed esporci a essa.

Come nel video-ritratto di Silvia Calderoni, dove il genere sembra confondersi: in un certo momento la luce pare rivelare un volto maschile, e da lì in poi a noi Silvia si mostrerà solamente come maschio. In un altro video, una lacrima nasce nell’esperienza di esposizione di Sonia Bergamasco, quando il soggetto ritratto sembra accettare la perdita di orientamento; e la fragilità umana che sceglie di non celarsi ci imbarazza nel suo mettersi a nudo. In un altro ancora, l’immagine di Patrizio Esposito, una maschera primitiva è scolpita su una faccia che sembra provenire da un’altra era. E così via. Tutte le sequenze terminano con la sovraesposizione, l’accensione simultanea di tutti i punti luce, apice della modificazione. A compiersi, una totale evanescenza, momento effimero di subitaneo invecchiamento.

Compare anche un autoritratto, dove il cambio di posizione permette all’autore di vivere l’esperienza d’essere guardato da sé stesso. Oggetto della trasformazione luminosa, nel limbo della sala posa, Accetta è regista e attore del suo teatro, fondato nel nero dove tutto è ancora da scrivere. «L’unica richiesta che facevo ai soggetti – dice – era di sostenere lo sguardo in macchina, affinché l’osservatore si sentisse a sua volta scrutato».

La mostra al Blu di Prussia rimette in scena la liminalità del vedere: lo spettatore, giunto al centro della sala, incarna l’interprete paralizzato, raggiunto dagli sguardi che fuoriescono dai ritratti appesi. Come dice Derrida, davanti a un quadro non si guarda, ma si è guardati. «Prima lavoravo con una varietà maggiore di persone ritratte – spiega Accetta –; qui i soggetti sono esclusivamente attrici o danzatrici donne. La scelta di ritrarre figure femminili non è motivata da un interesse per i tradizionali canoni estetici. Non ho mai lavorato con modelle. Sento l’esigenza di un’interpretazione partecipe all’atto di creazione, dove l’idea di partenza venga plasmata insieme. E ho sempre trovato nella figura femminile uno sguardo capace di trasmettere una sensazione di armonia maggiore, al di là delle sue forme. Mi ritrovo in connessione, accolto da essa. La donna facilita la mia ricerca, perché tramite la sua capacità di non schermare, evoca la parte emotiva».

Giocando tra il visibile e l’invisibile, Accetta sceglie quale margine di visione lasciare a chi si trova nell’atto del guardare. «Con Antonio Neiwiller, che spingeva sempre all’estremo la sua ricerca, si rifletteva molto su quanto è importante ciò che si vede e ciò che si intravede, ma soprattutto quello che non si vede, ossia ciò che è proprio dell’immaginazione, la facoltà ultima di chi guarda. Antonio ripeteva sempre che è proprio ciò che non si vede a far sì che il fruitore possa sentirsi profondamente coinvolto… Il fascino per il nero come scrittura primigenia e il lato emozionale delle immagini sono fondamentali per me. È possibile fissare con un mezzo fotografico un sentimento? Era la domanda all’origine di un lavoro teatrale che prevedeva lo sviluppo in scena di una grande fotografia. C’erano delle azioni fisiche molto forti affidate ad Andrea Renzi e Alessandra D’Elia, su uno sfondo nero omogeneo con la musica dal vivo dei Bisca, che alimentava l’energia del palcoscenico. A un certo punto il fondale nero crollava e rivelava un foglio bianco di carta fotografica, illuminata da lampade giallo-verdi da camera oscura. Poi il foglio fotosensibile veniva esposto alle luci teatrali, incidendovi le ombre dei due corpi. Gli interpreti gettavano sulla carta argentata secchiate di liquido sviluppatore. Le loro ombre apparivano per un attimo in negativo, prima che tutto scomparisse quando una luce colpiva il supporto non ancora bagnato da acido acetico e fissaggio. Il teatro si era fatto cosmo nella camera oscura». (leonardo galanti)