Innocence. Una mostra di Eduardo Castaldo ai Magazzini Fotografici
NapoliMONiTOR - Thursday, May 23, 2024“Militarizzare significa sottoporre a regime militare cose che militari non sono”. È l’esordio del libro di Michele Lancione, geografo del Politecnico di Torino, Università e militarizzazione. Il duplice uso della libertà di ricerca, del 2023, che racconta i legami crescenti tra l’università italiana e l’industria bellica e spiega in che modo la validazione dei propri prodotti ottenuta con il marchio della ricerca prodotta nell’università pubblica porta enormi vantaggi alle aziende, in termini di immagine e quindi anche di valorizzazione capitalistica, mentre pone una pesante ipoteca sulla libertà e l’autonomia della ricerca universitaria.
Da tempo, ormai, nei paesi del Patto Atlantico, Italia compresa, si è ricominciato a parlare di riserva militare (ossia di quella parte degli eserciti costituita da soldati congedati da richiamare in servizio in caso di guerra), e il ministro della difesa Crosetto può dire ormai esplicitamente (come in un’intervista a La Stampa dello scorso 29 gennaio) che i nuovi eserciti dovranno essere addestrati non solo, ovviamente, a operazioni di guerra sul terreno “nazionale” nel caso (ancora improbabile) di invasioni del territorio Nato da parte di Russia, Iran, Cina o Corea del Nord, ma a entrare in azione anche “in Paesi lontani per difendere gli interessi italiani”.
Sono segni, questi, dell’ulteriore metamorfosi della costituzione materiale del nostro paese rispetto al ripudio della guerra previsto dall’articolo 11 della Costituzione repubblicana del 1948, e segni anche del fatto che la guerra stia tornando a essere uno degli strumenti “ordinari” con cui il capitale occidentale può gestire le sue crisi anche per ciò che riguarda i patti espliciti tra governanti e governati. Nel frattempo, il 22 maggio la Lega è infine riuscita a depositare alla Camera la proposta di legge che intende reintrodurre la leva obbligatoria sospesa nel 2004, incontrando il favore di una certa parte di opinione pubblica, manipolata dalla televisione pomeridiana e perciò terrorizzata dai giovani. Eppure, nonostante tutto, ancora oggi, almeno a ciò che resta del senso comune progressista, ripugnerebbe l’idea che neppure l’infanzia o l’adolescenza siano più immuni dagli effetti della retorica e dalla disciplina militare.
È questo il senso comune destinato a essere messo radicalmente in discussione dalle fotografie del fotografo e artista-attivista Eduardo Castaldo raccolte nella mostra Innocence, a cura di Alice Colantuoni, ai Magazzini Fotografici di Napoli dal 18 maggio al 16 giugno 2024. Quindici fotografie a colori che ritraggono bambini e bambine occidentali, dai quattro ai dodici anni, mentre avvicinano i loro occhi a mirini ottici telescopici di fucili di precisione o imbracciano, assistiti dagli adulti, pesanti fucili mitragliatori; mentre ricaricano dei mortai o stanno a cavalcioni sul cannone di un carro armato, precoce sostituto fallico oscenamente imposto a un bambino prima ancora della raggiunta pubertà.
Non sono le immagini di un campo scuola per futuri miliziani di Hamas come quelli descritti dall’antropologo Somdeep Sen, ma le foto di una visita guidata per bambini organizzata alla base militare israeliana di Latrun, uno dei luoghi simbolo della guerra arabo-israeliana del 1948-49, a cavallo della “Linea verde” che, con il rinforzo del muro voluto dal premier israeliano Ariel Sharon e costruito a partire del 2002, separa il territorio dello stato d’Israele riconosciuto dalle Nazioni Unite dai territori palestinesi occupati nel 1967 dopo la Guerra dei Sei Giorni.
Le foto sono state scattate il 14 maggio del 2009 e del 2010, “clandestinamente”, essendosi Castaldo confuso tra la folla dei visitatori grazie al proprio “rassicurante aspetto occidentale”, come si legge nell’opuscolo distribuito all’ingresso della mostra o su un grande tavolo sistemato nella prima sala. Il 14 maggio è il giorno dell’indipendenza d’Israele (1948), coincidente con il culmine della Nakba, la pulizia etnica di 750 mila palestinesi che vivevano nei territori individuati dalla risoluzione ONU del 1947 per la nascita dello stato ebraico. Per l’occasione, le famiglie dei soldati in servizio nella base, e in particolare i loro bambini, vengono accolti in un clima di festa e coinvolti in una serie di attività dette “ludico-educative” che si svolgono all’aperto o in tendoni da campo allestiti nel cortile antistante le caserme. Le attività prevedono in primo luogo un’esposizione degli armamenti in dotazione dell’esercito (fucili di precisione, mitragliatori, lanciagranate, mortai, termoscanner per individuare e abbattere “terroristi”, carri armati), poi delle gare in cui i bambini si sfidano a chi è più veloce a ricaricare un fucile, un lanciagranate o un mortaio.
È una mostra di fotografia e al tempo stesso di arte plastica: le fotografie sono state ritoccate con un taglierino, come avviene nel caso di alcune antiche fotografie degli archivi di famiglia cui siano stati sottratti, per i motivi più diversi, volti e figure. Qui a essere state ritagliate sono, con un’unica eccezione su cui chi visita potrà interrogarsi, tutte le sagome dei volti dei bambini e delle bambine, delle loro braccia e delle loro gambe, quando scoperte per gli abiti leggeri adatti alla precoce estate mediterranea. Restano visibili le capigliature, i cappellini, i calzoncini, le tutine, ecc. Dal fondo di questi tagli praticati sulla “tela” dell’immagine affiorano “tessuti dai colori tenui e dalle trame floreali, motivi semplici e dolcemente ripetitivi che rimandano agli ambienti domestici deputati ad accogliere l’infanzia”, come scrive Alice Colantuoni nell’opuscolo già citato. Le sagome rimosse enfatizzano, con l’assenza, la bellezza dei volti infantili che mancano. Una scelta dalla grande forza visiva, che in parte si attutisce inevitabilmente nelle riproduzioni, che appiattiscono la doppia superficie, motivo tra gli altri per cui nessuna storia Instagram potrà sostituire l’esperienza diretta della visione.
Sono inoltre, queste foto, delle “immagini dialettiche”, in cui colpisce la radicale estraneità dei soggetti bambini a questi giocattoli così orrendamente impropri – visibilmente troppo grandi per i loro corpi minuscoli, ancor più al confronto con i corpi degli adulti che li circondano, che stanno lì ad assisterli, e ogni tanto affiorano coi loro volti sorridenti, compiaciuti e solleciti quando l’inquadratura si allarga – e al tempo stesso la perturbante ergonomia di queste stesse armi, che sembrano adattarsi perfino all’impugnatura delle loro piccole mani, finendo con l’apparire come un’estensione del corpo di alcuni di loro. Sono immagini dialettiche anche perché il presente della loro infanzia catturato dalle foto convive con la realtà del presente di chi guarda, in cui probabilmente quei bambini svolgono ora il servizio militare, contribuendo alla distruzione di Gaza o al presidio dei territori della Cisgiordania, un presidio costellato da quotidiani abusi e violenze sui palestinesi, denunciati dall’associazione Breaking the silence, fondata da veterani delle forze di difesa israeliane. È questo il motivo, insieme alla sfiducia per il sistema mediatico che avrebbe potuto utilizzarle, per cui Castaldo ha deciso infine di pubblicare in una mostra, invece di affidarle alla stampa, queste fotografie rimaste chiuse nel suo archivio per quattordici anni.
Sebbene siamo ancora lontani dall’ethos militare-nazionale che innerva la società israeliana, certi processi hanno preso avvio anche nei nostri paesi cresciuti negli ultimi ottant’anni di pace atlantica: in questi ultimi anni nelle nostre scuole pubbliche abbiamo visto moltiplicarsi sia le classi portate in visita guidata alle basi Nato, nelle caserme, alle istallazioni radar o nelle industrie belliche, sia le lezioni tenute da membri delle forze armate, in orario curricolare sottratto al tempo-scuola, su temi come la devianza giovanile, le dipendenze, il bullismo e il cyberbullismo, oppure in funzione di orientamento post-diploma. Abbiamo visto stipulare, anche nella città metropolitana di Napoli, convenzioni di alternanza scuola-lavoro (ormai rinominata in lingua neoliberale Pcto: Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) con la Leonardo Spa, o reclutare gli alunni degli istituti alberghieri per servizi di catering (ovviamente non pagati) a incontri organizzati in caserme dei carabinieri o dell’esercito, con tanto di foto finali di alunni sorridenti con l’elmetto in testa diffuse con orgoglio sui canali social degli istituti. Un’ampia e documentata serie di esempi è riportata nell’inchiesta di Antonio Mazzeo, La scuola va alla guerra. Inchiesta sulla militarizzazione della scuola, pubblicata nel 2023. Il processo è costantemente monitorato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università.
Ma certamente l’avanguardia occidentale della militarizzazione della società fin dall’infanzia, fin dalla scuola, fin dalla pedagogia dell’Olocausto, come sostenuto da una studiosa israeliana come Nurit Peled-Elhanan, è Israele, un paese che fin dalle premesse della sua fondazione ha posto sé stesso come avanguardia, in terra nemica, di un esercito di coloni pionieri redentori della terra e dei deserti da far rifiorire. Dopo aver visitato la mostra di Castaldo viene da chiedersi una volta di più se il sionismo e i suoi sostenitori occidentali si siano mai davvero interrogati su questo tragico paradosso su cui attirò l’attenzione già Hannah Arendt in una delle pagine del suo libro sul processo ad Eichmann nel 1961: dopo il 1948 Israele ha potuto rapidamente normalizzare i rapporti con la Germania e con l’Italia, cioè con i paesi la cui politica e ampi strati della cui società erano stati responsabili della più grave delle persecuzioni antisemite della storia e del più immane, scientifico, industriale genocidio mai compiuto sul continente europeo, e conta tuttora, in particolare nella Germania, uno dei suoi più inflessibili alleati. Al tempo stesso, con la politica suprematista, colonialista e genocida condotta nella Palestina storica, Israele ha condannato sé stesso, per generazioni e generazioni, a vedere un nemico domestico in uno dei popoli più pacifici e accoglienti al mondo, privo di ogni responsabilità storica rispetto allo sterminio nazista con buona pace della narrazione sionista del collaborazionismo arabo con la Shoah. Pur essendo riuscito a de-nazificare rapidamente la sua rappresentazione dei tedeschi, con la sua pedagogia del trauma sempre rinnovato nelle nuove generazioni Israele alimenta questo fantasma nazificando ai propri occhi l’immagine dei palestinesi e costringendo la propria popolazione ebraica, fin dalla primissima infanzia, a vivere in un perpetuo regime di guerra. (antonio del castello)