In questi mesi il Museo MADRE di Napoli, dopo un lungo periodo di sostanziale inattività, ha ospitato “Il Resto di Niente”, una mostra aperta fino al 16 settembre che mutua il titolo dall’omonimo romanzo di Enzo Striano che racconta la rivoluzione del 1799 che porterà alla nascita della Repubblica Napoletana, utilizzandolo come metafora delle trasformazioni sociali e antropologiche visionarie e allo stesso tempo effimere di cui la città è capace.
Il nucleo della mostra, che coincide con la parte di reale interesse, è costituito da un ampio approfondimento sul lavoro di uno dei protagonisti della scena architettonica italiana della seconda metà del Novecento: Aldo Loris Rossi, autore a partire dagli anni Sessanta di un radicale discorso estetico e politico sull’architettura e l’urbanistica, soprattutto a Napoli e nel meridione d’Italia. In particolare sono esposti numerosi disegni di progetti che Rossi concepisce, spesso insieme a Donatella Mazzoleni, in cui si evince, oltre a una qualità della restituzione del progetto attraverso il disegno di rara pregevolezza, la cifra costitutiva della sua architettura, basata su una sintesi apparentemente inconciliabile tra utopia e ideologia, tra architettura organica e science fiction, tra futurismo e costruttivismo. Parliamo di progetti iconici all’interno dello skyline partenopeo, come la Casa del Portuale (1968-1980) e il complesso residenziale di Piazza Grande (1979-1989), astronavi brutaliste, un tempo manifesto di una architettura colta ed emancipata, oggi set ideale per trapper e fotografi di moda, allo stesso tempo edifici che,nella loro affascinante e distopica contraddittorietà possono rappresentare un valido spunto di riflessione sull’abitare la città, qui e ora, al tempo della mutazione antropologica in corso rappresentata dall’overturism.
Ho incontrato alcune delle architetture più iconiche di Aldo Loris Rossi e dei progettisti più quotati della sua generazione durante la lavorazione di Qualcosa Resta (Nephila Film, Italia, 2021, 39’). Si tratta di un viaggio sentimentale in Irpinia a quarant’anni da un evento spartiacque che ne ha modificato la fisionomia, sia dal punto di vista topografico che antropologico: il terremoto. L’idea è che nei segni che dopo quarant’anni sono ancora presenti sul territorio sia possibile leggere le dinamiche che hanno portato alla condizione attuale di questa terra, e più in generale dell’Italia meridionale. Per farlo è stata necessaria l’analisi e il racconto delle architetture, finite e non, e degli spazi da esse generati, gli spazi del post-sisma, ancora oggi rimasti post, indecisi, in attesa di una nuova ipotetica riappropriazione. È il racconto di quei segni che restano come monumenti a una fase storica del nostro paese dalla quale non ci si è ancora emancipati: i “piani regolatori”, i “doppi paesi”, le grandi firme dell’architettura contemporanea arrivate a costruire architetture troppo grandi in aree rurali, i container, le “cattedrali nel deserto”, i ruderi e le macerie hanno fatto dell’Irpinia un laboratorio sociale dell’Italia contemporanea, in cui hanno insistito tutti elementi in grado di contribuire alla definizione di un immaginario di cui è stato intriso il nostro paese e che ancora oggi, almeno in queste aree, non è stato sostituito da nulla, se non da un senso di nostalgia generalizzata, il senso di isolamento in cui versa l’Italia interna. In ultima analisi, ho cercato i segni che dimostrassero come quella frammentazione, quel senso di isolamento fossero una costruzione culturale maturata all’interno di quello che è stato il più significativo laboratorio sociale del nuovo mezzogiorno.
Ebbene, tra le opere emblematiche della ricostruzione ci sono proprio due opere dell’irpino Aldo Loris Rossi: la Chiesa del Sacro Cuore e il famigerato “Piano Regolatore” di Bisaccia, archetipo di tutte le “new town” attraverso le quali la classe politica italiana ha gestito le catastrofi naturali negli anni a venire.
Il primo aspetto che emerge dall’attraversamento di questi manufatti è il loro essere completamente fuori scala, architetture malate di gigantismo che hanno come effetto principale quello di slabbrare la scala del paese – parliamo in questo caso di Bisaccia Irpinia, ma non è certo un unicum (si pensi alla ricostruzione di Gibellina in seguito al terremoto del Belice). Il risultato, a distanza di anni, è quello di luoghi spettrali immersi di un silenzio irreale, imbrigliati in architetture disegnate, caratterizzate da una visione troppo rigida e intellettualistica, oserei dire feticistica, perché amate dagli architetti (che però difficilmente deciderebbero di andare a viverci) e generalmente odiate da chi le vive.
Come nota Luigi Prestinenza Puglisi in un efficace parallelismo tra la ricostruzione del Belice e quella irpina e napoletana, non è raro osservare le piccole comunità che vivono questi luoghi trovarsi in spazi di risulta, piccoli spazi informali, residuali rispetto alle grandi quinte teatrali costruite da una generazione di architetti che ha pensato di poter dire alle comunità come vivere, con i risultati che a distanza di anni sono sotto gli occhi di tutti.
Luoghi in ultima istanza inospitali, in cui vivono sempre meno persone, sia per gli effetti della crisi demografica che ha riportato molte aree dell’Italia interna ai livelli di popolazione di inizio Novecento, sia per un altro fenomeno peculiare: il proliferare delle villette. Sempre più nuclei familiari, infatti, negli anni hanno preferito optare per soluzioni abitative autonome, contribuendo di fatto, in concerto con le grandi architetture della ricostruzione, alla trasformazione dei paesi in slum suburbani troppo grandi e disordinati, vivibili solo a bordo di una automobile. Il risultato sul piano antropico è stato quello di comunità atomizzate incastrate tra periferie anonime con parcheggio auto e centri storici “monumentalizzati” ostaggio di progetti dall’estrema rigidità formale, un combinato ideale per coltivare quell’individualismo rancoroso della piccola borghesia e del proletariato senza più coscienza di classe che di lì a poco Silvio Berlusconi saprà rappresentare. Resta paradossale il fatto che sia stata proprio una generazione di architetti intrisa di ideologia comunista che voleva “redimere” il proletariato mostrandogli la strada (senza però aver speso tempo sufficiente ad ascoltarne le reali esigenze) ad aver concorso a questo stato di cose.
Quanto detto apre a una riflessione sul ruolo dell’architetto (e anche di riflesso di quello dell’artista) nel momento in cui la propria opera è sussunta dalla società dello spettacolo nell’era del neoliberismo. Come nota l’antropologo Franco La Cecla in Contro l’architettura (Bollati Boringhieri, 2004): “Mai come adesso l’architettura è di moda. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione […]. Eppure mai come adesso l’architettura è lontana dall’interesse pubblico […]. Questo accade perché l’architettura è diventata un gioco autoreferenziale, tutta incentrata sulla ‘firma’, sulla genialità del singolo architetto, genialità che è quotata nella borsa della moda al pari di un qualunque brand. L’architettura ha molta più influenza nel bene e nel male sulle condizioni dell’abitare in una città”.
La generazione dei Loris Rossi è stata capace di interpretare il ruolo dell’architetto in epoca neoliberista con grande lucidità: è facile infatti leggere una continuità tra una generazione che si è accontentata di fare una architettura autoreferenziale e funzionale agli interessi speculativi della classe politica del tempo che barattava spesa pubblica e opere infrastrutturali in cambio di consenso, e la generazione successiva, quella delle archistar, (o artistar) produttori seriali di brand territoriali.
Il paradosso doloroso è proprio questo: visti oggi, questi segni utopici, alla luce della crisi abitativa, della crisi della città contemporanea, dei processi di accumulazione di ricchezza a essa sottesi (gentrificazione, turistificazione, ecc.), risultano come degli antenati delle tante operazioni da archistar disseminate in Italia e nel mondo, in cui il segno, la griffe, la qualità costruttiva, funge da tappeto glamour sotto cui nascondere operazioni speculative che hanno come scopo implicito l’aumento della rendita, con le conseguenze che oggi, anche in ampi tratti della nostra città, sono parte di un processo apparentemente ineluttabile.
Come evidenzia Sarah Gainsfort nel suo Airb&b Città Merce (DeriveApprodi, 2020) in questo contesto la città è divenuta parte integrante del processo economico, così come la rendita fondiaria urbana non costituisce più il frutto del possesso di un bene, ma diviene essa stessa strumento di produzione di utili. Almeno a partire dagli anni Novanta, inoltre, le strutture di governance locali sono di fatto esautorate dalle loro funzioni di regolamentazione e programmazione, quando non sono attivamente subalterne, se non addirittura complici, di questo processo di accumulazione e spoliazione della città. L’esempio più evidente di questa deriva nel contesto italiano è Milano, dove da anni, ammantato da una retorica di efficacia e di coolness che vede più o meno tutti gli attori della comunicazione in un coro concorde, si assiste a un processo di aumento degli indici di edificazione, e conseguente aumento dei costi delle abitazioni. Il paradosso è stato evidenziato da una recente ricerca secondo la quale in realtà una fetta rilevante dei residenti di Milano non ha un reddito da lavoro sufficiente per far fronte al costo della vita, realizzando di fatto il modello della città di speculatori abbienti e turisti. È sotto gli occhi di tutti quale funzione ha l’architettura in questo processo, anche senza dover ricorrere a esempi ormai scolastici come quello del ruolo avuto dal Bosco Verticale dell’archistar Boeri nel cambio di composizione sociale avvenuto in pochissimi anni all’interno del quartiere Isola.
In conclusione, come artista e soprattutto come docente, credo che la nostra generazione e quelle a venire abbiano il dovere di “essere meglio di così”, di imparare a leggere in chiave problematica i processi di accumulazione di ricchezza propri del capitalismo globale, per evitare che il prodotto dell’artista e del progettista oggi si limiti a essere quello di un lussuoso paravento nei confronti di processi che noi stessi subiamo come cittadini. (pasquale napolitano)