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L’oro tra le macerie. Oroscopo di Foucault 2025
(disegno di ginevra naviglio) L’ORO TRA LE MACERIE | OROSCOPO DI FOUCAULT 2025 Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie. (Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri) ARIETE La combattività che Marte regala al vostro segno è l’origine della forza e della vitalità che vi caratterizza. L’entusiasmo di chi supera ogni difficoltà con determinazione e temperamento da battaglia è il vostro tratto distintivo. Allo stesso tempo può essere la causa di mancanza di tatto e di riflessione, di errori di valutazione che compromettono anche le relazioni più vicine fino a farne macerie. Così mi chiedevo se fosse questo l’anno in cui provare a dosare le nostre forze per un equilibrio differente che imprima delicatezza ai vostri slanci. In un libro piccolo e intenso, la scrittrice afroamericana bell hooks (con le iniziali minuscole per precisa scelta dell’autrice) riflette sul tema dell’amore e del filo che lega l’adulto che siamo al bambino che eravamo. Scrive questa frase che è fatta apposta per voi: “Può essere utile cominciare a considerare l’amore come un’azione piuttosto come un sentimento”. Sappiamo che questa frase vi corrisponde: l’amore si esprime in gesti e comportamenti (prendersi cura, essere reciproci, ascoltare, proteggere, dare fiducia) senza i quali resta una parola priva di significati. Però, aggiungiamo noi a vostro beneficio, l’azione, senza la cura di parole che l’accompagnino, rischia di smarrirsi nelle abitudini.  In amore la parola è il reciproco del gesto, tenetelo a mente.  TORO Il principio fondamentale di chi scrive questo povero oroscopo è di essere “impermeabile” alle richieste popolari. Però, nel mentre della scrittura, ho ricevuto questo messaggio: “Scrivi al Toro di muoversi”, che sentivo essere in sintonia con quanto andava scritto. Il tema però non è solo il movimento, ma la direzione. Perché il Toro è segno di una sedentarietà che non è affine alla pigrizia fisica ma all’abitudine mentale. Abitudine agli affetti prima di tutto, che portate addosso come una seconda pelle (e del resto abitudine deriva dal latino habitus), poi ai luoghi (sareste capace di camminare per ore per le strade che trovate familiari), infine alla gioventù. Perché senza tanta fatica si distingue in voi lo sguardo dell’adolescente che attende il suono della campanella dell’ultima ora di lezione. Lo sguardo limpido e impaziente di chi assiste un po’ stupito al mondo degli adulti e al ritmo delle incombenze quotidiane di cui fa fatica ad afferrare il senso. Ci sono, a questo punto, due possibilità di movimento. La prima è muoversi alzando le spalle al mondo verso i luoghi segreti che abitano i nostri sogni d’infanzia, difendendosi dalle pretese degli adulti. Il secondo, più complesso, è prendere per mano il nostro io bambino e uscire allo scoperto in direzione del sole. Usare sogni e ricordi come bussola che orienta il futuro, e non per nostalgia. Sul cuore, come scrive Ingeborg Bachmann, appuntate come medaglia la stella della speranza: “Viene conferita per la diserzione dalle bandiere, per il valore di fronte all’amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e l’inosservanza di tutti gli ordini”.  GEMELLI Secondo il filosofo Salvatore Natoli, l’“opposto della felicità non è il dolore ma la noia” (so che state pensando alla canzone di Franco Califano, vi inviterei però a un po’ di serietà). In virtù di questa tesi, la noia nasce quando il mondo intorno a noi perde significato e rischiamo di ridurre tutto ciò che ci circonda a un riflesso di noi stessi, dimenticando la sua reale ricchezza e varietà. La noia può derivare da questa visione o dal fatto che lo spazio di mondo che abitiamo si restringe, e i paesaggi quotidiani diventano abitudine. Al contrario della noia, la felicità è nell’apertura verso il mondo, nel riconoscere e apprezzare la novità che ogni cosa porta con sé. Quando siamo capaci di guardare al mondo con uno sguardo fresco, senza giudicarlo o ridurlo ai nostri desideri e bisogni (e senza brontolare, aggiungiamo noi) possiamo riscoprire il significato e la bellezza anche nelle esperienze quotidiane. Fino a qui, mi direte, Natoli non ha aggiunto a quanto già sapete. Non siate impazienti, leggete ancora questo: “L’educazione alla felicità è l’educazione alla relazione giusta con le cose, che vuol dire rispettare le cose. La parola chiave è delibare: chi ama il vino lo deliba, non si ubriaca mai, mai da ogni goccia di vino riesce a stillare il suo sapore, e per questo deve avere una competenza. La felicità esige competenza e sapienza, un’educazione alle giuste relazioni con gli altri”. Apertura, capacità di essere curiosi e di guardare nelle cose la loro novità. E, mi raccomando, la giusta misura nelle cose e nelle relazioni.  CANCRO Che anno è stato questo trascorso? Un anno pieno di momenti importanti, in uno scenario complesso intorno a voi. Si fa fatica a trovare nel mondo qualcosa che ci somigli in questo brulicare di conflitti e di ambizioni mediocri. E voi che siete il segno della (iper)sensibilità e dell’intuizione, e che potete stare bene solo quando lo sono anche i vostri affetti intorno, rischiate a volte di scoraggiarvi. Così Mahmud Darwish, poeta e scrittore palestinese, rispondeva a un giornalista statunitense che lo intervistava: “Cosa scrivi, poeta, durante questa guerra?”. “Scrivo il mio silenzio”. “E quando ricomincerai a poetare?”. “Quando i cannoni taceranno per un po’, quando farò esplodere questo mio silenzio carico di voci, quando troverò una lingua adeguata”. Cosa fare allora quando il rumore aggressivo del mondo vi impedisce di prendere parola? Come si trova una lingua adeguata quando intorno il mondo sembra offrire solo macerie per il futuro? La prima cosa da fare è stringersi a chi condivide i nostri pensieri; la seconda è non aver timore a uscire e ad andare in esplorazione nel mondo. Affamati di parole ma mai in silenzio, perché quello che il mondo non ci dà ce lo andremo a prendere, sogno per sogno, casa per casa.  Per questo anno che viene, dunque, vi invitiamo a fare un passo in avanti: portate allo scoperto le vostre parole e abbracciatele forte affinché il vento non le disperda. LEONE Scrive Giovanna Ferrara: “Abitare le proprie possibilità di vivente è una bussola sicura, sicura la direzione d’orientamento”. Che vuol dire? Vuol dire che la felicità interiore nasce dalla consapevolezza della propria potenza di agire. È nell’atto di esplorare questa forza che ci realizziamo, come ha insegnato Spinoza. La comprensione della nostra capacità di trasformarci e di trasformare il mondo ci dà senso e direzione, e ci connette alla nostra essenza più profonda. Una capacità trasformativa non solo personale ma anche politica, nel senso più alto e collettivo della parola. Una capacità non solo personale, ma che ha una dimensione collettiva, nel senso di un impegno per il bene comune, per la costruzione di una società più consapevole e giusta. Ma cosa innesca questa forza e consapevolezza? Per voi, Leone, è piuttosto chiaro: è l’amore che muove il vostro spirito (oltre al Sole e alle altre stelle). Quanto amore, allora, è necessario per alimentare il vostro motore? Ecco la formula segreta, svelata per voi da Mariangela Gualtieri: “Innamorarci ogni giorno, ogni giorno un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una collina, una parola, un boccone. Innamorarci. Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”. Agire, amare e trasformare, gli ingredienti di quest’anno sono questi, sta a voi scegliere le proporzioni.  VERGINE Nel 1942 il medico e psicologo viennese Viktor Frankl fu deportato, insieme ai familiari, in un campo di concentramento. Dalla sua esperienza, è venuto fuori un libro (Uno psicologo nei lager) nel quale Frankl ha esaminato le forze psicologiche che consentono di sopportare e superare le esperienze e condizioni più dolorose. Frankl sostiene che l’essere umano è spinto principalmente dal bisogno di trovare un significato nella propria vita, più che dalla ricerca del piacere (come sosteneva Freud) o dalla ricerca del potere (come suggeriva Adler). Secondo Frankl, anche nelle condizioni più tragiche, le persone possono trovare un senso che dia loro la forza di andare avanti. Sulla base di questa tesi, Frankl sviluppò la “logoterapia” che si basa sull’idea che la ricerca del significato della vita sia il motore principale dell’esistenza umana (in greco logos significa “senso” e anche “parola”). Le difficoltà possono acquisire significato quando la persona riesce a comprenderle come parte di un cammino più ampio. In altri termini, non possiamo determinare quello che ci capita o ci circonda, possiamo però decidere in che modo interpretare gli eventi e consentire loro di formarci. Questa lunga premessa, per arrivare a una breve conclusione: se trovate le parole giuste trova un senso la vita che accade. Ricordatevi però anche di pronunciarle, affinché chi vi sta accanto sappia come è meglio accompagnarvi. Mi raccomando, rammentate le regole d’oro: non perdere di vista l’insieme per i particolari, chiedere quando è necessario, lasciare andare quando è giusto, pretendere ciò che meritate.  BILANCIA Qualche tempo fa un’amica mi raccontava della sua separazione, fatta di silenzi ma soprattutto di una mancata attenzione, che più di tutto pesava. Mentre parlava, mi sono venuti alla mente questi versi di Elisa Ruotolo: “Sbagliavo a trascurare la fretta, | chi ama coltiva giardini di virgole | accudisce sillabe e punti di domanda | non è asciutto come il dispaccio | della resa. | Chi ama rileggerà le parole | una ad una prima di congedarle. | L’incuria è già lontananza | ammissione che si è altrove | a sistemare la propria grammatica”. L’ho rincontrata, mesi dopo, rinata e solare, perché aveva deciso di dedicarsi completamente a sé stessa, smantellando anni di pensieri tristi, riprendendo in mano gli studi, i suoi interessi e qualche vecchia passione. È come se avesse deciso di tornare a casa dentro di sé, ritrovando ciò che aveva messo in disparte per troppo tempo. Questo rinascere era dovuto anche alla sua rete di affetti, intessuta negli anni, che le ha regalato coraggio e attenzione. Ogni passaggio era stato accompagnato da amiche e amici pronti a coltivare giardini di virgole e a offrire cura e vicinanza. E allora, direte? Ancora questa storia della resilienza? No, affatto, il tempo che viene può essere bello senza bisogno di eroismi e resilienze, purché teniate a mente la regola fondamentale di ogni trasformazione: il primo passo si può fare da soli, i successivi vanno fatti in compagnia. Che siano “cura” e “reciprocità” le parole nell’anno che viene.   SCORPIONE “Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri, pensa. Se solo si potessero nascondere i propri occhi al mondo”. Questa frase, pronunciata da un personaggio nel romanzo della premio Nobel 2024 Han Kang, mi è tornata in mente quando ho pensato a voi scorpioni. Perché? A scorrere i testi sacri dell’astrologia, il segno dello scorpione è descritto come “intenso, passionale, riservato e maestro nell’esplorazione dell’animo umano”. È una descrizione che vi corrisponde, in special modo quando si parla della vostra riservatezza. Possedete un equilibrio raro, tra la tensione delle passioni e dei desideri, e la capacità di proteggerli dall’indiscrezione della vita quotidiana. Come se, in ciascuna di queste passioni, poteste vivere molteplici vite, affidando a ognuna di esse un pensiero, un segreto, un tratto particolare del vostro carattere. Eppure, c’è un punto in cui tutte queste sfaccettature si fondono: è negli occhi. Per quanto possiate cercare di nascondere, i vostri occhi parlano più di quanto possiate immaginare, e rivelano più di quanto vorreste. Questa tensione tra desiderio di protezione e intensità delle passioni vi accompagnerà anche nel tempo a venire: sarebbe innaturale suggerirvi altro, così come suggerire la prudenza. Non resta, allora, che augurarvi di essere fino in fondo fedeli a voi stessi e, comunque vada, di avere gli occhi aperti al mondo e all’amore.  SAGITTARIO Per l’anno che viene, se volete segnare una qualche discontinuità con quello passato, dovete darvi da fare per lavorare su voi stessi. So che non amate i conflitti che non siano per ragioni etiche o politiche, che se nella vita quotidiana non trovare sfide impossibili sembra tutto noioso, che preferireste una settimana da Che Guevara che una vita da Fidel Castro, che siete in attesa di qualcosa di impossibile di cui lamentarvi subito dopo, e che potreste certamente migliorare in costanza e capacità di esprimere sentimenti ed emozioni. Ma ciò a cui vogliamo chiamarvi nell’anno è ben riassunto da questo aneddoto che Soffici racconta a proposito del poeta Dino Campana, che vendeva personalmente i suoi Canti orfici a chi volesse acquistarli: “Prima di consegnarglielo, Campana guardava bene in faccia il suo uomo; e secondo la stima che ne faceva strappava dal libro queste o quelle pagine da lui ritenute, per una ragione imperscrutabile, non consone al costui comprendonio. Lo stupore dell’acquirente era grande quanto il suo imbarazzo, ma ormai la cosa era fatta […]. La più bella fu però quando anche Marinetti volle avere il suo libro. Campana, dopo aver meditato alquanto, ne strappò la maggior parte, e non gliene mise in mano che tutt’al più un sedicesimo”. Per l’anno che viene mettete da parte diplomazia e pazienza, fatene scorta in cambio di un po’ di sana fiducia nelle vostre capacità, a costo di confinare con la presunzione (attenzione però a non varcare la linea) che la felicità non si trova nella prudenza e nella quiete.  Come diceva Pasolini: “Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”.  CAPRICORNO Quando vi capita di giudicare voi stessi con severità, prima ancora che gli altri, o quando penserete che una piccola imperfezione rischia di fare macerie delle vostre fondamenta, pensate al buon Galileo Galilei. Il nostro coraggioso esploratore dell’universo, la prima volta che osservò Saturno, ingannato dagli anelli che circondano il pianeta e dalla cattiva qualità del suo telescopio, credette di vedere tre oggetti. Fu solo molti anni dopo che un astronomo dotato di un telescopio più potente distinse con precisione gli anelli che circondano il pianeta e gli donano un fascino unico. Parliamo tra l’altro del pianeta che ha il domicilio nel vostro segno, e a cui si associano razionalità e intransigenza. Possiamo dire che questo errore offusca l’importanza che Galilei ebbe nel demolire il sistema tolemaico? Il primo aspetto, dunque, su cui lavorare, è misurare la severità del giudizio verso sé stessi.  Perché a furia di essere esigenti si diventa critici implacabili, demolitori, e si rischia anche di avere timore di analizzare in profondità, per paura di ciò che di imperfetto potremmo trovare.  Se non vi fidate di questo povero astrologo foucaultiano, leggete le parole di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, che ha scritto: “L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo” (Elogio dell’imperfezione). Credetemi, non c’è perfezione nel non voler perdonarsi di essere imperfetti: per l’anno che viene potreste venire a patti con questo aspetto e crescere in uno spazio senza giudizio. Giusti con sé stessi, giusti nel mondo.  ACQUARIO Ci sono fasi della vita in cui per costruire qualcosa occorre prima demolire un’altra. Purtroppo, non sempre la vita ci offre la possibilità di non lasciare cesura tra una fase e l’altra, di impedire un’assenza ci ferisca. Capita alle volte che si demolisca per rabbia o per necessità, senza sapere ancora cosa andare a costruire o a fare di ciò che perdiamo, così come può accadere che non sappiamo interrogarci sul ruolo che abbiamo nella tragedia che lamentiamo. Alla fine, però, non conta l’innesco ma il percorso che farà germogliare una persona nuova dal nostro dolore, quando una nuova casa sorgerà dalla vecchia. Scrive Giovanna Ferrara, in un libro (L’innocenza dei dinosauri) elegante, dolcissimo e immortale come l’autrice: “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. L’anno che viene somiglierà molto a quello passato, nel bene e nel male: la differenza la farete voi, riempiendolo di desideri coraggiosi e di amicizie profonde. PESCI Ci sono due aspetti sui quali possiamo lavorare nell’anno che verrà, due aspetti che si intrecciano e che sono da un lato la vostra capacità di ascolto e comprensione, e dall’altro la tendenza alla fuga dettata dall’urgenza del sogno, quel tipo di sogno che ci apparta dalla realtà. Come tenere insieme le due cose? Come farsi carico dell’ascolto dei dolori del mondo senza poi cercare per noi stessi un’alternativa e cercare nascondigli nelle pieghe della vita? La prima via sarebbe quella più comune, porre limiti e barriere all’ascolto, che però nel vostro caso sarebbe come chiedere a un primo violino di suonare in ultima fila. La seconda strada è vivere dentro relazioni che siano il giusto scambio ed equilibrio tra la possibilità di ascolto e quella di essere ascoltati. Ha scritto Giovanna Ferrara: “Non lo so se gli uomini parlino tra di loro nella spietata e selvaggia onestà e intelligenza con cui a me capita di farlo con le amiche più care o con gli amici più fraterni. Forse sì, perché questi alfabeti di profondità sono attitudini alla ricerca di qualcosa che luccica. Certo, dietro molti degli svincoli della vita c’è la relazione sotterranea e intima e regalata che nasce alla philia, traccia d’oro di questo mondo faticoso”. Per quest’anno non abbiate timore di mettervi in cammino, ci sarà sempre la traccia capace di illuminare le strade più scure.   
January 6, 2025 / NapoliMONiTOR
Storie, dialoghi e testimonianze sulla contenzione. Domani a Napoli il libro di Antonio Esposito
(disegno di sergio cennini) Sarà presentato martedì 26 novembre, dalle ore 18,00, a Palazzo Venezia (via Benedetto Croce 19), il libro di Antoni Esposito Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione (Sensibili alle foglie). Con l’autore discuteranno Teresa Capacchione, Dario Stefano Dell’Aquila e Novella Formisani. Pubblichiamo a seguire un estratto del volume, dal capitolo Disumanità e violenza, le immagini di un Spdc / La storia di Francesco Mastrogiovanni *     *    * Nella storia della contenzione in Italia, esiste uno spartiacque che segna un prima e un dopo, sia per quanto concerne il campo giuridico-legale e la riflessione etica e bioetica, sia nell’ambito del dibattito pubblico: la vicenda di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare cilentano che, il 4 agosto 2009, muore nel reparto di Diagnosi e cura dell’Ospedale di Vallo della Lucania, a seguito di una contenzione durata oltre ottantasette ore, tenendolo legato ai quattro arti a un letto, in condizioni disumane e degradanti, quasi per l’intero periodo di un ricovero determinato da un Trattamento Sanitario Obbligatorio iniziato il 31 luglio. La presenza delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza del reparto, rese pubbliche dalla famiglia che, con il “Comitato Verità e Giustizia per Francesco Mastrogiovanni”, ha strenuamente lottato perché fosse ricostruito tutto quanto accaduto in quei giorni e fossero riconosciute le responsabilità di quanto si era determinato, hanno mostrato a un intero paese la violenza e l’inumanità di una pratica, la contenzione, che era diventata uno strumento routinario nella vita quotidiana di quel reparto ospedaliero. I filmati, inoltre, sono stati determinanti nel corso dei tre gradi di giudizio che hanno coinvolto medici e infermieri dell’ospedale, portando, in Cassazione, a una sentenza storica (Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018), con la quale, al di là delle condanne comminate agli imputati, si giunge, per la prima volta, ad affermare che la contenzione non può essere considerata un atto medico, quanto piuttosto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente – anzi, secondo la letteratura scientifica, può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni anche gravi all’organismo, determinate non solo dalla pressione esterna del dispositivo contenitivo, quali abrasioni, lacerazioni, strangolamento, ma anche dalla posizione di immobilità forzata cui è costretto il paziente – svolgendo […] una mera funzione di tipo “cautelare”, essendo diretto a salvaguardare l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per l’incolumità dei medesimi”. Chi scrive ha già ricostruito altrove quanto accaduto a Francesco Mastrogiovanni, analizzando in dettaglio la sentenza della Cassazione. Rinviando a quel lavoro per ulteriori approfondimenti, di seguito sono indicati solo i punti essenziali degli eventi che hanno portato alla morte di Mastrogiovanni e della successiva vicenda giudiziaria, lasciando, poi, ai dialoghi con Grazia Serra e Giuseppe Ortano lo spazio di ulteriori indicazioni, riflessioni e analisi. Partiamo, quindi, dalla ricostruzione degli accadimenti e delle dinamiche che hanno portato all’emanazione del Tso, seppure, ancora oggi, la vicenda resti non del tutto chiara, presentando aspetti mai completamente approfonditi e alcune incongruenze che, nel tempo, hanno anche portato a dubitare sulla legittimità di quel provvedimento emanato dall’allora sindaco di Pollica Angelo Vassallo. La sera del 30 luglio 2009, secondo la ricostruzione della polizia municipale, un’auto avrebbe attraversato a forte velocità un’isola pedonale di Acciaroli (senza però causare danni a cose o a persone, elemento che, insieme ad alcune testimonianze raccolte, porta a dubitare che l’auto andasse a una velocità sostenuta). Il mattino successivo, i carabinieri hanno avvistato la stessa auto, che non si sarebbe fermata all’alt delle forze dell’ordine, determinando un inseguimento conclusosi all’altezza di un cub turistico della zona, dove Mastrogiovanni, che qui stava trascorrendo le vacanze, si è fermato, raggiungendo il mare (secondo alcune testimonianze cantando la canzone anarchica Addio Lugano bella), in cui si è rifugiato mentre, come se si stesse realizzando una vera e propria caccia all’uomo, sopraggiungevano forze dell’ordine e operatori sanitari su tutti i fronti: a largo una vedetta della Capitaneria di porto, sulla spiaggia agenti della polizia municipale, carabinieri e operatori sanitari con ambulanza a seguito. Dopo una lunga trattativa, Mastrogiovanni è uscito dal mare, gli sono stati somministrati farmaci, ha fatto una doccia, è salito autonomamente sull’ambulanza. Tutti elementi che sembrerebbero far venir meno la necessità di un Tso che invece è proseguito: con l’ordinanza n. 53 del 31 luglio 2009, il sindaco ha disposto il Trattamento Sanitario Obbligatorio in degenza ospedaliera, e gli operatori sono rimasti sordi all’invocazione dello stesso Mastrogiovanni la cui unica richiesta, al momento di entrare sul mezzo del 118, è stata di non essere trasferito all’ospedale di Vallo perché lì, con un terribile presagio che forse ha radici in esperienze passate, si dice certo che lo avrebbero ammazzato. Come ancora troppo spesso accade, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che dovrebbe essere uno strumento eccezionale, con esclusiva valenza sanitaria, di tutela delle persone con sofferenza psichica, sembra trasformarsi in una sorta di mandato di cattura, un atto che tradisce i principi ispiratori della legge e delle tutele costituzionali, realizzando sottrazione e compressione dei diritti. Quello che è accaduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca, prima che dagli atti processuali, viene restituito dai filmati delle telecamere di videosorveglianza del reparto, che, mostrati in trasmissioni televisive, incontri e nel documentario 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio, hanno rivelato la realtà di un reparto ospedaliero di psichiatria le cui prassi di intervento nulla sembrano avere a che fare con la cura: in quelle immagini si riproduce la visione di luoghi angusti e trasandati, in cui il corpo di Mastrogiovanni (e non solo il suo) resta legato per giorni interi a un letto, mentre è sedato dagli psicofarmaci, con cinghie ai polsi e alle caviglie. In un reparto confinato da una porta sempre chiusa, medici e infermieri appaiono indifferenti al dolore, alle richieste d’aiuto, non mostrano alcuno sguardo di cura, l’unico intervento è quello farmacologico e una contenzione protratta per oltre ottantasette ore. Mastrogiovanni subisce un processo di progressiva mortificazione e nullificazione della persona, resta bloccato su un lettino troppo piccolo, che non riesce nemmeno a tenere tutto il suo corpo, a volte nudo, altre solo con un pannolone, le flebo applicate al braccio da cui, nel corso di questa vera e propria agonia, fuoriesce anche del sangue che va a formare una chiazza rossa sul pavimento, pulita dagli inservienti senza prestare alcuna attenzione al paziente. Un’assenza di empatia che si reitera per tutto il tempo del ricovero, anche quando portano il pranzo e, nel corso di una scena tragicamente grottesca, lo lasciano dove Mastrogiovanni, legato, non può arrivare, dovendolo quindi riportare via intonso, per poi affermare, nel corso del processo, che sarebbe stato Mastrogiovanni a non voler mangiare. Alcune immagini mostrano anche un altro uomo legato, evidenziando, come emerso pure nelle diverse fasi processuali, un utilizzo della contenzione acritico e routinario. […] Dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, quindi, nel reparto psichiatrico di un ospedale pubblico italiano, un uomo che svolge il lavoro di maestro elementare ed è amato dai suoi allievi, viene sedato e legato al letto mentre dorme, senza una giustificazione, senza che nessuno gli parli, lasciato in uno stato di totale abbandono, senza che si realizzino le doverose e continue azioni di controllo e monitoraggio delle sue condizioni di salute, che man mano peggiorano, senza alcuna annotazione della contenzione nella cartella clinica. Alla nipote, che, come ci racconta di seguito, si era recata in ospedale per incontrarlo, viene negato il diritto a visitare lo zio, “per non turbarlo” le dice (come troppo spesso ancora si sente ripetere in situazioni simili) il medico del reparto. Per tutto il tempo del ricovero, le braccia e le gambe di quest’uomo restano strette dalle fascette al letto, non può muoversi, non si alimenta e non beve autonomamente, gli somministrano integratori e psicofarmaci volti alla sedazione di uno stato di agitazione che, come conferma nel successivo dialogo Ortano, nulla ha che fare con atteggiamenti auto o etero-aggressivi (che Mastrogiovanni non manifesta mai durante il ricovero), ma cresce, col passare delle ore, proprio per l’impossibilità di muoversi, per l’essere bloccato, per le abrasioni e le escoriazioni sul corpo, determinate da quella condizione di cattività resa ancora più insopportabile dal caldo di quelle giornate estive. Francesco Mastrogiovanni muore nella notte per edema polmonare acuto, ma se ne accorgeranno solo in mattinata, annotando il decesso nella cartella clinica a distanza di dieci ore dalla precedente indicazione.
November 25, 2024 / NapoliMONiTOR
Spina Tremula. Le foto di Spada e Ippolito negli spazi del Chikù a Scampia
(foto da: spina tremula) Fino al 31 dicembre sarà possibile visitare Spina Tremula, la mostra di Mario Spada e Gaetano Ippolito allestita negli spazi del centro Chikù (largo della Cittadinanza attiva – viale della Resistenza, Comparto 12) a Scampia. Insieme all’esposizione, quindici giovani della città verranno coinvolti in un laboratorio di narrazione e di fotografia stenopeica. Martedì 12 novembre, alle 12:00, sempre da Chikù, sarà possibile incontrare e discutere con gli autori della mostra.  Spina Tremula è il lavoro presentato il 24 ottobre nella sede di Chi rom e chi no da Mario Spada e Gaetano Ippolito, artisti napoletani di casa al Centro di fotografia indipendente di piazza Guglielmo Pepe, in zona Porta Nolana. Spada ne è fondatore e insegnante; Gaetano, cresciuto nell’area nord, vi è entrato come studente e ora insegna anche lui, specializzato nelle pratiche di sviluppo e stampa in camera oscura. Se appare evidente la differenza generazionale in Gaetano e Mario, entrambi i loro lavori sono realizzati a Napoli e partono dalla raccolta di migliaia di fotografie. La selezione qui riunita corrode i confini tra le due sequenze per la scelta di abbandonare l’ordine autoriale. Ragionano entrambi sulla possibilità della perdita del nome, confondono le ricerche per smarrirsi e spostare chi osserva; e chi legge, a partire dal titolo. La firma che sgomita per accedere agli spazi espositivi del mondo dell’arte e del mercato, a Napoli e altrove, dove bandi, call e residenze basano festival e campagne di produzione sul principio della competizione, trova spazio di rivolta in Spina Tremula. Lo stesso vale per la produzione del lavoro durante il processo di realizzazione. Una sincerità asciutta e reciproca vive nel confronto quotidiano tra i due. Ciascuno ha scelto per l’altro le immagini da selezionare e da escludere per la costruzione della mostra, portando a confondersi i due sguardi sulla città. “Nelle opere si vuole uscire da uno sguardo confortevole – incide Spada – su una città che non è possibile raccontare attraverso la fotografia”. Il suo lavoro è radicato nell’incertezza; le fotografie non descrivono, ma fanno sussultare direttamente la vista, e tremano non soltanto nello scatto, ma amplificano tale tremore sino al corpo eretto di chi guarda. Arrivare a chiedersi: se questa non è la città che viene raccontata, e neppure quella che conosco, dunque dove ci si trova, per dove arrivare? La posizione è altresì spinosa, e tremula; si abbassa china sulle zampe del cane che incontrano i piedi minuti del neonato; e si apre al cielo, affrontando la gravità del tuffo dall’alto; sta alle spalle di una muta alata, piccola e pronta all’incontro con il paesaggio scuro; avverte posizioni laterali, del passeggero attratto dall’incavo del vagone, che distrattamente possono sfuggire allo sguardo addomesticato. La possibilità di veder stampate in tali dimensioni e in qualità fine art queste fotografie può provocare l’inciampo di percorsi di vita di ragazzi e di ragazze che quotidianamente attraversano il centro Chikù; chissà che qualcuna e qualcuno, di fronte a queste non si innamori dell’atto, e trovi nei laboratori che verranno avviati nel centro la possibilità di comunicare le proprie inquietudini. Raggiungere lo sguardo di più ragazzi potrebbe essere il proseguimento della tensione sprigionata da questa iniziativa, alimentando il discorso e l’incontro intorno alla fotografia, che in quanto scrittura con luce non si riduca alla stampa posizionata, ma che allacci un percorso cominciato dalla postura dell’artista che sceglie di essere occhio testimone, e di non voltarsi di fronte agli eventi quotidiani speciali, orrendi, semplici o normali, ma di sostare prossimo a questi, qualificandoli nel quadro, tramite ciò che sta al di fuori, ciò che sta alle spalle, nella creazione di un proprio tempo che tenta di sabotare il dispositivo. La mostra è per Spada anche un’occasione che consente di guardare a muro le fotografie, per alimentare la motivazione a cercare gli ultimi fondi che mancano alla pubblicazione dell’atteso libro Spina, dopo un anno di lavoro di editing condiviso con Patrizio Esposito. La mostra rientra nella cornice dell’Ecomuseo diffuso di Scampia, un tentativo di unire il patrimonio materiale e immateriale del quartiere, che attraversa lo spazio pubblico con uno sguardo critico che taglia la neutralità apparente rispetto la narrazione dei luoghi, e risalta le trasformazioni avviate dal basso e contro le possibilità negate a quegli spazi a oggi chiusi e inaccessibili, ancora una volta privati ai cittadini. L’ultimo lavoro apparso in città di Gaetano Ippolito era stato installato al Giardino Liberato, per i due eventi Family Jewels curati da Chiara Pannunzio. Insieme a Lia Morreale, Gaetano aveva allestito la stanza come fosse l’occhio saturato dallo stratificarsi delle immagini di violenza, che nell’esporsi si abitua. Centinaia di immagini al muro, a terra tre schermi di televisori catodici, mostravano i resti dei materiali dai quali le immagini venivano estrapolate. Uno di questi una scritta: nell’invito a prenderne parte attivamente. Invito alla distruzione. Nello strappare le immagini, e portarle con sé. Spina Tremula, citando l’intervento di Maurizio Zanardi durante l’apertura, vuole “fare inciampare quella maledetta fotografia della città. L’immagine di Napoli non compare mai nelle foto di Spina. Napoli viene dimenticata. Solo così è possibile ricordarla, attraversandone le membra scritte con la luce”. (leonardo galanti)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
Teatro proletario dei bambini. Asja Lacis e Walter Benjamin a Napoli e Capri
(asja lacis) Il progetto “Sud e porosità – south & porosity” prende spunto dal centenario del soggiorno di Walter Benjamin e Asja Lacis a Capri e a Napoli (1924-2024). Curato dalla germanista Valentina Di Rosa e dall’artista Andris Brinkmanis, prevede dal 23 al 26 ottobre un convegno, una mostra, una performance e l’apposizione di una targa commemorativa a Capri.   Approfittiamo di questa felice occasione per pubblicare lo storico testo di Asja Lacis sul teatro proletario dei bambini. *     *     * Mentre sostenevo gli ultimi esami allo studio, a Pietrogrado fu preso il Palazzo d’Inverno: i soviet erano al potere. Da Pietrogrado la rivoluzione balzò verso Mosca, nonostante la resistenza di qualche gruppo isolato di Junker durasse ancora qualche giorno. Lo studio continuava a lavorare. La sera, mentre rincasavo, sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo. La rivoluzione stava cambiando i rapporti fra le persone, la concezione del lavoro; si aprivano prospettive completamente nuove. Allo studio si formarono gruppi avversi, si esigeva un immediato cambiamento del repertorio e del piano di studi. Gran parte degli insegnanti della scuola lettone per i profughi era convinta che il potere dei soviet non avrebbe retto a lungo, ma gli scrittori, gli insegnanti e gli studenti di sinistra sentivano l’avvicinarsi di tempi nuovi. Quando lessi sui muri delle case i primi appelli “A tutti! A tutti!” firmati da Lenin, fui completamente per il soviet: volevo essere un buon soldato della rivoluzione è modificare la mia vita sotto la sua guida. La vita intanto cambiava tutt’intorno; il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro. Cominciava l’“Ottobre teatrale”. I teatri non cambiarono rotta simultaneamente: alcuni si mantennero scettici più a lungo e temporeggiarono. Il dottor Dappertutto di Pietroburgo, l’infaticabile sperimentatore, fu il primo fra la gente di teatro a prendere posizione per il soviet. Cercò il contatto con i lavoratori nelle fabbriche, con gli appartenenti all’Armata rossa, con il Komsomol, e organizzò dovunque circoli teatrali. Indossava l’uniforme dell’Armata rossa. La sua messa in scena a Pietrogrado della Presa del Palazzo d’Inverno** costituì il modello per successive rappresentazioni di massa all’aperto, a cui prendevano parte migliaia di persone, mentre decine di migliaia vi assistevano. Le messe in scena delle opere rivoluzionarie Mistero buffo, La terra in subbuglio, Trust D. B. e altre ancora proseguirono gli esperimenti precedenti (abolizione della ribalta, riscoperta del macchinismo teatrale, colloquio col pubblico, stile scenografico “condizionato”) e introdussero importanti innovazioni (pubblicistica dichiaratamente di parte, caratterizzazione sociologica, drammaturgia aperta che si rifaceva alle tecniche del varietà, scena costruttivista, ecc.). Fu considerato il capo dell’Ottobre teatrale. La mia attività registica a Orel, Riga, Mosca, Kasakistan e Walmiera deve molto a Mejerchol’d. Oggi vedo chiaramente quale forza fosse contenuta nel suo “teatro condizionato” e nella sua filosofia dell’arrangiamento, e con quale inesauribile fantasia egli utilizzasse i mezzi di espressione teatrale. Nel 1918 mi trasferii a Orel, per lavorare come regista al teatro cittadino: avevo la strada spianata, quindi. Ma le cose andarono diversamente. Per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprisorniki. Fra loro c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico si adoperava per sistemare i bambini sbandati in collegi e officine, ma riuscivano sempre a scappare. Negli ospizi municipali invece erano ospitati gli orfani di guerra. Volli visitarli. Questi bambini avevano da mangiare, erano vestiti decorosamente, avevano un tetto sul capo, ma guardavano intorno come vecchi: occhi stanchi, tristi, nulla li interessava. Bambini senza infanzia… Non si poteva rimanere indifferenti davanti a quello spettacolo, dovevo fare qualcosa e capii subito che in questo caso non sarebbero certo bastate le canzoncine e i balletti. Per ridestarli dal loro letargo occorreva un impegno che li coinvolgesse totalmente e riuscisse a liberare le loro facoltà traumatizzate. E io sapevo quale forza prodigiosa fosse racchiusa nel gioco teatrale. Abitavo in una bella casa aristocratica dove, si dice, devono aver vissuto gli eroi del Nido di nobili di Turgènev. Le stanze avevano grandi finestre di linea gotica; attraverso gli annosi alberi di acacia la vista giungeva fino alla conca del fiume. Spazi del genere sembravano fatti apposta per un teatro di ragazzi. Andai dal responsabile dell’istruzione popolare della città e gli esposi il mio progetto. A Ivan Michail Curin il piano piacque. Le stanze furono unite a formare una sala, le cui pareti furono decorate di affreschi. Avevamo calcolato che sarebbero venuti quindici bambini: ne vennero cento. Ero convinta che fosse possibile risvegliare e formare i bambini per mezzo del lavoro teatrale. Certo sarebbe stato semplice trovare un brano adatto per i bambini, assegnare le parti e provare con i ragazzi fino ad arrivare alla rappresentazione. Questo avrebbe certamente tenuto occupati i bambini per un periodo di tempo, ma la loro evoluzione difficilmente ne sarebbe stata stimolata. Quando si prova con i bambini un testo dato, si lavora fin dall’inizio soprattutto per una meta precisa: la prima rappresentazione. I bambini avvertono incessantemente una volontà estranea che li guida e li costringe: la volontà del regista. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo: la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà estetiche e morali. Io volevo portare i bambini a che il loro occhio vedesse meglio, il loro orecchio udisse più finemente, le loro mani formassero dal materiale informe oggetti utili. A questo fine ripartii il lavoro in sezioni. Per sviluppare l’occhio, la vista, i bambini dipingevano e disegnavano. Dirigeva questa sezione Viktor Šestakòv, che più tardi lavorò come scenografo con Mejerchol’d. Un pianista guidava l’educazione musicale. C’era poi l’addestramento tecnico: i bambini costruivano oggetti, edifici, animali, figure e così via. Altre sezioni della mia scuola sperimentale a Orel erano dedicate al ritmo e alla ginnastica, alla dizione e all’improvvisazione. Le forze latenti che si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si sviluppavano, le unificavamo mediante l’improvvisazione. Così nasceva il nostro teatro, in cui bambini recitavano per bambini: l’insieme delle attività si traduceva in una forma estetica rigorosa e nel contempo collettiva. L’educazione borghese tende a sviluppare una facoltà particolare, un particolare talento. Stimola gli individui unilateralmente. Per dirla con Brecht: essa vuole “commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, la comparsa davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando. Il regista come pedagogo si tiene continuamente in primo piano e tormenta i bambini. (Una battuta indovinata: “Che cos’è un palo del telegrafo? È un abete riveduto e corretto”. Purtroppo vengono spesso riveduti e corretti in tal modo anche i nostri bambini). Scopo dell’educazione comunista è liberare la produttività sulla base di un alto livello generale di formazione, siano o non siano presenti attitudini particolari. La mia origine proletaria e gli studi presso il professor Bechterev a Pietroburgo mi spingevano verso questo principio educativo, e a Orel io cercavo di applicarlo all’educazione estetico-proletaria dei bambini. Punto di partenza per educatori ed educandi fu per noi l’osservazione. I bambini osservavano le cose, i loro rapporti reciproci e la loro modificabilità; gli educatori osservavano i bambini, ciò che riuscivano a ottenere e fino a che punto sapevano utilizzare in maniera produttiva le proprie capacità. L’osservazione non veniva praticata e sviluppata soltanto all’interno dello studio con il disegno, la pittura, la musica, ma anche all’aperto. Al mattino presto e poi ancora alla sera ce ne andavamo fuori con i bambini e facevamo notare loro come i colori mutassero a seconda della distanza e dell’ora del giorno, come di mattina e di sera suoni e rumori risuonassero diversamente, e come il silenzio può cantare… Con i bambini che venivano alla casa di Turgènev dagli ospizi municipali non ci furono difficoltà. Ai besprisorniki invece non riuscii ad avvicinarmi per molto tempo. Quando rivolsi loro la parola per la prima volta al mercato e li invitai a venire da noi, mi schernirono, mi minacciarono coi bastoni e mi mandarono a quel paese. Ma io ritornai. Si abituarono a me e ai nostri battibecchi, tanto che se rimanevo lontana molto tempo e poi tornavo, mi si facevano intorno urlando, come con una vecchia conoscenza. Frattanto alla casa di Turgênev il lavoro progrediva. Notammo che ormai i bambini chiedevano di materializzare in oggetti la fantasia e le capacità acquisite. Una tappa importante: questo bisogno deve essere soddisfatto, la fantasia infantile non deve andare perduta: passammo quindi all’improvvisazione con materiali concreti. Avevo scelto un pezzo per bambini di Mejerchol’d, Alinur (dalla fiaba di Oscar Wilde Il ragazzo delle stelle). I bambini non conoscevano i miei piani. Diedi loro come esercizio di improvvisazione una scena tratta da questo lavoro: alcuni predoni siedono nella foresta intorno al fuoco e si vantano delle proprie imprese. Nel bel mezzo di questa scena ricevemmo, poco dopo, la prima visita dei besprisorniki alla nostra casa. I bambini saltarono in piedi e volevano scappar via da quegli invasori, che avevano effettivamente un aspetto temibile: elmi di carta sul capo, corazze di rami e pezzi di latta, picche e bastoni in mano. Convinsi i bambini a continuare l’improvvisazione senza prestare attenzione agli intrusi. Dopo un po’ Vanika, il capo dei besprisorniki, entrò nel cerchio di quelli che recitavano e fece un cenno al suo gruppo: i compagni spinsero da parte i bambini e cominciarono a recitare essi stessi la scena. Si vantavano di assassinii, incendi, ruberie, con cui cercavano di superarsi a vicenda in crudeltà; poi si alzarono e squadrarono con disprezzo beffardo i nostri ragazzi: “Ecco come sono i briganti!”. Secondo tutte le regole pedagogiche avrei dovuto interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti, ma io volevo riuscite a conquistarmi un ascendente su di loro. Infatti vinsi la partita; i besprisorniki ritornarono e presero in seguito parte attiva al nostro teatro. Improvvisare lo spettacolo significò per i bambini felicità e avventura. Si impegnarono a fondo e il loro interesse si ridestò. Si lavorò seriamente; tagliando, incollando, danzando e cantando impararono i testi. Così prese vita la figura del cattivo ragazzo tartaro Alinur, che insultava sua madre e terrorizzava gli altri bambini. Soltanto quando il lavoro delle singole sezioni sembrò richiedere una sintesi, si discusse se rappresentare il testo pubblicamente. Emerse così l’esigenza di un fare collettivo – l’educazione morale-politica in senso socialista – e il desiderio di mostrare il lavoro anche a tutti gli altri bambini della città. La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e grandi. La sera furono in molti a seguirci nella strada di ritorno verso la casa di Turgènev. Il nostro metodo si era dimostrato valido. Avevamo avuto la prova che era giusto far rimanere completamente in disparte gli adulti. I bambini avevano la certezza di fare tutto da soli, e giocando lo facevano. Nessuna ideologia era stata loro imposta e inculcata; si erano appropriati di ciò che trovava riscontro nella loro esperienza. Anche noi, gli educatori, avevamo imparato e visto molte cose nuove: con quale facilità i bambini sappiano adattarsi alle situazioni, fino a che punto siano creativi e con quale sensibilità reagiscano. Quegli stessi bambini che sembravano incapaci e limitati, avevano rivelato capacità e talenti insospettati. Durante la rappresentazione si erano liberate tensioni sorprendenti, che la fantasia scatenata delle loro invenzioni rendeva tangibili. Nel 1928 a Berlino raccontai di questo mio lavoro a Johannes R. Becher e a Gerhard Bisler. Il modello di un’educazione estetica dei bambini piacque e mi proposero di creare un teatro di bambini di questo tipo nella casa di Liebknecht. Dovevo dunque stendere il programma. A Capri (1924) avevo già parlato con Benjamin del mio teatro dei bambini ed egli aveva mostrato uno straordinario interesse al riguardo. “Scriverò io il programma – disse – e spiegherò e motiverò teoricamente il tuo lavoro pratico”. Lo scrisse davvero, ma nella prima stesura le mie teorie furono esposte in maniera terribilmente complicata. Alla casa di Liebknecht lessero e risero: “Questo te l’ha scritto sicuramente Benjamin!”. Riportai il programma a Walter Benjamin: doveva scrivere in maniera più comprensibile. Nacque così il Programma per un teatro proletario dei bambini nella sua seconda stesura (la prima non è più stata ritrovata). Brano tratto da A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, 1976, pp. 78-83. ________________________________ *L’A. attribuisce erroneamente a Mejerchol’d la regia de La presa del Palazzo d’Inverno, che porta invece la firma di Evreinov. [N.A.T.]
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