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Futuro presente: Amazon e il suo dominio globale
(archivio disegni napolimonitor) Oggi, giovedì 29 maggio, alle ore 17:30, presso Zero81 – Laboratorio di mutuo soccorso (largo Banchi Nuovi, 10), sarà presentato il nuovo volume del collettivo Into the Black Box, intitolato Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon. Il dibattito vedrà la partecipazione di Niccolò Cuppini e Maurilio Pirone. *     *     * Il caso Amazon ha generato un vasto dibattito a livello internazionale. Anche in Italia, in questi anni, non sono mancate pubblicazioni, traduzioni e analisi critiche. Altre ricerche promettenti sono tuttora in corso, e contribuiranno a delineare un quadro complesso. Tra le numerose pubblicazioni che hanno affrontato l’argomento, tre volumi meritano di essere menzionati. Il costo della spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, curato da Jake Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, è un testo fondamentale per comprendere le molteplici caratteristiche di questa multinazionale. Il Magazzino di Alessandro Delfanti offre invece un’indagine puntuale sulla vita all’interno dell’hub logistico Amazon di Piacenza. Infine, Conflitto di classe e sindacato in Amazon, curato da Marco Veruggio, è un volume agile che raccoglie i contributi di alcuni collaboratori di Amazonians United (questo volume lo abbiamo presentato di fronte ai lavoratori della logistica distributiva napoletana in stato d’agitazione da oltre un anno). A questa ricca letteratura si aggiunge ora Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon (Red Star Press, 194 pagine, 20 euro), curato dal gruppo di ricerca Into The Black Box. Questo collettivo, nato dalle esperienze di lotta nell’area metropolitana di Bologna, si è distinto negli ultimi anni per la capacità di elaborare riflessioni teoriche di ampio respiro sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Trovare un minimo comune denominatore tra questi testi non è facile, ma in ognuno si percepisce lo sforzo, declinato in modi diversi, di comprendere una fase storica definita dalla personalizzazione di massa, un fenomeno scaturito dalla coniugazione tra mondo logistico e digitalizzazione. L’ultimo lavoro di Into the Black Box nasce da un’inchiesta territoriale sulla logistica, che ha presto dovuto confrontarsi con dinamiche che andavano oltre il territorio d’indagine. E il nesso tra il locale e il globale, in questo contesto, non poteva che essere il colosso multiforme di Jeff Bezos. Come sottolinea Sandro Mezzadra nella prefazione, l’intento non è ridurre il capitalismo a una semplificazione su Amazon (dato che sul mercato globale operano anche altri attori simili come Mercadolibre e Alibaba). Si tratta piuttosto di analizzare un modello di integrazione di diversi piani di azione economica che, nel loro insieme, manifestano “un potere infrastrutturale che mira a egemonizzare le relazioni socio-economiche”. Amazon non si limita a invertire il rapporto tra circolazione e produzione, ma esemplifica e condiziona le operazioni del capitale, colonizzando e privatizzando il futuro. Da qui il titolo del volume. Il collettivo dimostra come Amazon sia molto più che semplice logistica, evidenziando che l’irrompere del digitale ha ibridato la materialità stessa delle infrastrutture. In quest’ottica, Amazon si configura come “capitale costituente”, capace di agire come un ecosistema espanso e gerarchico che si allarga in altri settori, influenzando la sfera sociale e politica. Il volume analizza e mette in relazione molteplici dimensioni. Amazon funge da punto di accesso per indagare l’intreccio tra salto tecnologico, relazioni socio-economiche e questioni politiche. La sfida è comprendere a fondo il paradigma Amazon: un’azienda partita come startup e cresciuta fino a valere miliardi di dollari, che si struttura come un impero commerciale con una proiezione globale. Un gigante che si caratterizza per la sua aspirazione a dettare standard e regole del mercato, monopolizzando ambiti cruciali attraverso specifiche politiche di sviluppo, un assemblaggio spregiudicato di giochi finanziari, uso di nuove tecnologie, modalità originali di organizzazione della forza lavoro e una spiccata capacità di influenzare il potere politico dello stato. Secondo questa interpretazione, Amazon agisce come soggetto politico in un doppio senso: sia come un’infrastruttura dotata di un potere di indirizzo dei flussi di merci, informazioni, saperi e capitali, sia come un vero e proprio attore politico che si sovrappone alle prerogative che in precedenza appartenevano alla sfera pubblica. Unendo razionalità logistica, innovazione tecnologica e servizi digitali, Amazon gioca un ruolo determinante nell’espansione del capitalismo contemporaneo, arrivando a indirizzarne lo sviluppo e incidendo tanto sulla dimensione territoriale della metropoli planetaria quanto sull’immaginario collettivo, fondato sulla fusione tra tecnologia e lavoro umano. Di fronte a questo scenario, una prima risposta che emerge dal volume sembra essere la critica all’ineluttabilità di queste dinamiche. L’analisi di Amazon non si limita a descrivere un impoverimento dell’esperienza umana, ma suggerisce altre possibilità di azione dall’esito non prevedibile. Si intravede quindi un’ambivalenza, secondo gli autori del volume. Il ruolo sempre più “infrastrutturale” di colossi come Amazon nella riproduzione sociale e nella gestione della macchina statale ci pone dinanzi a nuove sfide, che possono essere affrontate con gli strumenti che questi stessi processi mettono in circolazione. L’enorme quantità di dati accumulati, elaborati e utilizzati dalle Big Tech, conferisce loro un potere che si dirama in tutte le nostre interazioni sociali e che non si limita a fotografare l’esistente, ma delinea il campo di possibilità del nostro agire. Questo punto merita attenzione. Se è vero che siamo davanti a una “amazonizzazione della società”, se il dominio globale del mondo secondo Amazon è dettato dalla capacità di sintetizzare diverse operazioni del capitale, di costruire immaginari e di esercitare un potere governamentale, e se in definitiva questo paradigma ingabbia e al contempo sprigiona energie vitali, è importante riconoscere che la diffusione di queste dinamiche non è omogenea. Nelle società avanzate persiste un divario significativo tra tecnologia potenziale e quella effettivamente applicata, sia nel progresso tecnologico in sé che nelle sue applicazioni ai processi produttivi e distributivi. Accanto a risorse inutilizzate come valore non impiegato nella produzione, forza lavoro disoccupata, risorse naturali non sfruttate e capacità produttiva latente, esiste anche una plustecnica potenziale: uno scarto ben superiore al semplice ritardo applicativo, tra ciò che la tecnologia potrebbe fare e ciò che fa realmente. Questo suggerisce sia una certa fragilità del potere infrastrutturale che una non linearità dello sviluppo che il paradigma Amazon potrebbe indirizzare. Se questa premessa è corretta, si può ipotizzare l’intima irrazionalità del capitalismo di cui Amazon è una diretta espressione. Il suo potere infrastrutturale potrebbe essere più debole di quanto non sembri, e di pari passo, il dominio delle Big Tech su economia, politica, società e immaginari rischia di essere sovrastimato. Sebbene Amazon stia costruendo una realtà malleabile e riprogrammabile a suo piacimento, questa stessa realtà è sovvertibile in una pluralità di modi tutti da sperimentare o, meglio, che si stanno già sperimentando. Il lavoro di ricerca collettivo di Into the Black Box getta una luce sulle dinamiche di espansione e colonizzazione di un colosso che è molto più di un e-commerce, indagandone ramificazioni e forme del potere e stimolando una riflessione sulle pratiche di conflitto da escogitare per il futuro. (andrea bottalico)
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Pornografia o documentario? San Damiano, un film sulle disgrazie di Termini
(archivio disegni napolimonitor) Nel 1949, utilizzando per la prima volta in Italia il registratore magnetico a nastro, il giornalista della Rai Roberto Costa realizza un documentario inchiesta che rimane nella storia del giornalismo radiofonico. Si chiama I barboni. Dopo anni di conversazioni con decine di persone che vivono tra le strade di Milano, Costa affida loro il microfono. Ci sono disoccupati, cantanti, musicisti, poeti, “gente che si è fatta una cultura rinunciando a ogni cosa superflua”. È un lavoro onesto: l’autore scende per strada, ascolta, impara, riflette, registra. Nessun pugno nello stomaco, nessuna musichetta commovente a sottolineare i racconti. Sono biografie autentiche, complesse. Una ex insegnante caduta in disgrazia durante la guerra, un ex ufficiale dell’esercito, una ex studentessa universitaria separata dal marito che vende fiori per strada, “il mondo è pieno di gente che dà consigli, ma nessuno aiuta”, dice nel registratore. L’ho riascoltato, dopo avere visto al cinema San Damiano, film del 2024 di Alejandro Cifuentes e Gregorio Sassoli, in questi giorni sul grande schermo di decine di sale italiane. I registi incontrano Damiano vicino alla stazione Termini e iniziano a filmarlo. Damiano è un trentacinquenne polacco fuggito dall’ospedale psichiatrico di Breslavia, è ripreso mentre monta audacemente su una torre delle mura aureliane alle spalle della stazione, è ripreso mentre infila il suo pene tra le chiappe di una donna alle spalle dei binari, mentre picchia ripetutamente un uomo, mentre una donna lecca avidamente il suo piede. Le immagini sono perfette, la fotografia nitida, la colonna sonora coinvolgente. Attorno a Damiano, ci sono uomini e donne disperati, una ragazza si infila un ago in una mano, una donna mostra le tette alla telecamera, un’altra il pube, un uomo balla di fronte all’obiettivo, guarda dritto in camera e spacca a gomitate il vetro di una macchina. Nei giorni successivi leggo qualche recensione. “Senzatetto ma turrito, Damiano ci prende e ci si porta via, interrogando la nostra visione fin nel profondo, laddove è morale”. “Si avvale di una sincera libertà creativa che è davvero rara, in una stabilità che non si incrina neppure davanti a un possibile eccesso ed è attraversato da una sorta di purezza”. Scopro anche che è stato premiato di recente a Lo Spiraglio Film Festival della Salute Mentale di Roma “per la potenza della sua narrazione, che affronta con profondità i temi della migrazione, del trauma e della violenza vissuti dai protagonisti ritraendo il personaggio principale con realismo, senza idealizzarlo né censurare le sue contraddizioni”. Ne parlo con Francesco Conte, giornalista, attivista, da anni frequenta la stazione Termini, stringe amicizie, racconta storie, insieme al gruppo Mama Termini organizza cene, distribuisce cibo ogni domenica nella piazza antistante la stazione e anima lo spazio pubblico con concerti. “Il punto non è il film, ma quello che c’è dietro. Critichiamo il prodotto senza capire come è stato prodotto. San Damiano è come i pomodori raccolti dai sikh a Latina, i recensori mangiano il pomodoro ma non si chiedono davvero da dove arrivi. Fin quando la gente che si occupa di cultura non esce davvero per strada, questa cultura è divertissement borghese”. Che i registi in qualche misura si siano affezionati al protagonista, traspare da un passaggio del film – che fatico onestamente a chiamare documentario – in cui i due accompagnano Damiano, che aspira a diventare cantante, in una sala di registrazione. Tuttavia ancora una volta il racconto cede il passo all’esibizione, si riduce a due minuti di ripresa del matto che canta nella sala, urla, si sgola, si danna per qualcosa che non torna. Della sua musica nelle nostre orecchie non rimane nulla. L’episodio narrato allarga ancora di qualche chilometro quello spazio tra il noi che siamo qui, seduti sulle poltroncine a guardare, e il loro davanti alla camera, sporchi e disperati. Eppure qualcosa dentro noi – sempre quelli delle poltroncine – si muove. Non è ascolto, non è comprensione: è l’appagamento di una sordida brama pornografica di sangue, disgrazia e fango. Il film ha un epilogo spettacolare: Damiano, dalla cima della torre in cui ha costruito il suo rifugio, appicca un incendio. I “documentaristi” documentano. Arrivano le forze dell’ordine. Damiano è rispedito in Polonia, ora è di nuovo in un ospedale psichiatrico. (marzia coronati)
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Come Cristo in croce. Da un libro sulla contenzione uno spiraglio per la sua abolizione
(disegno di ginevra naviglio) Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione, di Antonio Esposito, è un libro politico, di testimonianza e denuncia. L’autore ci mette in dialogo con chi la contenzione meccanica l’ha vissuta e con chi lavora quotidianamente per superarla, consentendoci di vedere oltre l’apparente stato di necessità che ancora legittimerebbe le violenze di cui racconta. In tradimento al lavoro e alle aspettative del gruppo Basaglia, la contenzione meccanica è tutt’oggi una prassi nelle strutture di assistenza psichiatrica. Per contenzione meccanica, scrive Mauro Palma, “si intende l’utilizzo di dispositivi applicabili al corpo e allo spazio circostante la persona, per limitare la libertà dei movimenti volontari; in particolare, i mezzi applicati al paziente allettato o seduto, i mezzi di contenzione di segmenti corporei e quelli che determinano una postura obbligata”. Dichiarata già con la sentenza Mastrogiovanni “un presidio restrittivo della libertà personale con una mera funzione cautelare” e non una prassi terapeutica, la contenzione continua tuttavia a essere utilizzata, perché considerata inevitabile per far fronte alle situazioni d’urgenza. L’urgenza: è l’abusata logica dell’emergenza che, anche in ambito psichiatrico, non solo consente di aggirare i limiti normativi e utilizzare una tecnica che tradisce i principi della legge 180, ma impedisce anche di destituire quel paradigma manicomialista che sopravvive, subdolo, alla sua formale abolizione. Che sia perché ancora condiviso dalla forma mentis del sistema medico di cura, o perché passivamente reiterato nell’abitudine di una prassi routinaria, il dispositivo si conserva nelle maglie di una narrazione che poggia sull’impossibilità di gestire altrimenti l’escalation dello stato d’alterazione mentale. Mostrandoci invece la possibilità concreta di prassi alternative, e condividendo con noi l’esperienza di medici che operano in reparti no-restraint, Esposito riesce a spezzare la linearità dello schema causa-effetto che giustifica il ricorso alla contenzione: se è possibile fare altrimenti, legare diventa una scelta di cui doversi assumere la responsabilità. Fuori dallo stato di necessità, gli abusi psichiatrici possono finalmente dichiararsi tali e i racconti di chi li ha subiti diventano denuncia immediata di un sistema che avrebbe dovuto mettersi nella condizione di non attuarli. Le storie che intessono le trame del libro restituiscono alle persone che le hanno vissute l’ascolto di cui il sistema sanitario le ha private. Wissem, Francesca, Elena, Bruno, Alice, Elio, Mariarosaria: da pazienti scorporati, succubi di decisioni altrui, tornano soggetti di vissuti che, direttamente o indirettamente raccontatici, possono mettere in crisi quello sguardo stigmatizzante che si è fatto complice delle loro crocifissioni. La “banalità del male” della contenzione meccanica si reitera, infatti, inosservata, solo finché non si interrompe il processo di spersonalizzazione che reifica a oggetti i soggetti psichiatrizzati. Non appena cambia il focus della prospettiva, a emergere è l’asimmetria di potere che si cela dietro il paternalistico “è per il suo bene”; da camuffata, risulta a quel punto esplicita l’ingiustizia costitutiva della contenzione – una violenza subdola, ci dice Esposito, “agita a parte dalla sottrazione delle parole della relazione e dell’imposizione di un vocabolario di comando”. Il ribaltamento del punto di vista crea una frattura che è, insieme, rottura e spiraglio: restituita alle persone la propria centralità, non solo crolla l’impalcatura retorica che giustifica i nodi della custodia psichiatrica, ma apre alla possibilità di ripartire da fondamenta diverse per costruire una salute mentale di comunità. Marga Romagnoni, intervistata da Esposito, spiega: “Affinché i processi di deistituzionalizzazione siano pienamente realizzati, perché si smetta di legare le persone, è necessario il riconosciuto protagonismo delle persone con esperienza di sofferenza psichica, accompagnato, certamente, dal sostegno di tutti gli altri”. È solo tornando alle persone che si può smettere di ricondurre a false interpretazioni e categorie nosografiche l’esigenza di assistenza e di cura, unico modo per dare priorità alla flessibilità, ai tempi della relazione, non più subordinati alle esigenze di sicurezza e tranquillità interna delle istituzioni sanitarie. È tornando alle persone che si può costruire uno spazio terapeutico in cui, in sinergia tra diversi attori e saperi, è possibile prevenire e affrontare le crisi senza che raggiungano il picco dell’emergenzialità, rispettando la corporalità di chi vive la condizione psichiatrica e assumendosi la responsabilità di accogliere e riconoscere il suo dolore. Ponendo al centro la “rincontrattazione”, l’assistenza pubblica può concepirsi dinamica e in continua revisione: può farsi coraggiosa, fuori dagli schemi, anarchica, erogatrice di un servizio non-violento perché strutturato nella relazione, tanto con le persone alle quali si rivolge, quanto con i membri dell’equipe, con il privato e il pubblico sociali. Le esperienze del Csm di Gorizia, dell’Spdc di Ravenna e dell’Ausl della Romagna ci insegnano proprio questo nei loro tentativi di dare forma concreta all’immaginario proposto da Sergio Pirro già nel 1994: un servizio territoriale che sia armonicamente composito di strutture differenziate che si coordinano tra loro, dando vita a una salute mentale multiordinale e pluriqualitativa, reperibile, tempestiva e non selettiva. Accompagnandoci oltre lo specialismo disciplinare e le porte chiuse dei reparti psichiatrici, Esposito ci permette, quindi, non solo di vedere i limiti di un’assistenza sanitaria degradata in custodia costrittiva, ma di superarli all’interno del percorso da lui stesso tracciato, facendoci immergere nella prospettiva di una cura che si esprime nel contatto di un abbraccio comprensivo. È questo il profondo potenziale del suo lavoro: ripartendo dai “sommersi” e dai “salvati” e dalle loro voci dissonanti, ci consegna un orizzonte abolizionista che già attraverso le sue parole inizia a prendere realtà. (zoe ermini)
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La malattia contro il potere. Giovanna Ferrara e l’innocenza dei dinosauri
(disegno di escif) Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna Ferrara) Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara (edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura affascinante, lieve e delicato.    L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante” giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una prospettiva di futuro. Tutto il respiro che avevo era pianto Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al racconto,  l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si conquistano con una lotta personale. Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo. L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”. Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere […] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.  Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo” senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li chiamavi”. Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.: “Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio e pratica e approfondimento”. G. non  contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto urgentissimo”. “Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […] come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per morire)?”. “Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità avevo?”. La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica. Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica, a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”. Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia. La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri, nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella sera di morti che cadevano senza numero”. L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi politica è profonda perché si fonda  sulla sofferenza personale e sulla conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è una condizione umana e politica. L’oro tra le macerie “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto, “si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa. Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente, entrambe abbiamo avuto molto”.  In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi […] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il mondo non lo vuole cambiare”. Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”. Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole. Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici, alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”. (dario stefano dell’aquila)
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culture
Vivere in un mondo nuovo. Il confine immaginario tra Oriente e Occidente in un libro di Renata Pepicelli
(disegno di marco di pietro) Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente. Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche, ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono quasi profetici se si considera la  data di uscita del libro (28 febbraio) e quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto irriducibili semplificazioni? Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità, rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente. Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento, sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali. Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo, doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi, immutabili e neutrali. La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa, dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi. Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura, per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi. Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali, finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta neutralità e omogeneità nazionali. Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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Videograms of a Revolution. Domani a Galleria Toledo per la rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima proiezione della rassegna A fuoco! Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *   *   * Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato, vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di combattenti fedeli a Ceaușescu. Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest. Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori, trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione statale: una nuova, spettacolare Bastiglia. Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive. Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa, seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […] aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo. Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza. Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse, la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco migliaccio)
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Between Revolution. Domani a Galleria Toledo per la rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Domani, mercoledì 9 aprile (ore 20:30 a Galleria Toledo), riprende la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il  secondo film in proiezione sarà Between Revolution (2023), di Vlad Petri. Alla proiezione seguirà un incontro in remoto con il regista.   Pubblichiamo per introdurre il film un testo a cura di Maria Rosa.  *     *     * Due studentesse di medicina si incontrano a Bucarest. Sono gli anni Settanta e molti giovani dal Medio Oriente si recano nei paesi del blocco sovietico per ragioni di studio. Zahra è iraniana, Maria, invece, romena. Quando Zahra torna in Iran alla vigilia della rivoluzione, la loro amicizia si trasforma in un rapporto epistolare che si innesta nelle immagini della grande storia. Una storia divisa in due. Una storia ciclica. Due rivoluzioni nel giro di dieci anni: Iran 1979, Romania 1989. Between Revolutions (2023) di Vlad Petri è uno pseudo-documentario, creato da immagini d’archivio della Romania e dell’Iran a cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Assieme storia di due rivoluzioni, raccontate da due voci femminili all’unisono, e di una amicizia confiscata dalla storia. L’amicizia tra due donne di finzione i cui sentimenti sono ispirati da documenti che Petri ritrova tra quelli della polizia segreta romena.  Lo spazio del film è architettato attraverso un collage di immagini sul quale combaciano tempi diversi, e sovrapposti. Tempi, prima di tutto, emotivi. A guidare è la voce delle due amiche. Quando Maria è ancora in una Romania in bianco e nero, e solo a tratti rossa, scrive in solitudine: «La notte è come sangue che fuoriesce dalla mia bocca. Un tempo eravamo una. Un tempo eravamo una». Zahra si muove per le strade di un Iran a colori. Un Iran celeste e arioso, che canta: «O tu che porti luce nella mia alba, senza di te sono un deserto senza notte. O tu che colori la mia sofferenza di speranza, senza di te sono prigioniero della mia trappola». Zahra ha lasciato la Romania, si è divisa da Maria, per unirsi alla massa di persone e di cori che invadono le strade di Teheran: «Uniti sconfiggeremo lo Shah, uniti sconfiggeremo l’imperialismo», «lavoratori, contadini e oppressi si uniranno per sconfiggere l’oppressione». La rivoluzione irrompe nella storia del paese. «È una forza della natura» dice Zahra. E Maria sente in Zahra l’energia dell’ideale, ma l’ideale in Iran si dissolve presto. Fatta la rivoluzione le masse e le voci si frammentano. La guerra con l’Iraq che dura fino al 1989, infine, spazza via tutto. Gli ideali di speranza e cambiamento si incrociano con i moti della storia per poco tempo. Poi si spezzano e si dividono, come l’amicizia tra Zahra e Maria. Il tempo mobile delle possibilità e dell’apertura al futuro si trasforma in tempo statico di disillusione e costrizione. Le storie si riallineano. In Romania si soffoca. Il controllo sembra essersi inasprito e la polizia segreta informa il padre di Maria della corrispondenza della figlia. Uomini in nero si infiltrano nella loro vite, ne controllano i destini, in Romania come in Iran: «Ovunque bisogna obbedire alle regole, fare come dicono loro». Mentre i corpi si vestono del sistema, si muovono per il sistema. Respirano per il sistema. Il sentimento è quello di essere in una trappola che aderisce così bene al proprio corpo femminile tanto da farne parte. La propaganda romena parla di un felice «destino biologico». Eppure, il vissuto è mortale: «Ho costruito mattone dopo mattone, fino alle mie caviglie, fino al mio busto, fino al mio petto. Il mio corpo diviene duplice dentro il muro. Il mio sangue fluisce nei mattoni dai miei palmi, e rifluisce indietro bruciandomi nelle tempie. I miei capelli hanno un inebriante odore di morte. I miei mattoni sono vicini come lame d’erba. Anelo alla suprema intimità di quando il muro, stranamente, inizierà a bruciare come me». E infine la Romania brucerà. La rivoluzione si manifesta di nuovo come forza della natura. Le strade vengono invase e intasate. Le masse scorrono come sangue nelle arterie della capitale. Terremoto della storia. Ancora una volta le immagini d’archivio restituiscono l’impeto travolgente dei tempi. Un déjà-vu`. Un nuovo tempo che avanza. Un nuovo tradimento. Questa volta la vittoria è confiscata dalla miseria. Crolla il socialismo, avanza il capitalismo. Ora la vita sta dietro le vetrine tirate a lucido. È irraggiungibile. Si può solo ammirare al freddo di una nuova paura.  Brucia la bandiera americana per le strade di Teheran. Sventola per le strade di Bucarest. Negativo e positivo della stessa immagine. Ciò che resta e accompagna la storia, Maria, Zahra e lo spettatore è un sentimento di profonda nostalgia. La nostalgia di un futuro che deve ancora avvenire, che richiede di tornare al punto di partenza, al bianco e nero, per riaprire il ventaglio delle possibilità`. «Vorrei ricominciare tutto daccapo», scrive Maria a Zahra. «Torniamo a essere una, lottiamo assieme, come il tempo in cui stavi al mio fianco».  
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Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe) Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano. Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown. Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità. Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”). Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione. Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna? Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata). Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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Paris est une fête. Domani il primo film della rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).  A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *     *     * Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini, che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione. Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure (2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia. Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti. Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso, però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa, ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio, soprattutto dal giudizio morale. Distruggere le tracce, dunque. In  Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in  Paris est une fête o dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il confine.  È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore. Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è condannato a non avere documenti. In  Paris est une fête, infine, gli scontri urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile, un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene. Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza; certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce che balugina. (francesco migliaccio)
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Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri
(archivio disegni napolimonitor) Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali. *     *     * Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi. I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano. Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti. Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi. La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”. Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp. Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità. Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo – mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con lo stato, né con le Br”. A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è troppo grande la contraddizione…”. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale, sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri vecchi”. I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più generale di burocratizzazione sindacale. Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare, ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni. Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati. Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni, perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico, contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea bottalico)
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