(archivio disegni napolimonitor)
Oggi, giovedì 29 maggio, alle ore 17:30, presso Zero81 – Laboratorio di mutuo
soccorso (largo Banchi Nuovi, 10), sarà presentato il nuovo volume del
collettivo Into the Black Box, intitolato Futuro presente. Il dominio globale
del mondo secondo Amazon. Il dibattito vedrà la partecipazione di Niccolò
Cuppini e Maurilio Pirone.
* * *
Il caso Amazon ha generato un vasto dibattito a livello internazionale. Anche in
Italia, in questi anni, non sono mancate pubblicazioni, traduzioni e analisi
critiche. Altre ricerche promettenti sono tuttora in corso, e contribuiranno a
delineare un quadro complesso. Tra le numerose pubblicazioni che hanno
affrontato l’argomento, tre volumi meritano di essere menzionati. Il costo della
spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, curato da Jake
Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, è un testo fondamentale per comprendere le
molteplici caratteristiche di questa multinazionale. Il Magazzino di Alessandro
Delfanti offre invece un’indagine puntuale sulla vita all’interno dell’hub
logistico Amazon di Piacenza. Infine, Conflitto di classe e sindacato in Amazon,
curato da Marco Veruggio, è un volume agile che raccoglie i contributi di alcuni
collaboratori di Amazonians United (questo volume lo abbiamo presentato di
fronte ai lavoratori della logistica distributiva napoletana in stato
d’agitazione da oltre un anno).
A questa ricca letteratura si aggiunge ora Futuro presente. Il dominio globale
del mondo secondo Amazon (Red Star Press, 194 pagine, 20 euro), curato dal
gruppo di ricerca Into The Black Box. Questo collettivo, nato dalle esperienze
di lotta nell’area metropolitana di Bologna, si è distinto negli ultimi anni per
la capacità di elaborare riflessioni teoriche di ampio respiro sulle
trasformazioni del capitalismo contemporaneo.
Trovare un minimo comune denominatore tra questi testi non è facile, ma in
ognuno si percepisce lo sforzo, declinato in modi diversi, di comprendere una
fase storica definita dalla personalizzazione di massa, un fenomeno scaturito
dalla coniugazione tra mondo logistico e digitalizzazione. L’ultimo lavoro di
Into the Black Box nasce da un’inchiesta territoriale sulla logistica, che ha
presto dovuto confrontarsi con dinamiche che andavano oltre il territorio
d’indagine. E il nesso tra il locale e il globale, in questo contesto, non
poteva che essere il colosso multiforme di Jeff Bezos.
Come sottolinea Sandro Mezzadra nella prefazione, l’intento non è ridurre il
capitalismo a una semplificazione su Amazon (dato che sul mercato globale
operano anche altri attori simili come Mercadolibre e Alibaba). Si tratta
piuttosto di analizzare un modello di integrazione di diversi piani di azione
economica che, nel loro insieme, manifestano “un potere infrastrutturale che
mira a egemonizzare le relazioni socio-economiche”. Amazon non si limita a
invertire il rapporto tra circolazione e produzione, ma esemplifica e condiziona
le operazioni del capitale, colonizzando e privatizzando il futuro. Da qui il
titolo del volume. Il collettivo dimostra come Amazon sia molto più che semplice
logistica, evidenziando che l’irrompere del digitale ha ibridato la materialità
stessa delle infrastrutture. In quest’ottica, Amazon si configura come “capitale
costituente”, capace di agire come un ecosistema espanso e gerarchico che si
allarga in altri settori, influenzando la sfera sociale e politica.
Il volume analizza e mette in relazione molteplici dimensioni. Amazon funge da
punto di accesso per indagare l’intreccio tra salto tecnologico, relazioni
socio-economiche e questioni politiche. La sfida è comprendere a fondo il
paradigma Amazon: un’azienda partita come startup e cresciuta fino a valere
miliardi di dollari, che si struttura come un impero commerciale con una
proiezione globale. Un gigante che si caratterizza per la sua aspirazione a
dettare standard e regole del mercato, monopolizzando ambiti cruciali attraverso
specifiche politiche di sviluppo, un assemblaggio spregiudicato di giochi
finanziari, uso di nuove tecnologie, modalità originali di organizzazione della
forza lavoro e una spiccata capacità di influenzare il potere politico dello
stato.
Secondo questa interpretazione, Amazon agisce come soggetto politico in un
doppio senso: sia come un’infrastruttura dotata di un potere di indirizzo dei
flussi di merci, informazioni, saperi e capitali, sia come un vero e proprio
attore politico che si sovrappone alle prerogative che in precedenza
appartenevano alla sfera pubblica. Unendo razionalità logistica, innovazione
tecnologica e servizi digitali, Amazon gioca un ruolo determinante
nell’espansione del capitalismo contemporaneo, arrivando a indirizzarne lo
sviluppo e incidendo tanto sulla dimensione territoriale della metropoli
planetaria quanto sull’immaginario collettivo, fondato sulla fusione tra
tecnologia e lavoro umano.
Di fronte a questo scenario, una prima risposta che emerge dal volume sembra
essere la critica all’ineluttabilità di queste dinamiche. L’analisi di Amazon
non si limita a descrivere un impoverimento dell’esperienza umana, ma suggerisce
altre possibilità di azione dall’esito non prevedibile. Si intravede quindi
un’ambivalenza, secondo gli autori del volume. Il ruolo sempre più
“infrastrutturale” di colossi come Amazon nella riproduzione sociale e nella
gestione della macchina statale ci pone dinanzi a nuove sfide, che possono
essere affrontate con gli strumenti che questi stessi processi mettono in
circolazione. L’enorme quantità di dati accumulati, elaborati e utilizzati dalle
Big Tech, conferisce loro un potere che si dirama in tutte le nostre interazioni
sociali e che non si limita a fotografare l’esistente, ma delinea il campo di
possibilità del nostro agire.
Questo punto merita attenzione. Se è vero che siamo davanti a una
“amazonizzazione della società”, se il dominio globale del mondo secondo Amazon
è dettato dalla capacità di sintetizzare diverse operazioni del capitale, di
costruire immaginari e di esercitare un potere governamentale, e se in
definitiva questo paradigma ingabbia e al contempo sprigiona energie vitali, è
importante riconoscere che la diffusione di queste dinamiche non è omogenea.
Nelle società avanzate persiste un divario significativo tra tecnologia
potenziale e quella effettivamente applicata, sia nel progresso tecnologico in
sé che nelle sue applicazioni ai processi produttivi e distributivi. Accanto a
risorse inutilizzate come valore non impiegato nella produzione, forza lavoro
disoccupata, risorse naturali non sfruttate e capacità produttiva latente,
esiste anche una plustecnica potenziale: uno scarto ben superiore al semplice
ritardo applicativo, tra ciò che la tecnologia potrebbe fare e ciò che fa
realmente.
Questo suggerisce sia una certa fragilità del potere infrastrutturale che una
non linearità dello sviluppo che il paradigma Amazon potrebbe indirizzare. Se
questa premessa è corretta, si può ipotizzare l’intima irrazionalità del
capitalismo di cui Amazon è una diretta espressione. Il suo potere
infrastrutturale potrebbe essere più debole di quanto non sembri, e di pari
passo, il dominio delle Big Tech su economia, politica, società e immaginari
rischia di essere sovrastimato. Sebbene Amazon stia costruendo una realtà
malleabile e riprogrammabile a suo piacimento, questa stessa realtà è
sovvertibile in una pluralità di modi tutti da sperimentare o, meglio, che si
stanno già sperimentando.
Il lavoro di ricerca collettivo di Into the Black Box getta una luce sulle
dinamiche di espansione e colonizzazione di un colosso che è molto più di un
e-commerce, indagandone ramificazioni e forme del potere e stimolando una
riflessione sulle pratiche di conflitto da escogitare per il futuro. (andrea
bottalico)
Tag - culture
(archivio disegni napolimonitor)
Nel 1949, utilizzando per la prima volta in Italia il registratore magnetico a
nastro, il giornalista della Rai Roberto Costa realizza un documentario
inchiesta che rimane nella storia del giornalismo radiofonico. Si chiama I
barboni. Dopo anni di conversazioni con decine di persone che vivono tra le
strade di Milano, Costa affida loro il microfono. Ci sono disoccupati, cantanti,
musicisti, poeti, “gente che si è fatta una cultura rinunciando a ogni cosa
superflua”. È un lavoro onesto: l’autore scende per strada, ascolta, impara,
riflette, registra. Nessun pugno nello stomaco, nessuna musichetta commovente a
sottolineare i racconti. Sono biografie autentiche, complesse. Una ex insegnante
caduta in disgrazia durante la guerra, un ex ufficiale dell’esercito, una ex
studentessa universitaria separata dal marito che vende fiori per strada, “il
mondo è pieno di gente che dà consigli, ma nessuno aiuta”, dice nel
registratore.
L’ho riascoltato, dopo avere visto al cinema San Damiano, film del 2024 di
Alejandro Cifuentes e Gregorio Sassoli, in questi giorni sul grande schermo di
decine di sale italiane. I registi incontrano Damiano vicino alla stazione
Termini e iniziano a filmarlo. Damiano è un trentacinquenne polacco fuggito
dall’ospedale psichiatrico di Breslavia, è ripreso mentre monta audacemente su
una torre delle mura aureliane alle spalle della stazione, è ripreso mentre
infila il suo pene tra le chiappe di una donna alle spalle dei binari, mentre
picchia ripetutamente un uomo, mentre una donna lecca avidamente il suo piede.
Le immagini sono perfette, la fotografia nitida, la colonna sonora coinvolgente.
Attorno a Damiano, ci sono uomini e donne disperati, una ragazza si infila un
ago in una mano, una donna mostra le tette alla telecamera, un’altra il pube, un
uomo balla di fronte all’obiettivo, guarda dritto in camera e spacca a gomitate
il vetro di una macchina.
Nei giorni successivi leggo qualche recensione. “Senzatetto ma turrito, Damiano
ci prende e ci si porta via, interrogando la nostra visione fin nel profondo,
laddove è morale”. “Si avvale di una sincera libertà creativa che è davvero
rara, in una stabilità che non si incrina neppure davanti a un possibile eccesso
ed è attraversato da una sorta di purezza”. Scopro anche che è stato premiato di
recente a Lo Spiraglio Film Festival della Salute Mentale di Roma “per la
potenza della sua narrazione, che affronta con profondità i temi della
migrazione, del trauma e della violenza vissuti dai protagonisti ritraendo il
personaggio principale con realismo, senza idealizzarlo né censurare le sue
contraddizioni”.
Ne parlo con Francesco Conte, giornalista, attivista, da anni frequenta la
stazione Termini, stringe amicizie, racconta storie, insieme al gruppo Mama
Termini organizza cene, distribuisce cibo ogni domenica nella piazza antistante
la stazione e anima lo spazio pubblico con concerti. “Il punto non è il film, ma
quello che c’è dietro. Critichiamo il prodotto senza capire come è stato
prodotto. San Damiano è come i pomodori raccolti dai sikh a Latina, i recensori
mangiano il pomodoro ma non si chiedono davvero da dove arrivi. Fin quando la
gente che si occupa di cultura non esce davvero per strada, questa cultura è
divertissement borghese”.
Che i registi in qualche misura si siano affezionati al protagonista, traspare
da un passaggio del film – che fatico onestamente a chiamare documentario – in
cui i due accompagnano Damiano, che aspira a diventare cantante, in una sala di
registrazione. Tuttavia ancora una volta il racconto cede il passo
all’esibizione, si riduce a due minuti di ripresa del matto che canta nella
sala, urla, si sgola, si danna per qualcosa che non torna. Della sua musica
nelle nostre orecchie non rimane nulla. L’episodio narrato allarga ancora di
qualche chilometro quello spazio tra il noi che siamo qui, seduti sulle
poltroncine a guardare, e il loro davanti alla camera, sporchi e disperati.
Eppure qualcosa dentro noi – sempre quelli delle poltroncine – si muove. Non è
ascolto, non è comprensione: è l’appagamento di una sordida brama pornografica
di sangue, disgrazia e fango.
Il film ha un epilogo spettacolare: Damiano, dalla cima della torre in cui ha
costruito il suo rifugio, appicca un incendio. I “documentaristi” documentano.
Arrivano le forze dell’ordine. Damiano è rispedito in Polonia, ora è di nuovo in
un ospedale psichiatrico. (marzia coronati)
(disegno di ginevra naviglio)
Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione, di
Antonio Esposito, è un libro politico, di testimonianza e denuncia. L’autore ci
mette in dialogo con chi la contenzione meccanica l’ha vissuta e con chi lavora
quotidianamente per superarla, consentendoci di vedere oltre l’apparente stato
di necessità che ancora legittimerebbe le violenze di cui racconta.
In tradimento al lavoro e alle aspettative del gruppo Basaglia, la contenzione
meccanica è tutt’oggi una prassi nelle strutture di assistenza psichiatrica. Per
contenzione meccanica, scrive Mauro Palma, “si intende l’utilizzo di dispositivi
applicabili al corpo e allo spazio circostante la persona, per limitare la
libertà dei movimenti volontari; in particolare, i mezzi applicati al paziente
allettato o seduto, i mezzi di contenzione di segmenti corporei e quelli che
determinano una postura obbligata”. Dichiarata già con la sentenza
Mastrogiovanni “un presidio restrittivo della libertà personale con una mera
funzione cautelare” e non una prassi terapeutica, la contenzione continua
tuttavia a essere utilizzata, perché considerata inevitabile per far fronte alle
situazioni d’urgenza.
L’urgenza: è l’abusata logica dell’emergenza che, anche in ambito psichiatrico,
non solo consente di aggirare i limiti normativi e utilizzare una tecnica che
tradisce i principi della legge 180, ma impedisce anche di destituire quel
paradigma manicomialista che sopravvive, subdolo, alla sua formale abolizione.
Che sia perché ancora condiviso dalla forma mentis del sistema medico di cura, o
perché passivamente reiterato nell’abitudine di una prassi routinaria, il
dispositivo si conserva nelle maglie di una narrazione che poggia
sull’impossibilità di gestire altrimenti l’escalation dello stato d’alterazione
mentale. Mostrandoci invece la possibilità concreta di prassi alternative, e
condividendo con noi l’esperienza di medici che operano in reparti no-restraint,
Esposito riesce a spezzare la linearità dello schema causa-effetto che
giustifica il ricorso alla contenzione: se è possibile fare altrimenti, legare
diventa una scelta di cui doversi assumere la responsabilità. Fuori dallo stato
di necessità, gli abusi psichiatrici possono finalmente dichiararsi tali e i
racconti di chi li ha subiti diventano denuncia immediata di un sistema che
avrebbe dovuto mettersi nella condizione di non attuarli.
Le storie che intessono le trame del libro restituiscono alle persone che le
hanno vissute l’ascolto di cui il sistema sanitario le ha private. Wissem,
Francesca, Elena, Bruno, Alice, Elio, Mariarosaria: da pazienti scorporati,
succubi di decisioni altrui, tornano soggetti di vissuti che, direttamente o
indirettamente raccontatici, possono mettere in crisi quello sguardo
stigmatizzante che si è fatto complice delle loro crocifissioni. La “banalità
del male” della contenzione meccanica si reitera, infatti, inosservata, solo
finché non si interrompe il processo di spersonalizzazione che reifica a oggetti
i soggetti psichiatrizzati. Non appena cambia il focus della prospettiva, a
emergere è l’asimmetria di potere che si cela dietro il paternalistico “è per il
suo bene”; da camuffata, risulta a quel punto esplicita l’ingiustizia
costitutiva della contenzione – una violenza subdola, ci dice Esposito, “agita a
parte dalla sottrazione delle parole della relazione e dell’imposizione di un
vocabolario di comando”.
Il ribaltamento del punto di vista crea una frattura che è, insieme, rottura e
spiraglio: restituita alle persone la propria centralità, non solo crolla
l’impalcatura retorica che giustifica i nodi della custodia psichiatrica, ma
apre alla possibilità di ripartire da fondamenta diverse per costruire una
salute mentale di comunità. Marga Romagnoni, intervistata da Esposito, spiega:
“Affinché i processi di deistituzionalizzazione siano pienamente realizzati,
perché si smetta di legare le persone, è necessario il riconosciuto protagonismo
delle persone con esperienza di sofferenza psichica, accompagnato, certamente,
dal sostegno di tutti gli altri”.
È solo tornando alle persone che si può smettere di ricondurre a false
interpretazioni e categorie nosografiche l’esigenza di assistenza e di cura,
unico modo per dare priorità alla flessibilità, ai tempi della relazione, non
più subordinati alle esigenze di sicurezza e tranquillità interna delle
istituzioni sanitarie. È tornando alle persone che si può costruire uno spazio
terapeutico in cui, in sinergia tra diversi attori e saperi, è possibile
prevenire e affrontare le crisi senza che raggiungano il picco
dell’emergenzialità, rispettando la corporalità di chi vive la condizione
psichiatrica e assumendosi la responsabilità di accogliere e riconoscere il suo
dolore. Ponendo al centro la “rincontrattazione”, l’assistenza pubblica può
concepirsi dinamica e in continua revisione: può farsi coraggiosa, fuori dagli
schemi, anarchica, erogatrice di un servizio non-violento perché strutturato
nella relazione, tanto con le persone alle quali si rivolge, quanto con i membri
dell’equipe, con il privato e il pubblico sociali. Le esperienze del Csm di
Gorizia, dell’Spdc di Ravenna e dell’Ausl della Romagna ci insegnano proprio
questo nei loro tentativi di dare forma concreta all’immaginario proposto da
Sergio Pirro già nel 1994: un servizio territoriale che sia armonicamente
composito di strutture differenziate che si coordinano tra loro, dando vita a
una salute mentale multiordinale e pluriqualitativa, reperibile, tempestiva e
non selettiva.
Accompagnandoci oltre lo specialismo disciplinare e le porte chiuse dei reparti
psichiatrici, Esposito ci permette, quindi, non solo di vedere i limiti di
un’assistenza sanitaria degradata in custodia costrittiva, ma di superarli
all’interno del percorso da lui stesso tracciato, facendoci immergere nella
prospettiva di una cura che si esprime nel contatto di un abbraccio comprensivo.
È questo il profondo potenziale del suo lavoro: ripartendo dai “sommersi” e dai
“salvati” e dalle loro voci dissonanti, ci consegna un orizzonte abolizionista
che già attraverso le sue parole inizia a prendere realtà. (zoe ermini)
(disegno di escif)
Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in
questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la
distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei
migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La
prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto
della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il
malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si
può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che
la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna
Ferrara)
Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di
analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara
(edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è
possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura
affascinante, lieve e delicato.
L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di
dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo
specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante”
giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a
Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una
prospettiva di futuro.
Tutto il respiro che avevo era pianto
Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia
polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in
modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che
peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i
fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a
corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in
affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La
pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al
racconto, l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere
davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i
gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più
cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si
conquistano con una lotta personale.
Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto
con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La
lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il
sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo.
L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello
della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie
dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di
emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro
lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale
sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente.
Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili
gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”.
Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro
la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle
misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che
segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per
il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre
di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è
possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino
l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere
[…] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che
erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era
sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando
stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle
sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero
perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.
Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo”
senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È
fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli
ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese
interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere
chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un
controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da
fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho
pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo
Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle
un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le
tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno
entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li
chiamavi”.
Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e
stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.:
“Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi
di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in
queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia
conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico
paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla
dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio
e pratica e approfondimento”.
G. non contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel
sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo
stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al
primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della
paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto
urgentissimo”.
“Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […]
come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida
e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il
nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per
morire)?”.
“Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed
eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo
fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa
che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna
barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova
per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava
tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità
avevo?”.
La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica.
Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e
oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti
costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere
ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica,
a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco
analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante
tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di
ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”.
Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai
avuta
Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire
dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal
neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei
vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione
delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che
lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda
personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia.
La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico
progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa
chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a
lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più
complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e
incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha
fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era
chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca
pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente
della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle
autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri,
nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del
mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna
intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la
pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito
minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it
takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella
sera di morti che cadevano senza numero”.
L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi
politica è profonda perché si fonda sulla sofferenza personale e sulla
conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una
dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la
semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto
tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è
una condizione umana e politica.
L’oro tra le macerie
“Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini
di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio
mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che
riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho
trovato in queste macerie”.
Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna
racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la
sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto
inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in
sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere
riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai
limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono
le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e
dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola
incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto,
“si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo
fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti
e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da
essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità
e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa.
Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel
cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da
vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se
lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle
ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio
ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente,
entrambe abbiamo avuto molto”.
In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio
il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in
grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione
delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi
[…] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il
mondo non lo vuole cambiare”.
Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di
condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al
sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee
e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”.
Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose
quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con
i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole.
Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una
cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia
cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno
viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di
quell’altro paese”.
Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come
parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci
obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che
siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia
che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici,
alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di
cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta
felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”.
(dario stefano dell’aquila)
(disegno di marco di pietro)
Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume
agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il
quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo
contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di
mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor
di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente
sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i
continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una
dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello
che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo
nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente.
Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere
che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle
rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche,
ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo
dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono
quasi profetici se si considera la data di uscita del libro (28 febbraio) e
quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle
quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci
dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume
di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito
educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è
proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile
complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto
irriducibili semplificazioni?
Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità,
rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia
che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che
più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile
forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi
può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo
subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è
e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una
bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani
studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente.
Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di
conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando
questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe
essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso
vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento,
sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale
durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel
nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un
esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia
spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e
sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali.
Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre
stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle
rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del
mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo,
doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti
culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi,
immutabili e neutrali.
La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e
territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno
assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello
dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente
comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare
di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti
nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema
frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul
quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della
superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali
viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non
ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole
l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa
parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere
a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo
contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale
fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama
immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato
e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo
caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa,
dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera
critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza
dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi.
Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano
presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e
sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura,
per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O
meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e
assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei
banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi.
Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio
alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai
quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per
la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La
scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta
contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e
intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi
farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni
autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle
migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità
presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali,
finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta
neutralità e omogeneità nazionali.
Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in
meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza
incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e
complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in
maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna
l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in
voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima
proiezione della rassegna A fuoco!
Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e
Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco
Migliaccio.
* * *
Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video
realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del
regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato,
vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli
sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono
nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale
televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi
poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma
eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo
spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che
ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di
essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo
protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo
schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del
dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della
televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra
l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di
combattenti fedeli a Ceaușescu.
Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest.
Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza
per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il
passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il
cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in
posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce
dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito
è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il
paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori,
trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al
buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima
ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in
diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno
conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione
statale: una nuova, spettacolare Bastiglia.
Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta
ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla
camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione
dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una
sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto
ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima
volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i
termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le
persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del
discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per
quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i
punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non
esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori
dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive.
Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno
per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa,
seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La
voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […]
aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso
all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava
destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e
mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in
treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza
accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo.
Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la
Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso
dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a
distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza.
Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti
luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi
delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse,
la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco
migliaccio)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani, mercoledì 9 aprile (ore 20:30 a Galleria Toledo), riprende la terza
edizione della rassegna A fuoco!. Il secondo film in proiezione sarà Between
Revolution (2023), di Vlad Petri. Alla proiezione seguirà un incontro in remoto
con il regista.
Pubblichiamo per introdurre il film un testo a cura di Maria Rosa.
* * *
Due studentesse di medicina si incontrano a Bucarest. Sono gli anni Settanta e
molti giovani dal Medio Oriente si recano nei paesi del blocco sovietico per
ragioni di studio. Zahra è iraniana, Maria, invece, romena. Quando Zahra torna
in Iran alla vigilia della rivoluzione, la loro amicizia si trasforma in un
rapporto epistolare che si innesta nelle immagini della grande storia. Una
storia divisa in due. Una storia ciclica. Due rivoluzioni nel giro di dieci
anni: Iran 1979, Romania 1989. Between Revolutions (2023) di Vlad Petri è uno
pseudo-documentario, creato da immagini d’archivio della Romania e dell’Iran a
cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Assieme storia di
due rivoluzioni, raccontate da due voci femminili all’unisono, e di una amicizia
confiscata dalla storia. L’amicizia tra due donne di finzione i cui sentimenti
sono ispirati da documenti che Petri ritrova tra quelli della polizia segreta
romena.
Lo spazio del film è architettato attraverso un collage di immagini sul quale
combaciano tempi diversi, e sovrapposti. Tempi, prima di tutto, emotivi. A
guidare è la voce delle due amiche. Quando Maria è ancora in una Romania in
bianco e nero, e solo a tratti rossa, scrive in solitudine: «La notte è come
sangue che fuoriesce dalla mia bocca. Un tempo eravamo una. Un tempo eravamo
una». Zahra si muove per le strade di un Iran a colori. Un Iran celeste e
arioso, che canta: «O tu che porti luce nella mia alba, senza di te sono un
deserto senza notte. O tu che colori la mia sofferenza di speranza, senza di te
sono prigioniero della mia trappola». Zahra ha lasciato la Romania, si è divisa
da Maria, per unirsi alla massa di persone e di cori che invadono le strade di
Teheran: «Uniti sconfiggeremo lo Shah, uniti sconfiggeremo l’imperialismo»,
«lavoratori, contadini e oppressi si uniranno per sconfiggere l’oppressione». La
rivoluzione irrompe nella storia del paese. «È una forza della natura» dice
Zahra. E Maria sente in Zahra l’energia dell’ideale, ma l’ideale in Iran si
dissolve presto. Fatta la rivoluzione le masse e le voci si frammentano. La
guerra con l’Iraq che dura fino al 1989, infine, spazza via tutto. Gli ideali di
speranza e cambiamento si incrociano con i moti della storia per poco tempo. Poi
si spezzano e si dividono, come l’amicizia tra Zahra e Maria.
Il tempo mobile delle possibilità e dell’apertura al futuro si trasforma in
tempo statico di disillusione e costrizione. Le storie si riallineano. In
Romania si soffoca. Il controllo sembra essersi inasprito e la polizia segreta
informa il padre di Maria della corrispondenza della figlia. Uomini in nero si
infiltrano nella loro vite, ne controllano i destini, in Romania come in Iran:
«Ovunque bisogna obbedire alle regole, fare come dicono loro». Mentre i corpi si
vestono del sistema, si muovono per il sistema. Respirano per il sistema. Il
sentimento è quello di essere in una trappola che aderisce così bene al proprio
corpo femminile tanto da farne parte. La propaganda romena parla di un felice
«destino biologico». Eppure, il vissuto è mortale: «Ho costruito mattone dopo
mattone, fino alle mie caviglie, fino al mio busto, fino al mio petto. Il mio
corpo diviene duplice dentro il muro. Il mio sangue fluisce nei mattoni dai miei
palmi, e rifluisce indietro bruciandomi nelle tempie. I miei capelli hanno un
inebriante odore di morte. I miei mattoni sono vicini come lame d’erba. Anelo
alla suprema intimità di quando il muro, stranamente, inizierà a bruciare come
me». E infine la Romania brucerà. La rivoluzione si manifesta di nuovo come
forza della natura. Le strade vengono invase e intasate. Le masse scorrono come
sangue nelle arterie della capitale. Terremoto della storia. Ancora una volta le
immagini d’archivio restituiscono l’impeto travolgente dei tempi. Un déjà-vu`.
Un nuovo tempo che avanza. Un nuovo tradimento. Questa volta la vittoria è
confiscata dalla miseria. Crolla il socialismo, avanza il capitalismo. Ora la
vita sta dietro le vetrine tirate a lucido. È irraggiungibile. Si può solo
ammirare al freddo di una nuova paura.
Brucia la bandiera americana per le strade di Teheran. Sventola per le strade di
Bucarest. Negativo e positivo della stessa immagine. Ciò che resta e accompagna
la storia, Maria, Zahra e lo spettatore è un sentimento di profonda nostalgia.
La nostalgia di un futuro che deve ancora avvenire, che richiede di tornare al
punto di partenza, al bianco e nero, per riaprire il ventaglio delle
possibilità`. «Vorrei ricominciare tutto daccapo», scrive Maria a Zahra.
«Torniamo a essere una, lottiamo assieme, come il tempo in cui stavi al mio
fianco».
(disegno di ottoeffe)
Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla
Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel
culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo
dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal
titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e
soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.
Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della
giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria
all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a
uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica
securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia
punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso,
rileggere la proposta di adrienne maree brown.
Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta
individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia
trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a
un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che
ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire
individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia
trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva
che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo
sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di
affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle
situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento
problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci
invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce
centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle
persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte.
“La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive
l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui
verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione
di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.
Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della
gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire
necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di
giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere
anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla
radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e
sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi
problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del
complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne
giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche
dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi
dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non
realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del
predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti”
(nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non
ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la
gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).
Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e
della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle
norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze,
consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio
e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene
il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere
giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e
Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema
securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato
patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di
oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la
legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di
una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità.
Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità
non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza:
privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite
conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che
anzi si rafforzano della sua esclusione.
Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella
ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei
conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un
processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non
privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?
Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile
riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente
alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere
le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella
della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in
un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o
l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività
ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la
responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento
privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano
quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo
ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo
abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che
proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e
la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o
responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè,
rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la
possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere
in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si
legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la
responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione
ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così
come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).
Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza,
trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano
parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti –
compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione.
Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è
forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo,
che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse
aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò
che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere,
delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione
della rassegna A fuoco!.
Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di
Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore
all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).
A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.
* * *
Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain
George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la
loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i
manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli
stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini,
che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva
inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco
lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e
il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione.
Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della
camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone
in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste
inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di
un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo
piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare
un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia
Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure
(2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In
francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che
esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un
rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia.
Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti.
Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza
lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in
amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti
lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla
questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare
la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il
cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora
intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso,
però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa,
ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza
l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio,
soprattutto dal giudizio morale.
Distruggere le tracce, dunque. In Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel
fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve
cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così
si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie
d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo
disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della
interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e
laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in Paris est une fête o
dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il
confine. È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della
terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore.
Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra
frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers
Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli
Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è
condannato a non avere documenti. In Paris est une fête, infine, gli scontri
urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile,
un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede
l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a
sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento
urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano
l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in
abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di
nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un
potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene.
Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza;
certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce
che balugina. (francesco migliaccio)
(archivio disegni napolimonitor)
Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe
Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e
sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori
portuali.
* * *
Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi
della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova
sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle
multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa
forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.
I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che
compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in
time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel
documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori
del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano
iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.
Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In
prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno
sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in
uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile
uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per
esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali
che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un
collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto
evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra
organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti.
Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di
mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione
subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita
per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.
La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi
del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la
tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui
avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base
Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia
sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta
senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in
diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie
del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei
confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento
ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come
afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.
Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp.
Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti
anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono
orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità.
Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di
questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime
scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo
– mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali
connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di
lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia
sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura
fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali
artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con
lo stato, né con le Br”.
A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione
di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali
genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto
piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena
conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno
parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che
una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di
lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un
trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è
troppo grande la contraddizione…”.
Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna
allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con
la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti
avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo
conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil
del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a
tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è
un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa
idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione
all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale,
sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche
grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a
stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità
con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri
vecchi”.
I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di
Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in
autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei
loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali
protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi
rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri
lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il
problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e
all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e
minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era
proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più
generale di burocratizzazione sindacale.
Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui
discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il
decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione
collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che
rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare,
ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.
Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi
lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei
loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso
frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo
cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli
anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.
Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di
lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce
un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato
più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni,
perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo
sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà
di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp
aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico,
contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico
desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea
bottalico)