(disegno di marco di pietro)
Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume
agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il
quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo
contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di
mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor
di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente
sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i
continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una
dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello
che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo
nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente.
Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere
che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle
rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche,
ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo
dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono
quasi profetici se si considera la data di uscita del libro (28 febbraio) e
quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle
quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci
dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume
di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito
educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è
proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile
complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto
irriducibili semplificazioni?
Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità,
rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia
che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che
più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile
forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi
può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo
subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è
e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una
bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani
studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente.
Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di
conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando
questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe
essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso
vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento,
sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale
durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel
nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un
esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia
spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e
sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali.
Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre
stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle
rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del
mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo,
doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti
culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi,
immutabili e neutrali.
La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e
territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno
assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello
dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente
comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare
di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti
nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema
frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul
quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della
superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali
viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non
ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole
l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa
parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere
a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo
contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale
fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama
immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato
e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo
caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa,
dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera
critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza
dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi.
Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano
presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e
sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura,
per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O
meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e
assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei
banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi.
Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio
alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai
quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per
la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La
scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta
contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e
intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi
farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni
autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle
migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità
presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali,
finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta
neutralità e omogeneità nazionali.
Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in
meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza
incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e
complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in
maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna
l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in
voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima
proiezione della rassegna A fuoco!
Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e
Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco
Migliaccio.
* * *
Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video
realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del
regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato,
vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli
sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono
nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale
televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi
poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma
eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo
spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che
ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di
essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo
protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo
schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del
dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della
televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra
l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di
combattenti fedeli a Ceaușescu.
Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest.
Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza
per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il
passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il
cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in
posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce
dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito
è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il
paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori,
trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al
buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima
ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in
diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno
conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione
statale: una nuova, spettacolare Bastiglia.
Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta
ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla
camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione
dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una
sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto
ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima
volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i
termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le
persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del
discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per
quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i
punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non
esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori
dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive.
Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno
per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa,
seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La
voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […]
aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso
all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava
destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e
mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in
treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza
accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo.
Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la
Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso
dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a
distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza.
Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti
luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi
delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse,
la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco
migliaccio)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani, mercoledì 9 aprile (ore 20:30 a Galleria Toledo), riprende la terza
edizione della rassegna A fuoco!. Il secondo film in proiezione sarà Between
Revolution (2023), di Vlad Petri. Alla proiezione seguirà un incontro in remoto
con il regista.
Pubblichiamo per introdurre il film un testo a cura di Maria Rosa.
* * *
Due studentesse di medicina si incontrano a Bucarest. Sono gli anni Settanta e
molti giovani dal Medio Oriente si recano nei paesi del blocco sovietico per
ragioni di studio. Zahra è iraniana, Maria, invece, romena. Quando Zahra torna
in Iran alla vigilia della rivoluzione, la loro amicizia si trasforma in un
rapporto epistolare che si innesta nelle immagini della grande storia. Una
storia divisa in due. Una storia ciclica. Due rivoluzioni nel giro di dieci
anni: Iran 1979, Romania 1989. Between Revolutions (2023) di Vlad Petri è uno
pseudo-documentario, creato da immagini d’archivio della Romania e dell’Iran a
cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Assieme storia di
due rivoluzioni, raccontate da due voci femminili all’unisono, e di una amicizia
confiscata dalla storia. L’amicizia tra due donne di finzione i cui sentimenti
sono ispirati da documenti che Petri ritrova tra quelli della polizia segreta
romena.
Lo spazio del film è architettato attraverso un collage di immagini sul quale
combaciano tempi diversi, e sovrapposti. Tempi, prima di tutto, emotivi. A
guidare è la voce delle due amiche. Quando Maria è ancora in una Romania in
bianco e nero, e solo a tratti rossa, scrive in solitudine: «La notte è come
sangue che fuoriesce dalla mia bocca. Un tempo eravamo una. Un tempo eravamo
una». Zahra si muove per le strade di un Iran a colori. Un Iran celeste e
arioso, che canta: «O tu che porti luce nella mia alba, senza di te sono un
deserto senza notte. O tu che colori la mia sofferenza di speranza, senza di te
sono prigioniero della mia trappola». Zahra ha lasciato la Romania, si è divisa
da Maria, per unirsi alla massa di persone e di cori che invadono le strade di
Teheran: «Uniti sconfiggeremo lo Shah, uniti sconfiggeremo l’imperialismo»,
«lavoratori, contadini e oppressi si uniranno per sconfiggere l’oppressione». La
rivoluzione irrompe nella storia del paese. «È una forza della natura» dice
Zahra. E Maria sente in Zahra l’energia dell’ideale, ma l’ideale in Iran si
dissolve presto. Fatta la rivoluzione le masse e le voci si frammentano. La
guerra con l’Iraq che dura fino al 1989, infine, spazza via tutto. Gli ideali di
speranza e cambiamento si incrociano con i moti della storia per poco tempo. Poi
si spezzano e si dividono, come l’amicizia tra Zahra e Maria.
Il tempo mobile delle possibilità e dell’apertura al futuro si trasforma in
tempo statico di disillusione e costrizione. Le storie si riallineano. In
Romania si soffoca. Il controllo sembra essersi inasprito e la polizia segreta
informa il padre di Maria della corrispondenza della figlia. Uomini in nero si
infiltrano nella loro vite, ne controllano i destini, in Romania come in Iran:
«Ovunque bisogna obbedire alle regole, fare come dicono loro». Mentre i corpi si
vestono del sistema, si muovono per il sistema. Respirano per il sistema. Il
sentimento è quello di essere in una trappola che aderisce così bene al proprio
corpo femminile tanto da farne parte. La propaganda romena parla di un felice
«destino biologico». Eppure, il vissuto è mortale: «Ho costruito mattone dopo
mattone, fino alle mie caviglie, fino al mio busto, fino al mio petto. Il mio
corpo diviene duplice dentro il muro. Il mio sangue fluisce nei mattoni dai miei
palmi, e rifluisce indietro bruciandomi nelle tempie. I miei capelli hanno un
inebriante odore di morte. I miei mattoni sono vicini come lame d’erba. Anelo
alla suprema intimità di quando il muro, stranamente, inizierà a bruciare come
me». E infine la Romania brucerà. La rivoluzione si manifesta di nuovo come
forza della natura. Le strade vengono invase e intasate. Le masse scorrono come
sangue nelle arterie della capitale. Terremoto della storia. Ancora una volta le
immagini d’archivio restituiscono l’impeto travolgente dei tempi. Un déjà-vu`.
Un nuovo tempo che avanza. Un nuovo tradimento. Questa volta la vittoria è
confiscata dalla miseria. Crolla il socialismo, avanza il capitalismo. Ora la
vita sta dietro le vetrine tirate a lucido. È irraggiungibile. Si può solo
ammirare al freddo di una nuova paura.
Brucia la bandiera americana per le strade di Teheran. Sventola per le strade di
Bucarest. Negativo e positivo della stessa immagine. Ciò che resta e accompagna
la storia, Maria, Zahra e lo spettatore è un sentimento di profonda nostalgia.
La nostalgia di un futuro che deve ancora avvenire, che richiede di tornare al
punto di partenza, al bianco e nero, per riaprire il ventaglio delle
possibilità`. «Vorrei ricominciare tutto daccapo», scrive Maria a Zahra.
«Torniamo a essere una, lottiamo assieme, come il tempo in cui stavi al mio
fianco».
(disegno di ottoeffe)
Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla
Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel
culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo
dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal
titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e
soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.
Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della
giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria
all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a
uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica
securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia
punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso,
rileggere la proposta di adrienne maree brown.
Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta
individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia
trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a
un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che
ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire
individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia
trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva
che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo
sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di
affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle
situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento
problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci
invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce
centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle
persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte.
“La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive
l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui
verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione
di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.
Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della
gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire
necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di
giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere
anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla
radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e
sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi
problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del
complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne
giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche
dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi
dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non
realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del
predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti”
(nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non
ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la
gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).
Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e
della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle
norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze,
consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio
e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene
il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere
giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e
Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema
securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato
patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di
oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la
legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di
una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità.
Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità
non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza:
privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite
conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che
anzi si rafforzano della sua esclusione.
Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella
ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei
conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un
processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non
privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?
Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile
riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente
alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere
le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella
della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in
un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o
l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività
ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la
responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento
privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano
quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo
ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo
abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che
proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e
la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o
responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè,
rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la
possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere
in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si
legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la
responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione
ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così
come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).
Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza,
trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano
parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti –
compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione.
Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è
forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo,
che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse
aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò
che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere,
delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione
della rassegna A fuoco!.
Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di
Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore
all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).
A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.
* * *
Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain
George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la
loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i
manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli
stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini,
che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva
inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco
lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e
il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione.
Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della
camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone
in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste
inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di
un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo
piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare
un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia
Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure
(2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In
francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che
esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un
rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia.
Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti.
Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza
lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in
amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti
lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla
questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare
la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il
cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora
intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso,
però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa,
ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza
l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio,
soprattutto dal giudizio morale.
Distruggere le tracce, dunque. In Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel
fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve
cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così
si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie
d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo
disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della
interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e
laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in Paris est une fête o
dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il
confine. È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della
terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore.
Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra
frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers
Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli
Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è
condannato a non avere documenti. In Paris est une fête, infine, gli scontri
urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile,
un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede
l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a
sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento
urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano
l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in
abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di
nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un
potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene.
Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza;
certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce
che balugina. (francesco migliaccio)
(archivio disegni napolimonitor)
Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe
Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e
sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori
portuali.
* * *
Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi
della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova
sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle
multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa
forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.
I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che
compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in
time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel
documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori
del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano
iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.
Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In
prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno
sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in
uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile
uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per
esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali
che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un
collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto
evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra
organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti.
Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di
mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione
subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita
per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.
La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi
del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la
tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui
avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base
Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia
sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta
senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in
diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie
del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei
confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento
ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come
afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.
Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp.
Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti
anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono
orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità.
Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di
questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime
scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo
– mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali
connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di
lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia
sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura
fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali
artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con
lo stato, né con le Br”.
A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione
di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali
genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto
piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena
conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno
parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che
una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di
lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un
trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è
troppo grande la contraddizione…”.
Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna
allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con
la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti
avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo
conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil
del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a
tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è
un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa
idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione
all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale,
sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche
grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a
stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità
con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri
vecchi”.
I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di
Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in
autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei
loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali
protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi
rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri
lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il
problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e
all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e
minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era
proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più
generale di burocratizzazione sindacale.
Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui
discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il
decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione
collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che
rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare,
ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.
Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi
lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei
loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso
frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo
cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli
anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.
Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di
lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce
un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato
più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni,
perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo
sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà
di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp
aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico,
contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico
desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea
bottalico)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
I film in proiezione quest’anno mostrano rivolte, rivoluzioni e improvvise
svolte nella storia. Tutti e tre palesano un’inquietudine. Nelle vie di Parigi
le manifestazioni contro la Loi Travail incontrano gli incubi notturni di una
città violenta ed escludente; la rivoluzione in Iran si apre al rimpianto per le
occasioni perdute; nella sollevazione contro Ceaușescu in Romania si
intravvedono strategie e interessi di vecchie e nuove classi dirigenti. Questa
inquietudine emerge grazie all’elaborazione e alla manipolazione dell’immagine,
in un movimento contrario al flusso della società dello spettacolo. La lotta
contro lo spettacolo, in sé rivoluzionaria, può allora essere un tentativo di
risvegliare il contenuto sopito e addomesticato del passato.
26 marzo
Ore 15:30, Accademia delle Belle Arti (largo Nanni Loy)
Masterclass di Sylvain George
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Paris est une fête. Un film en 18 vagues
di Sylvain George
(Francia, B/N, 95’, 2017 | V.O. Sott. ITA)
Parigi città notturna, violenta e insensibile. Fra le luci di un capitalismo che
promette un benessere inarrivabile s’aggirano esistenze sopravviventi in un
incubo urbano. È il 2016 e la rabbia esplode in strada contro la loi Travail.
Place de la République è occupata dai manifestanti.
Al termine della proiezione seguirà incontro con il regista.
9 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Between Revolutions
di Vlad Petri
(Iran, Qatar, Colore, B/N, 68′, 2023 | V.O. Sott. ITA)
Lo scambio epistolare tra due donne mette in parallelo due rivoluzioni chiave
del Novecento, quella iraniana del ‘79 e quella rumena di dieci anni dopo. La
parabola – apparentemente inevitabile – sembra identica: si parte dai grandi
ideali e si finisce con un semplice cambio di potere.
Al termine della proiezione seguirà discussione da remoto con il regista.
23 aprile
Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34)
Videograms of a Revolution
di Harun Farocki e Andrei Ujică
(Germania, Romania, Colore, 106′, 1992 | V.O. Sott. ITA)
Dando corpo a una nuova forma di storiografia, basata interamente sui media,
questo film mostra la rivoluzione rumena del dicembre 1989. A Bucarest i
dimostranti occupano gli edifici della TV di Stato e trasmettono in diretta le
loro dichiarazioni, trasformando lo studio televisivo in un luogo di
manipolazione degli eventi storici.
(disegno di roberto-c.)
Nella Sala Assoli di Napoli il 14 e 15 gennaio scorsi, nell’ambito della
rassegna dedicata al ricordo di Enzo Moscato, è apparso S’ENZ, una fugace
inedita imprevista costellazione (Moscato avrebbe scritto co’stell’azione) di
brani, frammenti delle scritture di Enzo Moscato, scintillanti su una scena
ombrosa e raccolta. Scrivo “scritture” al plurale perché l’esperienza di
scrittura di Moscato è stata segnata non solo da una disseminata poligrafia –
testi teatrali, letterari, poetici in senso stretto,
teorico-filosofici-semiologici – ma anche dalla divisione tra scritture rese
pubbliche e scritture più o meno clandestine, ora volutamente inedite, ora
trattenute il più possibile nel segreto, edite in parte, o utilizzate come
frammenti-schegge nei testi destinati alla pubblicazione. Scritture tenute in
disparte, ritratte ma operanti, parti dell’opera a tutti gli effetti. Opera
segreta che ha preparato, accompagnato, nell’ombra e come ombra, l’opera
manifesta di Moscato. E che possiamo immaginare essere stata ispirata a sua
volta dall’esperienza delle scritture pubblicate e/o messe in scena. A pensarci,
il modo stesso di stare in scena di Enzo Moscato, punteggiato dalla sua presenza
assente, dalla sua lontananza in presenza, dal “farsi ombra” in piena luce o dal
dislocarsi nelle zone oscure della scenografia, cadendo nel silenzio o in un
mormorio sommesso appena percettibile, testimoniava l’impossibilità di una sua
adesione totale alla messa in scena o, più precisamente, la messa in scena di
una lontananza, di uno scarto, di un essere “altrove” in presenza, di un venire
dall’altrove e di desiderare l’altrove. Si può ben dire che Enzo Moscato abbia
fatto parte della cerchia dei napoletani-altrove. Altrove non perché abbiano
abbandonato Napoli per stabilirsi in un altro luogo, ma perché abitando
nell’altrove, pur scoprendo di non poter che restare-patire nella località che
ha nome Napoli, non si sono stabiliti, stabilizzati, in nessun luogo. Come se
proprio la natura porosa della città, che viene evocata in S’ENZ, consentisse, a
chi quei pori, quei vuoti, non intende tapparli con gli stereotipi della
napoletanità, di mantenersi in rapporto con l’altrove. Divenire la propria
porosità, decidersi per il proprio esser bucati, grazie al caso di essere nati a
Napoli: “la città da cui mi onoro (e talvolta) disonoro di prendere
origine”.
S’ENZ – lo spettacolo ideato e interpretato da Giovanni Ludeno, musicato e
cantato da Massimo Cordovani, con la preziosa collaborazione artistica di
Roberto cyop – è come se, nel vasto sgomento e dolore per il venir(ci) a mancare
di Enzo, volesse ricordare, non tanto questo o quel tratto particolare
dell’esistenza di Moscato al fine di tentare di riempire con il ricordo il vuoto
lasciato dalla sua scomparsa, ma commemorare le scritture del suo ritrarsi o
dimettersi in loco e in vita, ossia da una parte il lato in ombra, inedito,
dell’opera, dall’altra l’assentarsi, il sottrarsi, come uno spettro, nell’atto
stesso del venire in scena, del presentarsi in pubblico – è questo, a mio
avviso, l’aspetto toccante, commovente e profondamente “giusto” dello
spettacolo, che gli consente di sottrarsi per nostra fortuna ai rituali
auto-compiaciuti della memoria personale. Del resto gli spettri, scrive Moscato
in Co’stell’azioni, vengono tra noi non per acquietarci o renderci
“sentimentali”, ma per “recare disturbo”, recarlo “in fondo all’occhio e al
cuore”. Se Moscato si aggira come uno spettro in scena, se scrive dall’altrove
per l’altrove, è per recare “disturbo”, “a guisa di ventata, di folata, / che fa
tremmà ’e cappielle”. Gli spettri vengono “pe ffà ammuina, pe fa ’a guerra,
mmiezz’a vvuie, / crià nu poco ’e vita, pe mezz’ora, nzieme a vvuie”. Lo
spettro, il morto non morto, recando “disturbo”, “ammuina” e “pòlemos”, crea
vita, tenta di risvegliare dal sonno i vivi, proprio in virtù della sua ferma
distanza, del suo non cedere alla “comunella”. Grazie al ritmo con cui Ludeno ha
montato i frammenti che compongono S’ENZ, la ventata, il tremore, “nu poco ’e
vita” hanno investito gli spettatori, ora lasciandoli, mi è parso, in un
silenzio attonito e stupito dalla rivelazione della elaborata filosofia di
Moscato, di un Moscato filosofo a tutti gli effetti, ora agitati e ridenti per
la straordinaria ironia “ammuinante” di alcuni più noti frammenti, recitati da
Ludeno con un ritmo più trattenuto di altre volte, in consonanza, credo, con
quella commemorazione della spettralità, del semi-vivo, di cui ho
parlato.
Rammemorando il divenire spettro in vita di Moscato, S’ENZ ne commemora la
poetica, consente di farla tornare, la evoca e mostra nello stesso tempo la
necessità di una sua ri-scrittura, perché il disturbo, il risveglio abbiano a
reinventarsi. Solo così il poeta, “che si fa morto da vivo”, può attraverso la
voce, il gesto, la musica e il canto altrui, di eredi o antenati, continuare, in
una dimensione atemporale, a farsi “vivente nella morte”.
Giovanni Ludeno dà voce e gesti a lacerti di scritture inedite, li compone,
direi li “sfrega”, con frammenti estratti, con studio, intuizione e atto di
forza, da noti testi moscatiani, ne fa fuoco o scintilla, “volubili volute di
fiamma o di scintilla”, a seconda della intensità con cui quei lacerti di
scrittura vengono sfregati. Compone così un nuovo testo, una nuova
costellazione, facendola brillare anche di alcuni versi “stellari” di Leopardi e
Dante, così da donare ulteriore “intensa vita, comm’è chella ca penzamme piglià
pére ncopp’ ’stelle”. Ma la vita intensa è quella che non solo sa assentarsi o
entrare in stato di morte apparente, ma anche decomporsi, dirsi volutamente in
frammenti: “Tengo, allora, ’na nutizia, grande e triste, a ve purtà: ca io so
vivo! / E mi dirò ‘in frammenti’. / Dunque: io so’ vivo, e l’unica condizione
che pongo per continuare ad esserlo / è il frammento, la di me scompo-sizione”.
Scomponendo una scrittura che già di per sé si vota al frammento, Ludeno
risponde al desiderio di Moscato di offrirsi come esperimento per una “autopsia
perpetua”. Fare l’autopsia di una scrittura disseminata e frammentaria,
significa continuare a frammentarla. Ma la frammentazione, la disintegrazione,
l’esplosione sono gesti interni a una spinta irresistibile ad affermare nuove
composizioni, inventare scritture, lingue inesistenti. Spinta verso ciò che non
c’è: ancora il non ancora.
Il frammento non ha chiudersi su sé stesso, deve mantenersi aperto, perciò ha
bisogno di un’autopsia, di una violazione, di un atto di forza. Perpetua
autopsia significa perpetua scomposizione e apertura di un varco per la
scrittura dell’avvenire e l’avvenire della scrittura.
“M’ avit’ ’a fà l’autopsìa, insomma, l’autopsìa perpetua, si vulite ca stu
cuorpo, o l’ànema – ca po’ so’ ’a stessa cosa – continuino a vibrarvi
tra le mani,
dint’ ’e recchie,
ncopp’ ’a lengua
dint’ all’uocchie,
sott’ ’o naso…
dint’ a tutti i cinque sensi!”.
(maurizio zanardi)
(disegno di ginevra naviglio)
L’ORO TRA LE MACERIE | OROSCOPO DI FOUCAULT 2025
Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini
di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio
mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che
riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho
trovato in queste macerie. (Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri)
ARIETE
La combattività che Marte regala al vostro segno è l’origine della forza e della
vitalità che vi caratterizza. L’entusiasmo di chi supera ogni difficoltà con
determinazione e temperamento da battaglia è il vostro tratto distintivo. Allo
stesso tempo può essere la causa di mancanza di tatto e di riflessione, di
errori di valutazione che compromettono anche le relazioni più vicine fino a
farne macerie. Così mi chiedevo se fosse questo l’anno in cui provare a dosare
le nostre forze per un equilibrio differente che imprima delicatezza ai vostri
slanci.
In un libro piccolo e intenso, la scrittrice afroamericana bell hooks (con le
iniziali minuscole per precisa scelta dell’autrice) riflette sul tema dell’amore
e del filo che lega l’adulto che siamo al bambino che eravamo. Scrive questa
frase che è fatta apposta per voi: “Può essere utile cominciare a considerare
l’amore come un’azione piuttosto come un sentimento”. Sappiamo che questa frase
vi corrisponde: l’amore si esprime in gesti e comportamenti (prendersi cura,
essere reciproci, ascoltare, proteggere, dare fiducia) senza i quali resta una
parola priva di significati. Però, aggiungiamo noi a vostro beneficio, l’azione,
senza la cura di parole che l’accompagnino, rischia di smarrirsi nelle
abitudini. In amore la parola è il reciproco del gesto, tenetelo a mente.
TORO
Il principio fondamentale di chi scrive questo povero oroscopo è di essere
“impermeabile” alle richieste popolari. Però, nel mentre della scrittura, ho
ricevuto questo messaggio: “Scrivi al Toro di muoversi”, che sentivo essere in
sintonia con quanto andava scritto. Il tema però non è solo il movimento, ma la
direzione. Perché il Toro è segno di una sedentarietà che non è affine alla
pigrizia fisica ma all’abitudine mentale. Abitudine agli affetti prima di tutto,
che portate addosso come una seconda pelle (e del resto abitudine deriva dal
latino habitus), poi ai luoghi (sareste capace di camminare per ore per le
strade che trovate familiari), infine alla gioventù. Perché senza tanta fatica
si distingue in voi lo sguardo dell’adolescente che attende il suono della
campanella dell’ultima ora di lezione. Lo sguardo limpido e impaziente di chi
assiste un po’ stupito al mondo degli adulti e al ritmo delle incombenze
quotidiane di cui fa fatica ad afferrare il senso.
Ci sono, a questo punto, due possibilità di movimento. La prima è muoversi
alzando le spalle al mondo verso i luoghi segreti che abitano i nostri sogni
d’infanzia, difendendosi dalle pretese degli adulti. Il secondo, più complesso,
è prendere per mano il nostro io bambino e uscire allo scoperto in direzione del
sole. Usare sogni e ricordi come bussola che orienta il futuro, e non per
nostalgia. Sul cuore, come scrive Ingeborg Bachmann, appuntate come medaglia la
stella della speranza: “Viene conferita per la diserzione dalle bandiere, per il
valore di fronte all’amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e
l’inosservanza di tutti gli ordini”.
GEMELLI
Secondo il filosofo Salvatore Natoli, l’“opposto della felicità non è il dolore
ma la noia” (so che state pensando alla canzone di Franco Califano, vi inviterei
però a un po’ di serietà). In virtù di questa tesi, la noia nasce quando il
mondo intorno a noi perde significato e rischiamo di ridurre tutto ciò che ci
circonda a un riflesso di noi stessi, dimenticando la sua reale ricchezza e
varietà. La noia può derivare da questa visione o dal fatto che lo spazio di
mondo che abitiamo si restringe, e i paesaggi quotidiani diventano abitudine. Al
contrario della noia, la felicità è nell’apertura verso il mondo, nel
riconoscere e apprezzare la novità che ogni cosa porta con sé. Quando siamo
capaci di guardare al mondo con uno sguardo fresco, senza giudicarlo o ridurlo
ai nostri desideri e bisogni (e senza brontolare, aggiungiamo noi) possiamo
riscoprire il significato e la bellezza anche nelle esperienze quotidiane.
Fino a qui, mi direte, Natoli non ha aggiunto a quanto già sapete. Non siate
impazienti, leggete ancora questo: “L’educazione alla felicità è l’educazione
alla relazione giusta con le cose, che vuol dire rispettare le cose. La parola
chiave è delibare: chi ama il vino lo deliba, non si ubriaca mai, mai da ogni
goccia di vino riesce a stillare il suo sapore, e per questo deve avere una
competenza. La felicità esige competenza e sapienza, un’educazione alle giuste
relazioni con gli altri”. Apertura, capacità di essere curiosi e di guardare
nelle cose la loro novità. E, mi raccomando, la giusta misura nelle cose e nelle
relazioni.
CANCRO
Che anno è stato questo trascorso? Un anno pieno di momenti importanti, in uno
scenario complesso intorno a voi. Si fa fatica a trovare nel mondo qualcosa che
ci somigli in questo brulicare di conflitti e di ambizioni mediocri. E voi che
siete il segno della (iper)sensibilità e dell’intuizione, e che potete stare
bene solo quando lo sono anche i vostri affetti intorno, rischiate a volte di
scoraggiarvi. Così Mahmud Darwish, poeta e scrittore palestinese, rispondeva a
un giornalista statunitense che lo intervistava: “Cosa scrivi, poeta, durante
questa guerra?”. “Scrivo il mio silenzio”. “E quando ricomincerai a poetare?”.
“Quando i cannoni taceranno per un po’, quando farò esplodere questo mio
silenzio carico di voci, quando troverò una lingua adeguata”.
Cosa fare allora quando il rumore aggressivo del mondo vi impedisce di prendere
parola? Come si trova una lingua adeguata quando intorno il mondo sembra offrire
solo macerie per il futuro? La prima cosa da fare è stringersi a chi condivide i
nostri pensieri; la seconda è non aver timore a uscire e ad andare in
esplorazione nel mondo. Affamati di parole ma mai in silenzio, perché quello che
il mondo non ci dà ce lo andremo a prendere, sogno per sogno, casa per casa.
Per questo anno che viene, dunque, vi invitiamo a fare un passo in avanti:
portate allo scoperto le vostre parole e abbracciatele forte affinché il vento
non le disperda.
LEONE
Scrive Giovanna Ferrara: “Abitare le proprie possibilità di vivente è una
bussola sicura, sicura la direzione d’orientamento”. Che vuol dire? Vuol dire
che la felicità interiore nasce dalla consapevolezza della propria potenza di
agire. È nell’atto di esplorare questa forza che ci realizziamo, come ha
insegnato Spinoza. La comprensione della nostra capacità di trasformarci e di
trasformare il mondo ci dà senso e direzione, e ci connette alla nostra essenza
più profonda. Una capacità trasformativa non solo personale ma anche politica,
nel senso più alto e collettivo della parola. Una capacità non solo personale,
ma che ha una dimensione collettiva, nel senso di un impegno per il bene comune,
per la costruzione di una società più consapevole e giusta. Ma cosa innesca
questa forza e consapevolezza? Per voi, Leone, è piuttosto chiaro: è l’amore che
muove il vostro spirito (oltre al Sole e alle altre stelle). Quanto amore,
allora, è necessario per alimentare il vostro motore? Ecco la formula segreta,
svelata per voi da Mariangela Gualtieri: “Innamorarci ogni giorno, ogni giorno
un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un
colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una
collina, una parola, un boccone. Innamorarci.
Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”. Agire, amare e trasformare,
gli ingredienti di quest’anno sono questi, sta a voi scegliere le proporzioni.
VERGINE
Nel 1942 il medico e psicologo viennese Viktor Frankl fu deportato, insieme ai
familiari, in un campo di concentramento. Dalla sua esperienza, è venuto fuori
un libro (Uno psicologo nei lager) nel quale Frankl ha esaminato le forze
psicologiche che consentono di sopportare e superare le esperienze e condizioni
più dolorose.
Frankl sostiene che l’essere umano è spinto principalmente dal bisogno di
trovare un significato nella propria vita, più che dalla ricerca del piacere
(come sosteneva Freud) o dalla ricerca del potere (come suggeriva Adler).
Secondo Frankl, anche nelle condizioni più tragiche, le persone possono trovare
un senso che dia loro la forza di andare avanti. Sulla base di questa tesi,
Frankl sviluppò la “logoterapia” che si basa sull’idea che la ricerca del
significato della vita sia il motore principale dell’esistenza umana (in greco
logos significa “senso” e anche “parola”). Le difficoltà possono acquisire
significato quando la persona riesce a comprenderle come parte di un cammino più
ampio. In altri termini, non possiamo determinare quello che ci capita o ci
circonda, possiamo però decidere in che modo interpretare gli eventi e
consentire loro di formarci. Questa lunga premessa, per arrivare a una breve
conclusione: se trovate le parole giuste trova un senso la vita che accade.
Ricordatevi però anche di pronunciarle, affinché chi vi sta accanto sappia come
è meglio accompagnarvi.
Mi raccomando, rammentate le regole d’oro: non perdere di vista l’insieme per i
particolari, chiedere quando è necessario, lasciare andare quando è giusto,
pretendere ciò che meritate.
BILANCIA
Qualche tempo fa un’amica mi raccontava della sua separazione, fatta di silenzi
ma soprattutto di una mancata attenzione, che più di tutto pesava. Mentre
parlava, mi sono venuti alla mente questi versi di Elisa Ruotolo: “Sbagliavo a
trascurare la fretta, | chi ama coltiva giardini di virgole | accudisce sillabe
e punti di domanda | non è asciutto come il dispaccio | della resa. | Chi ama
rileggerà le parole | una ad una prima di congedarle. | L’incuria è già
lontananza | ammissione che si è altrove | a sistemare la propria
grammatica”. L’ho rincontrata, mesi dopo, rinata e solare, perché aveva deciso
di dedicarsi completamente a sé stessa, smantellando anni di pensieri tristi,
riprendendo in mano gli studi, i suoi interessi e qualche vecchia passione. È
come se avesse deciso di tornare a casa dentro di sé, ritrovando ciò che aveva
messo in disparte per troppo tempo. Questo rinascere era dovuto anche alla sua
rete di affetti, intessuta negli anni, che le ha regalato coraggio e attenzione.
Ogni passaggio era stato accompagnato da amiche e amici pronti a coltivare
giardini di virgole e a offrire cura e vicinanza. E allora, direte? Ancora
questa storia della resilienza? No, affatto, il tempo che viene può essere bello
senza bisogno di eroismi e resilienze, purché teniate a mente la regola
fondamentale di ogni trasformazione: il primo passo si può fare da soli, i
successivi vanno fatti in compagnia.
Che siano “cura” e “reciprocità” le parole nell’anno che viene.
SCORPIONE
“Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri, pensa. Se solo si
potessero nascondere i propri occhi al mondo”. Questa frase, pronunciata da un
personaggio nel romanzo della premio Nobel 2024 Han Kang, mi è tornata in mente
quando ho pensato a voi scorpioni. Perché? A scorrere i testi sacri
dell’astrologia, il segno dello scorpione è descritto come “intenso, passionale,
riservato e maestro nell’esplorazione dell’animo umano”. È una descrizione che
vi corrisponde, in special modo quando si parla della vostra riservatezza.
Possedete un equilibrio raro, tra la tensione delle passioni e dei desideri, e
la capacità di proteggerli dall’indiscrezione della vita quotidiana. Come se, in
ciascuna di queste passioni, poteste vivere molteplici vite, affidando a ognuna
di esse un pensiero, un segreto, un tratto particolare del vostro carattere.
Eppure, c’è un punto in cui tutte queste sfaccettature si fondono: è negli
occhi.
Per quanto possiate cercare di nascondere, i vostri occhi parlano più di quanto
possiate immaginare, e rivelano più di quanto vorreste. Questa tensione tra
desiderio di protezione e intensità delle passioni vi accompagnerà anche nel
tempo a venire: sarebbe innaturale suggerirvi altro, così come suggerire la
prudenza. Non resta, allora, che augurarvi di essere fino in fondo fedeli a voi
stessi e, comunque vada, di avere gli occhi aperti al mondo e all’amore.
SAGITTARIO
Per l’anno che viene, se volete segnare una qualche discontinuità con quello
passato, dovete darvi da fare per lavorare su voi stessi. So che non amate i
conflitti che non siano per ragioni etiche o politiche, che se nella vita
quotidiana non trovare sfide impossibili sembra tutto noioso, che preferireste
una settimana da Che Guevara che una vita da Fidel Castro, che siete in attesa
di qualcosa di impossibile di cui lamentarvi subito dopo, e che potreste
certamente migliorare in costanza e capacità di esprimere sentimenti ed
emozioni.
Ma ciò a cui vogliamo chiamarvi nell’anno è ben riassunto da questo aneddoto che
Soffici racconta a proposito del poeta Dino Campana, che vendeva personalmente i
suoi Canti orfici a chi volesse acquistarli: “Prima di consegnarglielo, Campana
guardava bene in faccia il suo uomo; e secondo la stima che ne faceva strappava
dal libro queste o quelle pagine da lui ritenute, per una ragione
imperscrutabile, non consone al costui comprendonio. Lo stupore dell’acquirente
era grande quanto il suo imbarazzo, ma ormai la cosa era fatta […]. La più bella
fu però quando anche Marinetti volle avere il suo libro. Campana, dopo aver
meditato alquanto, ne strappò la maggior parte, e non gliene mise in mano che
tutt’al più un sedicesimo”.
Per l’anno che viene mettete da parte diplomazia e pazienza, fatene scorta in
cambio di un po’ di sana fiducia nelle vostre capacità, a costo di confinare con
la presunzione (attenzione però a non varcare la linea) che la felicità non si
trova nella prudenza e nella quiete. Come diceva Pasolini: “Non è la felicità
che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”.
CAPRICORNO
Quando vi capita di giudicare voi stessi con severità, prima ancora che gli
altri, o quando penserete che una piccola imperfezione rischia di fare macerie
delle vostre fondamenta, pensate al buon Galileo Galilei. Il nostro coraggioso
esploratore dell’universo, la prima volta che osservò Saturno, ingannato dagli
anelli che circondano il pianeta e dalla cattiva qualità del suo telescopio,
credette di vedere tre oggetti. Fu solo molti anni dopo che un astronomo dotato
di un telescopio più potente distinse con precisione gli anelli che circondano
il pianeta e gli donano un fascino unico. Parliamo tra l’altro del pianeta che
ha il domicilio nel vostro segno, e a cui si associano razionalità e
intransigenza. Possiamo dire che questo errore offusca l’importanza che Galilei
ebbe nel demolire il sistema tolemaico?
Il primo aspetto, dunque, su cui lavorare, è misurare la severità del giudizio
verso sé stessi. Perché a furia di essere esigenti si diventa critici
implacabili, demolitori, e si rischia anche di avere timore di analizzare in
profondità, per paura di ciò che di imperfetto potremmo trovare.
Se non vi fidate di questo povero astrologo foucaultiano, leggete le parole di
Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, che ha scritto:
“L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso
quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo” (Elogio
dell’imperfezione). Credetemi, non c’è perfezione nel non voler perdonarsi di
essere imperfetti: per l’anno che viene potreste venire a patti con questo
aspetto e crescere in uno spazio senza giudizio. Giusti con sé stessi, giusti
nel mondo.
ACQUARIO
Ci sono fasi della vita in cui per costruire qualcosa occorre prima demolire
un’altra. Purtroppo, non sempre la vita ci offre la possibilità di non lasciare
cesura tra una fase e l’altra, di impedire un’assenza ci ferisca. Capita alle
volte che si demolisca per rabbia o per necessità, senza sapere ancora cosa
andare a costruire o a fare di ciò che perdiamo, così come può accadere che non
sappiamo interrogarci sul ruolo che abbiamo nella tragedia che lamentiamo. Alla
fine, però, non conta l’innesco ma il percorso che farà germogliare una persona
nuova dal nostro dolore, quando una nuova casa sorgerà dalla vecchia. Scrive
Giovanna Ferrara, in un libro (L’innocenza dei dinosauri) elegante, dolcissimo e
immortale come l’autrice: “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che
metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi
separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è
successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa
paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”.
L’anno che viene somiglierà molto a quello passato, nel bene e nel male: la
differenza la farete voi, riempiendolo di desideri coraggiosi e di amicizie
profonde.
PESCI
Ci sono due aspetti sui quali possiamo lavorare nell’anno che verrà, due aspetti
che si intrecciano e che sono da un lato la vostra capacità di ascolto e
comprensione, e dall’altro la tendenza alla fuga dettata dall’urgenza del sogno,
quel tipo di sogno che ci apparta dalla realtà.
Come tenere insieme le due cose? Come farsi carico dell’ascolto dei dolori del
mondo senza poi cercare per noi stessi un’alternativa e cercare nascondigli
nelle pieghe della vita? La prima via sarebbe quella più comune, porre limiti e
barriere all’ascolto, che però nel vostro caso sarebbe come chiedere a un primo
violino di suonare in ultima fila. La seconda strada è vivere dentro relazioni
che siano il giusto scambio ed equilibrio tra la possibilità di ascolto e quella
di essere ascoltati.
Ha scritto Giovanna Ferrara: “Non lo so se gli uomini parlino tra di loro nella
spietata e selvaggia onestà e intelligenza con cui a me capita di farlo con le
amiche più care o con gli amici più fraterni. Forse sì, perché questi alfabeti
di profondità sono attitudini alla ricerca di qualcosa che luccica. Certo,
dietro molti degli svincoli della vita c’è la relazione sotterranea e intima e
regalata che nasce alla philia, traccia d’oro di questo mondo faticoso”. Per
quest’anno non abbiate timore di mettervi in cammino, ci sarà sempre la traccia
capace di illuminare le strade più scure.
(disegno di sergio cennini)
Sarà presentato martedì 26 novembre, dalle ore 18,00, a Palazzo Venezia (via
Benedetto Croce 19), il libro di Antoni Esposito Come Cristo in croce. Storie,
dialoghi, testimonianze sulla contenzione (Sensibili alle foglie). Con l’autore
discuteranno Teresa Capacchione, Dario Stefano Dell’Aquila e Novella Formisani.
Pubblichiamo a seguire un estratto del volume, dal capitolo Disumanità e
violenza, le immagini di un Spdc / La storia di Francesco Mastrogiovanni
* * *
Nella storia della contenzione in Italia, esiste uno spartiacque che segna un
prima e un dopo, sia per quanto concerne il campo giuridico-legale e la
riflessione etica e bioetica, sia nell’ambito del dibattito pubblico: la vicenda
di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare cilentano che, il 4 agosto
2009, muore nel reparto di Diagnosi e cura dell’Ospedale di Vallo della Lucania,
a seguito di una contenzione durata oltre ottantasette ore, tenendolo legato ai
quattro arti a un letto, in condizioni disumane e degradanti, quasi per l’intero
periodo di un ricovero determinato da un Trattamento Sanitario Obbligatorio
iniziato il 31 luglio.
La presenza delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza del
reparto, rese pubbliche dalla famiglia che, con il “Comitato Verità e Giustizia
per Francesco Mastrogiovanni”, ha strenuamente lottato perché fosse ricostruito
tutto quanto accaduto in quei giorni e fossero riconosciute le responsabilità
di quanto si era determinato, hanno mostrato a un intero paese la violenza e
l’inumanità di una pratica, la contenzione, che era diventata uno strumento
routinario nella vita quotidiana di quel reparto ospedaliero. I filmati,
inoltre, sono stati determinanti nel corso dei tre gradi di giudizio che hanno
coinvolto medici e infermieri dell’ospedale, portando, in Cassazione, a una
sentenza storica (Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018), con la quale, al
di là delle condanne comminate agli imputati, si giunge, per la prima volta, ad
affermare che la contenzione non può essere considerata un atto medico, quanto
piuttosto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una
finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le
condizioni di salute del paziente – anzi, secondo la letteratura scientifica,
può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni
anche gravi all’organismo, determinate non solo dalla pressione esterna del
dispositivo contenitivo, quali abrasioni, lacerazioni, strangolamento, ma anche
dalla posizione di immobilità forzata cui è costretto il paziente – svolgendo
[…] una mera funzione di tipo “cautelare”, essendo diretto a salvaguardare
l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con
quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per
l’incolumità dei medesimi”.
Chi scrive ha già ricostruito altrove quanto accaduto a Francesco
Mastrogiovanni, analizzando in dettaglio la sentenza della Cassazione. Rinviando
a quel lavoro per ulteriori approfondimenti, di seguito sono indicati solo i
punti essenziali degli eventi che hanno portato alla morte di Mastrogiovanni e
della successiva vicenda giudiziaria, lasciando, poi, ai dialoghi con Grazia
Serra e Giuseppe Ortano lo spazio di ulteriori indicazioni, riflessioni e
analisi.
Partiamo, quindi, dalla ricostruzione degli accadimenti e delle dinamiche che
hanno portato all’emanazione del Tso, seppure, ancora oggi, la vicenda resti non
del tutto chiara, presentando aspetti mai completamente approfonditi e alcune
incongruenze che, nel tempo, hanno anche portato a dubitare sulla legittimità
di quel provvedimento emanato dall’allora sindaco di Pollica Angelo Vassallo. La
sera del 30 luglio 2009, secondo la ricostruzione della polizia municipale,
un’auto avrebbe attraversato a forte velocità un’isola pedonale di Acciaroli
(senza però causare danni a cose o a persone, elemento che, insieme ad alcune
testimonianze raccolte, porta a dubitare che l’auto andasse a una velocità
sostenuta). Il mattino successivo, i carabinieri hanno avvistato la stessa auto,
che non si sarebbe fermata all’alt delle forze dell’ordine, determinando un
inseguimento conclusosi all’altezza di un cub turistico della zona, dove
Mastrogiovanni, che qui stava trascorrendo le vacanze, si è fermato,
raggiungendo il mare (secondo alcune testimonianze cantando la canzone anarchica
Addio Lugano bella), in cui si è rifugiato mentre, come se si stesse
realizzando una vera e propria caccia all’uomo, sopraggiungevano forze
dell’ordine e operatori sanitari su tutti i fronti: a largo una vedetta della
Capitaneria di porto, sulla spiaggia agenti della polizia municipale,
carabinieri e operatori sanitari con ambulanza a seguito. Dopo una lunga
trattativa, Mastrogiovanni è uscito dal mare, gli sono stati somministrati
farmaci, ha fatto una doccia, è salito autonomamente sull’ambulanza. Tutti
elementi che sembrerebbero far venir meno la necessità di un Tso che invece è
proseguito: con l’ordinanza n. 53 del 31 luglio 2009, il sindaco ha disposto il
Trattamento Sanitario Obbligatorio in degenza ospedaliera, e gli operatori sono
rimasti sordi all’invocazione dello stesso Mastrogiovanni la cui unica
richiesta, al momento di entrare sul mezzo del 118, è stata di non essere
trasferito all’ospedale di Vallo perché lì, con un terribile presagio che
forse ha radici in esperienze passate, si dice certo che lo avrebbero ammazzato.
Come ancora troppo spesso accade, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che
dovrebbe essere uno strumento eccezionale, con esclusiva valenza sanitaria, di
tutela delle persone con sofferenza psichica, sembra trasformarsi in una sorta
di mandato di cattura, un atto che tradisce i principi ispiratori della legge e
delle tutele costituzionali, realizzando sottrazione e compressione dei diritti.
Quello che è accaduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca, prima
che dagli atti processuali, viene restituito dai filmati delle telecamere di
videosorveglianza del reparto, che, mostrati in trasmissioni televisive,
incontri e nel documentario 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco
Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio, hanno rivelato la realtà di un reparto
ospedaliero di psichiatria le cui prassi di intervento nulla sembrano avere a
che fare con la cura: in quelle immagini si riproduce la visione di luoghi
angusti e trasandati, in cui il corpo di Mastrogiovanni (e non solo il suo)
resta legato per giorni interi a un letto, mentre è sedato dagli psicofarmaci,
con cinghie ai polsi e alle caviglie. In un reparto confinato da una porta
sempre chiusa, medici e infermieri appaiono indifferenti al dolore, alle
richieste d’aiuto, non mostrano alcuno sguardo di cura, l’unico intervento è
quello farmacologico e una contenzione protratta per oltre ottantasette ore.
Mastrogiovanni subisce un processo di progressiva mortificazione e
nullificazione della persona, resta bloccato su un lettino troppo piccolo, che
non riesce nemmeno a tenere tutto il suo corpo, a volte nudo, altre solo con un
pannolone, le flebo applicate al braccio da cui, nel corso di questa vera e
propria agonia, fuoriesce anche del sangue che va a formare una chiazza rossa
sul pavimento, pulita dagli inservienti senza prestare alcuna attenzione al
paziente. Un’assenza di empatia che si reitera per tutto il tempo del ricovero,
anche quando portano il pranzo e, nel corso di una scena tragicamente grottesca,
lo lasciano dove Mastrogiovanni, legato, non può arrivare, dovendolo quindi
riportare via intonso, per poi affermare, nel corso del processo, che sarebbe
stato Mastrogiovanni a non voler mangiare. Alcune immagini mostrano anche un
altro uomo legato, evidenziando, come emerso pure nelle diverse fasi
processuali, un utilizzo della contenzione acritico e routinario. […]
Dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, quindi, nel reparto psichiatrico di un
ospedale pubblico italiano, un uomo che svolge il lavoro di maestro elementare
ed è amato dai suoi allievi, viene sedato e legato al letto mentre dorme, senza
una giustificazione, senza che nessuno gli parli, lasciato in uno stato di
totale abbandono, senza che si realizzino le doverose e continue azioni di
controllo e monitoraggio delle sue condizioni di salute, che man mano
peggiorano, senza alcuna annotazione della contenzione nella cartella clinica.
Alla nipote, che, come ci racconta di seguito, si era recata in ospedale per
incontrarlo, viene negato il diritto a visitare lo zio, “per non turbarlo” le
dice (come troppo spesso ancora si sente ripetere in situazioni simili) il
medico del reparto. Per tutto il tempo del ricovero, le braccia e le gambe di
quest’uomo restano strette dalle fascette al letto, non può muoversi, non si
alimenta e non beve autonomamente, gli somministrano integratori e psicofarmaci
volti alla sedazione di uno stato di agitazione che, come conferma nel
successivo dialogo Ortano, nulla ha che fare con atteggiamenti auto o
etero-aggressivi (che Mastrogiovanni non manifesta mai durante il ricovero), ma
cresce, col passare delle ore, proprio per l’impossibilità di muoversi, per
l’essere bloccato, per le abrasioni e le escoriazioni sul corpo, determinate da
quella condizione di cattività resa ancora più insopportabile dal caldo di
quelle giornate estive.
Francesco Mastrogiovanni muore nella notte per edema polmonare acuto, ma se ne
accorgeranno solo in mattinata, annotando il decesso nella cartella clinica a
distanza di dieci ore dalla precedente indicazione.