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La malattia contro il potere. Giovanna Ferrara e l’innocenza dei dinosauri
(disegno di escif) Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna Ferrara) Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara (edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura affascinante, lieve e delicato.    L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante” giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una prospettiva di futuro. Tutto il respiro che avevo era pianto Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al racconto,  l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si conquistano con una lotta personale. Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo. L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”. Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere […] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.  Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo” senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li chiamavi”. Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.: “Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio e pratica e approfondimento”. G. non  contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto urgentissimo”. “Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […] come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per morire)?”. “Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità avevo?”. La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica. Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica, a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”. Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia. La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri, nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella sera di morti che cadevano senza numero”. L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi politica è profonda perché si fonda  sulla sofferenza personale e sulla conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è una condizione umana e politica. L’oro tra le macerie “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto, “si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa. Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente, entrambe abbiamo avuto molto”.  In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi […] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il mondo non lo vuole cambiare”. Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”. Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole. Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici, alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”. (dario stefano dell’aquila)
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Vivere in un mondo nuovo. Il confine immaginario tra Oriente e Occidente in un libro di Renata Pepicelli
(disegno di marco di pietro) Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente. Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche, ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono quasi profetici se si considera la  data di uscita del libro (28 febbraio) e quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto irriducibili semplificazioni? Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità, rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente. Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento, sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali. Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo, doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi, immutabili e neutrali. La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa, dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi. Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura, per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi. Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali, finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta neutralità e omogeneità nazionali. Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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Videograms of a Revolution. Domani a Galleria Toledo per la rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima proiezione della rassegna A fuoco! Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *   *   * Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato, vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di combattenti fedeli a Ceaușescu. Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest. Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori, trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione statale: una nuova, spettacolare Bastiglia. Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive. Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa, seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […] aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo. Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza. Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse, la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco migliaccio)
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Between Revolution. Domani a Galleria Toledo per la rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Domani, mercoledì 9 aprile (ore 20:30 a Galleria Toledo), riprende la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il  secondo film in proiezione sarà Between Revolution (2023), di Vlad Petri. Alla proiezione seguirà un incontro in remoto con il regista.   Pubblichiamo per introdurre il film un testo a cura di Maria Rosa.  *     *     * Due studentesse di medicina si incontrano a Bucarest. Sono gli anni Settanta e molti giovani dal Medio Oriente si recano nei paesi del blocco sovietico per ragioni di studio. Zahra è iraniana, Maria, invece, romena. Quando Zahra torna in Iran alla vigilia della rivoluzione, la loro amicizia si trasforma in un rapporto epistolare che si innesta nelle immagini della grande storia. Una storia divisa in due. Una storia ciclica. Due rivoluzioni nel giro di dieci anni: Iran 1979, Romania 1989. Between Revolutions (2023) di Vlad Petri è uno pseudo-documentario, creato da immagini d’archivio della Romania e dell’Iran a cavallo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Assieme storia di due rivoluzioni, raccontate da due voci femminili all’unisono, e di una amicizia confiscata dalla storia. L’amicizia tra due donne di finzione i cui sentimenti sono ispirati da documenti che Petri ritrova tra quelli della polizia segreta romena.  Lo spazio del film è architettato attraverso un collage di immagini sul quale combaciano tempi diversi, e sovrapposti. Tempi, prima di tutto, emotivi. A guidare è la voce delle due amiche. Quando Maria è ancora in una Romania in bianco e nero, e solo a tratti rossa, scrive in solitudine: «La notte è come sangue che fuoriesce dalla mia bocca. Un tempo eravamo una. Un tempo eravamo una». Zahra si muove per le strade di un Iran a colori. Un Iran celeste e arioso, che canta: «O tu che porti luce nella mia alba, senza di te sono un deserto senza notte. O tu che colori la mia sofferenza di speranza, senza di te sono prigioniero della mia trappola». Zahra ha lasciato la Romania, si è divisa da Maria, per unirsi alla massa di persone e di cori che invadono le strade di Teheran: «Uniti sconfiggeremo lo Shah, uniti sconfiggeremo l’imperialismo», «lavoratori, contadini e oppressi si uniranno per sconfiggere l’oppressione». La rivoluzione irrompe nella storia del paese. «È una forza della natura» dice Zahra. E Maria sente in Zahra l’energia dell’ideale, ma l’ideale in Iran si dissolve presto. Fatta la rivoluzione le masse e le voci si frammentano. La guerra con l’Iraq che dura fino al 1989, infine, spazza via tutto. Gli ideali di speranza e cambiamento si incrociano con i moti della storia per poco tempo. Poi si spezzano e si dividono, come l’amicizia tra Zahra e Maria. Il tempo mobile delle possibilità e dell’apertura al futuro si trasforma in tempo statico di disillusione e costrizione. Le storie si riallineano. In Romania si soffoca. Il controllo sembra essersi inasprito e la polizia segreta informa il padre di Maria della corrispondenza della figlia. Uomini in nero si infiltrano nella loro vite, ne controllano i destini, in Romania come in Iran: «Ovunque bisogna obbedire alle regole, fare come dicono loro». Mentre i corpi si vestono del sistema, si muovono per il sistema. Respirano per il sistema. Il sentimento è quello di essere in una trappola che aderisce così bene al proprio corpo femminile tanto da farne parte. La propaganda romena parla di un felice «destino biologico». Eppure, il vissuto è mortale: «Ho costruito mattone dopo mattone, fino alle mie caviglie, fino al mio busto, fino al mio petto. Il mio corpo diviene duplice dentro il muro. Il mio sangue fluisce nei mattoni dai miei palmi, e rifluisce indietro bruciandomi nelle tempie. I miei capelli hanno un inebriante odore di morte. I miei mattoni sono vicini come lame d’erba. Anelo alla suprema intimità di quando il muro, stranamente, inizierà a bruciare come me». E infine la Romania brucerà. La rivoluzione si manifesta di nuovo come forza della natura. Le strade vengono invase e intasate. Le masse scorrono come sangue nelle arterie della capitale. Terremoto della storia. Ancora una volta le immagini d’archivio restituiscono l’impeto travolgente dei tempi. Un déjà-vu`. Un nuovo tempo che avanza. Un nuovo tradimento. Questa volta la vittoria è confiscata dalla miseria. Crolla il socialismo, avanza il capitalismo. Ora la vita sta dietro le vetrine tirate a lucido. È irraggiungibile. Si può solo ammirare al freddo di una nuova paura.  Brucia la bandiera americana per le strade di Teheran. Sventola per le strade di Bucarest. Negativo e positivo della stessa immagine. Ciò che resta e accompagna la storia, Maria, Zahra e lo spettatore è un sentimento di profonda nostalgia. La nostalgia di un futuro che deve ancora avvenire, che richiede di tornare al punto di partenza, al bianco e nero, per riaprire il ventaglio delle possibilità`. «Vorrei ricominciare tutto daccapo», scrive Maria a Zahra. «Torniamo a essere una, lottiamo assieme, come il tempo in cui stavi al mio fianco».  
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Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe) Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano. Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown. Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità. Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”). Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione. Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna? Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata). Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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culture
detenzioni
Paris est une fête. Domani il primo film della rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).  A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *     *     * Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini, che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione. Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure (2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia. Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti. Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso, però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa, ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio, soprattutto dal giudizio morale. Distruggere le tracce, dunque. In  Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in  Paris est une fête o dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il confine.  È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore. Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è condannato a non avere documenti. In  Paris est une fête, infine, gli scontri urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile, un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene. Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza; certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce che balugina. (francesco migliaccio)
cinema
culture
Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri
(archivio disegni napolimonitor) Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali. *     *     * Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi. I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano. Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti. Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi. La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”. Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp. Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità. Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo – mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con lo stato, né con le Br”. A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è troppo grande la contraddizione…”. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale, sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri vecchi”. I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più generale di burocratizzazione sindacale. Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare, ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni. Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati. Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni, perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico, contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea bottalico)
cinema
culture
A Fuoco! Dal 26 marzo la terza edizione della rassegna
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) I film in proiezione quest’anno mostrano rivolte, rivoluzioni e improvvise svolte nella storia. Tutti e tre palesano un’inquietudine. Nelle vie di Parigi le manifestazioni contro la Loi Travail incontrano gli incubi notturni di una città violenta ed escludente; la rivoluzione in Iran si apre al rimpianto per le occasioni perdute; nella sollevazione contro Ceaușescu in Romania si intravvedono strategie e interessi di vecchie e nuove classi dirigenti. Questa inquietudine emerge grazie all’elaborazione e alla manipolazione dell’immagine, in un movimento contrario al flusso della società dello spettacolo. La lotta contro lo spettacolo, in sé rivoluzionaria, può allora essere un tentativo di risvegliare il contenuto sopito e addomesticato del passato. 26 marzo Ore 15:30, Accademia delle Belle Arti (largo Nanni Loy) Masterclass di Sylvain George  Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Paris est une fête. Un film en 18 vagues di Sylvain George  (Francia, B/N, 95’, 2017 | V.O. Sott. ITA) Parigi città notturna, violenta e insensibile. Fra le luci di un capitalismo che promette un benessere inarrivabile s’aggirano esistenze sopravviventi in un incubo urbano. È il 2016 e la rabbia esplode in strada contro la loi Travail. Place de la République è occupata dai manifestanti. Al termine della proiezione seguirà incontro con il regista. 9 aprile Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Between Revolutions di Vlad Petri (Iran, Qatar, Colore, B/N, 68′, 2023 | V.O. Sott. ITA) Lo scambio epistolare tra due donne mette in parallelo due rivoluzioni chiave del Novecento, quella iraniana del ‘79 e quella rumena di dieci anni dopo. La parabola – apparentemente inevitabile – sembra identica: si parte dai grandi ideali e si finisce con un semplice cambio di potere. Al termine della proiezione seguirà discussione da remoto con il regista. 23 aprile Ore 20:30, Galleria Toledo (via Concezione a Montecalvario, 34) Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujică  (Germania, Romania, Colore, 106′, 1992 | V.O. Sott. ITA) Dando corpo a una nuova forma di storiografia, basata interamente sui media, questo film mostra la rivoluzione rumena del dicembre 1989. A Bucarest i dimostranti occupano gli edifici della TV di Stato e trasmettono in diretta le loro dichiarazioni, trasformando lo studio televisivo in un luogo di manipolazione degli eventi storici.
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culture
Costellazione d’assenza. Le scritture di Enzo Moscato messe in scena da Giovanni Ludeno
(disegno di roberto-c.) Nella Sala Assoli di Napoli il 14 e 15 gennaio scorsi, nell’ambito della rassegna dedicata al ricordo di Enzo Moscato, è apparso S’ENZ, una fugace inedita imprevista costellazione (Moscato avrebbe scritto co’stell’azione) di brani, frammenti delle scritture di Enzo Moscato, scintillanti su una scena ombrosa e raccolta.  Scrivo “scritture” al plurale perché l’esperienza di scrittura di Moscato è stata segnata non solo da una disseminata poligrafia – testi teatrali, letterari, poetici in senso stretto, teorico-filosofici-semiologici – ma anche dalla divisione tra scritture rese pubbliche e scritture più o meno clandestine, ora volutamente inedite, ora trattenute il più possibile nel segreto, edite in parte, o utilizzate come frammenti-schegge nei testi destinati alla pubblicazione. Scritture tenute in disparte, ritratte ma operanti, parti dell’opera a tutti gli effetti. Opera segreta che ha preparato, accompagnato, nell’ombra e come ombra, l’opera manifesta di Moscato. E che possiamo immaginare essere stata ispirata a sua volta dall’esperienza delle scritture pubblicate e/o messe in scena. A pensarci, il modo stesso di stare in scena di Enzo Moscato, punteggiato dalla sua presenza assente, dalla sua lontananza in presenza, dal “farsi ombra” in piena luce o dal dislocarsi nelle zone oscure della scenografia, cadendo nel silenzio o in un mormorio sommesso appena percettibile, testimoniava l’impossibilità di una sua adesione totale alla messa in scena o, più precisamente, la messa in scena di una lontananza, di uno scarto, di un essere “altrove” in presenza, di un venire dall’altrove e di desiderare l’altrove. Si può ben dire che Enzo Moscato abbia fatto parte della cerchia dei napoletani-altrove. Altrove non perché abbiano abbandonato Napoli per stabilirsi in un altro luogo, ma perché abitando nell’altrove, pur scoprendo di non poter che restare-patire nella località che ha nome Napoli, non si sono stabiliti, stabilizzati, in nessun luogo. Come se proprio la natura porosa della città, che viene evocata in S’ENZ, consentisse, a chi quei pori, quei vuoti, non intende tapparli con gli stereotipi della napoletanità, di mantenersi in rapporto con l’altrove. Divenire la propria porosità, decidersi per il proprio esser bucati, grazie al caso di essere nati a Napoli: “la città da cui mi onoro (e talvolta) disonoro di prendere origine”.       S’ENZ – lo spettacolo ideato e interpretato da Giovanni Ludeno, musicato e cantato da Massimo Cordovani, con la preziosa collaborazione artistica di Roberto cyop – è come se, nel vasto sgomento e dolore per il venir(ci) a mancare di Enzo, volesse ricordare, non tanto questo o quel tratto particolare dell’esistenza di Moscato al fine di tentare di riempire con il ricordo il vuoto lasciato dalla sua scomparsa, ma commemorare le scritture del suo ritrarsi o dimettersi in loco e in vita, ossia da una parte il lato in ombra, inedito, dell’opera, dall’altra l’assentarsi, il sottrarsi, come uno spettro, nell’atto stesso del venire in scena, del presentarsi in pubblico – è questo, a mio avviso, l’aspetto toccante, commovente e profondamente “giusto” dello spettacolo, che gli consente di sottrarsi per nostra fortuna ai rituali auto-compiaciuti della memoria personale. Del resto gli spettri, scrive Moscato in Co’stell’azioni, vengono tra noi non per acquietarci o renderci “sentimentali”, ma per “recare disturbo”, recarlo “in fondo all’occhio e al cuore”. Se Moscato si aggira come uno spettro in scena, se scrive dall’altrove per l’altrove, è per recare “disturbo”, “a guisa di ventata, di folata, / che fa tremmà ’e cappielle”. Gli spettri vengono “pe ffà ammuina, pe fa ’a guerra, mmiezz’a vvuie, / crià nu poco ’e vita, pe mezz’ora, nzieme a vvuie”. Lo spettro, il morto non morto, recando “disturbo”, “ammuina” e “pòlemos”, crea vita, tenta di risvegliare dal sonno i vivi, proprio in virtù della sua ferma distanza, del suo non cedere alla “comunella”. Grazie al ritmo con cui Ludeno ha montato i frammenti che compongono S’ENZ, la ventata, il tremore, “nu poco ’e vita” hanno investito gli spettatori, ora lasciandoli, mi è parso, in un silenzio attonito e stupito dalla rivelazione della elaborata filosofia di Moscato, di un Moscato filosofo a tutti gli effetti, ora agitati e ridenti per la straordinaria ironia “ammuinante” di alcuni più noti frammenti, recitati da Ludeno con un ritmo più trattenuto di altre volte, in consonanza, credo, con quella commemorazione della spettralità, del semi-vivo, di cui ho parlato.        Rammemorando il divenire spettro in vita di Moscato, S’ENZ ne commemora la poetica, consente di farla tornare, la evoca e mostra nello stesso tempo la necessità di una sua ri-scrittura, perché il disturbo, il risveglio abbiano a reinventarsi. Solo così il poeta, “che si fa morto da vivo”, può attraverso la voce, il gesto, la musica e il canto altrui, di eredi o antenati, continuare, in una dimensione atemporale, a farsi “vivente nella morte”.  Giovanni Ludeno dà voce e gesti a lacerti di scritture inedite, li compone, direi li “sfrega”, con frammenti estratti, con studio, intuizione e atto di forza, da noti testi moscatiani, ne fa fuoco o scintilla, “volubili volute di fiamma o di scintilla”, a seconda della intensità con cui quei lacerti di scrittura vengono sfregati. Compone così un nuovo testo, una nuova costellazione, facendola brillare anche di alcuni versi “stellari” di Leopardi e Dante, così da donare ulteriore “intensa vita, comm’è chella ca penzamme piglià pére ncopp’ ’stelle”. Ma la vita intensa è quella che non solo sa assentarsi o entrare in stato di morte apparente, ma anche decomporsi, dirsi volutamente in frammenti: “Tengo, allora, ’na nutizia, grande e triste, a ve purtà: ca io so vivo! / E mi dirò ‘in frammenti’. / Dunque: io so’ vivo, e l’unica condizione che pongo per continuare ad esserlo / è il frammento, la di me scompo-sizione”. Scomponendo una scrittura che già di per sé si vota al frammento, Ludeno risponde al desiderio di Moscato di offrirsi come esperimento per una “autopsia perpetua”. Fare l’autopsia di una scrittura disseminata e frammentaria, significa continuare a frammentarla. Ma la frammentazione, la disintegrazione, l’esplosione sono gesti interni a una spinta irresistibile ad affermare nuove composizioni, inventare scritture, lingue inesistenti. Spinta verso ciò che non c’è: ancora il non ancora. Il frammento non ha chiudersi su sé stesso, deve mantenersi aperto, perciò ha bisogno di un’autopsia, di una violazione, di un atto di forza. Perpetua autopsia significa perpetua scomposizione e apertura di un varco per la scrittura dell’avvenire e l’avvenire della scrittura. “M’ avit’ ’a fà l’autopsìa, insomma, l’autopsìa perpetua, si vulite ca stu cuorpo, o l’ànema – ca po’ so’ ’a stessa cosa – continuino a vibrarvi tra le mani, dint’ ’e recchie, ncopp’ ’a lengua dint’ all’uocchie, sott’ ’o naso… dint’ a tutti i cinque sensi!”.  (maurizio zanardi)
teatro
culture
L’oro tra le macerie. Oroscopo di Foucault 2025
(disegno di ginevra naviglio) L’ORO TRA LE MACERIE | OROSCOPO DI FOUCAULT 2025 Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie. (Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri) ARIETE La combattività che Marte regala al vostro segno è l’origine della forza e della vitalità che vi caratterizza. L’entusiasmo di chi supera ogni difficoltà con determinazione e temperamento da battaglia è il vostro tratto distintivo. Allo stesso tempo può essere la causa di mancanza di tatto e di riflessione, di errori di valutazione che compromettono anche le relazioni più vicine fino a farne macerie. Così mi chiedevo se fosse questo l’anno in cui provare a dosare le nostre forze per un equilibrio differente che imprima delicatezza ai vostri slanci. In un libro piccolo e intenso, la scrittrice afroamericana bell hooks (con le iniziali minuscole per precisa scelta dell’autrice) riflette sul tema dell’amore e del filo che lega l’adulto che siamo al bambino che eravamo. Scrive questa frase che è fatta apposta per voi: “Può essere utile cominciare a considerare l’amore come un’azione piuttosto come un sentimento”. Sappiamo che questa frase vi corrisponde: l’amore si esprime in gesti e comportamenti (prendersi cura, essere reciproci, ascoltare, proteggere, dare fiducia) senza i quali resta una parola priva di significati. Però, aggiungiamo noi a vostro beneficio, l’azione, senza la cura di parole che l’accompagnino, rischia di smarrirsi nelle abitudini.  In amore la parola è il reciproco del gesto, tenetelo a mente.  TORO Il principio fondamentale di chi scrive questo povero oroscopo è di essere “impermeabile” alle richieste popolari. Però, nel mentre della scrittura, ho ricevuto questo messaggio: “Scrivi al Toro di muoversi”, che sentivo essere in sintonia con quanto andava scritto. Il tema però non è solo il movimento, ma la direzione. Perché il Toro è segno di una sedentarietà che non è affine alla pigrizia fisica ma all’abitudine mentale. Abitudine agli affetti prima di tutto, che portate addosso come una seconda pelle (e del resto abitudine deriva dal latino habitus), poi ai luoghi (sareste capace di camminare per ore per le strade che trovate familiari), infine alla gioventù. Perché senza tanta fatica si distingue in voi lo sguardo dell’adolescente che attende il suono della campanella dell’ultima ora di lezione. Lo sguardo limpido e impaziente di chi assiste un po’ stupito al mondo degli adulti e al ritmo delle incombenze quotidiane di cui fa fatica ad afferrare il senso. Ci sono, a questo punto, due possibilità di movimento. La prima è muoversi alzando le spalle al mondo verso i luoghi segreti che abitano i nostri sogni d’infanzia, difendendosi dalle pretese degli adulti. Il secondo, più complesso, è prendere per mano il nostro io bambino e uscire allo scoperto in direzione del sole. Usare sogni e ricordi come bussola che orienta il futuro, e non per nostalgia. Sul cuore, come scrive Ingeborg Bachmann, appuntate come medaglia la stella della speranza: “Viene conferita per la diserzione dalle bandiere, per il valore di fronte all’amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e l’inosservanza di tutti gli ordini”.  GEMELLI Secondo il filosofo Salvatore Natoli, l’“opposto della felicità non è il dolore ma la noia” (so che state pensando alla canzone di Franco Califano, vi inviterei però a un po’ di serietà). In virtù di questa tesi, la noia nasce quando il mondo intorno a noi perde significato e rischiamo di ridurre tutto ciò che ci circonda a un riflesso di noi stessi, dimenticando la sua reale ricchezza e varietà. La noia può derivare da questa visione o dal fatto che lo spazio di mondo che abitiamo si restringe, e i paesaggi quotidiani diventano abitudine. Al contrario della noia, la felicità è nell’apertura verso il mondo, nel riconoscere e apprezzare la novità che ogni cosa porta con sé. Quando siamo capaci di guardare al mondo con uno sguardo fresco, senza giudicarlo o ridurlo ai nostri desideri e bisogni (e senza brontolare, aggiungiamo noi) possiamo riscoprire il significato e la bellezza anche nelle esperienze quotidiane. Fino a qui, mi direte, Natoli non ha aggiunto a quanto già sapete. Non siate impazienti, leggete ancora questo: “L’educazione alla felicità è l’educazione alla relazione giusta con le cose, che vuol dire rispettare le cose. La parola chiave è delibare: chi ama il vino lo deliba, non si ubriaca mai, mai da ogni goccia di vino riesce a stillare il suo sapore, e per questo deve avere una competenza. La felicità esige competenza e sapienza, un’educazione alle giuste relazioni con gli altri”. Apertura, capacità di essere curiosi e di guardare nelle cose la loro novità. E, mi raccomando, la giusta misura nelle cose e nelle relazioni.  CANCRO Che anno è stato questo trascorso? Un anno pieno di momenti importanti, in uno scenario complesso intorno a voi. Si fa fatica a trovare nel mondo qualcosa che ci somigli in questo brulicare di conflitti e di ambizioni mediocri. E voi che siete il segno della (iper)sensibilità e dell’intuizione, e che potete stare bene solo quando lo sono anche i vostri affetti intorno, rischiate a volte di scoraggiarvi. Così Mahmud Darwish, poeta e scrittore palestinese, rispondeva a un giornalista statunitense che lo intervistava: “Cosa scrivi, poeta, durante questa guerra?”. “Scrivo il mio silenzio”. “E quando ricomincerai a poetare?”. “Quando i cannoni taceranno per un po’, quando farò esplodere questo mio silenzio carico di voci, quando troverò una lingua adeguata”. Cosa fare allora quando il rumore aggressivo del mondo vi impedisce di prendere parola? Come si trova una lingua adeguata quando intorno il mondo sembra offrire solo macerie per il futuro? La prima cosa da fare è stringersi a chi condivide i nostri pensieri; la seconda è non aver timore a uscire e ad andare in esplorazione nel mondo. Affamati di parole ma mai in silenzio, perché quello che il mondo non ci dà ce lo andremo a prendere, sogno per sogno, casa per casa.  Per questo anno che viene, dunque, vi invitiamo a fare un passo in avanti: portate allo scoperto le vostre parole e abbracciatele forte affinché il vento non le disperda. LEONE Scrive Giovanna Ferrara: “Abitare le proprie possibilità di vivente è una bussola sicura, sicura la direzione d’orientamento”. Che vuol dire? Vuol dire che la felicità interiore nasce dalla consapevolezza della propria potenza di agire. È nell’atto di esplorare questa forza che ci realizziamo, come ha insegnato Spinoza. La comprensione della nostra capacità di trasformarci e di trasformare il mondo ci dà senso e direzione, e ci connette alla nostra essenza più profonda. Una capacità trasformativa non solo personale ma anche politica, nel senso più alto e collettivo della parola. Una capacità non solo personale, ma che ha una dimensione collettiva, nel senso di un impegno per il bene comune, per la costruzione di una società più consapevole e giusta. Ma cosa innesca questa forza e consapevolezza? Per voi, Leone, è piuttosto chiaro: è l’amore che muove il vostro spirito (oltre al Sole e alle altre stelle). Quanto amore, allora, è necessario per alimentare il vostro motore? Ecco la formula segreta, svelata per voi da Mariangela Gualtieri: “Innamorarci ogni giorno, ogni giorno un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una collina, una parola, un boccone. Innamorarci. Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”. Agire, amare e trasformare, gli ingredienti di quest’anno sono questi, sta a voi scegliere le proporzioni.  VERGINE Nel 1942 il medico e psicologo viennese Viktor Frankl fu deportato, insieme ai familiari, in un campo di concentramento. Dalla sua esperienza, è venuto fuori un libro (Uno psicologo nei lager) nel quale Frankl ha esaminato le forze psicologiche che consentono di sopportare e superare le esperienze e condizioni più dolorose. Frankl sostiene che l’essere umano è spinto principalmente dal bisogno di trovare un significato nella propria vita, più che dalla ricerca del piacere (come sosteneva Freud) o dalla ricerca del potere (come suggeriva Adler). Secondo Frankl, anche nelle condizioni più tragiche, le persone possono trovare un senso che dia loro la forza di andare avanti. Sulla base di questa tesi, Frankl sviluppò la “logoterapia” che si basa sull’idea che la ricerca del significato della vita sia il motore principale dell’esistenza umana (in greco logos significa “senso” e anche “parola”). Le difficoltà possono acquisire significato quando la persona riesce a comprenderle come parte di un cammino più ampio. In altri termini, non possiamo determinare quello che ci capita o ci circonda, possiamo però decidere in che modo interpretare gli eventi e consentire loro di formarci. Questa lunga premessa, per arrivare a una breve conclusione: se trovate le parole giuste trova un senso la vita che accade. Ricordatevi però anche di pronunciarle, affinché chi vi sta accanto sappia come è meglio accompagnarvi. Mi raccomando, rammentate le regole d’oro: non perdere di vista l’insieme per i particolari, chiedere quando è necessario, lasciare andare quando è giusto, pretendere ciò che meritate.  BILANCIA Qualche tempo fa un’amica mi raccontava della sua separazione, fatta di silenzi ma soprattutto di una mancata attenzione, che più di tutto pesava. Mentre parlava, mi sono venuti alla mente questi versi di Elisa Ruotolo: “Sbagliavo a trascurare la fretta, | chi ama coltiva giardini di virgole | accudisce sillabe e punti di domanda | non è asciutto come il dispaccio | della resa. | Chi ama rileggerà le parole | una ad una prima di congedarle. | L’incuria è già lontananza | ammissione che si è altrove | a sistemare la propria grammatica”. L’ho rincontrata, mesi dopo, rinata e solare, perché aveva deciso di dedicarsi completamente a sé stessa, smantellando anni di pensieri tristi, riprendendo in mano gli studi, i suoi interessi e qualche vecchia passione. È come se avesse deciso di tornare a casa dentro di sé, ritrovando ciò che aveva messo in disparte per troppo tempo. Questo rinascere era dovuto anche alla sua rete di affetti, intessuta negli anni, che le ha regalato coraggio e attenzione. Ogni passaggio era stato accompagnato da amiche e amici pronti a coltivare giardini di virgole e a offrire cura e vicinanza. E allora, direte? Ancora questa storia della resilienza? No, affatto, il tempo che viene può essere bello senza bisogno di eroismi e resilienze, purché teniate a mente la regola fondamentale di ogni trasformazione: il primo passo si può fare da soli, i successivi vanno fatti in compagnia. Che siano “cura” e “reciprocità” le parole nell’anno che viene.   SCORPIONE “Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri, pensa. Se solo si potessero nascondere i propri occhi al mondo”. Questa frase, pronunciata da un personaggio nel romanzo della premio Nobel 2024 Han Kang, mi è tornata in mente quando ho pensato a voi scorpioni. Perché? A scorrere i testi sacri dell’astrologia, il segno dello scorpione è descritto come “intenso, passionale, riservato e maestro nell’esplorazione dell’animo umano”. È una descrizione che vi corrisponde, in special modo quando si parla della vostra riservatezza. Possedete un equilibrio raro, tra la tensione delle passioni e dei desideri, e la capacità di proteggerli dall’indiscrezione della vita quotidiana. Come se, in ciascuna di queste passioni, poteste vivere molteplici vite, affidando a ognuna di esse un pensiero, un segreto, un tratto particolare del vostro carattere. Eppure, c’è un punto in cui tutte queste sfaccettature si fondono: è negli occhi. Per quanto possiate cercare di nascondere, i vostri occhi parlano più di quanto possiate immaginare, e rivelano più di quanto vorreste. Questa tensione tra desiderio di protezione e intensità delle passioni vi accompagnerà anche nel tempo a venire: sarebbe innaturale suggerirvi altro, così come suggerire la prudenza. Non resta, allora, che augurarvi di essere fino in fondo fedeli a voi stessi e, comunque vada, di avere gli occhi aperti al mondo e all’amore.  SAGITTARIO Per l’anno che viene, se volete segnare una qualche discontinuità con quello passato, dovete darvi da fare per lavorare su voi stessi. So che non amate i conflitti che non siano per ragioni etiche o politiche, che se nella vita quotidiana non trovare sfide impossibili sembra tutto noioso, che preferireste una settimana da Che Guevara che una vita da Fidel Castro, che siete in attesa di qualcosa di impossibile di cui lamentarvi subito dopo, e che potreste certamente migliorare in costanza e capacità di esprimere sentimenti ed emozioni. Ma ciò a cui vogliamo chiamarvi nell’anno è ben riassunto da questo aneddoto che Soffici racconta a proposito del poeta Dino Campana, che vendeva personalmente i suoi Canti orfici a chi volesse acquistarli: “Prima di consegnarglielo, Campana guardava bene in faccia il suo uomo; e secondo la stima che ne faceva strappava dal libro queste o quelle pagine da lui ritenute, per una ragione imperscrutabile, non consone al costui comprendonio. Lo stupore dell’acquirente era grande quanto il suo imbarazzo, ma ormai la cosa era fatta […]. La più bella fu però quando anche Marinetti volle avere il suo libro. Campana, dopo aver meditato alquanto, ne strappò la maggior parte, e non gliene mise in mano che tutt’al più un sedicesimo”. Per l’anno che viene mettete da parte diplomazia e pazienza, fatene scorta in cambio di un po’ di sana fiducia nelle vostre capacità, a costo di confinare con la presunzione (attenzione però a non varcare la linea) che la felicità non si trova nella prudenza e nella quiete.  Come diceva Pasolini: “Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”.  CAPRICORNO Quando vi capita di giudicare voi stessi con severità, prima ancora che gli altri, o quando penserete che una piccola imperfezione rischia di fare macerie delle vostre fondamenta, pensate al buon Galileo Galilei. Il nostro coraggioso esploratore dell’universo, la prima volta che osservò Saturno, ingannato dagli anelli che circondano il pianeta e dalla cattiva qualità del suo telescopio, credette di vedere tre oggetti. Fu solo molti anni dopo che un astronomo dotato di un telescopio più potente distinse con precisione gli anelli che circondano il pianeta e gli donano un fascino unico. Parliamo tra l’altro del pianeta che ha il domicilio nel vostro segno, e a cui si associano razionalità e intransigenza. Possiamo dire che questo errore offusca l’importanza che Galilei ebbe nel demolire il sistema tolemaico? Il primo aspetto, dunque, su cui lavorare, è misurare la severità del giudizio verso sé stessi.  Perché a furia di essere esigenti si diventa critici implacabili, demolitori, e si rischia anche di avere timore di analizzare in profondità, per paura di ciò che di imperfetto potremmo trovare.  Se non vi fidate di questo povero astrologo foucaultiano, leggete le parole di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, che ha scritto: “L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo” (Elogio dell’imperfezione). Credetemi, non c’è perfezione nel non voler perdonarsi di essere imperfetti: per l’anno che viene potreste venire a patti con questo aspetto e crescere in uno spazio senza giudizio. Giusti con sé stessi, giusti nel mondo.  ACQUARIO Ci sono fasi della vita in cui per costruire qualcosa occorre prima demolire un’altra. Purtroppo, non sempre la vita ci offre la possibilità di non lasciare cesura tra una fase e l’altra, di impedire un’assenza ci ferisca. Capita alle volte che si demolisca per rabbia o per necessità, senza sapere ancora cosa andare a costruire o a fare di ciò che perdiamo, così come può accadere che non sappiamo interrogarci sul ruolo che abbiamo nella tragedia che lamentiamo. Alla fine, però, non conta l’innesco ma il percorso che farà germogliare una persona nuova dal nostro dolore, quando una nuova casa sorgerà dalla vecchia. Scrive Giovanna Ferrara, in un libro (L’innocenza dei dinosauri) elegante, dolcissimo e immortale come l’autrice: “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. L’anno che viene somiglierà molto a quello passato, nel bene e nel male: la differenza la farete voi, riempiendolo di desideri coraggiosi e di amicizie profonde. PESCI Ci sono due aspetti sui quali possiamo lavorare nell’anno che verrà, due aspetti che si intrecciano e che sono da un lato la vostra capacità di ascolto e comprensione, e dall’altro la tendenza alla fuga dettata dall’urgenza del sogno, quel tipo di sogno che ci apparta dalla realtà. Come tenere insieme le due cose? Come farsi carico dell’ascolto dei dolori del mondo senza poi cercare per noi stessi un’alternativa e cercare nascondigli nelle pieghe della vita? La prima via sarebbe quella più comune, porre limiti e barriere all’ascolto, che però nel vostro caso sarebbe come chiedere a un primo violino di suonare in ultima fila. La seconda strada è vivere dentro relazioni che siano il giusto scambio ed equilibrio tra la possibilità di ascolto e quella di essere ascoltati. Ha scritto Giovanna Ferrara: “Non lo so se gli uomini parlino tra di loro nella spietata e selvaggia onestà e intelligenza con cui a me capita di farlo con le amiche più care o con gli amici più fraterni. Forse sì, perché questi alfabeti di profondità sono attitudini alla ricerca di qualcosa che luccica. Certo, dietro molti degli svincoli della vita c’è la relazione sotterranea e intima e regalata che nasce alla philia, traccia d’oro di questo mondo faticoso”. Per quest’anno non abbiate timore di mettervi in cammino, ci sarà sempre la traccia capace di illuminare le strade più scure.   
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