Teatro proletario dei bambini. Asja Lacis e Walter Benjamin a Napoli e Capri(asja lacis)
Il progetto “Sud e porosità – south & porosity” prende spunto dal centenario del
soggiorno di Walter Benjamin e Asja Lacis a Capri e a Napoli (1924-2024). Curato
dalla germanista Valentina Di Rosa e dall’artista Andris Brinkmanis, prevede dal
23 al 26 ottobre un convegno, una mostra, una performance e l’apposizione di una
targa commemorativa a Capri.
Approfittiamo di questa felice occasione per pubblicare lo storico testo di Asja
Lacis sul teatro proletario dei bambini.
* * *
Mentre sostenevo gli ultimi esami allo studio, a Pietrogrado fu preso il Palazzo
d’Inverno: i soviet erano al potere. Da Pietrogrado la rivoluzione balzò verso
Mosca, nonostante la resistenza di qualche gruppo isolato di Junker durasse
ancora qualche giorno. Lo studio continuava a lavorare. La sera, mentre
rincasavo, sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo. La rivoluzione stava
cambiando i rapporti fra le persone, la concezione del lavoro; si aprivano
prospettive completamente nuove. Allo studio si formarono gruppi avversi, si
esigeva un immediato cambiamento del repertorio e del piano di studi. Gran parte
degli insegnanti della scuola lettone per i profughi era convinta che il potere
dei soviet non avrebbe retto a lungo, ma gli scrittori, gli insegnanti e gli
studenti di sinistra sentivano l’avvicinarsi di tempi nuovi.
Quando lessi sui muri delle case i primi appelli “A tutti! A tutti!” firmati da
Lenin, fui completamente per il soviet: volevo essere un buon soldato della
rivoluzione è modificare la mia vita sotto la sua guida. La vita intanto
cambiava tutt’intorno; il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro.
Cominciava l’“Ottobre teatrale”.
I teatri non cambiarono rotta simultaneamente: alcuni si mantennero scettici più
a lungo e temporeggiarono. Il dottor Dappertutto di Pietroburgo, l’infaticabile
sperimentatore, fu il primo fra la gente di teatro a prendere posizione per il
soviet. Cercò il contatto con i lavoratori nelle fabbriche, con gli appartenenti
all’Armata rossa, con il Komsomol, e organizzò dovunque circoli teatrali.
Indossava l’uniforme dell’Armata rossa. La sua messa in scena a Pietrogrado
della Presa del Palazzo d’Inverno** costituì il modello per successive
rappresentazioni di massa all’aperto, a cui prendevano parte migliaia di
persone, mentre decine di migliaia vi assistevano. Le messe in scena delle opere
rivoluzionarie Mistero buffo, La terra in subbuglio, Trust D. B. e altre ancora
proseguirono gli esperimenti precedenti (abolizione della ribalta, riscoperta
del macchinismo teatrale, colloquio col pubblico, stile scenografico
“condizionato”) e introdussero importanti innovazioni (pubblicistica
dichiaratamente di parte, caratterizzazione sociologica, drammaturgia aperta che
si rifaceva alle tecniche del varietà, scena costruttivista, ecc.). Fu
considerato il capo dell’Ottobre teatrale. La mia attività registica a Orel,
Riga, Mosca, Kasakistan e Walmiera deve molto a Mejerchol’d. Oggi vedo
chiaramente quale forza fosse contenuta nel suo “teatro condizionato” e nella
sua filosofia dell’arrangiamento, e con quale inesauribile fantasia egli
utilizzasse i mezzi di espressione teatrale.
Nel 1918 mi trasferii a Orel, per lavorare come regista al teatro cittadino:
avevo la strada spianata, quindi. Ma le cose andarono diversamente.
Per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine,
nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprisorniki. Fra
loro c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a
brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi
tenuti su con una corda.
Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi
guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di
briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico
si adoperava per sistemare i bambini sbandati in collegi e officine, ma
riuscivano sempre a scappare.
Negli ospizi municipali invece erano ospitati gli orfani di guerra. Volli
visitarli. Questi bambini avevano da mangiare, erano vestiti decorosamente,
avevano un tetto sul capo, ma guardavano intorno come vecchi: occhi stanchi,
tristi, nulla li interessava. Bambini senza infanzia… Non si poteva rimanere
indifferenti davanti a quello spettacolo, dovevo fare qualcosa e capii subito
che in questo caso non sarebbero certo bastate le canzoncine e i balletti. Per
ridestarli dal loro letargo occorreva un impegno che li
coinvolgesse totalmente e riuscisse a liberare le loro facoltà traumatizzate.
E io sapevo quale forza prodigiosa fosse racchiusa nel gioco teatrale.
Abitavo in una bella casa aristocratica dove, si dice, devono aver vissuto gli
eroi del Nido di nobili di Turgènev. Le stanze avevano grandi finestre di linea
gotica; attraverso gli annosi alberi di acacia la vista giungeva fino alla conca
del fiume. Spazi del genere sembravano fatti apposta per un teatro di ragazzi.
Andai dal responsabile dell’istruzione popolare della città e gli esposi il mio
progetto. A Ivan Michail Curin il piano piacque. Le stanze furono unite a
formare una sala, le cui pareti furono decorate di affreschi. Avevamo calcolato
che sarebbero venuti quindici bambini: ne vennero cento.
Ero convinta che fosse possibile risvegliare e formare i bambini per mezzo del
lavoro teatrale. Certo sarebbe stato semplice trovare un brano adatto per i
bambini, assegnare le parti e provare con i ragazzi fino ad arrivare alla
rappresentazione. Questo avrebbe certamente tenuto occupati i bambini per un
periodo di tempo, ma la loro evoluzione difficilmente ne sarebbe stata
stimolata. Quando si prova con i bambini un testo dato, si lavora fin
dall’inizio soprattutto per una meta precisa: la prima rappresentazione. I
bambini avvertono incessantemente una volontà estranea che li guida e li
costringe: la volontà del regista. Per questa strada non avrei potuto
raggiungere il mio scopo: la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro
facoltà estetiche e morali. Io volevo portare i bambini a che il loro occhio
vedesse meglio, il loro orecchio udisse più finemente, le loro mani formassero
dal materiale informe oggetti utili. A questo fine ripartii il lavoro in
sezioni. Per sviluppare l’occhio, la vista, i bambini dipingevano e disegnavano.
Dirigeva questa sezione Viktor Šestakòv, che più tardi lavorò come scenografo
con Mejerchol’d. Un pianista guidava l’educazione musicale. C’era poi
l’addestramento tecnico: i bambini costruivano oggetti, edifici, animali, figure
e così via. Altre sezioni della mia scuola sperimentale a Orel erano dedicate al
ritmo e alla ginnastica, alla dizione e all’improvvisazione. Le forze latenti
che si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si
sviluppavano, le unificavamo mediante l’improvvisazione. Così nasceva il nostro
teatro, in cui bambini recitavano per bambini: l’insieme delle attività si
traduceva in una forma estetica rigorosa e nel contempo collettiva. L’educazione
borghese tende a sviluppare una facoltà particolare, un particolare talento.
Stimola gli individui unilateralmente. Per dirla con Brecht: essa vuole
“commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende
dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo
principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per
esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti
agli occhi: la rappresentazione, la comparsa davanti al pubblico. Così va
perduta la gioia del produrre giocando. Il regista come pedagogo si tiene
continuamente in primo piano e tormenta i bambini. (Una battuta indovinata: “Che
cos’è un palo del telegrafo? È un abete riveduto e corretto”. Purtroppo vengono
spesso riveduti e corretti in tal modo anche i nostri bambini).
Scopo dell’educazione comunista è liberare la produttività sulla base di un alto
livello generale di formazione, siano o non siano presenti attitudini
particolari. La mia origine proletaria e gli studi presso il professor Bechterev
a Pietroburgo mi spingevano verso questo principio educativo, e a Orel io
cercavo di applicarlo all’educazione estetico-proletaria dei bambini.
Punto di partenza per educatori ed educandi fu per noi l’osservazione. I bambini
osservavano le cose, i loro rapporti reciproci e la loro modificabilità; gli
educatori osservavano i bambini, ciò che riuscivano a ottenere e fino a che
punto sapevano utilizzare in maniera produttiva le proprie capacità.
L’osservazione non veniva praticata e sviluppata soltanto all’interno dello
studio con il disegno, la pittura, la musica, ma anche all’aperto. Al mattino
presto e poi ancora alla sera ce ne andavamo fuori con i bambini e facevamo
notare loro come i colori mutassero a seconda della distanza e dell’ora del
giorno, come di mattina e di sera suoni e rumori risuonassero diversamente, e
come il silenzio può cantare…
Con i bambini che venivano alla casa di Turgènev dagli ospizi municipali non ci
furono difficoltà. Ai besprisorniki invece non riuscii ad avvicinarmi per molto
tempo. Quando rivolsi loro la parola per la prima volta al mercato e li invitai
a venire da noi, mi schernirono, mi minacciarono coi bastoni e mi mandarono a
quel paese. Ma io ritornai. Si abituarono a me e ai nostri battibecchi, tanto
che se rimanevo lontana molto tempo e poi tornavo, mi si facevano intorno
urlando, come con una vecchia conoscenza.
Frattanto alla casa di Turgênev il lavoro progrediva. Notammo che ormai i
bambini chiedevano di materializzare in oggetti la fantasia e le capacità
acquisite. Una tappa importante: questo bisogno deve essere soddisfatto, la
fantasia infantile non deve andare perduta: passammo quindi all’improvvisazione
con materiali concreti.
Avevo scelto un pezzo per bambini di Mejerchol’d, Alinur (dalla fiaba di
Oscar Wilde Il ragazzo delle stelle). I bambini non conoscevano i miei piani.
Diedi loro come esercizio di improvvisazione una scena tratta da questo lavoro:
alcuni predoni siedono nella foresta intorno al fuoco e si vantano delle proprie
imprese. Nel bel mezzo di questa scena ricevemmo, poco dopo, la prima visita
dei besprisorniki alla nostra casa. I bambini saltarono in piedi e volevano
scappar via da quegli invasori, che avevano effettivamente un aspetto temibile:
elmi di carta sul capo, corazze di rami e pezzi di latta, picche e bastoni in
mano. Convinsi i bambini a continuare l’improvvisazione senza prestare
attenzione agli intrusi. Dopo un po’ Vanika, il capo dei besprisorniki, entrò
nel cerchio di quelli che recitavano e fece un cenno al suo gruppo: i compagni
spinsero da parte i bambini e cominciarono a recitare essi stessi la scena. Si
vantavano di assassinii, incendi, ruberie, con cui cercavano di superarsi a
vicenda in crudeltà; poi si alzarono e squadrarono con disprezzo beffardo i
nostri ragazzi: “Ecco come sono i briganti!”. Secondo tutte le regole
pedagogiche avrei dovuto interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti, ma
io volevo riuscite a conquistarmi un ascendente su di loro. Infatti vinsi la
partita; i besprisorniki ritornarono e presero in seguito parte attiva al nostro
teatro.
Improvvisare lo spettacolo significò per i bambini felicità e avventura. Si
impegnarono a fondo e il loro interesse si ridestò. Si lavorò seriamente;
tagliando, incollando, danzando e cantando impararono i testi. Così prese vita
la figura del cattivo ragazzo tartaro Alinur, che insultava sua madre e
terrorizzava gli altri bambini. Soltanto quando il lavoro delle singole sezioni
sembrò richiedere una sintesi, si discusse se rappresentare il testo
pubblicamente. Emerse così l’esigenza di un fare collettivo – l’educazione
morale-politica in senso socialista – e il desiderio di mostrare il lavoro anche
a tutti gli altri bambini della città.
La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro
studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto
della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere,
gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e grandi. La sera
furono in molti a seguirci nella strada di ritorno verso la casa di Turgènev.
Il nostro metodo si era dimostrato valido. Avevamo avuto la prova che era giusto
far rimanere completamente in disparte gli adulti. I bambini avevano la certezza
di fare tutto da soli, e giocando lo facevano. Nessuna ideologia era stata loro
imposta e inculcata; si erano appropriati di ciò che trovava riscontro nella
loro esperienza. Anche noi, gli educatori, avevamo imparato e visto molte cose
nuove: con quale facilità i bambini sappiano adattarsi alle situazioni, fino a
che punto siano creativi e con quale sensibilità reagiscano. Quegli stessi
bambini che sembravano incapaci e limitati, avevano rivelato capacità e talenti
insospettati. Durante la rappresentazione si erano liberate tensioni
sorprendenti, che la fantasia scatenata delle loro invenzioni rendeva tangibili.
Nel 1928 a Berlino raccontai di questo mio lavoro a Johannes R. Becher e a
Gerhard Bisler. Il modello di un’educazione estetica dei bambini piacque e mi
proposero di creare un teatro di bambini di questo tipo nella casa di
Liebknecht. Dovevo dunque stendere il programma. A Capri (1924) avevo già
parlato con Benjamin del mio teatro dei bambini ed egli aveva mostrato uno
straordinario interesse al riguardo. “Scriverò io il programma – disse – e
spiegherò e motiverò teoricamente il tuo lavoro pratico”. Lo scrisse davvero, ma
nella prima stesura le mie teorie furono esposte in maniera terribilmente
complicata. Alla casa di Liebknecht lessero e risero: “Questo te l’ha scritto
sicuramente Benjamin!”. Riportai il programma a Walter Benjamin: doveva scrivere
in maniera più comprensibile. Nacque così il Programma per un teatro proletario
dei bambini nella sua seconda stesura (la prima non è più stata ritrovata).
Brano tratto da A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, 1976, pp.
78-83.
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*L’A. attribuisce erroneamente a Mejerchol’d la regia de La presa del Palazzo
d’Inverno, che porta invece la firma di Evreinov. [N.A.T.]