(disegno di roberto-c.)
Nella Sala Assoli di Napoli il 14 e 15 gennaio scorsi, nell’ambito della
rassegna dedicata al ricordo di Enzo Moscato, è apparso S’ENZ, una fugace
inedita imprevista costellazione (Moscato avrebbe scritto co’stell’azione) di
brani, frammenti delle scritture di Enzo Moscato, scintillanti su una scena
ombrosa e raccolta. Scrivo “scritture” al plurale perché l’esperienza di
scrittura di Moscato è stata segnata non solo da una disseminata poligrafia –
testi teatrali, letterari, poetici in senso stretto,
teorico-filosofici-semiologici – ma anche dalla divisione tra scritture rese
pubbliche e scritture più o meno clandestine, ora volutamente inedite, ora
trattenute il più possibile nel segreto, edite in parte, o utilizzate come
frammenti-schegge nei testi destinati alla pubblicazione. Scritture tenute in
disparte, ritratte ma operanti, parti dell’opera a tutti gli effetti. Opera
segreta che ha preparato, accompagnato, nell’ombra e come ombra, l’opera
manifesta di Moscato. E che possiamo immaginare essere stata ispirata a sua
volta dall’esperienza delle scritture pubblicate e/o messe in scena. A pensarci,
il modo stesso di stare in scena di Enzo Moscato, punteggiato dalla sua presenza
assente, dalla sua lontananza in presenza, dal “farsi ombra” in piena luce o dal
dislocarsi nelle zone oscure della scenografia, cadendo nel silenzio o in un
mormorio sommesso appena percettibile, testimoniava l’impossibilità di una sua
adesione totale alla messa in scena o, più precisamente, la messa in scena di
una lontananza, di uno scarto, di un essere “altrove” in presenza, di un venire
dall’altrove e di desiderare l’altrove. Si può ben dire che Enzo Moscato abbia
fatto parte della cerchia dei napoletani-altrove. Altrove non perché abbiano
abbandonato Napoli per stabilirsi in un altro luogo, ma perché abitando
nell’altrove, pur scoprendo di non poter che restare-patire nella località che
ha nome Napoli, non si sono stabiliti, stabilizzati, in nessun luogo. Come se
proprio la natura porosa della città, che viene evocata in S’ENZ, consentisse, a
chi quei pori, quei vuoti, non intende tapparli con gli stereotipi della
napoletanità, di mantenersi in rapporto con l’altrove. Divenire la propria
porosità, decidersi per il proprio esser bucati, grazie al caso di essere nati a
Napoli: “la città da cui mi onoro (e talvolta) disonoro di prendere
origine”.
S’ENZ – lo spettacolo ideato e interpretato da Giovanni Ludeno, musicato e
cantato da Massimo Cordovani, con la preziosa collaborazione artistica di
Roberto cyop – è come se, nel vasto sgomento e dolore per il venir(ci) a mancare
di Enzo, volesse ricordare, non tanto questo o quel tratto particolare
dell’esistenza di Moscato al fine di tentare di riempire con il ricordo il vuoto
lasciato dalla sua scomparsa, ma commemorare le scritture del suo ritrarsi o
dimettersi in loco e in vita, ossia da una parte il lato in ombra, inedito,
dell’opera, dall’altra l’assentarsi, il sottrarsi, come uno spettro, nell’atto
stesso del venire in scena, del presentarsi in pubblico – è questo, a mio
avviso, l’aspetto toccante, commovente e profondamente “giusto” dello
spettacolo, che gli consente di sottrarsi per nostra fortuna ai rituali
auto-compiaciuti della memoria personale. Del resto gli spettri, scrive Moscato
in Co’stell’azioni, vengono tra noi non per acquietarci o renderci
“sentimentali”, ma per “recare disturbo”, recarlo “in fondo all’occhio e al
cuore”. Se Moscato si aggira come uno spettro in scena, se scrive dall’altrove
per l’altrove, è per recare “disturbo”, “a guisa di ventata, di folata, / che fa
tremmà ’e cappielle”. Gli spettri vengono “pe ffà ammuina, pe fa ’a guerra,
mmiezz’a vvuie, / crià nu poco ’e vita, pe mezz’ora, nzieme a vvuie”. Lo
spettro, il morto non morto, recando “disturbo”, “ammuina” e “pòlemos”, crea
vita, tenta di risvegliare dal sonno i vivi, proprio in virtù della sua ferma
distanza, del suo non cedere alla “comunella”. Grazie al ritmo con cui Ludeno ha
montato i frammenti che compongono S’ENZ, la ventata, il tremore, “nu poco ’e
vita” hanno investito gli spettatori, ora lasciandoli, mi è parso, in un
silenzio attonito e stupito dalla rivelazione della elaborata filosofia di
Moscato, di un Moscato filosofo a tutti gli effetti, ora agitati e ridenti per
la straordinaria ironia “ammuinante” di alcuni più noti frammenti, recitati da
Ludeno con un ritmo più trattenuto di altre volte, in consonanza, credo, con
quella commemorazione della spettralità, del semi-vivo, di cui ho
parlato.
Rammemorando il divenire spettro in vita di Moscato, S’ENZ ne commemora la
poetica, consente di farla tornare, la evoca e mostra nello stesso tempo la
necessità di una sua ri-scrittura, perché il disturbo, il risveglio abbiano a
reinventarsi. Solo così il poeta, “che si fa morto da vivo”, può attraverso la
voce, il gesto, la musica e il canto altrui, di eredi o antenati, continuare, in
una dimensione atemporale, a farsi “vivente nella morte”.
Giovanni Ludeno dà voce e gesti a lacerti di scritture inedite, li compone,
direi li “sfrega”, con frammenti estratti, con studio, intuizione e atto di
forza, da noti testi moscatiani, ne fa fuoco o scintilla, “volubili volute di
fiamma o di scintilla”, a seconda della intensità con cui quei lacerti di
scrittura vengono sfregati. Compone così un nuovo testo, una nuova
costellazione, facendola brillare anche di alcuni versi “stellari” di Leopardi e
Dante, così da donare ulteriore “intensa vita, comm’è chella ca penzamme piglià
pére ncopp’ ’stelle”. Ma la vita intensa è quella che non solo sa assentarsi o
entrare in stato di morte apparente, ma anche decomporsi, dirsi volutamente in
frammenti: “Tengo, allora, ’na nutizia, grande e triste, a ve purtà: ca io so
vivo! / E mi dirò ‘in frammenti’. / Dunque: io so’ vivo, e l’unica condizione
che pongo per continuare ad esserlo / è il frammento, la di me scompo-sizione”.
Scomponendo una scrittura che già di per sé si vota al frammento, Ludeno
risponde al desiderio di Moscato di offrirsi come esperimento per una “autopsia
perpetua”. Fare l’autopsia di una scrittura disseminata e frammentaria,
significa continuare a frammentarla. Ma la frammentazione, la disintegrazione,
l’esplosione sono gesti interni a una spinta irresistibile ad affermare nuove
composizioni, inventare scritture, lingue inesistenti. Spinta verso ciò che non
c’è: ancora il non ancora.
Il frammento non ha chiudersi su sé stesso, deve mantenersi aperto, perciò ha
bisogno di un’autopsia, di una violazione, di un atto di forza. Perpetua
autopsia significa perpetua scomposizione e apertura di un varco per la
scrittura dell’avvenire e l’avvenire della scrittura.
“M’ avit’ ’a fà l’autopsìa, insomma, l’autopsìa perpetua, si vulite ca stu
cuorpo, o l’ànema – ca po’ so’ ’a stessa cosa – continuino a vibrarvi
tra le mani,
dint’ ’e recchie,
ncopp’ ’a lengua
dint’ all’uocchie,
sott’ ’o naso…
dint’ a tutti i cinque sensi!”.
(maurizio zanardi)
Tag - culture
(disegno di ginevra naviglio)
L’ORO TRA LE MACERIE | OROSCOPO DI FOUCAULT 2025
Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini
di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio
mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che
riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho
trovato in queste macerie. (Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri)
ARIETE
La combattività che Marte regala al vostro segno è l’origine della forza e della
vitalità che vi caratterizza. L’entusiasmo di chi supera ogni difficoltà con
determinazione e temperamento da battaglia è il vostro tratto distintivo. Allo
stesso tempo può essere la causa di mancanza di tatto e di riflessione, di
errori di valutazione che compromettono anche le relazioni più vicine fino a
farne macerie. Così mi chiedevo se fosse questo l’anno in cui provare a dosare
le nostre forze per un equilibrio differente che imprima delicatezza ai vostri
slanci.
In un libro piccolo e intenso, la scrittrice afroamericana bell hooks (con le
iniziali minuscole per precisa scelta dell’autrice) riflette sul tema dell’amore
e del filo che lega l’adulto che siamo al bambino che eravamo. Scrive questa
frase che è fatta apposta per voi: “Può essere utile cominciare a considerare
l’amore come un’azione piuttosto come un sentimento”. Sappiamo che questa frase
vi corrisponde: l’amore si esprime in gesti e comportamenti (prendersi cura,
essere reciproci, ascoltare, proteggere, dare fiducia) senza i quali resta una
parola priva di significati. Però, aggiungiamo noi a vostro beneficio, l’azione,
senza la cura di parole che l’accompagnino, rischia di smarrirsi nelle
abitudini. In amore la parola è il reciproco del gesto, tenetelo a mente.
TORO
Il principio fondamentale di chi scrive questo povero oroscopo è di essere
“impermeabile” alle richieste popolari. Però, nel mentre della scrittura, ho
ricevuto questo messaggio: “Scrivi al Toro di muoversi”, che sentivo essere in
sintonia con quanto andava scritto. Il tema però non è solo il movimento, ma la
direzione. Perché il Toro è segno di una sedentarietà che non è affine alla
pigrizia fisica ma all’abitudine mentale. Abitudine agli affetti prima di tutto,
che portate addosso come una seconda pelle (e del resto abitudine deriva dal
latino habitus), poi ai luoghi (sareste capace di camminare per ore per le
strade che trovate familiari), infine alla gioventù. Perché senza tanta fatica
si distingue in voi lo sguardo dell’adolescente che attende il suono della
campanella dell’ultima ora di lezione. Lo sguardo limpido e impaziente di chi
assiste un po’ stupito al mondo degli adulti e al ritmo delle incombenze
quotidiane di cui fa fatica ad afferrare il senso.
Ci sono, a questo punto, due possibilità di movimento. La prima è muoversi
alzando le spalle al mondo verso i luoghi segreti che abitano i nostri sogni
d’infanzia, difendendosi dalle pretese degli adulti. Il secondo, più complesso,
è prendere per mano il nostro io bambino e uscire allo scoperto in direzione del
sole. Usare sogni e ricordi come bussola che orienta il futuro, e non per
nostalgia. Sul cuore, come scrive Ingeborg Bachmann, appuntate come medaglia la
stella della speranza: “Viene conferita per la diserzione dalle bandiere, per il
valore di fronte all’amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e
l’inosservanza di tutti gli ordini”.
GEMELLI
Secondo il filosofo Salvatore Natoli, l’“opposto della felicità non è il dolore
ma la noia” (so che state pensando alla canzone di Franco Califano, vi inviterei
però a un po’ di serietà). In virtù di questa tesi, la noia nasce quando il
mondo intorno a noi perde significato e rischiamo di ridurre tutto ciò che ci
circonda a un riflesso di noi stessi, dimenticando la sua reale ricchezza e
varietà. La noia può derivare da questa visione o dal fatto che lo spazio di
mondo che abitiamo si restringe, e i paesaggi quotidiani diventano abitudine. Al
contrario della noia, la felicità è nell’apertura verso il mondo, nel
riconoscere e apprezzare la novità che ogni cosa porta con sé. Quando siamo
capaci di guardare al mondo con uno sguardo fresco, senza giudicarlo o ridurlo
ai nostri desideri e bisogni (e senza brontolare, aggiungiamo noi) possiamo
riscoprire il significato e la bellezza anche nelle esperienze quotidiane.
Fino a qui, mi direte, Natoli non ha aggiunto a quanto già sapete. Non siate
impazienti, leggete ancora questo: “L’educazione alla felicità è l’educazione
alla relazione giusta con le cose, che vuol dire rispettare le cose. La parola
chiave è delibare: chi ama il vino lo deliba, non si ubriaca mai, mai da ogni
goccia di vino riesce a stillare il suo sapore, e per questo deve avere una
competenza. La felicità esige competenza e sapienza, un’educazione alle giuste
relazioni con gli altri”. Apertura, capacità di essere curiosi e di guardare
nelle cose la loro novità. E, mi raccomando, la giusta misura nelle cose e nelle
relazioni.
CANCRO
Che anno è stato questo trascorso? Un anno pieno di momenti importanti, in uno
scenario complesso intorno a voi. Si fa fatica a trovare nel mondo qualcosa che
ci somigli in questo brulicare di conflitti e di ambizioni mediocri. E voi che
siete il segno della (iper)sensibilità e dell’intuizione, e che potete stare
bene solo quando lo sono anche i vostri affetti intorno, rischiate a volte di
scoraggiarvi. Così Mahmud Darwish, poeta e scrittore palestinese, rispondeva a
un giornalista statunitense che lo intervistava: “Cosa scrivi, poeta, durante
questa guerra?”. “Scrivo il mio silenzio”. “E quando ricomincerai a poetare?”.
“Quando i cannoni taceranno per un po’, quando farò esplodere questo mio
silenzio carico di voci, quando troverò una lingua adeguata”.
Cosa fare allora quando il rumore aggressivo del mondo vi impedisce di prendere
parola? Come si trova una lingua adeguata quando intorno il mondo sembra offrire
solo macerie per il futuro? La prima cosa da fare è stringersi a chi condivide i
nostri pensieri; la seconda è non aver timore a uscire e ad andare in
esplorazione nel mondo. Affamati di parole ma mai in silenzio, perché quello che
il mondo non ci dà ce lo andremo a prendere, sogno per sogno, casa per casa.
Per questo anno che viene, dunque, vi invitiamo a fare un passo in avanti:
portate allo scoperto le vostre parole e abbracciatele forte affinché il vento
non le disperda.
LEONE
Scrive Giovanna Ferrara: “Abitare le proprie possibilità di vivente è una
bussola sicura, sicura la direzione d’orientamento”. Che vuol dire? Vuol dire
che la felicità interiore nasce dalla consapevolezza della propria potenza di
agire. È nell’atto di esplorare questa forza che ci realizziamo, come ha
insegnato Spinoza. La comprensione della nostra capacità di trasformarci e di
trasformare il mondo ci dà senso e direzione, e ci connette alla nostra essenza
più profonda. Una capacità trasformativa non solo personale ma anche politica,
nel senso più alto e collettivo della parola. Una capacità non solo personale,
ma che ha una dimensione collettiva, nel senso di un impegno per il bene comune,
per la costruzione di una società più consapevole e giusta. Ma cosa innesca
questa forza e consapevolezza? Per voi, Leone, è piuttosto chiaro: è l’amore che
muove il vostro spirito (oltre al Sole e alle altre stelle). Quanto amore,
allora, è necessario per alimentare il vostro motore? Ecco la formula segreta,
svelata per voi da Mariangela Gualtieri: “Innamorarci ogni giorno, ogni giorno
un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un
colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una
collina, una parola, un boccone. Innamorarci.
Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”. Agire, amare e trasformare,
gli ingredienti di quest’anno sono questi, sta a voi scegliere le proporzioni.
VERGINE
Nel 1942 il medico e psicologo viennese Viktor Frankl fu deportato, insieme ai
familiari, in un campo di concentramento. Dalla sua esperienza, è venuto fuori
un libro (Uno psicologo nei lager) nel quale Frankl ha esaminato le forze
psicologiche che consentono di sopportare e superare le esperienze e condizioni
più dolorose.
Frankl sostiene che l’essere umano è spinto principalmente dal bisogno di
trovare un significato nella propria vita, più che dalla ricerca del piacere
(come sosteneva Freud) o dalla ricerca del potere (come suggeriva Adler).
Secondo Frankl, anche nelle condizioni più tragiche, le persone possono trovare
un senso che dia loro la forza di andare avanti. Sulla base di questa tesi,
Frankl sviluppò la “logoterapia” che si basa sull’idea che la ricerca del
significato della vita sia il motore principale dell’esistenza umana (in greco
logos significa “senso” e anche “parola”). Le difficoltà possono acquisire
significato quando la persona riesce a comprenderle come parte di un cammino più
ampio. In altri termini, non possiamo determinare quello che ci capita o ci
circonda, possiamo però decidere in che modo interpretare gli eventi e
consentire loro di formarci. Questa lunga premessa, per arrivare a una breve
conclusione: se trovate le parole giuste trova un senso la vita che accade.
Ricordatevi però anche di pronunciarle, affinché chi vi sta accanto sappia come
è meglio accompagnarvi.
Mi raccomando, rammentate le regole d’oro: non perdere di vista l’insieme per i
particolari, chiedere quando è necessario, lasciare andare quando è giusto,
pretendere ciò che meritate.
BILANCIA
Qualche tempo fa un’amica mi raccontava della sua separazione, fatta di silenzi
ma soprattutto di una mancata attenzione, che più di tutto pesava. Mentre
parlava, mi sono venuti alla mente questi versi di Elisa Ruotolo: “Sbagliavo a
trascurare la fretta, | chi ama coltiva giardini di virgole | accudisce sillabe
e punti di domanda | non è asciutto come il dispaccio | della resa. | Chi ama
rileggerà le parole | una ad una prima di congedarle. | L’incuria è già
lontananza | ammissione che si è altrove | a sistemare la propria
grammatica”. L’ho rincontrata, mesi dopo, rinata e solare, perché aveva deciso
di dedicarsi completamente a sé stessa, smantellando anni di pensieri tristi,
riprendendo in mano gli studi, i suoi interessi e qualche vecchia passione. È
come se avesse deciso di tornare a casa dentro di sé, ritrovando ciò che aveva
messo in disparte per troppo tempo. Questo rinascere era dovuto anche alla sua
rete di affetti, intessuta negli anni, che le ha regalato coraggio e attenzione.
Ogni passaggio era stato accompagnato da amiche e amici pronti a coltivare
giardini di virgole e a offrire cura e vicinanza. E allora, direte? Ancora
questa storia della resilienza? No, affatto, il tempo che viene può essere bello
senza bisogno di eroismi e resilienze, purché teniate a mente la regola
fondamentale di ogni trasformazione: il primo passo si può fare da soli, i
successivi vanno fatti in compagnia.
Che siano “cura” e “reciprocità” le parole nell’anno che viene.
SCORPIONE
“Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri, pensa. Se solo si
potessero nascondere i propri occhi al mondo”. Questa frase, pronunciata da un
personaggio nel romanzo della premio Nobel 2024 Han Kang, mi è tornata in mente
quando ho pensato a voi scorpioni. Perché? A scorrere i testi sacri
dell’astrologia, il segno dello scorpione è descritto come “intenso, passionale,
riservato e maestro nell’esplorazione dell’animo umano”. È una descrizione che
vi corrisponde, in special modo quando si parla della vostra riservatezza.
Possedete un equilibrio raro, tra la tensione delle passioni e dei desideri, e
la capacità di proteggerli dall’indiscrezione della vita quotidiana. Come se, in
ciascuna di queste passioni, poteste vivere molteplici vite, affidando a ognuna
di esse un pensiero, un segreto, un tratto particolare del vostro carattere.
Eppure, c’è un punto in cui tutte queste sfaccettature si fondono: è negli
occhi.
Per quanto possiate cercare di nascondere, i vostri occhi parlano più di quanto
possiate immaginare, e rivelano più di quanto vorreste. Questa tensione tra
desiderio di protezione e intensità delle passioni vi accompagnerà anche nel
tempo a venire: sarebbe innaturale suggerirvi altro, così come suggerire la
prudenza. Non resta, allora, che augurarvi di essere fino in fondo fedeli a voi
stessi e, comunque vada, di avere gli occhi aperti al mondo e all’amore.
SAGITTARIO
Per l’anno che viene, se volete segnare una qualche discontinuità con quello
passato, dovete darvi da fare per lavorare su voi stessi. So che non amate i
conflitti che non siano per ragioni etiche o politiche, che se nella vita
quotidiana non trovare sfide impossibili sembra tutto noioso, che preferireste
una settimana da Che Guevara che una vita da Fidel Castro, che siete in attesa
di qualcosa di impossibile di cui lamentarvi subito dopo, e che potreste
certamente migliorare in costanza e capacità di esprimere sentimenti ed
emozioni.
Ma ciò a cui vogliamo chiamarvi nell’anno è ben riassunto da questo aneddoto che
Soffici racconta a proposito del poeta Dino Campana, che vendeva personalmente i
suoi Canti orfici a chi volesse acquistarli: “Prima di consegnarglielo, Campana
guardava bene in faccia il suo uomo; e secondo la stima che ne faceva strappava
dal libro queste o quelle pagine da lui ritenute, per una ragione
imperscrutabile, non consone al costui comprendonio. Lo stupore dell’acquirente
era grande quanto il suo imbarazzo, ma ormai la cosa era fatta […]. La più bella
fu però quando anche Marinetti volle avere il suo libro. Campana, dopo aver
meditato alquanto, ne strappò la maggior parte, e non gliene mise in mano che
tutt’al più un sedicesimo”.
Per l’anno che viene mettete da parte diplomazia e pazienza, fatene scorta in
cambio di un po’ di sana fiducia nelle vostre capacità, a costo di confinare con
la presunzione (attenzione però a non varcare la linea) che la felicità non si
trova nella prudenza e nella quiete. Come diceva Pasolini: “Non è la felicità
che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”.
CAPRICORNO
Quando vi capita di giudicare voi stessi con severità, prima ancora che gli
altri, o quando penserete che una piccola imperfezione rischia di fare macerie
delle vostre fondamenta, pensate al buon Galileo Galilei. Il nostro coraggioso
esploratore dell’universo, la prima volta che osservò Saturno, ingannato dagli
anelli che circondano il pianeta e dalla cattiva qualità del suo telescopio,
credette di vedere tre oggetti. Fu solo molti anni dopo che un astronomo dotato
di un telescopio più potente distinse con precisione gli anelli che circondano
il pianeta e gli donano un fascino unico. Parliamo tra l’altro del pianeta che
ha il domicilio nel vostro segno, e a cui si associano razionalità e
intransigenza. Possiamo dire che questo errore offusca l’importanza che Galilei
ebbe nel demolire il sistema tolemaico?
Il primo aspetto, dunque, su cui lavorare, è misurare la severità del giudizio
verso sé stessi. Perché a furia di essere esigenti si diventa critici
implacabili, demolitori, e si rischia anche di avere timore di analizzare in
profondità, per paura di ciò che di imperfetto potremmo trovare.
Se non vi fidate di questo povero astrologo foucaultiano, leggete le parole di
Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, che ha scritto:
“L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso
quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo” (Elogio
dell’imperfezione). Credetemi, non c’è perfezione nel non voler perdonarsi di
essere imperfetti: per l’anno che viene potreste venire a patti con questo
aspetto e crescere in uno spazio senza giudizio. Giusti con sé stessi, giusti
nel mondo.
ACQUARIO
Ci sono fasi della vita in cui per costruire qualcosa occorre prima demolire
un’altra. Purtroppo, non sempre la vita ci offre la possibilità di non lasciare
cesura tra una fase e l’altra, di impedire un’assenza ci ferisca. Capita alle
volte che si demolisca per rabbia o per necessità, senza sapere ancora cosa
andare a costruire o a fare di ciò che perdiamo, così come può accadere che non
sappiamo interrogarci sul ruolo che abbiamo nella tragedia che lamentiamo. Alla
fine, però, non conta l’innesco ma il percorso che farà germogliare una persona
nuova dal nostro dolore, quando una nuova casa sorgerà dalla vecchia. Scrive
Giovanna Ferrara, in un libro (L’innocenza dei dinosauri) elegante, dolcissimo e
immortale come l’autrice: “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che
metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi
separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è
successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa
paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”.
L’anno che viene somiglierà molto a quello passato, nel bene e nel male: la
differenza la farete voi, riempiendolo di desideri coraggiosi e di amicizie
profonde.
PESCI
Ci sono due aspetti sui quali possiamo lavorare nell’anno che verrà, due aspetti
che si intrecciano e che sono da un lato la vostra capacità di ascolto e
comprensione, e dall’altro la tendenza alla fuga dettata dall’urgenza del sogno,
quel tipo di sogno che ci apparta dalla realtà.
Come tenere insieme le due cose? Come farsi carico dell’ascolto dei dolori del
mondo senza poi cercare per noi stessi un’alternativa e cercare nascondigli
nelle pieghe della vita? La prima via sarebbe quella più comune, porre limiti e
barriere all’ascolto, che però nel vostro caso sarebbe come chiedere a un primo
violino di suonare in ultima fila. La seconda strada è vivere dentro relazioni
che siano il giusto scambio ed equilibrio tra la possibilità di ascolto e quella
di essere ascoltati.
Ha scritto Giovanna Ferrara: “Non lo so se gli uomini parlino tra di loro nella
spietata e selvaggia onestà e intelligenza con cui a me capita di farlo con le
amiche più care o con gli amici più fraterni. Forse sì, perché questi alfabeti
di profondità sono attitudini alla ricerca di qualcosa che luccica. Certo,
dietro molti degli svincoli della vita c’è la relazione sotterranea e intima e
regalata che nasce alla philia, traccia d’oro di questo mondo faticoso”. Per
quest’anno non abbiate timore di mettervi in cammino, ci sarà sempre la traccia
capace di illuminare le strade più scure.
(disegno di sergio cennini)
Sarà presentato martedì 26 novembre, dalle ore 18,00, a Palazzo Venezia (via
Benedetto Croce 19), il libro di Antoni Esposito Come Cristo in croce. Storie,
dialoghi, testimonianze sulla contenzione (Sensibili alle foglie). Con l’autore
discuteranno Teresa Capacchione, Dario Stefano Dell’Aquila e Novella Formisani.
Pubblichiamo a seguire un estratto del volume, dal capitolo Disumanità e
violenza, le immagini di un Spdc / La storia di Francesco Mastrogiovanni
* * *
Nella storia della contenzione in Italia, esiste uno spartiacque che segna un
prima e un dopo, sia per quanto concerne il campo giuridico-legale e la
riflessione etica e bioetica, sia nell’ambito del dibattito pubblico: la vicenda
di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare cilentano che, il 4 agosto
2009, muore nel reparto di Diagnosi e cura dell’Ospedale di Vallo della Lucania,
a seguito di una contenzione durata oltre ottantasette ore, tenendolo legato ai
quattro arti a un letto, in condizioni disumane e degradanti, quasi per l’intero
periodo di un ricovero determinato da un Trattamento Sanitario Obbligatorio
iniziato il 31 luglio.
La presenza delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza del
reparto, rese pubbliche dalla famiglia che, con il “Comitato Verità e Giustizia
per Francesco Mastrogiovanni”, ha strenuamente lottato perché fosse ricostruito
tutto quanto accaduto in quei giorni e fossero riconosciute le responsabilità
di quanto si era determinato, hanno mostrato a un intero paese la violenza e
l’inumanità di una pratica, la contenzione, che era diventata uno strumento
routinario nella vita quotidiana di quel reparto ospedaliero. I filmati,
inoltre, sono stati determinanti nel corso dei tre gradi di giudizio che hanno
coinvolto medici e infermieri dell’ospedale, portando, in Cassazione, a una
sentenza storica (Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018), con la quale, al
di là delle condanne comminate agli imputati, si giunge, per la prima volta, ad
affermare che la contenzione non può essere considerata un atto medico, quanto
piuttosto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una
finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le
condizioni di salute del paziente – anzi, secondo la letteratura scientifica,
può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni
anche gravi all’organismo, determinate non solo dalla pressione esterna del
dispositivo contenitivo, quali abrasioni, lacerazioni, strangolamento, ma anche
dalla posizione di immobilità forzata cui è costretto il paziente – svolgendo
[…] una mera funzione di tipo “cautelare”, essendo diretto a salvaguardare
l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con
quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per
l’incolumità dei medesimi”.
Chi scrive ha già ricostruito altrove quanto accaduto a Francesco
Mastrogiovanni, analizzando in dettaglio la sentenza della Cassazione. Rinviando
a quel lavoro per ulteriori approfondimenti, di seguito sono indicati solo i
punti essenziali degli eventi che hanno portato alla morte di Mastrogiovanni e
della successiva vicenda giudiziaria, lasciando, poi, ai dialoghi con Grazia
Serra e Giuseppe Ortano lo spazio di ulteriori indicazioni, riflessioni e
analisi.
Partiamo, quindi, dalla ricostruzione degli accadimenti e delle dinamiche che
hanno portato all’emanazione del Tso, seppure, ancora oggi, la vicenda resti non
del tutto chiara, presentando aspetti mai completamente approfonditi e alcune
incongruenze che, nel tempo, hanno anche portato a dubitare sulla legittimità
di quel provvedimento emanato dall’allora sindaco di Pollica Angelo Vassallo. La
sera del 30 luglio 2009, secondo la ricostruzione della polizia municipale,
un’auto avrebbe attraversato a forte velocità un’isola pedonale di Acciaroli
(senza però causare danni a cose o a persone, elemento che, insieme ad alcune
testimonianze raccolte, porta a dubitare che l’auto andasse a una velocità
sostenuta). Il mattino successivo, i carabinieri hanno avvistato la stessa auto,
che non si sarebbe fermata all’alt delle forze dell’ordine, determinando un
inseguimento conclusosi all’altezza di un cub turistico della zona, dove
Mastrogiovanni, che qui stava trascorrendo le vacanze, si è fermato,
raggiungendo il mare (secondo alcune testimonianze cantando la canzone anarchica
Addio Lugano bella), in cui si è rifugiato mentre, come se si stesse
realizzando una vera e propria caccia all’uomo, sopraggiungevano forze
dell’ordine e operatori sanitari su tutti i fronti: a largo una vedetta della
Capitaneria di porto, sulla spiaggia agenti della polizia municipale,
carabinieri e operatori sanitari con ambulanza a seguito. Dopo una lunga
trattativa, Mastrogiovanni è uscito dal mare, gli sono stati somministrati
farmaci, ha fatto una doccia, è salito autonomamente sull’ambulanza. Tutti
elementi che sembrerebbero far venir meno la necessità di un Tso che invece è
proseguito: con l’ordinanza n. 53 del 31 luglio 2009, il sindaco ha disposto il
Trattamento Sanitario Obbligatorio in degenza ospedaliera, e gli operatori sono
rimasti sordi all’invocazione dello stesso Mastrogiovanni la cui unica
richiesta, al momento di entrare sul mezzo del 118, è stata di non essere
trasferito all’ospedale di Vallo perché lì, con un terribile presagio che
forse ha radici in esperienze passate, si dice certo che lo avrebbero ammazzato.
Come ancora troppo spesso accade, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che
dovrebbe essere uno strumento eccezionale, con esclusiva valenza sanitaria, di
tutela delle persone con sofferenza psichica, sembra trasformarsi in una sorta
di mandato di cattura, un atto che tradisce i principi ispiratori della legge e
delle tutele costituzionali, realizzando sottrazione e compressione dei diritti.
Quello che è accaduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca, prima
che dagli atti processuali, viene restituito dai filmati delle telecamere di
videosorveglianza del reparto, che, mostrati in trasmissioni televisive,
incontri e nel documentario 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco
Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio, hanno rivelato la realtà di un reparto
ospedaliero di psichiatria le cui prassi di intervento nulla sembrano avere a
che fare con la cura: in quelle immagini si riproduce la visione di luoghi
angusti e trasandati, in cui il corpo di Mastrogiovanni (e non solo il suo)
resta legato per giorni interi a un letto, mentre è sedato dagli psicofarmaci,
con cinghie ai polsi e alle caviglie. In un reparto confinato da una porta
sempre chiusa, medici e infermieri appaiono indifferenti al dolore, alle
richieste d’aiuto, non mostrano alcuno sguardo di cura, l’unico intervento è
quello farmacologico e una contenzione protratta per oltre ottantasette ore.
Mastrogiovanni subisce un processo di progressiva mortificazione e
nullificazione della persona, resta bloccato su un lettino troppo piccolo, che
non riesce nemmeno a tenere tutto il suo corpo, a volte nudo, altre solo con un
pannolone, le flebo applicate al braccio da cui, nel corso di questa vera e
propria agonia, fuoriesce anche del sangue che va a formare una chiazza rossa
sul pavimento, pulita dagli inservienti senza prestare alcuna attenzione al
paziente. Un’assenza di empatia che si reitera per tutto il tempo del ricovero,
anche quando portano il pranzo e, nel corso di una scena tragicamente grottesca,
lo lasciano dove Mastrogiovanni, legato, non può arrivare, dovendolo quindi
riportare via intonso, per poi affermare, nel corso del processo, che sarebbe
stato Mastrogiovanni a non voler mangiare. Alcune immagini mostrano anche un
altro uomo legato, evidenziando, come emerso pure nelle diverse fasi
processuali, un utilizzo della contenzione acritico e routinario. […]
Dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, quindi, nel reparto psichiatrico di un
ospedale pubblico italiano, un uomo che svolge il lavoro di maestro elementare
ed è amato dai suoi allievi, viene sedato e legato al letto mentre dorme, senza
una giustificazione, senza che nessuno gli parli, lasciato in uno stato di
totale abbandono, senza che si realizzino le doverose e continue azioni di
controllo e monitoraggio delle sue condizioni di salute, che man mano
peggiorano, senza alcuna annotazione della contenzione nella cartella clinica.
Alla nipote, che, come ci racconta di seguito, si era recata in ospedale per
incontrarlo, viene negato il diritto a visitare lo zio, “per non turbarlo” le
dice (come troppo spesso ancora si sente ripetere in situazioni simili) il
medico del reparto. Per tutto il tempo del ricovero, le braccia e le gambe di
quest’uomo restano strette dalle fascette al letto, non può muoversi, non si
alimenta e non beve autonomamente, gli somministrano integratori e psicofarmaci
volti alla sedazione di uno stato di agitazione che, come conferma nel
successivo dialogo Ortano, nulla ha che fare con atteggiamenti auto o
etero-aggressivi (che Mastrogiovanni non manifesta mai durante il ricovero), ma
cresce, col passare delle ore, proprio per l’impossibilità di muoversi, per
l’essere bloccato, per le abrasioni e le escoriazioni sul corpo, determinate da
quella condizione di cattività resa ancora più insopportabile dal caldo di
quelle giornate estive.
Francesco Mastrogiovanni muore nella notte per edema polmonare acuto, ma se ne
accorgeranno solo in mattinata, annotando il decesso nella cartella clinica a
distanza di dieci ore dalla precedente indicazione.
(foto da: spina tremula)
Fino al 31 dicembre sarà possibile visitare Spina Tremula, la mostra di Mario
Spada e Gaetano Ippolito allestita negli spazi del centro Chikù (largo della
Cittadinanza attiva – viale della Resistenza, Comparto 12) a Scampia. Insieme
all’esposizione, quindici giovani della città verranno coinvolti in un
laboratorio di narrazione e di fotografia stenopeica. Martedì 12 novembre, alle
12:00, sempre da Chikù, sarà possibile incontrare e discutere con gli autori
della mostra.
Spina Tremula è il lavoro presentato il 24 ottobre nella sede di Chi rom e chi
no da Mario Spada e Gaetano Ippolito, artisti napoletani di casa al Centro di
fotografia indipendente di piazza Guglielmo Pepe, in zona Porta Nolana. Spada ne
è fondatore e insegnante; Gaetano, cresciuto nell’area nord, vi è entrato come
studente e ora insegna anche lui, specializzato nelle pratiche di sviluppo e
stampa in camera oscura. Se appare evidente la differenza generazionale in
Gaetano e Mario, entrambi i loro lavori sono realizzati a Napoli e partono dalla
raccolta di migliaia di fotografie. La selezione qui riunita corrode i confini
tra le due sequenze per la scelta di abbandonare l’ordine autoriale. Ragionano
entrambi sulla possibilità della perdita del nome, confondono le ricerche per
smarrirsi e spostare chi osserva; e chi legge, a partire dal titolo.
La firma che sgomita per accedere agli spazi espositivi del mondo dell’arte e
del mercato, a Napoli e altrove, dove bandi, call e residenze basano festival e
campagne di produzione sul principio della competizione, trova spazio di rivolta
in Spina Tremula. Lo stesso vale per la produzione del lavoro durante il
processo di realizzazione. Una sincerità asciutta e reciproca vive nel confronto
quotidiano tra i due. Ciascuno ha scelto per l’altro le immagini da selezionare
e da escludere per la costruzione della mostra, portando a confondersi i due
sguardi sulla città. “Nelle opere si vuole uscire da uno sguardo confortevole –
incide Spada – su una città che non è possibile raccontare attraverso la
fotografia”. Il suo lavoro è radicato nell’incertezza; le fotografie non
descrivono, ma fanno sussultare direttamente la vista, e tremano non soltanto
nello scatto, ma amplificano tale tremore sino al corpo eretto di chi guarda.
Arrivare a chiedersi: se questa non è la città che viene raccontata, e neppure
quella che conosco, dunque dove ci si trova, per dove arrivare? La posizione è
altresì spinosa, e tremula; si abbassa china sulle zampe del cane che incontrano
i piedi minuti del neonato; e si apre al cielo, affrontando la gravità del tuffo
dall’alto; sta alle spalle di una muta alata, piccola e pronta all’incontro con
il paesaggio scuro; avverte posizioni laterali, del passeggero attratto
dall’incavo del vagone, che distrattamente possono sfuggire allo sguardo
addomesticato.
La possibilità di veder stampate in tali dimensioni e in qualità fine art queste
fotografie può provocare l’inciampo di percorsi di vita di ragazzi e di ragazze
che quotidianamente attraversano il centro Chikù; chissà che qualcuna e
qualcuno, di fronte a queste non si innamori dell’atto, e trovi nei laboratori
che verranno avviati nel centro la possibilità di comunicare le proprie
inquietudini. Raggiungere lo sguardo di più ragazzi potrebbe essere il
proseguimento della tensione sprigionata da questa iniziativa, alimentando il
discorso e l’incontro intorno alla fotografia, che in quanto scrittura con luce
non si riduca alla stampa posizionata, ma che allacci un percorso cominciato
dalla postura dell’artista che sceglie di essere occhio testimone, e di non
voltarsi di fronte agli eventi quotidiani speciali, orrendi, semplici o normali,
ma di sostare prossimo a questi, qualificandoli nel quadro, tramite ciò che sta
al di fuori, ciò che sta alle spalle, nella creazione di un proprio tempo che
tenta di sabotare il dispositivo. La mostra è per Spada anche un’occasione che
consente di guardare a muro le fotografie, per alimentare la motivazione a
cercare gli ultimi fondi che mancano alla pubblicazione dell’atteso libro Spina,
dopo un anno di lavoro di editing condiviso con Patrizio Esposito.
La mostra rientra nella cornice dell’Ecomuseo diffuso di Scampia, un tentativo
di unire il patrimonio materiale e immateriale del quartiere, che attraversa lo
spazio pubblico con uno sguardo critico che taglia la neutralità apparente
rispetto la narrazione dei luoghi, e risalta le trasformazioni avviate dal basso
e contro le possibilità negate a quegli spazi a oggi chiusi e inaccessibili,
ancora una volta privati ai cittadini.
L’ultimo lavoro apparso in città di Gaetano Ippolito era stato installato al
Giardino Liberato, per i due eventi Family Jewels curati da Chiara Pannunzio.
Insieme a Lia Morreale, Gaetano aveva allestito la stanza come fosse l’occhio
saturato dallo stratificarsi delle immagini di violenza, che nell’esporsi si
abitua. Centinaia di immagini al muro, a terra tre schermi di televisori
catodici, mostravano i resti dei materiali dai quali le immagini venivano
estrapolate. Uno di questi una scritta: nell’invito a prenderne parte
attivamente. Invito alla distruzione. Nello strappare le immagini, e portarle
con sé.
Spina Tremula, citando l’intervento di Maurizio Zanardi durante l’apertura,
vuole “fare inciampare quella maledetta fotografia della città. L’immagine di
Napoli non compare mai nelle foto di Spina. Napoli viene dimenticata. Solo così
è possibile ricordarla, attraversandone le membra scritte con la luce”.
(leonardo galanti)
(asja lacis)
Il progetto “Sud e porosità – south & porosity” prende spunto dal centenario del
soggiorno di Walter Benjamin e Asja Lacis a Capri e a Napoli (1924-2024). Curato
dalla germanista Valentina Di Rosa e dall’artista Andris Brinkmanis, prevede dal
23 al 26 ottobre un convegno, una mostra, una performance e l’apposizione di una
targa commemorativa a Capri.
Approfittiamo di questa felice occasione per pubblicare lo storico testo di Asja
Lacis sul teatro proletario dei bambini.
* * *
Mentre sostenevo gli ultimi esami allo studio, a Pietrogrado fu preso il Palazzo
d’Inverno: i soviet erano al potere. Da Pietrogrado la rivoluzione balzò verso
Mosca, nonostante la resistenza di qualche gruppo isolato di Junker durasse
ancora qualche giorno. Lo studio continuava a lavorare. La sera, mentre
rincasavo, sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo. La rivoluzione stava
cambiando i rapporti fra le persone, la concezione del lavoro; si aprivano
prospettive completamente nuove. Allo studio si formarono gruppi avversi, si
esigeva un immediato cambiamento del repertorio e del piano di studi. Gran parte
degli insegnanti della scuola lettone per i profughi era convinta che il potere
dei soviet non avrebbe retto a lungo, ma gli scrittori, gli insegnanti e gli
studenti di sinistra sentivano l’avvicinarsi di tempi nuovi.
Quando lessi sui muri delle case i primi appelli “A tutti! A tutti!” firmati da
Lenin, fui completamente per il soviet: volevo essere un buon soldato della
rivoluzione è modificare la mia vita sotto la sua guida. La vita intanto
cambiava tutt’intorno; il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro.
Cominciava l’“Ottobre teatrale”.
I teatri non cambiarono rotta simultaneamente: alcuni si mantennero scettici più
a lungo e temporeggiarono. Il dottor Dappertutto di Pietroburgo, l’infaticabile
sperimentatore, fu il primo fra la gente di teatro a prendere posizione per il
soviet. Cercò il contatto con i lavoratori nelle fabbriche, con gli appartenenti
all’Armata rossa, con il Komsomol, e organizzò dovunque circoli teatrali.
Indossava l’uniforme dell’Armata rossa. La sua messa in scena a Pietrogrado
della Presa del Palazzo d’Inverno** costituì il modello per successive
rappresentazioni di massa all’aperto, a cui prendevano parte migliaia di
persone, mentre decine di migliaia vi assistevano. Le messe in scena delle opere
rivoluzionarie Mistero buffo, La terra in subbuglio, Trust D. B. e altre ancora
proseguirono gli esperimenti precedenti (abolizione della ribalta, riscoperta
del macchinismo teatrale, colloquio col pubblico, stile scenografico
“condizionato”) e introdussero importanti innovazioni (pubblicistica
dichiaratamente di parte, caratterizzazione sociologica, drammaturgia aperta che
si rifaceva alle tecniche del varietà, scena costruttivista, ecc.). Fu
considerato il capo dell’Ottobre teatrale. La mia attività registica a Orel,
Riga, Mosca, Kasakistan e Walmiera deve molto a Mejerchol’d. Oggi vedo
chiaramente quale forza fosse contenuta nel suo “teatro condizionato” e nella
sua filosofia dell’arrangiamento, e con quale inesauribile fantasia egli
utilizzasse i mezzi di espressione teatrale.
Nel 1918 mi trasferii a Orel, per lavorare come regista al teatro cittadino:
avevo la strada spianata, quindi. Ma le cose andarono diversamente.
Per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine,
nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprisorniki. Fra
loro c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a
brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi
tenuti su con una corda.
Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi
guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di
briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico
si adoperava per sistemare i bambini sbandati in collegi e officine, ma
riuscivano sempre a scappare.
Negli ospizi municipali invece erano ospitati gli orfani di guerra. Volli
visitarli. Questi bambini avevano da mangiare, erano vestiti decorosamente,
avevano un tetto sul capo, ma guardavano intorno come vecchi: occhi stanchi,
tristi, nulla li interessava. Bambini senza infanzia… Non si poteva rimanere
indifferenti davanti a quello spettacolo, dovevo fare qualcosa e capii subito
che in questo caso non sarebbero certo bastate le canzoncine e i balletti. Per
ridestarli dal loro letargo occorreva un impegno che li
coinvolgesse totalmente e riuscisse a liberare le loro facoltà traumatizzate.
E io sapevo quale forza prodigiosa fosse racchiusa nel gioco teatrale.
Abitavo in una bella casa aristocratica dove, si dice, devono aver vissuto gli
eroi del Nido di nobili di Turgènev. Le stanze avevano grandi finestre di linea
gotica; attraverso gli annosi alberi di acacia la vista giungeva fino alla conca
del fiume. Spazi del genere sembravano fatti apposta per un teatro di ragazzi.
Andai dal responsabile dell’istruzione popolare della città e gli esposi il mio
progetto. A Ivan Michail Curin il piano piacque. Le stanze furono unite a
formare una sala, le cui pareti furono decorate di affreschi. Avevamo calcolato
che sarebbero venuti quindici bambini: ne vennero cento.
Ero convinta che fosse possibile risvegliare e formare i bambini per mezzo del
lavoro teatrale. Certo sarebbe stato semplice trovare un brano adatto per i
bambini, assegnare le parti e provare con i ragazzi fino ad arrivare alla
rappresentazione. Questo avrebbe certamente tenuto occupati i bambini per un
periodo di tempo, ma la loro evoluzione difficilmente ne sarebbe stata
stimolata. Quando si prova con i bambini un testo dato, si lavora fin
dall’inizio soprattutto per una meta precisa: la prima rappresentazione. I
bambini avvertono incessantemente una volontà estranea che li guida e li
costringe: la volontà del regista. Per questa strada non avrei potuto
raggiungere il mio scopo: la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro
facoltà estetiche e morali. Io volevo portare i bambini a che il loro occhio
vedesse meglio, il loro orecchio udisse più finemente, le loro mani formassero
dal materiale informe oggetti utili. A questo fine ripartii il lavoro in
sezioni. Per sviluppare l’occhio, la vista, i bambini dipingevano e disegnavano.
Dirigeva questa sezione Viktor Šestakòv, che più tardi lavorò come scenografo
con Mejerchol’d. Un pianista guidava l’educazione musicale. C’era poi
l’addestramento tecnico: i bambini costruivano oggetti, edifici, animali, figure
e così via. Altre sezioni della mia scuola sperimentale a Orel erano dedicate al
ritmo e alla ginnastica, alla dizione e all’improvvisazione. Le forze latenti
che si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si
sviluppavano, le unificavamo mediante l’improvvisazione. Così nasceva il nostro
teatro, in cui bambini recitavano per bambini: l’insieme delle attività si
traduceva in una forma estetica rigorosa e nel contempo collettiva. L’educazione
borghese tende a sviluppare una facoltà particolare, un particolare talento.
Stimola gli individui unilateralmente. Per dirla con Brecht: essa vuole
“commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende
dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo
principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per
esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti
agli occhi: la rappresentazione, la comparsa davanti al pubblico. Così va
perduta la gioia del produrre giocando. Il regista come pedagogo si tiene
continuamente in primo piano e tormenta i bambini. (Una battuta indovinata: “Che
cos’è un palo del telegrafo? È un abete riveduto e corretto”. Purtroppo vengono
spesso riveduti e corretti in tal modo anche i nostri bambini).
Scopo dell’educazione comunista è liberare la produttività sulla base di un alto
livello generale di formazione, siano o non siano presenti attitudini
particolari. La mia origine proletaria e gli studi presso il professor Bechterev
a Pietroburgo mi spingevano verso questo principio educativo, e a Orel io
cercavo di applicarlo all’educazione estetico-proletaria dei bambini.
Punto di partenza per educatori ed educandi fu per noi l’osservazione. I bambini
osservavano le cose, i loro rapporti reciproci e la loro modificabilità; gli
educatori osservavano i bambini, ciò che riuscivano a ottenere e fino a che
punto sapevano utilizzare in maniera produttiva le proprie capacità.
L’osservazione non veniva praticata e sviluppata soltanto all’interno dello
studio con il disegno, la pittura, la musica, ma anche all’aperto. Al mattino
presto e poi ancora alla sera ce ne andavamo fuori con i bambini e facevamo
notare loro come i colori mutassero a seconda della distanza e dell’ora del
giorno, come di mattina e di sera suoni e rumori risuonassero diversamente, e
come il silenzio può cantare…
Con i bambini che venivano alla casa di Turgènev dagli ospizi municipali non ci
furono difficoltà. Ai besprisorniki invece non riuscii ad avvicinarmi per molto
tempo. Quando rivolsi loro la parola per la prima volta al mercato e li invitai
a venire da noi, mi schernirono, mi minacciarono coi bastoni e mi mandarono a
quel paese. Ma io ritornai. Si abituarono a me e ai nostri battibecchi, tanto
che se rimanevo lontana molto tempo e poi tornavo, mi si facevano intorno
urlando, come con una vecchia conoscenza.
Frattanto alla casa di Turgênev il lavoro progrediva. Notammo che ormai i
bambini chiedevano di materializzare in oggetti la fantasia e le capacità
acquisite. Una tappa importante: questo bisogno deve essere soddisfatto, la
fantasia infantile non deve andare perduta: passammo quindi all’improvvisazione
con materiali concreti.
Avevo scelto un pezzo per bambini di Mejerchol’d, Alinur (dalla fiaba di
Oscar Wilde Il ragazzo delle stelle). I bambini non conoscevano i miei piani.
Diedi loro come esercizio di improvvisazione una scena tratta da questo lavoro:
alcuni predoni siedono nella foresta intorno al fuoco e si vantano delle proprie
imprese. Nel bel mezzo di questa scena ricevemmo, poco dopo, la prima visita
dei besprisorniki alla nostra casa. I bambini saltarono in piedi e volevano
scappar via da quegli invasori, che avevano effettivamente un aspetto temibile:
elmi di carta sul capo, corazze di rami e pezzi di latta, picche e bastoni in
mano. Convinsi i bambini a continuare l’improvvisazione senza prestare
attenzione agli intrusi. Dopo un po’ Vanika, il capo dei besprisorniki, entrò
nel cerchio di quelli che recitavano e fece un cenno al suo gruppo: i compagni
spinsero da parte i bambini e cominciarono a recitare essi stessi la scena. Si
vantavano di assassinii, incendi, ruberie, con cui cercavano di superarsi a
vicenda in crudeltà; poi si alzarono e squadrarono con disprezzo beffardo i
nostri ragazzi: “Ecco come sono i briganti!”. Secondo tutte le regole
pedagogiche avrei dovuto interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti, ma
io volevo riuscite a conquistarmi un ascendente su di loro. Infatti vinsi la
partita; i besprisorniki ritornarono e presero in seguito parte attiva al nostro
teatro.
Improvvisare lo spettacolo significò per i bambini felicità e avventura. Si
impegnarono a fondo e il loro interesse si ridestò. Si lavorò seriamente;
tagliando, incollando, danzando e cantando impararono i testi. Così prese vita
la figura del cattivo ragazzo tartaro Alinur, che insultava sua madre e
terrorizzava gli altri bambini. Soltanto quando il lavoro delle singole sezioni
sembrò richiedere una sintesi, si discusse se rappresentare il testo
pubblicamente. Emerse così l’esigenza di un fare collettivo – l’educazione
morale-politica in senso socialista – e il desiderio di mostrare il lavoro anche
a tutti gli altri bambini della città.
La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro
studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto
della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere,
gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e grandi. La sera
furono in molti a seguirci nella strada di ritorno verso la casa di Turgènev.
Il nostro metodo si era dimostrato valido. Avevamo avuto la prova che era giusto
far rimanere completamente in disparte gli adulti. I bambini avevano la certezza
di fare tutto da soli, e giocando lo facevano. Nessuna ideologia era stata loro
imposta e inculcata; si erano appropriati di ciò che trovava riscontro nella
loro esperienza. Anche noi, gli educatori, avevamo imparato e visto molte cose
nuove: con quale facilità i bambini sappiano adattarsi alle situazioni, fino a
che punto siano creativi e con quale sensibilità reagiscano. Quegli stessi
bambini che sembravano incapaci e limitati, avevano rivelato capacità e talenti
insospettati. Durante la rappresentazione si erano liberate tensioni
sorprendenti, che la fantasia scatenata delle loro invenzioni rendeva tangibili.
Nel 1928 a Berlino raccontai di questo mio lavoro a Johannes R. Becher e a
Gerhard Bisler. Il modello di un’educazione estetica dei bambini piacque e mi
proposero di creare un teatro di bambini di questo tipo nella casa di
Liebknecht. Dovevo dunque stendere il programma. A Capri (1924) avevo già
parlato con Benjamin del mio teatro dei bambini ed egli aveva mostrato uno
straordinario interesse al riguardo. “Scriverò io il programma – disse – e
spiegherò e motiverò teoricamente il tuo lavoro pratico”. Lo scrisse davvero, ma
nella prima stesura le mie teorie furono esposte in maniera terribilmente
complicata. Alla casa di Liebknecht lessero e risero: “Questo te l’ha scritto
sicuramente Benjamin!”. Riportai il programma a Walter Benjamin: doveva scrivere
in maniera più comprensibile. Nacque così il Programma per un teatro proletario
dei bambini nella sua seconda stesura (la prima non è più stata ritrovata).
Brano tratto da A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, 1976, pp.
78-83.
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*L’A. attribuisce erroneamente a Mejerchol’d la regia de La presa del Palazzo
d’Inverno, che porta invece la firma di Evreinov. [N.A.T.]
In questi mesi il Museo MADRE di Napoli, dopo un lungo periodo di sostanziale
inattività, ha ospitato “Il Resto di Niente”, una mostra aperta fino al 16
settembre che mutua il titolo dall’omonimo romanzo di Enzo Striano che racconta
[...]
Si è spento a Napoli, dopo una lunga malattia, Enzo Moscato, nella stessa città
in cui era nato il 20 aprile 1948. Drammaturgo, regista e attore, era una delle
maggiori personalità del teatro contemporaneo. Nei Quartieri [...]
Sabato 4 novembre sono stato a sentire Pierre Bastien e Louis Laurain dal vivo
all’Auditorium Novecento di Napoli, che si conferma una delle pochissime
venues in città per ascoltare buona musica dal vivo. Una serata che [...]
L'articolo Pierre Bastien all’Auditorium Novecento. La musica, la patafisica e
molto altro sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.