“Vi prego, mai più la neuro!”. La linea sottile tra ragione e follia

NapoliMONiTOR - Wednesday, October 30, 2024
(disegno di nando gaeta)

Sono salita sulla barca della follia e non sapevo dove mi portasse.

Sono tornata a casa mia ed è più bella che mai.

Potremo dire che la follia esiste, è variopinta, è pittoresca, talvolta grottesca. Ma a volte è la normalità a essere più spaventosa, terrificante, raccapricciante e strana. È sottile la linea tra ragione e follia. Potrei raccontare la mia esperienza nei fatti così come sono andati o potrei raccontare la stessa storia dalle mie interiora, così com’è stata vissuta dentro di me. Prima di lasciarvi entrare nel mio mondo interiore, lascio a voi giudicare quanto è stato lungo il mio cammino.

Ero fortemente ribelle e spaesata, quando un giorno in preda alla disperazione riempivo sacchetti della spazzatura della mia roba per andare via di casa, venni fermata da mia madre e durante il nostro successivo litigio mentre tagliavo una bistecca gridai: “Basta!”. Infilando il coltello nella carne le mie dita scivolarono sulla lama, il mignolo e l’anulare si tagliarono, corremmo al pronto soccorso; mentre un medico mi metteva con estremo dolore i punti, strillavo, arrivarono due psichiatri… Mi dissero che dovevo seguirli, arrivati al reparto non potevo accettare quello che stava accadendo, mi opposi con tutto il mio dissenso e mi fecero firmare un foglio che firmai con: “X”. Così T.S.O. Come si direbbe, feci la pazza pur di evitare quell’esperienza, firmando con le mie stesse mani la mia condanna.

Una settimana con mia madre che dormiva nella stanza di ospedale che li obbligò a restare con me, mio padre mi portò a uscire una sera. La mia ribellione non serviva a niente, la mia voce non la sentiva nessuno e nemmeno sapevo usare la mia voce e nemmeno sapevo parlare. Quanti al mondo soffrono e non hanno attenzione, e sono abbandonati al loro destino? O non sanno di stare male. Quella voce fu così sentita come un problema e un problema mio, inutile urlare, inutile pensare di cambiare questo mondo. Non riuscii a collocare quell’esperienza fittizia e buia, mi rimase dentro come qualcosa che si insinua e non ti lascia più in pace, feci i conti con parti di me misteriose, qualcosa che racchiude l’umanità tutta ma che viene tenuto distante dalla coscienza e dagli occhi, il dolore di solito viene evitato.

Intrapresi un cammino in bilico, fino a undici anni dopo, duranti i quali mi laureai, iniziai a meditare e trovai una sorta di equilibrio, tra il mondo dentro e un mondo fuori sempre più brutto. In questo dentro e fuori riuscivo a chiudermi e riaprimi, fino all’esordio della pandemia che mi vide comprare carta e colori per chiudermi in casa e disegnare più che mai, la chiusura aumentava fino al giorno in cui decisi di rompere tutti quei bellissimi disegni, da questo punto bastò poco per passare ai miei vestiti, ai miei oggetti. Fatta a pezzi me passai alla casa, in particolare le finestre.

La parte peggiore e in cui peggiorai fu tutta l’estate; mia madre non sapeva come e cosa fare, così si sentì obbligata a chiedere soccorso ad alcuni medici di sua conoscenza. Mi vidi circa sei persone sconosciute fuori la porta di casa, mentre mi accingevo a mangiare un pranzo, presi un telefono per protezione e pensai che erano i vicini che si erano venuti a lamentare, tutti mascherati sfilarono una siringa e così feci mente locale, andammo all’ospedale con un’auto e ho dimenticato quanto accaduto da quella siringa a due giorni dopo, nel letto del reparto psichiatrico in cui ero.

Aprii gli occhi e c’era mio padre, mai come in quel momento presente a vegliare su di me, chiesi che ora fosse ed ebbi una delle esperienze più importanti della mia vita. In quanto ho imparato ad accettare gli eventi e le cose anche le più dolorose, quel ricovero era stata una benedizione, un’esperienza che nel suo estremo trova la via d’uscita, una fine e un inizio, un cambiamento, una soluzione. Rimasi un mese nel reparto prima di poter essere dimessa, per via dei miei valori ematici mi trovarono in pessime condizioni e la ripresa fu lenta.

Non si potrebbe raccontare una storia così? Storie invisibili, dovremmo nasconderci?

Non ho niente da nascondere, ma è bene lasciare nella riservatezza una cosa simile, per protezione; è facile giudicare, stigmatizzare, solo perché non si comprende, non si può comprendere. Non si può capire. Quindi è un atto di anonimo coraggio rendere nota la mia esperienza, non sono una vittima e non mi sento colpevole, sono consapevole di aver sofferto e se questo era l’unico modo, l’unica estrema via per tirarmi fuori dal posto irraggiungibile in cui ero chiusa, in cui ero rimasta, ebbene mi ha aiutato, perché ora sono salva, ora sono qui. Per un pelo a volte ci si può ritrovare dall’altro lato, senza nemmeno accorgersene. Qualcuno chiama la “neuro”. Basta! Vi prego, mai più neuro. 

Durante quel mese in ospedale c’era Raffaele, correva avanti e indietro per il corridoio del reparto e si truccava, una volta mi colpì la gamba. Un giorno c’era gente che entrava e usciva dalla stanza di Raffaele, morì d’infarto, un cuore infranto aveva Raffaele. C’era Antonio che mi rubò il rossetto per scrivere sulle finestre e sui muri del cortile, fu divertente. C’era Giovanna, mangiona, rubava il cibo a tutti, ingurgitava roba e non le bastava mai, diceva parolacce a chiunque. C’era un ragazzo che barcollava in corridoio; perso nel vuoto, cadde a terra. Ce ne era un altro che aggredì l’infermiere per prendere le chiavi del reparto. Avevo fatto due amici, Carla e Francesco, mi fecero entrambi un regalo prima di andare via. Francesco fu trasferito a vivere in una struttura, lo avevano trovato solo e malandato a casa sua, mi raccontò la sua storia ed era felice di andare a vivere in una struttura. Carla invece si sentiva tradita dal fratello che l’aveva fatta ricoverare, lei non stava così male, ma soffriva, fu una vera amica in quel momento, ci scambiammo i numeri.

Il fumo era il passatempo ideale, l’accendino ce lo aveva l’infermiere, avevamo un cortile grande in cui stare e non era male. Al cambio turno degli infermieri c’era sempre un momento in cui restavamo soli, a me faceva paura, davano tutti di matto. Ricordo molti bussare alla porta chiusa che ci teneva barricati; battere ossessivamente, forsennatamente. Ho avuto bisogno di un mese di silenzio dopo essere uscita per riprendermi da tutto quel chiasso e casino, mi facevano male le orecchie.

Alcuni medici si presero cura di me, tra colloqui e farmaci ero tornata normale; era fisso l’appuntamento in ospedale, un punto di ritrovo tra salute e malattia, unica via era il compromesso: prendi i farmaci e sarai libero.

Ma erano bravi medici, mi apprezzavano come persona e riscontravano in me un’intelligenza e sensibilità sopra la media, dissero che erano contro le diagnosi e il mio disturbo era dovuto a una permeabilità, quindi il farmaco mi serviva come impermeabile, come una protezione. Per i successivi due anni feci un progressivo scalaggio delle medicine, o meglio della medicina, una sola pastiglia al dì. Stavo meglio, miglioravo, ero parte del mondo anche io, chiesi di fare una prova e sospendere questa pillola, sentivo di potercela fare e che non sarebbe mai più potuto ricapitare né un ricovero in ospedale, né di stare male. Mi vennero incontro, confidavano che ce la potessi fare e così sospendemmo la medicina.

All’inizio andò bene, mi sentivo forte e mi era ritornata l’energia, ero felice. Ma qualche mese dopo, insieme a una serie di eventi stressanti anche blandi, ritornai gradualmente a chiudermi, di nuovo estate e di nuovo raggiungevo quel recondito mondo interiore da cui la percezione del tempo si alterava e la sensazione era quella di aver assunto una droga psichedelica, anche se non ho mai provato droghe psichedeliche; era come un viaggio, come partire per raggiungere un altro luogo della coscienza, della mente; la realtà non era più la stessa. Fu breve, fu lieve. Mia madre si accorse in tempo, non ero ancora andata molto lontano, c’ero, ero presente ma leggermente alterata.

Stavolta fu diverso.

Chiamò il 118, non ritenevano la mia situazione grave, stavano per andare via ma pregai mia madre di portarmi di nuovo dentro, c’era comunque uno dei medici che mi seguiva. Presi per la prima volta in vita mia un’ambulanza, alle cinque del mattino senza sirena, nessuno fu violento, ero tranquilla e il medico mi chiese se era “volontario”? Io dissi certo dottore che è volontario, ma dovevo vederla.

Aspettai a lungo il suo arrivo. Anche la volta precedente fu volontario (T.S.V.) con la differenza che, mentre ero tranquilla e seduta su un muretto, l’infermiere di punto in bianco mi afferrò scaraventandomi a terra, senza un reale motivo, fu una reazione gratuita dato che io acconsentivo ad andare con loro senza fare alcuna opposizione.

Poi si scusarono.

Come questa volta, senza violenza, entrai volontaria in reparto, era arrivato il momento di riprendere quel farmaco, non aveva funzionato. Furono dieci giorni e questa fu l’ultima volta della mia vita. Il reparto era cambiato, la pandemia era finita, solo due anni dopo di nuovo dentro. C’è da dire che al pronto soccorso in qualsiasi stato si arrivi quando si tratta di psichiatria sulla cartella scrivono lo stesso per tutti: “stato di agitazione psico-motoria”; e c’è da dire che la cosa più ingiusta e brutta è sempre presente nella cartella clinica di chi va a finire in psichiatria, un foglio su cui è scritto “il soggetto X è infermo di mente”; è questo il nome, l’atto più disumanizzante di tutta la faccenda, la burocrazia che nel fare i conti con certe dinamiche dell’umanità umilia la tua dignità di essere un umano con una storia, con una vita, con un dolore… Leggere la mia cartella è stata la cosa più brutta che mi potesse capitare.

Durante l’ultimo ricovero in quei dieci giorni, c’era la televisione, guardavo Blob mentre tutti erano già a dormire. Aiutavo Silvia che aveva paura di lavarsi i denti, litigai quasi con un eroinomane che urlava “datemi il metadoneeee”. Diedi consigli sulla pelle a un signore che stava per essere trasferito in Puglia e aveva proprio bisogno di una crema per il viso. Indicai quale fosse il medico più adatto ed esperto in farmacologia a una signora che mi chiese consigli. Disegnavo, fumavo e parlai con un tirocinante, un ragazzo non di qui. Il dottore scherzava con me che sarei mancata al reparto, mi accompagnarono i medici a casa, fu commovente. Mi sentivo indubbiamente voluta bene da loro… (lisa more)