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Baby Gang, odio razziale e Silvia Sardone. Un diario
(disegno di cyop&kaf) Da due anni, per arrotondare il mio stipendio da docente precario, lavoro per un progetto finanziato da una delle più grandi organizzazioni mondiali in sostegno dei bambini. Il progetto nello specifico, nato durante il Covid, si propone di combattere la dispersione scolastica in Italia fornendo aiuto online a ragazzi e ragazze nel primo ciclo di istruzione. Sebbene possa sembrare, una volta finita l’emergenza Covid, uno strumento di comodo, la modalità online ha un significato nel progetto che va ben oltre la possibilità di connettersi con persone lontane fisicamente. I minori, iscritti al progetto da una docente, hanno retroterra diversi, con difficoltà in alcuni casi più lievi e in altri più complesse. Alcuni dei ragazzi che ho seguito in questi anni: M. è una ragazzina di quattordici anni di Palermo con un disturbo del linguaggio che vive con i nonni e la giovanissima madre; A. e A. sono due fratelli nati in Marocco e trasferitisi con i loro genitori in Barona a Milano, dove sono nati altri due fratellini con cui condividono la stanza; L. è un ragazzo albanese NAI (Neo Arrivato in Italia) con enormi capacità scolastiche iscritto a una scuola media di Reggio Emilia. Le storie di ognuno di loro nascondono delle ombre che non sempre vengono alla luce a causa del filtro che – innegabilmente – è lo schermo del dispositivo elettronico. Il fatto di non trovarmi in casa di A. in Barona o a casa di M. nella Vucciria rende l’esperienza di supporto molto diversa, in un certo senso meno pesante per me. Eppure, la realtà esonda. Nonostante lo schermo, in alcuni preziosi momenti ho veramente avuto l’impressione di essere lì con loro. Penso alle conversazioni con Z., il più piccolo dei fratelli di A. e A., di tre anni, nato in Barona, mentre loro cercavano senza successo i quaderni di storia e geografia; penso a quando M. mi ha portato in giro per la sua casa, mostrandomi le diverse statuette di Santa Rosalia e raccontandomi l’importanza del posizionamento strategico di ognuna di queste; ma penso anche a quando L. mi ha fatto vedere il suo fucile giocattolo con gli occhi che brillavano, perché è “lo stesso che il nonno ha a Tirana”. Su dodici ragazzi che ho seguito, nonostante le difficoltà materiali di molti di loro – nella maggior parte dei casi il dispositivo elettronico è fornito dalla scuola o dall’ente organizzatore di progetto – non ho mai avuto problemi a svolgere gli incontri: i ragazzi sono concentrati, hanno voglia e bisogno di quel momento. Solo in un caso, questa primavera, il tutoraggio assegnatomi è diventato un calvario tale da rischiare di non riuscire a terminare le venticinque ore previste per ogni ragazzo. S. S. ha tredici anni, è nato in Bangladesh in una famiglia musulmana e vive a Livorno dove frequenta la terza media. Al primo incontro – quello a cui da regolamento partecipano l’educatrice di riferimento (la mia “superiore”), l’insegnante che ha richiesto l’attivazione del tutoraggio e un genitore o chi ne fa le veci – S. non si è connesso. Suo padre c’era, ma S. non voleva connettersi, non ne aveva voglia. Abbiamo riprovato una settimana dopo. Questa volta è andata bene, con la videocamera spenta però. S. ha una grave disabilità di cui non so dirvi molto, perché gli unici momenti in cui sono riuscito a fargli accendere la videocamera erano gli ultimi secondi di ogni incontro, per salutarci. Non parla bene l’italiano, conosce molto meglio l’inglese. Ci ho messo un bel po’ ad abituarmi al suo modo di mangiarsi le parole, misto a uno spiccatissimo accento toscano. Anche il padre di S. non parla bene l’italiano. Con lui mi sentivo almeno due volte in ognuno dei giorni dei nostri incontri perché ci recassimo insieme da S. per invitarlo a connettersi, minacciandolo di interrompere il tutoraggio (nelle regole del progetto c’è che dopo la terza volta in cui il beneficiario non si presenta all’incontro il tutoraggio salta). S. non ha mai avuto grosse difficoltà a rispondere, a me e suo padre, “e interrompetelo”, causando le ire del padre: “S. è un vagabundo, S. è un vagabundo”. Eppure, quel tutoraggio è arrivato alla fine. Ecco quanto accadeva durante l’ora e trenta di ogni incontro: S., favorito dalla videocamera spenta, scrollava video su Tik Tok – tra le diverse concessioni avute, c’era quella di potersi connettere da telefono e non dal tablet – mentre io lo incalzavo con alcune domande, “che hai fatto oggi a scuola?”, “che compiti hai per domani?”, nonostante le risposte le avessi già, fornitemi dalla disponibilissima insegnante di sostegno. Raramente siamo riusciti a fare qualcosa di tradizionalmente didattico; il momento in cui S. si concentrava di più era quando condividendomi lo schermo guardavamo dei video di approfondimento in inglese su Youtube. In quei momenti ero stupito dalla quantità di notifiche che riceveva e che, percepivo, lo distraevo ma, fortunatamente, non poteva interrompere la visione per passare a Whatsapp. Nelle lunghe, lunghissime pause, finivamo spesso a parlare di musica. Sin da subito, S. mi ha confessato la sua passione per la trap italiana – Rondo, Baby, Simba, Melons e Faneto – ed evidentemente non si aspettava che io, il suo tutor, apprezzassi canzoni come Casablanca di Baby Gang e 40 GRADI di Simba La Rue (questa, che già avevo sentito qualche mese prima, si era poi fissata nella mia mente da quando A. e A. me ne avevano cantato, insieme, il ritornello). PONTIDA Poche sere fa, in un noto programma televisivo di approfondimento politico, ho visto un servizio che raccontava, in parallelo, il funerale di Charlie Kirk a Phoenix e il raduno annuale della Lega a Pontida. Tralasciando le riprese provenienti dagli Usa – file chilometriche per comprare un hot dog, pianti tanto perfetti da sembrare finti, paragoni tra Gesù Cristo e Donald Trump – mi ha intrigato di più quanto avveniva a Pontida. Oltre alle parole di Salvini e Vannacci, sul palco della “Lega per Salvini Premier” ha brillato la stella di Silvia Sardone. Laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti alla Bocconi, ex membro di Forza Italia, Sardone è oggi una dei vicesegretari del partito oltre che europarlamentare dal 2019. Il suo discorso, introdotto dal presentatore della Lega – “le sue battaglie contro l’Islam radicale  sono leggendarie!” –, dura otto minuti ed è tutto urlato alle massime frequenze e acclamato dal pubblico. Il discorso, salvo alcuni accenni veloci a figure storiche del partito, verte tutto su un tema: la battaglia all’Islam. L’Islam è un pericolo, contro cui solo la Lega lotta veramente, mentre la sinistra starebbe sfruttando questa “spada” per “tagliare la gola all’occidente”. Sardone declama una serie di no: “noi non vogliamo le moschee abusive, noi non vogliamo il richiamo del muezzin nelle nostre città, noi non vogliamo vedere minareti ovunque, noi non vogliamo matrimoni combinati” e così via. Passando per frasi non proprio eleganti – “ci siamo rotti i coglioni!”, “che non ci prendano per il culo!” – la vicesegretaria giunge al termine del suo discorso con la parola manifesto di questa Pontida, che poco dopo declamerà anche Vannacci: “RE-MI-GRA-ZIO-NE!”. Nei discorsi della Sardone da un lato c’è “il popolo di Pontida”: quello benedetto dalla Storia, che a Lepanto nel 1571 fermava l’avanzata islamica sotto il vessillo cristiano; mentre dall’altro lato ci sono i “Mau Mau con la barba lunga”. Questi, nell’universo di Sardone, sono quasi tutti maranza o membri di baby gang intenti a insultare costantemente le forze dell’ordine e a distruggere il nostro paese. I Mau Mau sposano “gente con un sacco della spazzatura addosso” (le donne islamiche che indossano l’abaya) e non le lasciano uscire di casa senza il loro permesso. Ai più attenti non sfuggirà però che nel discorso dell’europarlamentare compaiono anche altri immigrati “per bene, che pagano le tasse, che non li (i Mau Mau) sopportano più”: gli oppressi ben educati. L’Altro, ma colonizzato dal Medesimo. L’ODIO La prima volta che ho sentito parlare di Silvia Sardone è stato durante un incontro con S. A lui non sta esattamente simpatica, e non si fatica a immaginarlo. D’altronde neanche i suoi rapper preferiti la adorano: uno l’ha minacciata di morte, mentre un altro le ha dedicato un freestyle in cui la immagina avere un rapporto sessuale con un uomo egiziano (“Silvia Sardone prende il cazz* egiziano, la tipa di Salvini che sbucchin* un africano”). Un giorno S. mi mostra, in condivisione schermo, il video del freestyle di questo rapper. S. canta il pezzo scandendo ogni parola con rabbia: le conosce tutte. Per qualche secondo lo ascolto, incapace di opporre alcuno strumento pedagogico acquisito negli anni di studio e lavoro: cosa sto vedendo? cosa si fa in questi casi? Mi rendo conto che c’è dell’altro: sono sorpreso, contento oserei dire, di sentire – per una volta – S. parlare così chiaramente, senza mangiarsi le parole. La videocamera è sempre spenta, eppure S. si sta facendo vedere. Un attimo dopo ritorno in me: quello che sto ascoltando è brutto, sporco e violento, non posso permettere che prosegua ancora. S. interrompe la condivisione, ma qualcosa è cambiato, se ne rende conto anche lui. Quando durante La Haine (1995) di Mathieu Kassovitz un ragazzo viene ridotto in fin di vita dalla polizia, i tre protagonisti del film hanno tre reazioni diverse. Di fronte alla sete di vendetta di Vinz, che si compra una pistola con l’obiettivo di sparare a un poliziotto, Hubert – l’unico nero dei tre – gli risponde a  muso duro: “l’odio chiama odio”. A distanza di trent’anni quella scena ancora suona, quindi non si stupisca l’europarlamentare Sardone, la lingua dell’odio è la più facile da insegnare. (federico murzi)
storie
La testa è una soglia
(disegno di malov) Dal numero 5 (novembre 2020) de Lo stato delle città [le mani avanti] Se è vero – Camus c’insegna – che l’unico problema filosofico serio è quello del suicidio, confesso, non senza difficoltà, che la vita mi ha costretto a pensarci molto presto: due volte mia madre ci ha provato, e tutte e due le volte ero presente. La prima urlando mentre una gamba era già fuori dal balcone, al quarto piano di una palazzina tirata su in fretta e furia dopo terremoti e bradisismi degli anni ottanta. L’ho dovuta strattonare dentro con tutte le forze che mi potevano concedere i miei esili dodici anni. La seconda, pochi anni dopo – rientravo fradicio da una sequenza ininterrotta di partite di calcio stradali – l’ho trovata svenuta e con la schiuma alla bocca nella vasca da bagno. Aveva preso dei medicinali per scapparsene da una situazione che ai suoi occhi non aveva altra via d’uscita. Ero un po’ più grande stavolta, l’ho presa a schiaffi per farla riprendere quel tanto che ci avrebbe consentito di trasportarla velocemente in ospedale. Tutto questo, dopo poco, sarebbe servito a dare un taglio netto a una guerra domestica, neanche tanto silente, in corso da ormai più di un decennio. [prendere le misure] La prima volta che entro nel Centro arrivo con un quarto d’ora di anticipo. Faccio un giro nelle sale, cammino lentamente osservando le fotografie attaccate con nastro biadesivo su rettangoli di sughero consumato ai margini. Sono quasi sempre foto di gruppo scattate durante le uscite organizzate nel corso degli anni: grigliate, musei, agriturismi, litorali. Una donna mi colpisce in particolare, fotografata guarda sempre in camera, quasi volesse penetrare col suo sguardo l’obiettivo e impressionare la pellicola con tutte le sue forze, cuoce salsicce. C’è un solo uomo presente in sala mentre cerco di capire in che luogo dovrò lavorare da lì all’estate prossima. Si chiama Ciro, mi ignora, è intento ad abbracciare la ghisa di un termosifone. Scoprirò presto che ha passato più di metà della sua vita a disossare bestie nelle celle frigorifere dei reparti carni nei supermercati della zona. Fino a quando non ce l’ha fatta più e ha smesso, rifiutando il lavoro e la vita in un colpo solo, richiudendosi in un silenzio interrotto di rado da una voce arresa prima che flebile. La sensazione che viva in un tempo fuori di sesto lo accomuna alle altre vite che attraversano il Centro. Penso a Vittoria, che non ha saputo reggere a un matrimonio-deportazione (si è dovuta trasferire ai margini di una grande città a lei ignota) e alla nascita di due figli. La somma di questi eventi (e chi sa quali altri) l’ha coricata in una depressione che a lungo andare ha portato alla rottura del suo matrimonio. È ritornata in casa con sua madre e sua sorella e va girando sempre con due valige pronte perché, dice – mio marito potrebbe rivolermi a casa da un momento all’altro, e i miei figli m’aspettano. [vicinanze] Avevo sfiorato uno di questi centri pochi anni prima, dopo che per una intera estate, a ogni tornante a piombo sul mare smeraldo della Costiera andavo pensando: mi butto. La tentazione era forte quanto la disperazione, ricostruivo nel nastro di moebius dei miei pensieri la stessa prigionia che anni addietro aveva dovuto togliere il fiato a mia madre. Passo dal medico di base, gli piango le mie motivazioni e lui mi scrive una richiesta per otto incontri con la psicoterapeuta dell’unità operativa di salute mentale di zona. Lì ha sede anche uno di questi centri diurni. Durante i tempi morti della sala d’attesa mi soffermavo a osservare dal balcone le persone che ne frequentavano il cortile. Ero fragile, e quelle figure mi spaventavano, perché sentivo che sarei potuto arrivare a quello stesso camminare a vuoto nel giro di poco tempo. Più avanti avrei letto queste parole: Sono i corpi a scrivere i testi più interessanti sulla follia, sulla cultura in cui viviamo, e su di noi. Il corpo folle rifugge dal controllo, inventa stranezza, si inarca, secerne, preme, ha fame, avvolge, assale. [il lavoro] Dalla direttrice ricevo poche ma precise istruzioni, discorsi che ho già sentito altrove: non strafare, chiedere prima di intraprendere, la giusta distanza e simili. Mi viene consegnata una tessera magnetica. Accolgo stupito il verbo “beggiare” nel mio vocabolario, in entrata e in uscita. È la prima volta che ho un lavoro vero, con turni, colleghi, foglio firme e macchinetta del caffè in cialde. Le mie ore dovranno essere impiegate per lavorare con le immagini. Partiamo dal disegno libero e poi via via fissiamo degli obiettivi minimi: fare una piccola esposizione, dipingere il muro di una sala, inventarsi un fumetto. Per stringere un legame e cominciare a conoscerci propongo di realizzare degli ex-voto dipinti, gli racconto che nelle chiese delle città di mare le tavolette votive legate ai salvataggi delle imbarcazioni travolte dalla tempesta sono tra le più numerose, porto dei libri che ne raccolgono le immagini, progettiamo anche un’uscita al Santuario della Madonna dell’Arco che ne è zeppo, ma non riusciremo a farla. In questo modo ognuno deve tirare fuori un episodio turbolento della propria vita dal quale sente di essere uscito indenne. Realizziamo le prime versioni su dei fogli di carta artigianale realizzata in un precedente laboratorio: è fatta tritando, spugnando e poi pestando le scatolette degli psicofarmaci che lì dentro abbondano. A un occhio attento non sfuggono piccoli caratteri riemersi dalle misteriose indicazioni dei bugiardini. Patrizia divide sempre l’immagine in due, la scritta in alto chiarisce il perché: “la mia difficoltà / la mia risposta”. A sinistra mette lei o qualcuno dei suoi cari allettato, stesi da qualche malattia, a destra, in uno spazio più ampio, il suo invocare il cielo ma anche una forza che sente nascosta dentro sé stessa. Mani al cielo e i piedi ben piantati a terra. Vittoria, la donna-valigia, evoca ancora e ancora la sua storia matrimoniale, gravidanze difficili, un esotico viaggio di nozze, definisce “un malore” quello che a ventitré anni sembra aver preso il controllo della sua vita. E poi c’è Pino, trentacinque anni, scrive male ma fa rap, è dislessico ma inventa libri, ha una immaginazione fertile, disegna con accuratezza ma sempre con una certa dose di distacco. Mi viene descritto in una maniera che non trova nessuna corrispondenza con quanto vedo con i miei occhi. Ho l’impressione costante che gran parte degli operatori del Centro fuggano da qualsiasi tipo di contatto. Quando non di aperta derisione l’atteggiamento generale è quello di rifugiarsi in una trincea di inespugnabile formalità, un fossato nel quale confondere distanza e professionalità. La repulsione per i corpi è appena celata. Quando Gianni parla spesso sputa, è vero. Molti, agli estremi delle labbra, hanno un impasto di tabacco, cibo e saliva, anche questo è vero. Eppure, sbirciando appena dietro le singole storie, emergono chiare miseria e violenza, brodo di coltura di una inevitabile follia che altro non è che scarto di produzione di un territorio marginalizzato. [il cerchio] Una mattina di fine inverno arriva una giovane dottoressa. Propone, per favorire ascolto e dialogo, di metterci in cerchio. Poi, partendo da eventi minimi accaduti nel Centro – ma anche da una semplice canzone – lascia parlare i presenti, cercando di fare attenzione a che nessuno interrompa l’altro, osservando le posture, le modalità relazionali, le intolleranze, lasciando fluire il tutto senza giudicare, anzi, prestando bene ascolto e analizzando con la dovuta calma i racconti (ma anche i silenzi e le insofferenze) di ciascuno dei presenti. Gli altri operatori la guardano come se fosse anche lei da curare, boicottano in gruppo. Eppure, se una cura è possibile, non può che scaturire dal confronto aperto tra esperienze, dalla scoperta che ogni vissuto è sì così diverso da un altro, ma pure molto simile. Fatto sta che le prime volte sono l’unico seduto insieme agli altri, ma ho dalla mia che sono nuovo e posso muovermi come se la mia fosse ingenuità. Più avanti altri operatori, anche se svogliatamente, mi seguiranno, ma resterò purtroppo il solo, insieme alla dottoressa, a portare il proprio specifico vissuto nel gruppo. [questo siamo] Titta è variopinta, usa truccarsi con estro, palpebre spruzzate di colori diversi, rossetti acidi. E deve pescare dall’armadio le cose che indossa così come gli capitano, generando chi sa quanto involontariamente una radiosità che stride con le sue risate, tanto acute da contenere il pianto. Racconta in continuazione di suo marito e di un suo fantomatico amante che vorrebbe raggiungerla ma invece è bloccato da un brutto incidente che gli ha spaccato le gambe. Gianni è enorme, cammina barcollando, entra ed esce dal Cerchio comandato dalle sue smanie. È lì dentro da trent’anni e dice che non ne può più dei pinnoli. Racconta che prima nel Centro cucinavano loro, era un bel momento di condivisione. Poi anche questo servizio è stato esternalizzato e adesso arrivano pasti pronti in inutili quintali di imballaggi. Spesso, più che in un luogo di cura ci si sente stretti tra il martello della carità e l’incudine degli affari. Rosalba quando entra nel Cerchio lo fa sempre in ritardo, raramente si siede, dice che preferisce stare in piedi. Vive nelle palazzine più cupe del rione, e ne parla la lingua, solo lievemente rallentata da anni di terapie farmacologiche. Certe vocali si allungano sul finale restando sospese a mezz’aria con i suoi interlocutori. Ride e si abbatte in continuazione, come tutti. Patrizia era apprendista parrucchiera, poi un diverbio col capo e una rottura col fidanzato l’hanno trascinata in un abisso durato tre anni. Adesso che faticosamente ne sta uscendo ha un sorriso benevolo che contagia. Ha ancora paura di riprendere il lavoro. Le suggerisco di ripartire dal luogo nel quale si trova: potrebbe riprendere la mano tagliando i capelli agli altri frequentatori del centro. Un ragazzo giovanissimo – scopro che ha venticinque anni – siede sempre con noi, si chiama Marco, non parla mai, fissa un imprecisato punto dello spazio, di tanto in tanto scuote la testa. Con il passare delle settimane una sopraggiunta familiarità sembra però smuovere qualcosa. Comincia a raccontare di quando lavorava in un supermercato come scaffalista, per sessanta euro a settimana, tredici ore al giorno; della sua convivenza con lo zio: dividono lo spazio esiguo di una casa che gli prosciuga più della metà di una pensione ridicola, senza neanche il privilegio dell’acqua calda. Pino, il rapper, a sua volta racconta che da adolescente ha lavorato due anni in un’officina, prendeva ventimila lire a settimana. Ha scoperto solo anni dopo che i soldi al meccanico li dava sua madre. Sasà è un ex rapinatore. Ha l’occhio dilatato dalle terapie, vigile in apparenza. Altalena il corpo sulla sedia. Di norma è silenzioso, poi ha vomitato il suo racconto in una volta sola: «Mia madre aveva dodici figli, sei con un marito e sei con mio padre. Lui è morto quando ero piccolissimo, mi avrebbe messo in riga, invece nell’ottanta, quando avevo dieci anni, andavo a vedere i contrabbandieri come scaricavano gli scafi pieni di sigarette, mi affascinavano. Dopo poco con gli amici del quartiere ho cominciato con gli stereo, poi gli scippi, i furti e le rapine. Era una sfida con me stesso, se non ci riuscivo mi dicevo: ma che cazzo, neanche una rapina sai fare? Non sei buono a niente! Eravamo cani da caccia, annusavamo le situazioni migliori soppesando in un attimo rischi e guadagni. Per me era un vero e proprio lavoro. Però non rapinavamo mai i pensionati, solo supermercati, pompe di benzina, tabaccai. Non facevamo male a nessuno, prendevamo i soldi dove c’erano i soldi. Sapessi come mi dispiaceva se in un supermercato c’era una donna incinta! Spesso assaltavamo i caselli dell’autostrada, uno per uno prendevamo i soldi da tutti, e poi scappavamo con le auto truccate, la polizia provava a inseguirci, ma andavamo troppo veloce». «Poi mi hanno arrestato, in totale mi sono fatto venti anni di carcere. La maggior parte di quelli della mia banda sono morti. Una volta un amico mi chiese di accompagnarlo a rapinare un benzinaio sul Viale. Lo uccisero, menomale che non andai, altrimenti non sarei qui adesso. Ah, se ci fosse stato mio padre!». Oscilla ancora mentre conclude dicendo che adesso, però, è una brava persona. Marco aggiunge che quando uno non è servito dai genitori è normale che va a finire su una brutta strada. «Perché tuo padre non ti viene a trovare?», chiede Rosalba. Marco dice che non lo vede da otto anni, cioè da quando frequenta il Centro, è agli arresti domiciliari a cento metri da casa sua. Rosalba lo interrompe rivolgendosi al resto del Cerchio: «Teneva quella bella mamma questo ragazzo! Se si stavano più attenti in quella stanza non si sarebbe buttata giù. Eccola (indica una foto), arrostiva le salsicce, ma che bella femmina, e che stile, guarda là quant’è bella (lo ripete più volte)». Solo ora dai fili intravedo una trama. E mi viene da pensare che forse già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Per questo cercava di impressionarsi nella pellicola guardando fisso in camera. Come a lasciar traccia di sé, anche fuori dal corpo tatuato di suo figlio Marco, che fa finta di niente e salta una voragine di silenzio continuando: «Ho rischiato la galera, avevo iniziato a fare casini, ma mia mamma stava al San Gennaro in Tso, mio padre carcerato, e il giudice me la fece buona. La polizia mi picchiava un giorno sì e uno no per farmi capire che dovevo smettere, così mi sono calmato. Ma guarda che è brutto eh, un padre che non ti segue, non ci sta lavoro, non sai più quello che devi fare, e per non sbagliare – mi avrebbero messo a vendere la droga o a fare rapine – mi sono messo in mano ai medici». Più o meno, penso, come farsi scemi per non andare in guerra. [epilogo] Parlo con la direttrice dell’idea di far riprendere il lavoro a Patrizia, penso che sarebbe una buona occasione per lei e un momento utile e divertente per tutti gli altri. Eppure, non senza astio, mi viene chiesto di non illudere gli utenti con promesse che non possiamo mantenere, che ci sono norme igieniche da rispettare, che avrei dovuto chiedere prima a lei, che, insomma, la cosa non s’ha da fare. (-rc)
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storie
In questa piazza sono il più vecchio. Storia di un ex operaio di Bagnoli
(disegno di francesca ferrara) Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.   Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento, nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare. Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud, avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990. Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni. Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il capoturno diceva che bisognava accelerare. I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”, sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco, tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre. Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie. Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo. Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno. Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti, di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più. Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?». Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi. Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo, turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato. C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata a mare, c’era un certo benessere. All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca, eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di sera, e dalle undici alle sette di mattina. Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte. Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno. Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto: «Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio, conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
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Corpi senza tomba. Storia di Mohamed Amine e gli altri dispersi di Bizerte
(disegno di irene servillo) Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa. Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui non si sono mai più trovate tracce. Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia veritiera. Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il nominativo rimane sconosciuto. Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata. La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del 2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania. Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi dalla stampa. Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti (Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo, i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta nessuna traccia. Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea, ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al suo nome, in caso di ritrovamento. Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile. Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
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Quale salute mentale? Un’intervista a Luigi Gallini
(disegno di cristina moccia) Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino, del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud. Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.  *     *    * LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori. RI: Perché sei recluso qui? LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria. Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’ insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina, allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…». Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino. RI: Adesso il Sestante è stato chiuso? LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da lettere dopo due. RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate? LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra o con lo psicologo. RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato? LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo bianco. RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”? LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base ai criteri della sua Scienza. RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo di trattamenti sono sottoposti? LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata, ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al silenzio. RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali… LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi di dollari all’anno. RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo bianco”: cosa vuol dire? LG:  L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne chiedono da tempo l’abrogazione. RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che lottava per la deistituzionalizzazione? LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene criminalizzata qualsiasi forma di protesta. RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali – basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella psichiatria. LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile. Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole, attraverso le diagnosi di  DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo, secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità, una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale. Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti, territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica. RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria territoriale oggi? LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni, rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi, dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione. Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio, a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non hanno l’intenzione di concederla.
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Caserta ai suoi antieroi – Capitolo VI
(disegno di mario trudu, da: la mia iliade) A Stefano l’avevano trovato nel bagno dei giardini della Reggia. Erano stati i custodi a chiamare l’ambulanza. Lui ascoltava il punk. Noi no. Noi in quei giorni a cavallo tra i Novanta e i Duemila, sotto ai portici del Banco di Napoli o tra le mura dell’ex Macello occupato di via Laviano, ascoltavamo sempre lo stesso pezzo, per precisare un’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza. Come chi gira intorno al problema senza riuscire a risolverlo, noi cercavamo la risposta in quelle rime senza afferrarla subito, e allora riavvolgevamo il nastro finché non avremmo messo a fuoco i nostri pensieri. Occorreva rifletterci, perché quel pezzo metteva in contrapposizione la rivolta esistenziale e una scelta tragica. Raccontava di un vinto che aveva l’odio per i ricchi e per le macchine dei poliziotti. Un eroinomane con la fame e il freddo negli occhi. Non era la voce della capitale romana politicamente ineccepibile a parlarci, né quella del nord, che pure ci esaltava quando diceva di essere straniera nella sua nazione. Era la voce di un cafone, e noi ci identificavamo in quella voce, avevamo bisogno di sentirla mentre descriveva lo scenario desolante dei paesani, con quelle strade deserte i lunedì sera di febbraio. Ciò che ci attirava di quel brano era innanzitutto la vicenda, perché ci parlava come i primi film di Spike Lee noleggiati alla videoteca di via Ferrarecce e che guardavamo a casa di Tonino – Jungle Fever, con Samuel Jackson che fa la parte del tossico, Clockers, che apriva con i Croocklyn Dodgers, Fa’ la cosa giusta, Mo’ Better Blues… Leggere allora non era tra le priorità dell’esistenza. A casa s’imparava l’arte dell’aggressività; non si parlava ma si urlava, al massimo c’era qualche enciclopedia impolverata sullo scaffale nel tinello. Al di fuori dei libri di scuola c’era solo il rap, la breakdance, il pallone e tanti film. Era molto più incisiva la scena di quel film ambientato nel Bronx, con il padre che dice al figlio che non c’è cosa più triste nella vita di un talento sprecato, di qualsiasi saggio sulla condizione post-moderna. I libri dei miei fratelli erano reliquie da custodire gelosamente, oggetti che destavano timore e attrazione allo stesso tempo. Guai a chi li toccava. Gli altri titoli di libri letti allora si potevano contare sulle dita di una mano: Cuore preso coi punti al supermercato, Le avventure di Gian burrasca, I ragazzi della via Pàl, qualche fumetto. Quel libro di Epica che usavo per la scuola, e che la professoressa una mattina di fine marzo mi chiese di aprire a pagina duecentotrentadue, non era neanche mio, ma della persona che provava a spronarmi più o meno a vuoto mentre facevo i compiti. Su quasi tutte le pagine, ci trovavi scritte a penna rossa sulla rivoluzione, i bolscevichi, i gruppi armati latino-americani, e poi stelle a cinque punte, falci e martelli, slogan in onore di personaggi a me allora ignoti, auguri di morte violenta ai fasci. In classe l’ansia cresceva, in quei giorni. Le interrogazioni si accumulavano come interessi di soldi presi a prestito. Bisognava prepararsi al peggio. La bocciatura non era esclusa tra le opzioni del futuro a breve termine, e il futuro allora era solo a breve termine, il giorno dopo o al massimo l’altro ancora. Chi cercava di farmi studiare entrava in stanza e mi lanciava una pallina di mollica di pane addosso. Vedeva che studiavo Leopardi, e allora iniziava a parlare di quanto Leopardi, a differenza di ciò che raccontava il libro di testo, amasse la vita (ma allora si può contraddire un libro di testo?). Una volta, mentre ripetevo Pascoli, mi disse che al poeta lo arrestarono per via dell’Ode all’anarchico Passanante e che in carcere lo sodomizzarono. “Seee, lo sodomizzarono…”. Non capivo mai quando scherzasse e quando invece facesse sul serio. “Ti giuro. Per quattro mesi. Gli fecero passare la voglia di fare l’anarchico…”. I compagni di classe erano una spanna sopra in termini di voti e tre sotto in termini di maturità. La professoressa di italiano era l’unica a trasmettere una sorta di quiete, come una madre benevola. Noi eravamo i suoi cuccioli del primo anno: baffi da sparviero, brufoli in faccia, l’autostima sotto le scarpe. Fumavamo in bagno il puzzone di Di Nuzzo ed entravamo in classe con gli occhi rossi. Lei raramente alzava la voce, e quella volta in cui reagii all’insulto del professore di disegno prese le mie difese, costringendolo a chiedere scusa per avermi chiamato imbecille. Pure se non avevo studiato. Quella mattina di fine marzo, invece d’interrogarci introdusse l’Iliade. Disse che il contesto era la guerra di Troia, un conflitto causato dalla dea della discordia che aveva gettato una mela d’oro con la scritta “alla più bella” durante un banchetto. Ci parlò di una guerra durata dieci anni, di re e di guerrieri leggendari come Agamennone, Achille, Odisseo, Ettore, Enea. A un certo punto alzò la testa. Incrociò il mio sguardo e pronunciò il mio cognome. “Apri il libro a pagina duecentotrentadue e leggi”, disse soave. Aprii quel libro di testo pieno di scritte incendiarie. Proprio su quella pagina, una frase a penna rossa: “Siamo nati per camminare sulla testa dei re”. Schiarendo la voce, iniziai a leggere: “Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti, ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro, era ad Achille e Odisseo: perché spesso li svillaneggiava; quel giorno al divino Agamennone, gracchiando acuto, diceva improperi: contro di lui gli Achei terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro…”. “Fermati”, disse la professoressa. Poi continuò: “Ecco Tersite, ragazzi. Immaginatevi la scena: Agamennone, per mettere alla prova i soldati, propone di abbandonare la guerra e tornare a casa, ma è tutta una finta. La reazione è caotica: i soldati lo prendono sul serio e corrono verso le navi. In questo clima di confusione, questo soldato di nome Tersite si fa avanti criticando Agamennone per la sua arroganza. Ma la sua ribellione viene zittita da Odisseo, che ristabilisce l’ordine colpendolo e umiliandolo davanti a tutti”. “E perché una reazione così esagerata?” – chiese Colantuono dall’altra parte dell’aula. Lei rispose con calma: “Tersite è un personaggio controverso, è l’antieroe per antonomasia. La voce del dissenso. Un soldato brutto, sgradevole, un vinto dall’atteggiamento ribelle. Tersite si distingue per il suo coraggio, ma anche per la sua sfrontatezza nel criticare Agamennone, il comandante supremo dell’esercito”. Era quella, l’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza? La lezione da ricordare per sempre? Chi è che aveva il diritto di criticare il potere? E noi da che parte ci dovevamo schierare? Dalla parte di Tersite o di Odisseo? Bisognava cominciare a scavare più a fondo. Da quel giorno di fine marzo, una cosa era certa: quella figura umana così tragica di nome Tersite era troppo familiare per essere epica. L’avevo già incrociata mille volte per strada, sentita nelle cuffie per bocca di un rapper abruzzese, intravista in quei film noleggiati in videoteca. Era Stefano, il punk trovato dai custodi nei cessi dei giardini della Reggia. E ora stava proprio lì, sgradevole e riottoso, fuori la scuola di quel paesone della provincia meridionale, ad aspettarci al varco dei giorni a venire. (pomè) __________________________ <<< capitolo precedente
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Ascolti, impari, ragioni, canti. Riportare la storia orale nelle strade
(disegno di martina di gennaro) Il 16 novembre scorso, al Centro di documentazione territoriale Maria Baccante di Roma, i racconti di Alessandro Portelli, Lidia Piccioni, Alessandro Triulzi, Paolo Isaja e Ambrogio Sparagna si sono alternati nel corso di un incontro di circa tre ore, organizzato dall’Associazione italiana di storia orale (AISO) in occasione della sua assemblea annuale. Un tentativo riuscito di ricordare “la memoria della ricerca della memoria”, grazie alle esperienze di chi da oltre mezzo secolo raccoglie storia orale. Doveva essere presente anche Franco Ferrarotti, morto lo scorso 13 novembre. Così l’incontro ha avuto inizio con l’ascolto di uno stralcio di una sua intervista, realizzata qualche anno fa dalla storica Giulia Zitelli Conti. Il sociologo ripercorre i primi passi della sua ricerca: un viaggio in autobus dall’università sino al capolinea e una esplorazione del territorio raggiunto (l’Acquedotto felice, San Policarpo, il Quadraro), nel quadrante est della capitale: “È stata la mancanza di fondi a creare la nostra ricerca sulle borgate”. Sono gli anni Sessanta del secolo scorso, chi se lo può permettere parte oltre oceano, fa ricerca a Chicago, intercetta la vecchia e nuova scuola dell’ecologia sociale urbana, incontra il collettivo Martin Luther King. Alessandro Triulzi, dopo l’esperienza statunitense, viaggia anche nell’Africa subsahariana, e lì raccoglie storia orale, per ricostruire quelle fonti che non è possibile reperire all’interno degli archivi coloniali, con risultati che lui stesso definisce discutibili, e questo è un cruciale passaggio: il ragionamento, la messa in discussione, perché le fonti orali assumono valore storico e storiografico nel momento in cui si è capaci di analizzarle, di criticarle. Ascolti, impari, ragioni, canti. È la sintesi ideale di chi lavora con e per la storia orale. C’è chi raccoglie suoni e voci con un registratore a nastro, chi si arma di una videocamera, chi racconta il problema della casa nelle borgate, chi le consulte popolari che dopo la guerra si preoccupano dei problemi delle periferie. Ci sono tracce sonore e visive delle lotte, delle battaglie, dei dissidi nelle strade: sono repertori preziosi, oggi per la maggior parte dispersi e in minima parte acquisiti dagli archivi Rai. C’è chi vive in provincia e suona con la banda, canta storie di tradizione, poi conosce musicisti e amanti della musica popolare e suona fuori dalla provincia, dà il via a un precipitoso contagio e coinvolge tante bande e tanti suoni. Scende nelle strade delle città, organizza concerti comunitari, partecipa alla straordinaria esperienza della scuola di musica popolare realizzata dal circolo Gianni Bosio. Queste esperienze degli anni Sessanta proseguono nei decenni successivi e arrivano sino a oggi, passando per la raccolta di racconti dei primi protagonisti dei fenomeni migratori verso l’Italia (Triulzi ha ricordato il lavoro fatto all’interno del cosiddetto “Hotel Africa”, il magazzino delle Ferrovie dello Stato situato alle spalle della stazione Tiburtina di Roma, che è stato per anni adibito a casa autogestita da centinaia di richiedenti asilo in attesa di permesso). Di tutte queste ricerche, questi percorsi di raccolta di memoria spesso frammentati, rimangono tracce sparse, grazie all’archivio del circolo Gianni Bosio, all’Archivio Memorie Migranti, alla scuola di italiano per stranieri Asinitas, alla collana di storie sulla città di Roma diretta da Lidia Piccioni, ai tanti cori di quartiere che conservano e divulgano il canto popolare. La scelta del Centro di documentazione territoriale Maria Baccante non è stata casuale. Il centro conserva l’archivio della fabbrica Viscosa che insisteva nel parco che lo ospita, e cerca di approfondire temi che sono legati in senso lato alla documentazione e all’archiviazione. In questa mattinata fredda siamo riscaldati da racconti appassionati, piccole biografie di ricercatori esperti, generosi, fini intellettuali fuori dai salotti. Sono storie che hanno arricchito il bagaglio di conoscenze di chi era ad ascoltare, donne e uomini appassionati di storia orale, avidi di memoria. Tuttavia, mi pare solo un punto di partenza. Ora, credo, si può spalancare un portone. Ma come “usare” la storia orale? Oltre a continuare la raccolta di memoria – esercizio necessario ed essenziale – come mettere mani in tutta quella già archiviata? Come fare uscire i racconti dai faldoni, dagli archivi più o meno ordinati, dai cassetti dei ricercatori e consegnarli alle comunità, ai giovani, alle scuole, ai quartieri e alle strade? Questa per me è la grande sfida. All’inizio dell’incontro Sandro Portelli ha ricordato Giuseppe Morandi, fotografo, cineasta, figura chiave della Lega di cultura di Piadena. Chi ha avuto la fortuna di partecipare alla festa di Piadena, organizzata ogni anno da Gianfranco Azzali, lo avrà conosciuto, o avrà potuto assaggiare la profondità, la bellezza, la gioia di condividere storie, vite, vicende attraverso il canto. È una festa di musica partecipata da centinaia di persone dall’Italia e dal mondo, un’occasione originale e rara in cui non ci si scambia bigliettini da visita ma stornelli, strofe, melodie, nuove interpretazioni. Ecco, l’auspicio è che si trovino forme nuove di danza, di teatro, di drammaturgia radiofonica, di disegno, di pittura, di video-arte, di gioco, per traslocare la storia orale dagli scaffali in cui è conservata nei corpi delle persone. Chi ha mai provato l’esperienza di cantare insieme ha sperimentato come la voce, il corpo, il respiro si sappiano impastare con i contenuti dei testi, una interpretazione che è capace di diventare immedesimazione e incarnazione. Se il “lara, lallara, lallara, lallalà; lara, lallara, lallara, lallà” di Te possino dà tante cortellate si scandisce e sussurra, ogni “lalllara” è una lama sottile che infilza e punisce. E se la storia cantata è una storia collettiva, allora la sofferenza del disertore, la rabbia del partigiano, il livore dell’operaia sfruttata diventano sentimenti e vicende possibili da ascoltare, imparare, ragionare, cantare. Così quella sintesi “ascolti, impari, ragioni, canti” diventa formula antitetica al “produci, consuma, crepa”. (marzia coronati)
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Una storia quasi soltanto mia. Un ricordo di Licia Pinelli
(un disegno di mario damiano) È scomparsa ieri all’età di novantasei anni Licia Rognini Pinelli, moglie di Giuseppe Pinelli , ferroviere anarchico ingiustamente accusato per la strage fascista di Piazza Fontana e morto il 15 dicembre 1969 nei locali della questura di Milano, durante l’interrogatorio da parte della polizia. Pubblichiamo in suo ricordo un estratto da Una storia quasi soltanto mia. La breve vita di Giuseppe Pinelli, anarchico, libro scritto da Licia Pinelli e Piero Scaramucci e pubblicato nel 1982. *     *     *  Quando ha cominciato a pesarti questa solitudine? Avevo molto da fare, e poi era una cosa solo mia. Non avevo né voglia né tempo di pensare alla solitudine. Si stava conducendo una battaglia politica. Battaglia politica sulla diffamazione, sul fatto che la gente capisse. Quando il fatto di Pino era successo da poche ore un amico mi ha portato un giornalista dell’Unità, Wladimiro Greco: “Signora se lei potesse che cosa direbbe?”. Non so se la risposta ha soddisfatto il giornale perché poi non è uscito niente. Io gli avevo detto: “Lei faccia un appello ai parenti delle vittime di piazza Fontana che non si accontentino della verità ufficiale ma che cerchino la verità, che non sono gli anarchici. E non si accontentino di quello che gli stanno raccontando”. Poi non se n’è fatto niente, logicamente, perché sai come si sono mantenuti cauti. Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo. Dopo la bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione pubblica ha cominciato a capire. Non tutti e non subito. Non da subitissimo, alcuni dopo qualche giorno hanno cominciato a chiedere di più di una versione ufficiale, ma non su tutti gli anarchici, si sono cominciati a porre delle domande su Pino. C’era un’atmosfera come se fossero attoniti, come se la sinistra fosse stata presa in contropiede, uno sbigottimento. Poi c’è stato il capovolgimento, le persone più intelligenti si sono poste subito delle domande, le persone più intuitive, alcuni giornalisti, la Cederna, Stajano, Nozza, Nozzoli, l’avvocato Malagugini e tanti altri. Te lo ricordi come si sono comportati i giornali, le dichiarazioni degli uomini politici? Vedi, io ricordo e non ricordo. Andavo avanti per la mia strada e non mi importava di niente. Quando mi venivano a dire: “Hai visto che bell’articolo?”. “Benissimo”, era giusto che fosse così. Qualcuno mi pare ha messo “suicidio” con il punto interrogativo. C’è stato un giornale che è uscito così. I miei amici mi toglievano accuratamente i giornali dalle mani, i primi giorni.  Non c’è stato un momento in cui ti sei resa conto che il nome di Pino era diventato una bandiera? Nelle prime ore dopo la strage di piazza Fontana pochissimi hanno reagito contro la tesi della pista anarchica. Quando è morto Pino hanno cominciato gli anarchici, alcuni democratici, qualche gruppo della sinistra extraparlamentare, poi i partiti di sinistra… Mi ricordo la gente non politica in quei giorni, cioè la reazione di gente comune che mi dava solidarietà. Quelle lettere, quei biglietti che ti dicevo, in portineria, ai primi di gennaio, con pacchi, regali… Persone completamente estranee che mi scrivevano parole di incoraggiamento, di conforto. I vicini che erano sempre per casa ad aiutare, e nessuno di loro ha mai detto ai giornali una parola che non fosse positiva su Pino, sulla famiglia. Molte volte anche i giornalisti mi vivevano più come una persona che come un caso. C’era Manrico Punzo dell’Avanti! che per la Befana è venuto con due bambole, bellissime, che abbiamo ancora e poi è tornato e mi diceva di suo padre che era stato confinato dai fascisti a Ventotene dove il direttore del carcere era Marcello Guida, proprio lui, il questore di Milano che io avevo denunciato. Un altro era un ragazzo di Stop che mi voleva intervistare ma io preferivo non dare interviste e lui è rimasto lì due ore a parlare e mi ha raccontato tutta la sua vita. Era molto nervoso e gli ho regalato un pacco di tranquillanti che mi aveva portato un amico medico. Io non volevo prenderli. In quei giorni sono venuti anche i socialisti della sezione Torchietto con una colletta e tante lettere, molto a livello umano più che politico. Era come una carezza avvolgente che mi consolava. Ti dicevo che pian piano Pino era diventato una bandiera. Sono cominciate assemblee di movimento, di giornalisti democratici, si sono mossi i partiti della sinistra. Anche i magistrati democratici avevano trovato una base di lotta. C’erano manifestazioni contro la strage di Stato, scontri con la polizia, sui muri di Milano centinaia di scritte per Pino e per Valpreda, volantini, articoli, libri alimentati dalla controinformazione che faceva la sinistra. In tutto questo crescere di mobilitazione il nome di Pino era diventato un simbolo, un punto di riferimento per una parte della società. Tu te ne rendevi conto? Me ne rendevo conto sì, anche se era una cosa al di fuori di me. Io non avevo una visione politica, una esperienza. Il movimento studentesco lo conoscevo per sentito dire, me ne parlavano gli amici: la Statale allora non sapevo nemmeno dove fosse. Sarà stata la mia natura. Non ero abituata, non l’avevo mai fatto. Io facevo questa cosa strettamente legale. Giravo in macchina da un avvocato all’altro, quella era la mia vita e non vedevo altro attorno. Non hai mai avuto l’incubo di camminare in un tunnel buio? Cammini lo stesso e vai. Speri di avere qualcuno che ti aiuti, però vai lo stesso, ciecamente. Perché questa immagine del buio? È quello che mi è venuto in mente, che andavo così… Vedevo solo quello che volevo fare, solo quello. Non pensi, oggi, di esserti troppo isolata dal resto del movimento? Forse se non fossi stata così staccata dalla vita politica avrei fatto delle cose diverse, avrei agito nel collettivo. Ma non posso criticarmi o lodarmi oggi. Sono gli altri che devono giudicare, se questa esperienza può servire a qualcuno. A gennaio Lotta continua aveva cominciato ad attaccare il commissario Calabresi accusandolo apertamente di avere ucciso Pino. Sono uscite una serie di articoli e le vignette di Roberto Zamarin, ti ricordi quei primi numeri? Compravamo molti giornali per avere le diverse versioni, ma non conoscevo Lotta continua, più tardi me l’hanno segnalato e ho visto qualche vignetta, con ritardo. Poi naturalmente me ne sono interessata quando c’è stata la prima querela di Calabresi, in maggio. Quello che ricordo è che Calabresi ha dovuto querelare per tre volte Pio Baldelli, che firmava Lotta continua, la magistratura sembrava che non avesse molta voglia di fare il processo. Mi ricordo che ci fu uno scandalo su alcuni giornali, si diceva che il procuratore De Peppo si teneva le denunce nel cassetto, e si arrivò fino a ottobre per avere il processo. Che ne dicevate nel vostro gruppo? Non c’era una questione di priorità, l’importante era arrivare in tribunale. Noi nel frattempo avevamo aperto una causa civile, che poi si è trascinata a lungo, non ti dico quanto, perché erano tutti con il fiato sospeso a vedere come andava a finire il processo Calabresi-Lotta continua. Comunque per noi andava bene. Con queste tre querele si andava finalmente in tribunale e quando c’è un dibattimento pubblico qualcosa salta fuori. Non hai mai avuto paura che uscisse fuori qualcosa contro Pino? Io ero certa di lui. Gli altri potevano non esserlo. Anzi avevo preso un impegno con gli amici del gruppo di non nascondere niente. Se fosse venuto fuori qualcosa di cui fossi stata all’oscuro avevo preso l’impegno di dirlo e l’avrei mantenuto. Come potevi essere certa che Pino non avesse per esempio delle conoscenze che gli avessero fatto fare qualche passo falso? Vedi, la casa era molto piccola, le telefonate le prendevo io, si sentiva tutto attraverso le pareti, leggevo la posta. Pino poi con me era trasparente, magari voleva tacermi qualcosa ma finiva sempre per dirla, le bugie non era in grado di raccontarle perché aveva un suo modo di esprimerle che le capivo subito. Ci capivamo molto. Il trovarsi d’accordo nelle sfumature e nelle risposte da dare agli altri, guardarsi ed essere veramente d’accordo sulla frase che io sto dicendo e lui la sta dicendo nello stesso modo, sulla stessa lunghezza d’onda, con un’occhiata. C’era un quiz in tv: si presentavano due coppie, di ogni coppia uno doveva rispondere a una domanda e l’altro, della stessa coppia, che non sentiva, doveva dare la stessa risposta. Come affinità elettive. Ecco, Pino aveva mandato la domanda di partecipazione, non so se ti ho risposto. Eravamo cresciuti bene insieme. A ogni modo avevo preso questo impegno e l’avrei mantenuto costasse quel che costasse. Era un rischio da correre. Anche se c’è stata una volta che ho avuto la tentazione di nascondere una cosa. Dopo l’autopsia. Gli avvocati mi hanno detto che c’erano dei segni sulle gambe. Io sapevo che Pino si era fatto male in ferrovia qualche giorno prima ma sul momento sono stata zitta. È durato poco, poi l’ho detto. Che cosa potevano sembrare quei segni? Picchiato. La tentazione è stata forte, ma è stata l’unica volta. Anche perché io non volevo nascondere niente, volevo difendere Pino e le sue idee. Perché morire solo per delle opinioni politiche… Te lo sarai sentita dire, magari con delicatezza perché eri la vedova: se fosse stato tranquillo, se non avesse fatto politica, se non fosse andato in giro… Senza tanti complimenti me lo sono sentita dire. Per conto mio possono prendere un impiegato di banca, accusarlo di qualsiasi cosa. Cioè il tipo tranquillo, che non fa politica, casa, chiesa, lavoro. Può capitare in qualche cosa che non dovrebbe né vedere né sentire, e diventa un capro espiatorio, è molto facile. È successo a Pino perché era anarchico, domani può succedere a qualsiasi altro, non importa se fa politica, se ha idee politiche o anche se è senza fede politica. Non è che ci sono sempre gli anarchici, può capitare a tutti. Se la gente riuscisse a capire questo. Perché c’è sempre bisogno di un capro espiatorio quando non si vogliono scoprire i colpevoli e il capro espiatorio diventa il mostro. Ti ricordi cosa aveva detto mia suocera quella notte: “Licia, vedrà, domani, i giornali, adesso lui diventerà il colpevole di tutto”. “Hanno sbagliato”, le risposi. “Dovevano buttarne giù un altro. Ora faranno i conti con noi”.
storie
“Vi prego, mai più la neuro!”. La linea sottile tra ragione e follia
(disegno di nando gaeta) Sono salita sulla barca della follia e non sapevo dove mi portasse. Sono tornata a casa mia ed è più bella che mai. Potremo dire che la follia esiste, è variopinta, è pittoresca, talvolta grottesca. Ma a volte è la normalità a essere più spaventosa, terrificante, raccapricciante e strana. È sottile la linea tra ragione e follia. Potrei raccontare la mia esperienza nei fatti così come sono andati o potrei raccontare la stessa storia dalle mie interiora, così com’è stata vissuta dentro di me. Prima di lasciarvi entrare nel mio mondo interiore, lascio a voi giudicare quanto è stato lungo il mio cammino. Ero fortemente ribelle e spaesata, quando un giorno in preda alla disperazione riempivo sacchetti della spazzatura della mia roba per andare via di casa, venni fermata da mia madre e durante il nostro successivo litigio mentre tagliavo una bistecca gridai: “Basta!”. Infilando il coltello nella carne le mie dita scivolarono sulla lama, il mignolo e l’anulare si tagliarono, corremmo al pronto soccorso; mentre un medico mi metteva con estremo dolore i punti, strillavo, arrivarono due psichiatri… Mi dissero che dovevo seguirli, arrivati al reparto non potevo accettare quello che stava accadendo, mi opposi con tutto il mio dissenso e mi fecero firmare un foglio che firmai con: “X”. Così T.S.O. Come si direbbe, feci la pazza pur di evitare quell’esperienza, firmando con le mie stesse mani la mia condanna. Una settimana con mia madre che dormiva nella stanza di ospedale che li obbligò a restare con me, mio padre mi portò a uscire una sera. La mia ribellione non serviva a niente, la mia voce non la sentiva nessuno e nemmeno sapevo usare la mia voce e nemmeno sapevo parlare. Quanti al mondo soffrono e non hanno attenzione, e sono abbandonati al loro destino? O non sanno di stare male. Quella voce fu così sentita come un problema e un problema mio, inutile urlare, inutile pensare di cambiare questo mondo. Non riuscii a collocare quell’esperienza fittizia e buia, mi rimase dentro come qualcosa che si insinua e non ti lascia più in pace, feci i conti con parti di me misteriose, qualcosa che racchiude l’umanità tutta ma che viene tenuto distante dalla coscienza e dagli occhi, il dolore di solito viene evitato. Intrapresi un cammino in bilico, fino a undici anni dopo, duranti i quali mi laureai, iniziai a meditare e trovai una sorta di equilibrio, tra il mondo dentro e un mondo fuori sempre più brutto. In questo dentro e fuori riuscivo a chiudermi e riaprimi, fino all’esordio della pandemia che mi vide comprare carta e colori per chiudermi in casa e disegnare più che mai, la chiusura aumentava fino al giorno in cui decisi di rompere tutti quei bellissimi disegni, da questo punto bastò poco per passare ai miei vestiti, ai miei oggetti. Fatta a pezzi me passai alla casa, in particolare le finestre. La parte peggiore e in cui peggiorai fu tutta l’estate; mia madre non sapeva come e cosa fare, così si sentì obbligata a chiedere soccorso ad alcuni medici di sua conoscenza. Mi vidi circa sei persone sconosciute fuori la porta di casa, mentre mi accingevo a mangiare un pranzo, presi un telefono per protezione e pensai che erano i vicini che si erano venuti a lamentare, tutti mascherati sfilarono una siringa e così feci mente locale, andammo all’ospedale con un’auto e ho dimenticato quanto accaduto da quella siringa a due giorni dopo, nel letto del reparto psichiatrico in cui ero. Aprii gli occhi e c’era mio padre, mai come in quel momento presente a vegliare su di me, chiesi che ora fosse ed ebbi una delle esperienze più importanti della mia vita. In quanto ho imparato ad accettare gli eventi e le cose anche le più dolorose, quel ricovero era stata una benedizione, un’esperienza che nel suo estremo trova la via d’uscita, una fine e un inizio, un cambiamento, una soluzione. Rimasi un mese nel reparto prima di poter essere dimessa, per via dei miei valori ematici mi trovarono in pessime condizioni e la ripresa fu lenta. Non si potrebbe raccontare una storia così? Storie invisibili, dovremmo nasconderci? Non ho niente da nascondere, ma è bene lasciare nella riservatezza una cosa simile, per protezione; è facile giudicare, stigmatizzare, solo perché non si comprende, non si può comprendere. Non si può capire. Quindi è un atto di anonimo coraggio rendere nota la mia esperienza, non sono una vittima e non mi sento colpevole, sono consapevole di aver sofferto e se questo era l’unico modo, l’unica estrema via per tirarmi fuori dal posto irraggiungibile in cui ero chiusa, in cui ero rimasta, ebbene mi ha aiutato, perché ora sono salva, ora sono qui. Per un pelo a volte ci si può ritrovare dall’altro lato, senza nemmeno accorgersene. Qualcuno chiama la “neuro”. Basta! Vi prego, mai più neuro.  Durante quel mese in ospedale c’era Raffaele, correva avanti e indietro per il corridoio del reparto e si truccava, una volta mi colpì la gamba. Un giorno c’era gente che entrava e usciva dalla stanza di Raffaele, morì d’infarto, un cuore infranto aveva Raffaele. C’era Antonio che mi rubò il rossetto per scrivere sulle finestre e sui muri del cortile, fu divertente. C’era Giovanna, mangiona, rubava il cibo a tutti, ingurgitava roba e non le bastava mai, diceva parolacce a chiunque. C’era un ragazzo che barcollava in corridoio; perso nel vuoto, cadde a terra. Ce ne era un altro che aggredì l’infermiere per prendere le chiavi del reparto. Avevo fatto due amici, Carla e Francesco, mi fecero entrambi un regalo prima di andare via. Francesco fu trasferito a vivere in una struttura, lo avevano trovato solo e malandato a casa sua, mi raccontò la sua storia ed era felice di andare a vivere in una struttura. Carla invece si sentiva tradita dal fratello che l’aveva fatta ricoverare, lei non stava così male, ma soffriva, fu una vera amica in quel momento, ci scambiammo i numeri. Il fumo era il passatempo ideale, l’accendino ce lo aveva l’infermiere, avevamo un cortile grande in cui stare e non era male. Al cambio turno degli infermieri c’era sempre un momento in cui restavamo soli, a me faceva paura, davano tutti di matto. Ricordo molti bussare alla porta chiusa che ci teneva barricati; battere ossessivamente, forsennatamente. Ho avuto bisogno di un mese di silenzio dopo essere uscita per riprendermi da tutto quel chiasso e casino, mi facevano male le orecchie. Alcuni medici si presero cura di me, tra colloqui e farmaci ero tornata normale; era fisso l’appuntamento in ospedale, un punto di ritrovo tra salute e malattia, unica via era il compromesso: prendi i farmaci e sarai libero. Ma erano bravi medici, mi apprezzavano come persona e riscontravano in me un’intelligenza e sensibilità sopra la media, dissero che erano contro le diagnosi e il mio disturbo era dovuto a una permeabilità, quindi il farmaco mi serviva come impermeabile, come una protezione. Per i successivi due anni feci un progressivo scalaggio delle medicine, o meglio della medicina, una sola pastiglia al dì. Stavo meglio, miglioravo, ero parte del mondo anche io, chiesi di fare una prova e sospendere questa pillola, sentivo di potercela fare e che non sarebbe mai più potuto ricapitare né un ricovero in ospedale, né di stare male. Mi vennero incontro, confidavano che ce la potessi fare e così sospendemmo la medicina. All’inizio andò bene, mi sentivo forte e mi era ritornata l’energia, ero felice. Ma qualche mese dopo, insieme a una serie di eventi stressanti anche blandi, ritornai gradualmente a chiudermi, di nuovo estate e di nuovo raggiungevo quel recondito mondo interiore da cui la percezione del tempo si alterava e la sensazione era quella di aver assunto una droga psichedelica, anche se non ho mai provato droghe psichedeliche; era come un viaggio, come partire per raggiungere un altro luogo della coscienza, della mente; la realtà non era più la stessa. Fu breve, fu lieve. Mia madre si accorse in tempo, non ero ancora andata molto lontano, c’ero, ero presente ma leggermente alterata. Stavolta fu diverso. Chiamò il 118, non ritenevano la mia situazione grave, stavano per andare via ma pregai mia madre di portarmi di nuovo dentro, c’era comunque uno dei medici che mi seguiva. Presi per la prima volta in vita mia un’ambulanza, alle cinque del mattino senza sirena, nessuno fu violento, ero tranquilla e il medico mi chiese se era “volontario”? Io dissi certo dottore che è volontario, ma dovevo vederla. Aspettai a lungo il suo arrivo. Anche la volta precedente fu volontario (T.S.V.) con la differenza che, mentre ero tranquilla e seduta su un muretto, l’infermiere di punto in bianco mi afferrò scaraventandomi a terra, senza un reale motivo, fu una reazione gratuita dato che io acconsentivo ad andare con loro senza fare alcuna opposizione. Poi si scusarono. Come questa volta, senza violenza, entrai volontaria in reparto, era arrivato il momento di riprendere quel farmaco, non aveva funzionato. Furono dieci giorni e questa fu l’ultima volta della mia vita. Il reparto era cambiato, la pandemia era finita, solo due anni dopo di nuovo dentro. C’è da dire che al pronto soccorso in qualsiasi stato si arrivi quando si tratta di psichiatria sulla cartella scrivono lo stesso per tutti: “stato di agitazione psico-motoria”; e c’è da dire che la cosa più ingiusta e brutta è sempre presente nella cartella clinica di chi va a finire in psichiatria, un foglio su cui è scritto “il soggetto X è infermo di mente”; è questo il nome, l’atto più disumanizzante di tutta la faccenda, la burocrazia che nel fare i conti con certe dinamiche dell’umanità umilia la tua dignità di essere un umano con una storia, con una vita, con un dolore… Leggere la mia cartella è stata la cosa più brutta che mi potesse capitare. Durante l’ultimo ricovero in quei dieci giorni, c’era la televisione, guardavo Blob mentre tutti erano già a dormire. Aiutavo Silvia che aveva paura di lavarsi i denti, litigai quasi con un eroinomane che urlava “datemi il metadoneeee”. Diedi consigli sulla pelle a un signore che stava per essere trasferito in Puglia e aveva proprio bisogno di una crema per il viso. Indicai quale fosse il medico più adatto ed esperto in farmacologia a una signora che mi chiese consigli. Disegnavo, fumavo e parlai con un tirocinante, un ragazzo non di qui. Il dottore scherzava con me che sarei mancata al reparto, mi accompagnarono i medici a casa, fu commovente. Mi sentivo indubbiamente voluta bene da loro… (lisa more)
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La parola della settimana. Pesce
(disegno di ottoeffe) Il tuo cognome: Pesce… mi ha sempre impressionato, io non ti avrei sposato, te dico ‘a verità. Io fo’ Casato Aprile, che bella novità: ‘e nozze Pesce & Aprile, vattenne ‘a parte ‘e là. (ria rosa, non mi seccare) Il mito vuole che le mummie siano state inventate da Iside, dea della vita e della guarigione. Iside era sorella e moglie di Osiride, e insieme a lui ha governato l’Egitto per migliaia di anni. Ma Osiride aveva un fratello, Seth, che bramava la sua morte per poter prendere il potere, e che stava per riuscirci, tanto che a un certo punto arrivò a imprigionarlo in un sarcofago e a gettarlo nel Nilo. Seth, però, non aveva fatto i conti con Iside. La dea, appresa la notizia, si butta nel fiume, si mette a cercare e trova il sarcofago con il cadavere di Osiride, finito in riva al mare dentro a un albero. Una volta che lo ha recuperato, mummifica suo fratello-marito per non far disperdere la linfa rimasta e lo mantiene in qualche modo in vita. Dopodiché, prende della terra e dei semi d’orzo e gli fabbrica un pene nuovo di zecca, perfettamente eretto, incastrandolo all’interno della mummificazione. Ci fa l’amore e al primo colpo rimane incinta di quello che diventerà il loro figlio, Horus. Seth ovviamente è disperato, ma non rinuncia ai suoi piani: si impossessa di nuovo del corpo di Osiride, lo smembra e ne sparge i pezzi per tutto l’Egitto, senza ricordarsi della caparbietà di sua cognata, che infatti dopo una lunga ricerca li recupera tutti. Meno uno: il pene, che si scoprirà poi essere stato mangiato da un pesce nel Nilo. Il resto della storia è ancora più bello: Iside si uccide, raggiungendo Osiride e diventando regina dell’oltretomba, mentre Horus fa fuori suo zio (tentando tra l’altro di sodomizzarlo) e prende possesso del regno. Ciò che qui importa, però, è che da quel momento una città del centro dell’Egitto acquisisce un nuovo nome (Per-Medjed, nella lingua del tempo), assumendosi la paternità del “pesce-elefante” che aveva mangiato il fallo di Osiride, che diventa da quel momento sacro. Molti studiosi fanno risalire a quel momento l’associazione (sacrale e ideale) tra il membro maschile e il più noto abitante dei mari del nostro globo terraqueo. Agata! Tu mi capisci. Agata! Tu mi tradisci. Agata! Guarda!… Stupisci! Ch’è ridotto quest’uomo per te. (pisano-cioffi, agata) Lunedì sono iniziati a piazza Municipio i lavori per l’installazione del Pulcinella di Gaetano Pesce. Si tratta di una doppia installazione, in realtà, dal nome Tu sì ‘na cosa grande, composta da un Pulcinella conico di dodici metri e da una seconda scultura “La freccia nel cuore”, realizzata nell’ambito del progetto “Napoli Contemporanea” (il costo dell’operazione, montaggio compreso, pare si aggiri intorno ai duecentomila euro). Ora, il fatto che si continuino a spendere soldi per opere di puro presunto valore estetico, che al di là di questo presunto valore non stimolano nulla se non la derisione nella maggior parte dei napoletani, non è una novità. Anzi, è un fenomeno che in tempi di terziarizzazione totale dell’economia, e col turismo che si mangia la città, è destinato a crescere di anno in anno. Gli infausti destini della Venere degli Stracci (bruciata da un povero disgraziato che viveva in strada senza il supporto sociale e sanitario di cui aveva bisogno) e della scritta NAPOLI che si è praticamente squagliata al sole prima di essere messa in sicurezza, bastano da soli a risparmiare ulteriori proiettili sulla Croce Rossa e su questa giunta comunale di baroni universitari e nuove volpi della politica. Ma che il Signore assoluto del populismo, quello del Corno gigante, di N’Albero, della pizza lunga due chilometri sul lungomare (poi finita mangiata dei topi) faccia dell’ironia su questo, provando a mettersi stelline che solo lui riconosce, e a riemergere dal dimenticatoio in cui i suoi stessi insuccessi politici (l’ultimo è il capolavoro calabrese) l’hanno ricacciato, forse fa più piangere che ridere. “Allargate ca me tigne!”, dicette ‘o caudararo. Dicette ‘o puorco ‘nfaccia ‘o ciuccio: “Tenimmece pulite!”. Porta Capuana predeca castità! (proverbi napoletani) Giovedì mattina ero un po’ malinconico, così mi sono andato a fare un panino e sono andato a mangiarlo sulla spiaggia di Bagnoli, dove ancora ci sono le barche di legno, davanti al Chiavicone (antico canale per le acque reflue, che pure in altre zone della città assumeva questo nome, dal latino volgare “clavica”, derivato a sua volta dal classico “cloaca”, ovvero “fogna”). Lì ho conosciuto P., un bambino che se n’era sceso a mare con la sua canna da pesca e il relativo necessaire, aveva infilato una sedia di ferro nella sabbia, con metà delle gambe in acqua, e approfittava del mare agitato per fare man bassa di orate, cefali e spigole. I pesci più piccoli, come fanno i veri pescatori, li ributtava a mare. Ho chiesto a P. se gli piace pescare sott’acqua, e gli ho raccontato di un libro in cui tre ragazzini stanno pescando non lontano dalla barca di loro padre Thomas Hudson, e a un certo punto si ritrovano davanti un gigantesco squalo martello. Mi ha detto che non l’ha mai fatto, ma non sa se gli piacerebbe, poi mi ha detto che era meglio andare a casa perché di lì a poco sarebbe venuto a piovere. Non mi ha chiesto se i ragazzi si salvano oppure no. La cosa che gli fece più impressione fu la grande altezza della pinna, il modo in cui girava e cambiava bruscamente direzione, come un segugio sulle tracce di un animale, e il modo in cui avanzava, con la crudeltà e la decisione di una lama. Imbracciò la carabina e sparò davanti alla pinna, a pochi centimetri di distanza. Il colpo non andò a segno e sollevò uno spruzzo d’acqua, e allora Thomas Hudson ricordò che la canna era unta d’olio e appiccicosa. La pinna continuava minacciosamente ad avvicinarsi. […] Thomas Hudson cercava di essere sciolto ma fermo, cercava di trattenere il respiro e di non pensare ad altro che al tiro. […] Da poppa udì un mitra sgranare il suo rosario e vide spruzzi d’acqua levarsi tutt’intorno alla pinna. […] La pinna andò sotto e nell’acqua ci fu un ribollire e poi il più grande squalo martello che avesse visto prese a planare follemente nell’acqua, rovesciato sul dorso, sollevando due baffi di schiuma come un acquaplano. […] «Sei stato in gamba, Davy», disse Tom junior fieramente. «Aspetta che lo dica ai ragazzi della mia scuola». «Non ci crederanno. Non dirglielo se vengo». «Perché?», chiese Tom junior. «Non so», disse David. E scoppiò in lacrime come un bambino piccolo. «Oh merda, se non ci credessero non resisterei». Thomas Hudson lo sollevò e lo tenne in braccio con la testa sul petto, e gli altri ragazzi si voltarono dall’altra parte. Poi arrivò Eddy con tre bicchieri in uno dei quali aveva infilato il pollice. Thomas Hudson capì subito che giù se n’era scolato un altro. «Che ti piglia, Davy?», chiese. «Niente». «Bene, così mi piace sentirti parlare, vecchio figlio di puttana. Ora scendi, smettila di piagnucolare e lascia bere il tuo vecchio». (ernest hemingway, isole nella corrente) (a cura di riccardo rosa)
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