(disegno di francesca ferrara)
Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo
all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di
raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su
famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.
Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva
il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo
costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con
papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi
insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila
lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa
palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta
indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento,
nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare.
Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e
dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso
della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud,
avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava
degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo
dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi
sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in
fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte
all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990.
Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro
facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri
nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni.
Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in
cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un
tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il
capoturno diceva che bisognava accelerare.
I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a
Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo
che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai
circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte
dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”,
sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare
prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando
poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto
riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco,
tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre.
Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie.
Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra
la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro
e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa
non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo
là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato
pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E
poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo.
Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e
poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho
rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza
di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a
Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e
tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno.
Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro
Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il
licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi
avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti,
di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci
tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che
continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più.
Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si
occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta
milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io
subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La
stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?».
Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi.
Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo,
turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta
la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato.
C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era
l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia
libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente
del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli
anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i
ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati
del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i
trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si
giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata
a mare, c’era un certo benessere.
All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il
giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e
come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano
quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti
pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da
fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi
ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca,
eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare
di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di
sera, e dalle undici alle sette di mattina.
Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in
molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori
mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva
l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto
dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il
circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come
sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte.
Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene
quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come
me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per
diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un
televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno.
Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la
mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare
vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto:
«Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio,
conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna
Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno
pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste
cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino
e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
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(disegno di irene servillo)
Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra
associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli
sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa.
Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un
gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i
nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed
Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La
destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui
non si sono mai più trovate tracce.
Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da
jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice
sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un
infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha
ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile
avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il
messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo
impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia
veritiera.
Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche
iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra
gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma
solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto
di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in
Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul
territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il
nominativo rimane sconosciuto.
Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex
parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi
dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni
migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione
partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a
causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere
telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva
immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e
quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante
l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata.
La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata
al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del
2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di
vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle
Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania.
Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi
dalla stampa.
Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata
decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra
l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti
(Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi
distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo,
i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona
industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta
nessuna traccia.
Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea,
ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì
però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si
sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era
quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso
nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma
all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non
fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più
difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al
suo nome, in caso di ritrovamento.
Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile.
Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la
forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il
mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle
il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo
dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte
all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto
tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di cristina moccia)
Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino
a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro
di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino,
del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di
una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di
salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo
stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà
mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.
* * *
LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza
psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una
residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di
movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori.
RI: Perché sei recluso qui?
LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un
diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società
cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria.
Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’
insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di
psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui
avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di
dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano
arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che
mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di
portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare
da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando
nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina,
allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…».
Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile
dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e
ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la
polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante,
il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino.
RI: Adesso il Sestante è stato chiuso?
LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e
riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle
isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive
ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che
non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo
lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da
lettere dopo due.
RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate?
LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute
Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra
o con lo psicologo.
RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato?
LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza
del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno
processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di
volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo
bianco.
RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”?
LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda
disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né
di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo
in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni
auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto
che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è
discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base
ai criteri della sua Scienza.
RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo
di trattamenti sono sottoposti?
LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato
intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento
farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo
sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli
altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata,
ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al
silenzio.
RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere
alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali…
LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa
età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e
hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio
richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in
questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è
sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo
psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo
psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica
perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi
di dollari all’anno.
RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo
bianco”: cosa vuol dire?
LG: L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un
internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza
limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando
sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato
socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa
probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La
pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello
stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne
chiedono da tempo l’abrogazione.
RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide
dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che
affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che
lottava per la deistituzionalizzazione?
LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma
Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento
libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere
insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di
produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il
carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non
c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene
criminalizzata qualsiasi forma di protesta.
RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di
massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte
altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali
– basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di
precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche
hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in
altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare
di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare
con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella
psichiatria.
LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria
è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa
del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona
imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una
povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non
commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata
come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa
carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è
un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è
strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a
essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta
antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di
servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile.
Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo
in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un
lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole,
attraverso le diagnosi di DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre
patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta
la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo,
secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che
serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una
società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere
psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità,
una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale.
Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a
chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione
pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre
negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un
oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che
molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il
manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale
post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha
le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla
pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti,
territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile
ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica.
RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla
costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria
territoriale oggi?
LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I
reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai
giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi
e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato
fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni,
rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente
venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle
carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle
specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si
passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche
residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi,
dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non
esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di
rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare
cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei
politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione.
Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo
contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a
intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il
trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio,
a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo
trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse
politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle
che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli
aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i
giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che
si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe
riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera
struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque
impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione
ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la
pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che
le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non
hanno l’intenzione di concederla.
(disegno di mario trudu, da: la mia iliade)
A Stefano l’avevano trovato nel bagno dei giardini della Reggia. Erano stati i
custodi a chiamare l’ambulanza. Lui ascoltava il punk. Noi no. Noi in quei
giorni a cavallo tra i Novanta e i Duemila, sotto ai portici del Banco di Napoli
o tra le mura dell’ex Macello occupato di via Laviano, ascoltavamo sempre lo
stesso pezzo, per precisare un’intuizione che a poco a poco diventava
consapevolezza. Come chi gira intorno al problema senza riuscire a risolverlo,
noi cercavamo la risposta in quelle rime senza afferrarla subito, e allora
riavvolgevamo il nastro finché non avremmo messo a fuoco i nostri pensieri.
Occorreva rifletterci, perché quel pezzo metteva in contrapposizione la rivolta
esistenziale e una scelta tragica. Raccontava di un vinto che aveva l’odio per i
ricchi e per le macchine dei poliziotti. Un eroinomane con la fame e il freddo
negli occhi. Non era la voce della capitale romana politicamente ineccepibile a
parlarci, né quella del nord, che pure ci esaltava quando diceva di essere
straniera nella sua nazione. Era la voce di un cafone, e noi ci identificavamo
in quella voce, avevamo bisogno di sentirla mentre descriveva lo scenario
desolante dei paesani, con quelle strade deserte i lunedì sera di febbraio.
Ciò che ci attirava di quel brano era innanzitutto la vicenda, perché ci parlava
come i primi film di Spike Lee noleggiati alla videoteca di via Ferrarecce e che
guardavamo a casa di Tonino – Jungle Fever, con Samuel Jackson che fa la parte
del tossico, Clockers, che apriva con i Croocklyn Dodgers, Fa’ la cosa giusta,
Mo’ Better Blues… Leggere allora non era tra le priorità dell’esistenza. A casa
s’imparava l’arte dell’aggressività; non si parlava ma si urlava, al massimo
c’era qualche enciclopedia impolverata sullo scaffale nel tinello. Al di fuori
dei libri di scuola c’era solo il rap, la breakdance, il pallone e tanti film.
Era molto più incisiva la scena di quel film ambientato nel Bronx, con il padre
che dice al figlio che non c’è cosa più triste nella vita di un talento
sprecato, di qualsiasi saggio sulla condizione post-moderna. I libri dei miei
fratelli erano reliquie da custodire gelosamente, oggetti che destavano timore e
attrazione allo stesso tempo. Guai a chi li toccava. Gli altri titoli di libri
letti allora si potevano contare sulle dita di una mano: Cuore preso coi punti
al supermercato, Le avventure di Gian burrasca, I ragazzi della via Pàl, qualche
fumetto.
Quel libro di Epica che usavo per la scuola, e che la professoressa una mattina
di fine marzo mi chiese di aprire a pagina duecentotrentadue, non era neanche
mio, ma della persona che provava a spronarmi più o meno a vuoto mentre facevo i
compiti. Su quasi tutte le pagine, ci trovavi scritte a penna rossa sulla
rivoluzione, i bolscevichi, i gruppi armati latino-americani, e poi stelle a
cinque punte, falci e martelli, slogan in onore di personaggi a me allora
ignoti, auguri di morte violenta ai fasci.
In classe l’ansia cresceva, in quei giorni. Le interrogazioni si accumulavano
come interessi di soldi presi a prestito. Bisognava prepararsi al peggio. La
bocciatura non era esclusa tra le opzioni del futuro a breve termine, e il
futuro allora era solo a breve termine, il giorno dopo o al massimo l’altro
ancora. Chi cercava di farmi studiare entrava in stanza e mi lanciava una
pallina di mollica di pane addosso. Vedeva che studiavo Leopardi, e allora
iniziava a parlare di quanto Leopardi, a differenza di ciò che raccontava il
libro di testo, amasse la vita (ma allora si può contraddire un libro di
testo?). Una volta, mentre ripetevo Pascoli, mi disse che al poeta lo
arrestarono per via dell’Ode all’anarchico Passanante e che in carcere lo
sodomizzarono. “Seee, lo sodomizzarono…”. Non capivo mai quando scherzasse e
quando invece facesse sul serio. “Ti giuro. Per quattro mesi. Gli fecero passare
la voglia di fare l’anarchico…”.
I compagni di classe erano una spanna sopra in termini di voti e tre sotto in
termini di maturità. La professoressa di italiano era l’unica a trasmettere una
sorta di quiete, come una madre benevola. Noi eravamo i suoi cuccioli del primo
anno: baffi da sparviero, brufoli in faccia, l’autostima sotto le scarpe.
Fumavamo in bagno il puzzone di Di Nuzzo ed entravamo in classe con gli occhi
rossi. Lei raramente alzava la voce, e quella volta in cui reagii all’insulto
del professore di disegno prese le mie difese, costringendolo a chiedere scusa
per avermi chiamato imbecille. Pure se non avevo studiato.
Quella mattina di fine marzo, invece d’interrogarci introdusse l’Iliade. Disse
che il contesto era la guerra di Troia, un conflitto causato dalla dea della
discordia che aveva gettato una mela d’oro con la scritta “alla più bella”
durante un banchetto. Ci parlò di una guerra durata dieci anni, di re e di
guerrieri leggendari come Agamennone, Achille, Odisseo, Ettore, Enea. A un certo
punto alzò la testa. Incrociò il mio sguardo e pronunciò il mio cognome. “Apri
il libro a pagina duecentotrentadue e leggi”, disse soave. Aprii quel libro di
testo pieno di scritte incendiarie. Proprio su quella pagina, una frase a penna
rossa: “Siamo nati per camminare sulla testa dei re”. Schiarendo la voce,
iniziai a leggere: “Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti, ma
Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti
sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor
di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi; il più
spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte,
zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva
la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro,
era ad Achille e Odisseo: perché spesso li svillaneggiava; quel giorno al divino
Agamennone, gracchiando acuto, diceva improperi: contro di lui gli Achei
terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro…”.
“Fermati”, disse la professoressa. Poi continuò: “Ecco Tersite, ragazzi.
Immaginatevi la scena: Agamennone, per mettere alla prova i soldati, propone di
abbandonare la guerra e tornare a casa, ma è tutta una finta. La reazione è
caotica: i soldati lo prendono sul serio e corrono verso le navi. In questo
clima di confusione, questo soldato di nome Tersite si fa avanti criticando
Agamennone per la sua arroganza. Ma la sua ribellione viene zittita da Odisseo,
che ristabilisce l’ordine colpendolo e umiliandolo davanti a tutti”.
“E perché una reazione così esagerata?” – chiese Colantuono dall’altra parte
dell’aula. Lei rispose con calma: “Tersite è un personaggio controverso, è
l’antieroe per antonomasia. La voce del dissenso. Un soldato brutto, sgradevole,
un vinto dall’atteggiamento ribelle. Tersite si distingue per il suo coraggio,
ma anche per la sua sfrontatezza nel criticare Agamennone, il comandante supremo
dell’esercito”.
Era quella, l’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza? La lezione
da ricordare per sempre? Chi è che aveva il diritto di criticare il potere? E
noi da che parte ci dovevamo schierare? Dalla parte di Tersite o di Odisseo?
Bisognava cominciare a scavare più a fondo. Da quel giorno di fine marzo, una
cosa era certa: quella figura umana così tragica di nome Tersite era troppo
familiare per essere epica. L’avevo già incrociata mille volte per strada,
sentita nelle cuffie per bocca di un rapper abruzzese, intravista in quei film
noleggiati in videoteca. Era Stefano, il punk trovato dai custodi nei cessi dei
giardini della Reggia. E ora stava proprio lì, sgradevole e riottoso, fuori la
scuola di quel paesone della provincia meridionale, ad aspettarci al varco dei
giorni a venire. (pomè)
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(disegno di martina di gennaro)
Il 16 novembre scorso, al Centro di documentazione territoriale Maria Baccante
di Roma, i racconti di Alessandro Portelli, Lidia Piccioni, Alessandro Triulzi,
Paolo Isaja e Ambrogio Sparagna si sono alternati nel corso di un incontro di
circa tre ore, organizzato dall’Associazione italiana di storia orale (AISO) in
occasione della sua assemblea annuale. Un tentativo riuscito di ricordare “la
memoria della ricerca della memoria”, grazie alle esperienze di chi da oltre
mezzo secolo raccoglie storia orale.
Doveva essere presente anche Franco Ferrarotti, morto lo scorso 13 novembre.
Così l’incontro ha avuto inizio con l’ascolto di uno stralcio di una sua
intervista, realizzata qualche anno fa dalla storica Giulia Zitelli Conti. Il
sociologo ripercorre i primi passi della sua ricerca: un viaggio in autobus
dall’università sino al capolinea e una esplorazione del territorio raggiunto
(l’Acquedotto felice, San Policarpo, il Quadraro), nel quadrante est della
capitale: “È stata la mancanza di fondi a creare la nostra ricerca sulle
borgate”.
Sono gli anni Sessanta del secolo scorso, chi se lo può permettere parte oltre
oceano, fa ricerca a Chicago, intercetta la vecchia e nuova scuola dell’ecologia
sociale urbana, incontra il collettivo Martin Luther King. Alessandro Triulzi,
dopo l’esperienza statunitense, viaggia anche nell’Africa subsahariana, e lì
raccoglie storia orale, per ricostruire quelle fonti che non è possibile
reperire all’interno degli archivi coloniali, con risultati che lui stesso
definisce discutibili, e questo è un cruciale passaggio: il ragionamento, la
messa in discussione, perché le fonti orali assumono valore storico e
storiografico nel momento in cui si è capaci di analizzarle, di criticarle.
Ascolti, impari, ragioni, canti. È la sintesi ideale di chi lavora con e per la
storia orale.
C’è chi raccoglie suoni e voci con un registratore a nastro, chi si arma di una
videocamera, chi racconta il problema della casa nelle borgate, chi le consulte
popolari che dopo la guerra si preoccupano dei problemi delle periferie. Ci sono
tracce sonore e visive delle lotte, delle battaglie, dei dissidi nelle strade:
sono repertori preziosi, oggi per la maggior parte dispersi e in minima parte
acquisiti dagli archivi Rai. C’è chi vive in provincia e suona con la banda,
canta storie di tradizione, poi conosce musicisti e amanti della musica popolare
e suona fuori dalla provincia, dà il via a un precipitoso contagio e coinvolge
tante bande e tanti suoni. Scende nelle strade delle città, organizza concerti
comunitari, partecipa alla straordinaria esperienza della scuola di musica
popolare realizzata dal circolo Gianni Bosio.
Queste esperienze degli anni Sessanta proseguono nei decenni successivi e
arrivano sino a oggi, passando per la raccolta di racconti dei primi
protagonisti dei fenomeni migratori verso l’Italia (Triulzi ha ricordato il
lavoro fatto all’interno del cosiddetto “Hotel Africa”, il magazzino delle
Ferrovie dello Stato situato alle spalle della stazione Tiburtina di Roma, che è
stato per anni adibito a casa autogestita da centinaia di richiedenti asilo in
attesa di permesso). Di tutte queste ricerche, questi percorsi di raccolta di
memoria spesso frammentati, rimangono tracce sparse, grazie all’archivio del
circolo Gianni Bosio, all’Archivio Memorie Migranti, alla scuola di italiano per
stranieri Asinitas, alla collana di storie sulla città di Roma diretta da Lidia
Piccioni, ai tanti cori di quartiere che conservano e divulgano il canto
popolare.
La scelta del Centro di documentazione territoriale Maria Baccante non è stata
casuale. Il centro conserva l’archivio della fabbrica Viscosa che insisteva nel
parco che lo ospita, e cerca di approfondire temi che sono legati in senso lato
alla documentazione e all’archiviazione. In questa mattinata fredda siamo
riscaldati da racconti appassionati, piccole biografie di ricercatori esperti,
generosi, fini intellettuali fuori dai salotti. Sono storie che hanno arricchito
il bagaglio di conoscenze di chi era ad ascoltare, donne e uomini appassionati
di storia orale, avidi di memoria. Tuttavia, mi pare solo un punto di partenza.
Ora, credo, si può spalancare un portone. Ma come “usare” la storia orale? Oltre
a continuare la raccolta di memoria – esercizio necessario ed essenziale – come
mettere mani in tutta quella già archiviata? Come fare uscire i racconti dai
faldoni, dagli archivi più o meno ordinati, dai cassetti dei ricercatori e
consegnarli alle comunità, ai giovani, alle scuole, ai quartieri e alle strade?
Questa per me è la grande sfida.
All’inizio dell’incontro Sandro Portelli ha ricordato Giuseppe Morandi,
fotografo, cineasta, figura chiave della Lega di cultura di Piadena. Chi ha
avuto la fortuna di partecipare alla festa di Piadena, organizzata ogni anno da
Gianfranco Azzali, lo avrà conosciuto, o avrà potuto assaggiare la profondità,
la bellezza, la gioia di condividere storie, vite, vicende attraverso il canto.
È una festa di musica partecipata da centinaia di persone dall’Italia e dal
mondo, un’occasione originale e rara in cui non ci si scambia bigliettini da
visita ma stornelli, strofe, melodie, nuove interpretazioni. Ecco, l’auspicio è
che si trovino forme nuove di danza, di teatro, di drammaturgia radiofonica, di
disegno, di pittura, di video-arte, di gioco, per traslocare la storia orale
dagli scaffali in cui è conservata nei corpi delle persone.
Chi ha mai provato l’esperienza di cantare insieme ha sperimentato come la voce,
il corpo, il respiro si sappiano impastare con i contenuti dei testi, una
interpretazione che è capace di diventare immedesimazione e incarnazione. Se il
“lara, lallara, lallara, lallalà; lara, lallara, lallara, lallà” di Te possino
dà tante cortellate si scandisce e sussurra, ogni “lalllara” è una lama sottile
che infilza e punisce. E se la storia cantata è una storia collettiva, allora la
sofferenza del disertore, la rabbia del partigiano, il livore dell’operaia
sfruttata diventano sentimenti e vicende possibili da ascoltare, imparare,
ragionare, cantare. Così quella sintesi “ascolti, impari, ragioni, canti”
diventa formula antitetica al “produci, consuma, crepa”. (marzia coronati)
(un disegno di mario damiano)
È scomparsa ieri all’età di novantasei anni Licia Rognini Pinelli, moglie di
Giuseppe Pinelli , ferroviere anarchico ingiustamente accusato per la strage
fascista di Piazza Fontana e morto il 15 dicembre 1969 nei locali della questura
di Milano, durante l’interrogatorio da parte della polizia.
Pubblichiamo in suo ricordo un estratto da Una storia quasi soltanto mia. La
breve vita di Giuseppe Pinelli, anarchico, libro scritto da Licia Pinelli e
Piero Scaramucci e pubblicato nel 1982.
* * *
Quando ha cominciato a pesarti questa solitudine?
Avevo molto da fare, e poi era una cosa solo mia. Non avevo né voglia né tempo
di pensare alla solitudine. Si stava conducendo una battaglia politica.
Battaglia politica sulla diffamazione, sul fatto che la gente capisse. Quando il
fatto di Pino era successo da poche ore un amico mi ha portato un giornalista
dell’Unità, Wladimiro Greco: “Signora se lei potesse che cosa direbbe?”.
Non so se la risposta ha soddisfatto il giornale perché poi non è uscito niente.
Io gli avevo detto: “Lei faccia un appello ai parenti delle vittime di piazza
Fontana che non si accontentino della verità ufficiale ma che cerchino la
verità, che non sono gli anarchici. E non si accontentino di quello che gli
stanno raccontando”. Poi non se n’è fatto niente, logicamente, perché sai come
si sono mantenuti cauti.
Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo. Dopo la
bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano
la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la
sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe
stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per
anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione
pubblica ha cominciato a capire.
Non tutti e non subito.
Non da subitissimo, alcuni dopo qualche giorno hanno cominciato a chiedere di
più di una versione ufficiale, ma non su tutti gli anarchici, si sono cominciati
a porre delle domande su Pino. C’era un’atmosfera come se fossero attoniti, come
se la sinistra fosse stata presa in contropiede, uno sbigottimento.
Poi c’è stato il capovolgimento, le persone più intelligenti si sono poste
subito delle domande, le persone più intuitive, alcuni giornalisti, la Cederna,
Stajano, Nozza, Nozzoli, l’avvocato Malagugini e tanti altri.
Te lo ricordi come si sono comportati i giornali, le dichiarazioni degli uomini
politici?
Vedi, io ricordo e non ricordo. Andavo avanti per la mia strada e non mi
importava di niente. Quando mi venivano a dire: “Hai visto che bell’articolo?”.
“Benissimo”, era giusto che fosse così. Qualcuno mi pare ha messo “suicidio” con
il punto interrogativo. C’è stato un giornale che è uscito così. I miei amici mi
toglievano accuratamente i giornali dalle mani, i primi giorni.
Non c’è stato un momento in cui ti sei resa conto che il nome di Pino era
diventato una bandiera? Nelle prime ore dopo la strage di piazza Fontana
pochissimi hanno reagito contro la tesi della pista anarchica. Quando è morto
Pino hanno cominciato gli anarchici, alcuni democratici, qualche gruppo della
sinistra extraparlamentare, poi i partiti di sinistra…
Mi ricordo la gente non politica in quei giorni, cioè la reazione di gente
comune che mi dava solidarietà. Quelle lettere, quei biglietti che ti dicevo, in
portineria, ai primi di gennaio, con pacchi, regali… Persone completamente
estranee che mi scrivevano parole di incoraggiamento, di conforto. I vicini che
erano sempre per casa ad aiutare, e nessuno di loro ha mai detto ai giornali una
parola che non fosse positiva su Pino, sulla famiglia.
Molte volte anche i giornalisti mi vivevano più come una persona che come un
caso. C’era Manrico Punzo dell’Avanti! che per la Befana è venuto con due
bambole, bellissime, che abbiamo ancora e poi è tornato e mi diceva di suo padre
che era stato confinato dai fascisti a Ventotene dove il direttore del carcere
era Marcello Guida, proprio lui, il questore di Milano che io avevo denunciato.
Un altro era un ragazzo di Stop che mi voleva intervistare ma io preferivo non
dare interviste e lui è rimasto lì due ore a parlare e mi ha raccontato tutta la
sua vita. Era molto nervoso e gli ho regalato un pacco di tranquillanti che mi
aveva portato un amico medico. Io non volevo prenderli. In quei giorni sono
venuti anche i socialisti della sezione Torchietto con una colletta e tante
lettere, molto a livello umano più che politico.
Era come una carezza avvolgente che mi consolava.
Ti dicevo che pian piano Pino era diventato una bandiera. Sono cominciate
assemblee di movimento, di giornalisti democratici, si sono mossi i partiti
della sinistra. Anche i magistrati democratici avevano trovato una base di
lotta. C’erano manifestazioni contro la strage di Stato, scontri con la polizia,
sui muri di Milano centinaia di scritte per Pino e per Valpreda, volantini,
articoli, libri alimentati dalla controinformazione che faceva la sinistra. In
tutto questo crescere di mobilitazione il nome di Pino era diventato un simbolo,
un punto di riferimento per una parte della società. Tu te ne rendevi conto?
Me ne rendevo conto sì, anche se era una cosa al di fuori di me. Io non avevo
una visione politica, una esperienza. Il movimento studentesco lo conoscevo per
sentito dire, me ne parlavano gli amici: la Statale allora non sapevo nemmeno
dove fosse. Sarà stata la mia natura. Non ero abituata, non l’avevo mai fatto.
Io facevo questa cosa strettamente legale. Giravo in macchina da un avvocato
all’altro, quella era la mia vita e non vedevo altro attorno.
Non hai mai avuto l’incubo di camminare in un tunnel buio? Cammini lo stesso e
vai. Speri di avere qualcuno che ti aiuti, però vai lo stesso, ciecamente.
Perché questa immagine del buio?
È quello che mi è venuto in mente, che andavo così… Vedevo solo quello che
volevo fare, solo quello.
Non pensi, oggi, di esserti troppo isolata dal resto del movimento?
Forse se non fossi stata così staccata dalla vita politica avrei fatto delle
cose diverse, avrei agito nel collettivo. Ma non posso criticarmi o lodarmi
oggi. Sono gli altri che devono giudicare, se questa esperienza può servire a
qualcuno.
A gennaio Lotta continua aveva cominciato ad attaccare il commissario Calabresi
accusandolo apertamente di avere ucciso Pino. Sono uscite una serie di articoli
e le vignette di Roberto Zamarin, ti ricordi quei primi numeri?
Compravamo molti giornali per avere le diverse versioni, ma non conoscevo Lotta
continua, più tardi me l’hanno segnalato e ho visto qualche vignetta, con
ritardo. Poi naturalmente me ne sono interessata quando c’è stata la prima
querela di Calabresi, in maggio. Quello che ricordo è che Calabresi ha dovuto
querelare per tre volte Pio Baldelli, che firmava Lotta continua, la
magistratura sembrava che non avesse molta voglia di fare il processo. Mi
ricordo che ci fu uno scandalo su alcuni giornali, si diceva che il procuratore
De Peppo si teneva le denunce nel cassetto, e si arrivò fino a ottobre per avere
il processo.
Che ne dicevate nel vostro gruppo?
Non c’era una questione di priorità, l’importante era arrivare in tribunale. Noi
nel frattempo avevamo aperto una causa civile, che poi si è trascinata a lungo,
non ti dico quanto, perché erano tutti con il fiato sospeso a vedere come andava
a finire il processo Calabresi-Lotta continua. Comunque per noi andava bene. Con
queste tre querele si andava finalmente in tribunale e quando c’è un
dibattimento pubblico qualcosa salta fuori.
Non hai mai avuto paura che uscisse fuori qualcosa contro Pino?
Io ero certa di lui. Gli altri potevano non esserlo. Anzi avevo preso un impegno
con gli amici del gruppo di non nascondere niente. Se fosse venuto fuori
qualcosa di cui fossi stata all’oscuro avevo preso l’impegno di dirlo e l’avrei
mantenuto.
Come potevi essere certa che Pino non avesse per esempio delle conoscenze che
gli avessero fatto fare qualche passo falso?
Vedi, la casa era molto piccola, le telefonate le prendevo io, si sentiva tutto
attraverso le pareti, leggevo la posta. Pino poi con me era trasparente, magari
voleva tacermi qualcosa ma finiva sempre per dirla, le bugie non era in grado di
raccontarle perché aveva un suo modo di esprimerle che le capivo subito. Ci
capivamo molto. Il trovarsi d’accordo nelle sfumature e nelle risposte da dare
agli altri, guardarsi ed essere veramente d’accordo sulla frase che io sto
dicendo e lui la sta dicendo nello stesso modo, sulla stessa lunghezza d’onda,
con un’occhiata. C’era un quiz in tv: si presentavano due coppie, di ogni coppia
uno doveva rispondere a una domanda e l’altro, della stessa coppia, che non
sentiva, doveva dare la stessa risposta. Come affinità elettive. Ecco, Pino
aveva mandato la domanda di partecipazione, non so se ti ho risposto. Eravamo
cresciuti bene insieme.
A ogni modo avevo preso questo impegno e l’avrei mantenuto costasse quel che
costasse. Era un rischio da correre. Anche se c’è stata una volta che ho avuto
la tentazione di nascondere una cosa. Dopo l’autopsia. Gli avvocati mi hanno
detto che c’erano dei segni sulle gambe. Io sapevo che Pino si era fatto male in
ferrovia qualche giorno prima ma sul momento sono stata zitta. È durato poco,
poi l’ho detto.
Che cosa potevano sembrare quei segni?
Picchiato. La tentazione è stata forte, ma è stata l’unica volta. Anche perché
io non volevo nascondere niente, volevo difendere Pino e le sue idee. Perché
morire solo per delle opinioni politiche…
Te lo sarai sentita dire, magari con delicatezza perché eri la vedova: se fosse
stato tranquillo, se non avesse fatto politica, se non fosse andato in giro…
Senza tanti complimenti me lo sono sentita dire. Per conto mio possono prendere
un impiegato di banca, accusarlo di qualsiasi cosa. Cioè il tipo tranquillo, che
non fa politica, casa, chiesa, lavoro. Può capitare in qualche cosa che non
dovrebbe né vedere né sentire, e diventa un capro espiatorio, è molto facile.
È successo a Pino perché era anarchico, domani può succedere a qualsiasi altro,
non importa se fa politica, se ha idee politiche o anche se è senza fede
politica. Non è che ci sono sempre gli anarchici, può capitare a tutti. Se la
gente riuscisse a capire questo. Perché c’è sempre bisogno di un capro
espiatorio quando non si vogliono scoprire i colpevoli e il capro espiatorio
diventa il mostro.
Ti ricordi cosa aveva detto mia suocera quella notte: “Licia, vedrà, domani, i
giornali, adesso lui diventerà il colpevole di tutto”. “Hanno sbagliato”, le
risposi. “Dovevano buttarne giù un altro. Ora faranno i conti con noi”.
(disegno di nando gaeta)
Sono salita sulla barca della follia e non sapevo dove mi portasse.
Sono tornata a casa mia ed è più bella che mai.
Potremo dire che la follia esiste, è variopinta, è pittoresca, talvolta
grottesca. Ma a volte è la normalità a essere più spaventosa, terrificante,
raccapricciante e strana. È sottile la linea tra ragione e follia. Potrei
raccontare la mia esperienza nei fatti così come sono andati o potrei raccontare
la stessa storia dalle mie interiora, così com’è stata vissuta dentro di
me. Prima di lasciarvi entrare nel mio mondo interiore, lascio a voi giudicare
quanto è stato lungo il mio cammino.
Ero fortemente ribelle e spaesata, quando un giorno in preda alla disperazione
riempivo sacchetti della spazzatura della mia roba per andare via di casa, venni
fermata da mia madre e durante il nostro successivo litigio mentre tagliavo una
bistecca gridai: “Basta!”. Infilando il coltello nella carne le mie dita
scivolarono sulla lama, il mignolo e l’anulare si tagliarono, corremmo al pronto
soccorso; mentre un medico mi metteva con estremo dolore i punti, strillavo,
arrivarono due psichiatri… Mi dissero che dovevo seguirli, arrivati al reparto
non potevo accettare quello che stava accadendo, mi opposi con tutto il mio
dissenso e mi fecero firmare un foglio che firmai con: “X”. Così T.S.O. Come si
direbbe, feci la pazza pur di evitare quell’esperienza, firmando con le mie
stesse mani la mia condanna.
Una settimana con mia madre che dormiva nella stanza di ospedale che li obbligò
a restare con me, mio padre mi portò a uscire una sera. La mia ribellione non
serviva a niente, la mia voce non la sentiva nessuno e nemmeno sapevo usare la
mia voce e nemmeno sapevo parlare. Quanti al mondo soffrono e non hanno
attenzione, e sono abbandonati al loro destino? O non sanno di stare
male. Quella voce fu così sentita come un problema e un problema mio, inutile
urlare, inutile pensare di cambiare questo mondo. Non riuscii a collocare
quell’esperienza fittizia e buia, mi rimase dentro come qualcosa che si insinua
e non ti lascia più in pace, feci i conti con parti di me misteriose, qualcosa
che racchiude l’umanità tutta ma che viene tenuto distante dalla coscienza e
dagli occhi, il dolore di solito viene evitato.
Intrapresi un cammino in bilico, fino a undici anni dopo, duranti i quali mi
laureai, iniziai a meditare e trovai una sorta di equilibrio, tra il mondo
dentro e un mondo fuori sempre più brutto. In questo dentro e fuori riuscivo a
chiudermi e riaprimi, fino all’esordio della pandemia che mi vide comprare carta
e colori per chiudermi in casa e disegnare più che mai, la chiusura aumentava
fino al giorno in cui decisi di rompere tutti quei bellissimi disegni, da questo
punto bastò poco per passare ai miei vestiti, ai miei oggetti. Fatta a pezzi me
passai alla casa, in particolare le finestre.
La parte peggiore e in cui peggiorai fu tutta l’estate; mia madre non sapeva
come e cosa fare, così si sentì obbligata a chiedere soccorso ad alcuni medici
di sua conoscenza. Mi vidi circa sei persone sconosciute fuori la porta di casa,
mentre mi accingevo a mangiare un pranzo, presi un telefono per protezione e
pensai che erano i vicini che si erano venuti a lamentare, tutti mascherati
sfilarono una siringa e così feci mente locale, andammo all’ospedale con un’auto
e ho dimenticato quanto accaduto da quella siringa a due giorni dopo, nel letto
del reparto psichiatrico in cui ero.
Aprii gli occhi e c’era mio padre, mai come in quel momento presente a vegliare
su di me, chiesi che ora fosse ed ebbi una delle esperienze più importanti della
mia vita. In quanto ho imparato ad accettare gli eventi e le cose anche le più
dolorose, quel ricovero era stata una benedizione, un’esperienza che nel suo
estremo trova la via d’uscita, una fine e un inizio, un cambiamento, una
soluzione. Rimasi un mese nel reparto prima di poter essere dimessa, per via dei
miei valori ematici mi trovarono in pessime condizioni e la ripresa fu lenta.
Non si potrebbe raccontare una storia così? Storie invisibili, dovremmo
nasconderci?
Non ho niente da nascondere, ma è bene lasciare nella riservatezza una cosa
simile, per protezione; è facile giudicare, stigmatizzare, solo perché non si
comprende, non si può comprendere. Non si può capire. Quindi è un atto di
anonimo coraggio rendere nota la mia esperienza, non sono una vittima e non mi
sento colpevole, sono consapevole di aver sofferto e se questo era l’unico modo,
l’unica estrema via per tirarmi fuori dal posto irraggiungibile in cui ero
chiusa, in cui ero rimasta, ebbene mi ha aiutato, perché ora sono salva, ora
sono qui. Per un pelo a volte ci si può ritrovare dall’altro lato, senza nemmeno
accorgersene. Qualcuno chiama la “neuro”. Basta! Vi prego, mai più neuro.
Durante quel mese in ospedale c’era Raffaele, correva avanti e indietro per il
corridoio del reparto e si truccava, una volta mi colpì la gamba. Un giorno
c’era gente che entrava e usciva dalla stanza di Raffaele, morì d’infarto, un
cuore infranto aveva Raffaele. C’era Antonio che mi rubò il rossetto per
scrivere sulle finestre e sui muri del cortile, fu divertente. C’era Giovanna,
mangiona, rubava il cibo a tutti, ingurgitava roba e non le bastava mai, diceva
parolacce a chiunque. C’era un ragazzo che barcollava in corridoio; perso nel
vuoto, cadde a terra. Ce ne era un altro che aggredì l’infermiere per prendere
le chiavi del reparto. Avevo fatto due amici, Carla e Francesco, mi fecero
entrambi un regalo prima di andare via. Francesco fu trasferito a vivere in una
struttura, lo avevano trovato solo e malandato a casa sua, mi raccontò la sua
storia ed era felice di andare a vivere in una struttura. Carla invece si
sentiva tradita dal fratello che l’aveva fatta ricoverare, lei non stava così
male, ma soffriva, fu una vera amica in quel momento, ci scambiammo i numeri.
Il fumo era il passatempo ideale, l’accendino ce lo aveva l’infermiere, avevamo
un cortile grande in cui stare e non era male. Al cambio turno degli infermieri
c’era sempre un momento in cui restavamo soli, a me faceva paura, davano tutti
di matto. Ricordo molti bussare alla porta chiusa che ci teneva barricati;
battere ossessivamente, forsennatamente. Ho avuto bisogno di un mese di silenzio
dopo essere uscita per riprendermi da tutto quel chiasso e casino, mi facevano
male le orecchie.
Alcuni medici si presero cura di me, tra colloqui e farmaci ero tornata normale;
era fisso l’appuntamento in ospedale, un punto di ritrovo tra salute e malattia,
unica via era il compromesso: prendi i farmaci e sarai libero.
Ma erano bravi medici, mi apprezzavano come persona e riscontravano in me
un’intelligenza e sensibilità sopra la media, dissero che erano contro le
diagnosi e il mio disturbo era dovuto a una permeabilità, quindi il farmaco mi
serviva come impermeabile, come una protezione. Per i successivi due anni feci
un progressivo scalaggio delle medicine, o meglio della medicina, una sola
pastiglia al dì. Stavo meglio, miglioravo, ero parte del mondo anche io, chiesi
di fare una prova e sospendere questa pillola, sentivo di potercela fare e che
non sarebbe mai più potuto ricapitare né un ricovero in ospedale, né di stare
male. Mi vennero incontro, confidavano che ce la potessi fare e così sospendemmo
la medicina.
All’inizio andò bene, mi sentivo forte e mi era ritornata l’energia, ero felice.
Ma qualche mese dopo, insieme a una serie di eventi stressanti anche blandi,
ritornai gradualmente a chiudermi, di nuovo estate e di nuovo raggiungevo quel
recondito mondo interiore da cui la percezione del tempo si alterava e la
sensazione era quella di aver assunto una droga psichedelica, anche se non ho
mai provato droghe psichedeliche; era come un viaggio, come partire per
raggiungere un altro luogo della coscienza, della mente; la realtà non era più
la stessa. Fu breve, fu lieve. Mia madre si accorse in tempo, non ero ancora
andata molto lontano, c’ero, ero presente ma leggermente alterata.
Stavolta fu diverso.
Chiamò il 118, non ritenevano la mia situazione grave, stavano per andare via ma
pregai mia madre di portarmi di nuovo dentro, c’era comunque uno dei medici che
mi seguiva. Presi per la prima volta in vita mia un’ambulanza, alle cinque del
mattino senza sirena, nessuno fu violento, ero tranquilla e il medico mi chiese
se era “volontario”? Io dissi certo dottore che è volontario, ma dovevo vederla.
Aspettai a lungo il suo arrivo. Anche la volta precedente fu volontario (T.S.V.)
con la differenza che, mentre ero tranquilla e seduta su un muretto,
l’infermiere di punto in bianco mi afferrò scaraventandomi a terra, senza un
reale motivo, fu una reazione gratuita dato che io acconsentivo ad andare con
loro senza fare alcuna opposizione.
Poi si scusarono.
Come questa volta, senza violenza, entrai volontaria in reparto, era arrivato il
momento di riprendere quel farmaco, non aveva funzionato. Furono dieci giorni e
questa fu l’ultima volta della mia vita. Il reparto era cambiato, la pandemia
era finita, solo due anni dopo di nuovo dentro. C’è da dire che al pronto
soccorso in qualsiasi stato si arrivi quando si tratta di psichiatria sulla
cartella scrivono lo stesso per tutti: “stato di agitazione psico-motoria”; e
c’è da dire che la cosa più ingiusta e brutta è sempre presente nella cartella
clinica di chi va a finire in psichiatria, un foglio su cui è scritto “il
soggetto X è infermo di mente”; è questo il nome, l’atto più disumanizzante di
tutta la faccenda, la burocrazia che nel fare i conti con certe dinamiche
dell’umanità umilia la tua dignità di essere un umano con una storia, con una
vita, con un dolore… Leggere la mia cartella è stata la cosa più brutta che mi
potesse capitare.
Durante l’ultimo ricovero in quei dieci giorni, c’era la televisione, guardavo
Blob mentre tutti erano già a dormire. Aiutavo Silvia che aveva paura di lavarsi
i denti, litigai quasi con un eroinomane che urlava “datemi il metadoneeee”.
Diedi consigli sulla pelle a un signore che stava per essere trasferito in
Puglia e aveva proprio bisogno di una crema per il viso. Indicai quale fosse il
medico più adatto ed esperto in farmacologia a una signora che mi chiese
consigli. Disegnavo, fumavo e parlai con un tirocinante, un ragazzo non di qui.
Il dottore scherzava con me che sarei mancata al reparto, mi accompagnarono i
medici a casa, fu commovente. Mi sentivo indubbiamente voluta bene da loro…
(lisa more)
(disegno di ottoeffe)
Il tuo cognome: Pesce… mi ha sempre impressionato,
io non ti avrei sposato, te dico ‘a verità.
Io fo’ Casato Aprile, che bella novità:
‘e nozze Pesce & Aprile, vattenne ‘a parte ‘e là.
(ria rosa, non mi seccare)
Il mito vuole che le mummie siano state inventate da Iside, dea della vita e
della guarigione. Iside era sorella e moglie di Osiride, e insieme a lui ha
governato l’Egitto per migliaia di anni. Ma Osiride aveva un fratello, Seth, che
bramava la sua morte per poter prendere il potere, e che stava per riuscirci,
tanto che a un certo punto arrivò a imprigionarlo in un sarcofago e a gettarlo
nel Nilo.
Seth, però, non aveva fatto i conti con Iside. La dea, appresa la notizia, si
butta nel fiume, si mette a cercare e trova il sarcofago con il cadavere di
Osiride, finito in riva al mare dentro a un albero. Una volta che lo ha
recuperato, mummifica suo fratello-marito per non far disperdere la linfa
rimasta e lo mantiene in qualche modo in vita. Dopodiché, prende della terra e
dei semi d’orzo e gli fabbrica un pene nuovo di zecca, perfettamente eretto,
incastrandolo all’interno della mummificazione. Ci fa l’amore e al primo colpo
rimane incinta di quello che diventerà il loro figlio, Horus.
Seth ovviamente è disperato, ma non rinuncia ai suoi piani: si impossessa di
nuovo del corpo di Osiride, lo smembra e ne sparge i pezzi per tutto l’Egitto,
senza ricordarsi della caparbietà di sua cognata, che infatti dopo una lunga
ricerca li recupera tutti. Meno uno: il pene, che si scoprirà poi essere stato
mangiato da un pesce nel Nilo.
Il resto della storia è ancora più bello: Iside si uccide, raggiungendo Osiride
e diventando regina dell’oltretomba, mentre Horus fa fuori suo zio (tentando tra
l’altro di sodomizzarlo) e prende possesso del regno. Ciò che qui importa, però,
è che da quel momento una città del centro dell’Egitto acquisisce un nuovo nome
(Per-Medjed, nella lingua del tempo), assumendosi la paternità del
“pesce-elefante” che aveva mangiato il fallo di Osiride, che diventa da quel
momento sacro. Molti studiosi fanno risalire a quel momento l’associazione
(sacrale e ideale) tra il membro maschile e il più noto abitante dei mari del
nostro globo terraqueo.
Agata!
Tu mi capisci.
Agata!
Tu mi tradisci.
Agata!
Guarda!… Stupisci!
Ch’è ridotto quest’uomo per te.
(pisano-cioffi, agata)
Lunedì sono iniziati a piazza Municipio i lavori per l’installazione del
Pulcinella di Gaetano Pesce. Si tratta di una doppia installazione, in realtà,
dal nome Tu sì ‘na cosa grande, composta da un Pulcinella conico di dodici metri
e da una seconda scultura “La freccia nel cuore”, realizzata nell’ambito del
progetto “Napoli Contemporanea” (il costo dell’operazione, montaggio compreso,
pare si aggiri intorno ai duecentomila euro).
Ora, il fatto che si continuino a spendere soldi per opere di puro presunto
valore estetico, che al di là di questo presunto valore non stimolano nulla se
non la derisione nella maggior parte dei napoletani, non è una novità. Anzi, è
un fenomeno che in tempi di terziarizzazione totale dell’economia, e col turismo
che si mangia la città, è destinato a crescere di anno in anno. Gli infausti
destini della Venere degli Stracci (bruciata da un povero disgraziato che viveva
in strada senza il supporto sociale e sanitario di cui aveva bisogno) e della
scritta NAPOLI che si è praticamente squagliata al sole prima di essere messa in
sicurezza, bastano da soli a risparmiare ulteriori proiettili sulla Croce Rossa
e su questa giunta comunale di baroni universitari e nuove volpi della politica.
Ma che il Signore assoluto del populismo, quello del Corno gigante, di N’Albero,
della pizza lunga due chilometri sul lungomare (poi finita mangiata dei topi)
faccia dell’ironia su questo, provando a mettersi stelline che solo lui
riconosce, e a riemergere dal dimenticatoio in cui i suoi stessi insuccessi
politici (l’ultimo è il capolavoro calabrese) l’hanno ricacciato, forse fa più
piangere che ridere.
“Allargate ca me tigne!”, dicette ‘o caudararo.
Dicette ‘o puorco ‘nfaccia ‘o ciuccio: “Tenimmece pulite!”.
Porta Capuana predeca castità!
(proverbi napoletani)
Giovedì mattina ero un po’ malinconico, così mi sono andato a fare un panino e
sono andato a mangiarlo sulla spiaggia di Bagnoli, dove ancora ci sono le barche
di legno, davanti al Chiavicone (antico canale per le acque reflue, che pure in
altre zone della città assumeva questo nome, dal latino volgare “clavica”,
derivato a sua volta dal classico “cloaca”, ovvero “fogna”).
Lì ho conosciuto P., un bambino che se n’era sceso a mare con la sua canna da
pesca e il relativo necessaire, aveva infilato una sedia di ferro nella sabbia,
con metà delle gambe in acqua, e approfittava del mare agitato per fare man
bassa di orate, cefali e spigole. I pesci più piccoli, come fanno i veri
pescatori, li ributtava a mare.
Ho chiesto a P. se gli piace pescare sott’acqua, e gli ho raccontato di un libro
in cui tre ragazzini stanno pescando non lontano dalla barca di loro padre
Thomas Hudson, e a un certo punto si ritrovano davanti un gigantesco squalo
martello. Mi ha detto che non l’ha mai fatto, ma non sa se gli piacerebbe, poi
mi ha detto che era meglio andare a casa perché di lì a poco sarebbe venuto a
piovere. Non mi ha chiesto se i ragazzi si salvano oppure no.
La cosa che gli fece più impressione fu la grande altezza della pinna, il modo
in cui girava e cambiava bruscamente direzione, come un segugio sulle tracce di
un animale, e il modo in cui avanzava, con la crudeltà e la decisione di una
lama.
Imbracciò la carabina e sparò davanti alla pinna, a pochi centimetri di
distanza. Il colpo non andò a segno e sollevò uno spruzzo d’acqua, e allora
Thomas Hudson ricordò che la canna era unta d’olio e appiccicosa. La pinna
continuava minacciosamente ad avvicinarsi. […]
Thomas Hudson cercava di essere sciolto ma fermo, cercava di trattenere il
respiro e di non pensare ad altro che al tiro. […] Da poppa udì un mitra
sgranare il suo rosario e vide spruzzi d’acqua levarsi tutt’intorno alla pinna.
[…] La pinna andò sotto e nell’acqua ci fu un ribollire e poi il più grande
squalo martello che avesse visto prese a planare follemente nell’acqua,
rovesciato sul dorso, sollevando due baffi di schiuma come un acquaplano. […]
«Sei stato in gamba, Davy», disse Tom junior fieramente. «Aspetta che lo dica ai
ragazzi della mia scuola».
«Non ci crederanno. Non dirglielo se vengo».
«Perché?», chiese Tom junior.
«Non so», disse David. E scoppiò in lacrime come un bambino piccolo. «Oh merda,
se non ci credessero non resisterei».
Thomas Hudson lo sollevò e lo tenne in braccio con la testa sul petto, e gli
altri ragazzi si voltarono dall’altra parte. Poi arrivò Eddy con tre bicchieri
in uno dei quali aveva infilato il pollice. Thomas Hudson capì subito che giù se
n’era scolato un altro.
«Che ti piglia, Davy?», chiese.
«Niente».
«Bene, così mi piace sentirti parlare, vecchio figlio di puttana. Ora scendi,
smettila di piagnucolare e lascia bere il tuo vecchio».
(ernest hemingway, isole nella corrente)
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
La sfortuna non esiste. È una invenzione dei falliti. E dei poveri. (titta de
girolamo, le conseguenze dell’amore)
Durante gli ultimi dieci giorni ho: rotto la cinghia di trasmissione della
macchina, spezzato la chiave del motorino nell’apposita fessura del suddetto,
rotto il bauletto del motorino, rotto una prima volta lo schermo del Mac, perso
il bloccaruote del motorino, azzoppato involontariamente (ma piuttosto
seriamente) un amico giocando a calcetto, con relativi sensi di colpa, rotto una
seconda volta lo schermo del Mac.
L’incredibile sfortuna del cane Stella, adottato e restituito due volte in pochi
giorni (la stampa, 11 settembre)
‘A patenti è una novella di Pirandello scritta in siciliano nel 1911, poi
diventata un atto unico teatrale. Il protagonista è Rosario Chiarchiaro, che a
un certo punto, stanco delle dicerie sul suo conto da parte dei compaesani,
decide che piuttosto che passare il tempo a negare di essere uno jettatore, gli
conviene esserlo davvero. Potrà così chiedere ai superstiziosi una sorta di
tassa per non esercitare il suo influsso, ma per evitare l’accusa di estorsione
ha bisogno che un giudice lo condanni, affibbiandogli una vera e propria
“patente di jettatore”. La storia verrà ripresa insieme ad altre novelle
pirandelliane in un film del 1954, con la regia di Luigi Zampa e la
sceneggiatura di Vitaliano Brancati.
(totò nei panni di rosario chiarchiaro in “questa è la vita”, 1954)
Chiarchiaru, in siciliano, vuol dire frana.
Istat, M5S: con Meloni crescita frana con Conte sempre più boom (agenparl.eu, 23
settembre)
La coppia più sfortunata del mondo. Il viaggio di nozze ricco di catastrofi
naturali (robadadonne.it, 30 ottobre 2017)
Ti ammali in vacanza? Non è sfiga, è scienza! (adnkronos, 13 settembre)
“Salvini porta sfiga”, Ravetto contro Manconi e Zan (tgla7.it, 23 luglio 2024)
Una differenza sostanziale, che si va perdendo in epoca contemporanea, è quella
tra jettatura e malocchio. La prima parola viene dal latino iacere (gettare) e
trova origine forse nell’antica pratica di gettare in mare il carico di una
nave, per alleggerirla, durante le tempeste (“Dura e aspra cosa, a’ marinari,
dover far iattura delle lor mercanzie”, scriveva Buonarroti il Giovane,
pronipote di Michelangelo, a fine 1500). Da iattura arriva jettatore, persona a
cui si attribuisce il potere di esercitare la sfortuna, di far succedere guai
anche involontariamente.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2024/09/colabona.mp4
(credits in nota1)
Se lo jettatore “getta” anche involontariamente lo sguardo su qualcun altro, il
malocchio è sempre frutto di una volontà negativa, provocata per lo più da
sentimenti spregevoli come l’invidia, che d’altronde deriva da in + video,
ovvero “guardare male”, con cattiveria, con gli occhi stretti (“secchi”, come si
dice in napoletano). Un’altra tradizione vuole invece che l’occhio c’entri in
questa storia in quanto parte del corpo della persona maledicente da cui
verrebbe fuori il fluido negativo.
Se fino al Medioevo la capacità di provocare eventi nefasti era connessa per lo
più al malefico e al satanico, è la borghesia illuminista napoletana a sdoganare
la jettatura come atto scientifico, una sorta di compromesso tra le credenze
stregonesche della popolazione e le esigenze razionaliste del secolo dei Lumi
(Benedetto Croce si dice sicuro che fino al 1600 non ci sia traccia in
letteratura del termine “jettatore”). Nel 1787 il giurista e storico del diritto
Nicola Valletta scrive il saggio Cicalata sul fascino, volgarmente detto
jettatura, illudendosi di chiudere per sempre i conti con la magia nera, le
maledizioni, la spossatezza, la nausea, l’insonnia, e soprattutto i terribili
mal di testa provocati dal malocchio.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2024/09/gassman.mp4
(credits in nota2)
Salvatore Colasberna faceva il muratore, dieci anni addietro ha messo su la
cooperativa insieme a due fratelli suoi e a quattro o cinque altri muratori del
paese. […] Tirava avanti alla meglio: si contentavano, lui e i soci, anche di un
guadagno piccolo, come lavorassero a salario. […] Faceva cose solide: e
veramente c’è qui la via Madonna di Fatima, fatta dalla cooperativa sua, che con
tutti gli autocarri che vi passano non si è abbassata di un centimetro. […]
Precedenti penali? Sì. Tre novembre del quaranta… Viaggiava in autobus, a quanto
pare gli autobus erano la jettatura sua. Si parlava della guerra che avevamo
attaccata in Grecia; uno dice: «Entro quindici giorni ce la succhiamo», voleva
dire la Grecia; e Colasberna fece: «E che è, un uovo?». Sull’autobus c’era un
milite: lo denunciò… Come?… Scusate, voi mi avete chiesto se aveva precedenti
penali, io con le carte in mano dico: li aveva. Va bene: non aveva precedenti
penali… Fascista io? Ma io quando vedo il fascio faccio gli scongiuri. Sì
signore, agli ordini. Attaccò il telefono alla forcella con esasperata
delicatezza, si passò il fazzoletto sulla fronte: «Questo qui ha fatto il
partigiano – disse – mi mancava a provare proprio un comandante che ha fatto il
partigiano». (maresciallo ferlisi, il giorno della civetta)
In questi giorni mi capita che per pochi minuti, in momenti ricorrenti della
giornata, mi venga un leggero mal di testa che così come arriva, altrettanto
improvvisamente se ne va. Venerdì, nonostante abbia dimenticato di prendere le
mie medicine, sono stato bene tutto il giorno; ieri (sabato), ho approfittato
del regalo della Snai che quotava la Juve a Genova a 1,70.
I pensieri tossici e possono arrivare a essere molto dannosi, intaccando tutte
le aree della nostra vita. Quando la negatività si innesca, questa dà via a un
circolo vizioso in cui i pensieri negativi rafforzano le emozioni negative, che
a loro volta producono azioni negative. Se il ciclo non viene interrotto,
genererà inevitabilmente un effetto fisico e psicologico sulla persona che ne fa
esperienza. […] Le persone che soffrono di depressione sono più suscettibili a
dare un’interpretazione negativa degli eventi, anche quelli che non hanno un
grande valore in sé, come per esempio vedere delle persone chiacchierare e
pensare che stiano parlando male di noi o perdere l’autobus e convincersi di
essere sempre i soli sfortunati. (viviana cesana, sette consigli per liberarti
dai pensieri tossici)
Nell’articolo sopra citato la dottoressa Cesana presenta anche una serie di
pratiche utili per eliminare i pensieri negativi e – in un certo senso lo lascia
intendere – gli eventi avversi (tra i consigli: fare meditazione, appuntare i
piccoli eventi quotidiani su un quaderno, ma anche riordinare casa e una
disintossicazione digitale).
Non mi toccare il feeling,
la mia fantasia.
Lasciami almeno il mondo
visto a modo mio
[…]
E vedi di non toccarmi il feeling.
No, mai.
[…]
Non mi toccare dentro.
Scherzi a parte, sai
vedi che ti fai male.
Poi fai come vuoi.
(disegno di ottoeffe)
Sono passati quindici anni da quando ho scritto il primo articolo per Monitor,
un’inchiesta sulle case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per il mensile
cartaceo che stampavamo all’epoca. Incontrai un ex compagno di classe a via San
Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa
essere più). Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui
collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti,
persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di
averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una
copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva
pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel
Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.
Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati
arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio
razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo
[…] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali
trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte
seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria,
la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni
dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non
scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a
Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per
essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani.
(salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario
della strage)
Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di
Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei
raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il
giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano,
il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi
hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in
cui non volevo farle. Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano
ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti
ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo
pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere
il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho
scelto di essere infelice a modo mio”.
L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano.
Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una
ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli
articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila
battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al
rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”.
(palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)
L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo
dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e
ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e
mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura
vittime di uno scambio di persona. Forse è che al sangue uno non ci fa
l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio
rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come
i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si
sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente). Fatto sta che, da
quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19
di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla
memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i
poveri e i disperati.
Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto
che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave
dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono
andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi
sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi,
uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe
accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue. Quando il suo amico George lo
uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori
più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio
della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora
una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine
finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.
“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in
fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi
da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio
che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)
Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre
al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto
che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato
in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi,
all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è
stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni
della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni
fa.
Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)
(riccardo rosa)