(disegno di irene servillo)
Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra
associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli
sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa.
Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un
gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i
nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed
Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La
destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui
non si sono mai più trovate tracce.
Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da
jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice
sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un
infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha
ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile
avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il
messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo
impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia
veritiera.
Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche
iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra
gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma
solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto
di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in
Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul
territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il
nominativo rimane sconosciuto.
Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex
parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi
dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni
migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione
partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a
causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere
telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva
immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e
quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante
l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata.
La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata
al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del
2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di
vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle
Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania.
Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi
dalla stampa.
Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata
decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra
l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti
(Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi
distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo,
i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona
industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta
nessuna traccia.
Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea,
ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì
però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si
sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era
quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso
nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma
all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non
fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più
difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al
suo nome, in caso di ritrovamento.
Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile.
Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la
forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il
mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle
il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo
dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte
all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto
tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
Tag - storie
(disegno di cristina moccia)
Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino
a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro
di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino,
del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di
una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di
salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo
stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà
mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.
* * *
LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza
psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una
residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di
movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori.
RI: Perché sei recluso qui?
LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un
diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società
cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria.
Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’
insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di
psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui
avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di
dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano
arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che
mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di
portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare
da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando
nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina,
allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…».
Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile
dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e
ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la
polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante,
il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino.
RI: Adesso il Sestante è stato chiuso?
LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e
riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle
isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive
ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che
non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo
lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da
lettere dopo due.
RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate?
LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute
Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra
o con lo psicologo.
RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato?
LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza
del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno
processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di
volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo
bianco.
RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”?
LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda
disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né
di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo
in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni
auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto
che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è
discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base
ai criteri della sua Scienza.
RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo
di trattamenti sono sottoposti?
LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato
intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento
farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo
sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli
altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata,
ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al
silenzio.
RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere
alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali…
LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa
età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e
hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio
richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in
questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è
sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo
psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo
psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica
perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi
di dollari all’anno.
RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo
bianco”: cosa vuol dire?
LG: L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un
internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza
limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando
sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato
socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa
probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La
pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello
stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne
chiedono da tempo l’abrogazione.
RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide
dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che
affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che
lottava per la deistituzionalizzazione?
LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma
Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento
libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere
insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di
produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il
carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non
c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene
criminalizzata qualsiasi forma di protesta.
RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di
massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte
altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali
– basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di
precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche
hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in
altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare
di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare
con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella
psichiatria.
LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria
è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa
del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona
imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una
povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non
commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata
come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa
carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è
un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è
strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a
essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta
antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di
servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile.
Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo
in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un
lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole,
attraverso le diagnosi di DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre
patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta
la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo,
secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che
serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una
società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere
psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità,
una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale.
Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a
chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione
pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre
negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un
oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che
molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il
manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale
post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha
le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla
pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti,
territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile
ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica.
RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla
costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria
territoriale oggi?
LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I
reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai
giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi
e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato
fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni,
rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente
venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle
carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle
specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si
passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche
residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi,
dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non
esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di
rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare
cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei
politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione.
Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo
contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a
intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il
trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio,
a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo
trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse
politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle
che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli
aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i
giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che
si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe
riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera
struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque
impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione
ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la
pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che
le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non
hanno l’intenzione di concederla.
(disegno di mario trudu, da: la mia iliade)
A Stefano l’avevano trovato nel bagno dei giardini della Reggia. Erano stati i
custodi a chiamare l’ambulanza. Lui ascoltava il punk. Noi no. Noi in quei
giorni a cavallo tra i Novanta e i Duemila, sotto ai portici del Banco di Napoli
o tra le mura dell’ex Macello occupato di via Laviano, ascoltavamo sempre lo
stesso pezzo, per precisare un’intuizione che a poco a poco diventava
consapevolezza. Come chi gira intorno al problema senza riuscire a risolverlo,
noi cercavamo la risposta in quelle rime senza afferrarla subito, e allora
riavvolgevamo il nastro finché non avremmo messo a fuoco i nostri pensieri.
Occorreva rifletterci, perché quel pezzo metteva in contrapposizione la rivolta
esistenziale e una scelta tragica. Raccontava di un vinto che aveva l’odio per i
ricchi e per le macchine dei poliziotti. Un eroinomane con la fame e il freddo
negli occhi. Non era la voce della capitale romana politicamente ineccepibile a
parlarci, né quella del nord, che pure ci esaltava quando diceva di essere
straniera nella sua nazione. Era la voce di un cafone, e noi ci identificavamo
in quella voce, avevamo bisogno di sentirla mentre descriveva lo scenario
desolante dei paesani, con quelle strade deserte i lunedì sera di febbraio.
Ciò che ci attirava di quel brano era innanzitutto la vicenda, perché ci parlava
come i primi film di Spike Lee noleggiati alla videoteca di via Ferrarecce e che
guardavamo a casa di Tonino – Jungle Fever, con Samuel Jackson che fa la parte
del tossico, Clockers, che apriva con i Croocklyn Dodgers, Fa’ la cosa giusta,
Mo’ Better Blues… Leggere allora non era tra le priorità dell’esistenza. A casa
s’imparava l’arte dell’aggressività; non si parlava ma si urlava, al massimo
c’era qualche enciclopedia impolverata sullo scaffale nel tinello. Al di fuori
dei libri di scuola c’era solo il rap, la breakdance, il pallone e tanti film.
Era molto più incisiva la scena di quel film ambientato nel Bronx, con il padre
che dice al figlio che non c’è cosa più triste nella vita di un talento
sprecato, di qualsiasi saggio sulla condizione post-moderna. I libri dei miei
fratelli erano reliquie da custodire gelosamente, oggetti che destavano timore e
attrazione allo stesso tempo. Guai a chi li toccava. Gli altri titoli di libri
letti allora si potevano contare sulle dita di una mano: Cuore preso coi punti
al supermercato, Le avventure di Gian burrasca, I ragazzi della via Pàl, qualche
fumetto.
Quel libro di Epica che usavo per la scuola, e che la professoressa una mattina
di fine marzo mi chiese di aprire a pagina duecentotrentadue, non era neanche
mio, ma della persona che provava a spronarmi più o meno a vuoto mentre facevo i
compiti. Su quasi tutte le pagine, ci trovavi scritte a penna rossa sulla
rivoluzione, i bolscevichi, i gruppi armati latino-americani, e poi stelle a
cinque punte, falci e martelli, slogan in onore di personaggi a me allora
ignoti, auguri di morte violenta ai fasci.
In classe l’ansia cresceva, in quei giorni. Le interrogazioni si accumulavano
come interessi di soldi presi a prestito. Bisognava prepararsi al peggio. La
bocciatura non era esclusa tra le opzioni del futuro a breve termine, e il
futuro allora era solo a breve termine, il giorno dopo o al massimo l’altro
ancora. Chi cercava di farmi studiare entrava in stanza e mi lanciava una
pallina di mollica di pane addosso. Vedeva che studiavo Leopardi, e allora
iniziava a parlare di quanto Leopardi, a differenza di ciò che raccontava il
libro di testo, amasse la vita (ma allora si può contraddire un libro di
testo?). Una volta, mentre ripetevo Pascoli, mi disse che al poeta lo
arrestarono per via dell’Ode all’anarchico Passanante e che in carcere lo
sodomizzarono. “Seee, lo sodomizzarono…”. Non capivo mai quando scherzasse e
quando invece facesse sul serio. “Ti giuro. Per quattro mesi. Gli fecero passare
la voglia di fare l’anarchico…”.
I compagni di classe erano una spanna sopra in termini di voti e tre sotto in
termini di maturità. La professoressa di italiano era l’unica a trasmettere una
sorta di quiete, come una madre benevola. Noi eravamo i suoi cuccioli del primo
anno: baffi da sparviero, brufoli in faccia, l’autostima sotto le scarpe.
Fumavamo in bagno il puzzone di Di Nuzzo ed entravamo in classe con gli occhi
rossi. Lei raramente alzava la voce, e quella volta in cui reagii all’insulto
del professore di disegno prese le mie difese, costringendolo a chiedere scusa
per avermi chiamato imbecille. Pure se non avevo studiato.
Quella mattina di fine marzo, invece d’interrogarci introdusse l’Iliade. Disse
che il contesto era la guerra di Troia, un conflitto causato dalla dea della
discordia che aveva gettato una mela d’oro con la scritta “alla più bella”
durante un banchetto. Ci parlò di una guerra durata dieci anni, di re e di
guerrieri leggendari come Agamennone, Achille, Odisseo, Ettore, Enea. A un certo
punto alzò la testa. Incrociò il mio sguardo e pronunciò il mio cognome. “Apri
il libro a pagina duecentotrentadue e leggi”, disse soave. Aprii quel libro di
testo pieno di scritte incendiarie. Proprio su quella pagina, una frase a penna
rossa: “Siamo nati per camminare sulla testa dei re”. Schiarendo la voce,
iniziai a leggere: “Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti, ma
Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti
sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor
di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi; il più
spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte,
zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva
la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro,
era ad Achille e Odisseo: perché spesso li svillaneggiava; quel giorno al divino
Agamennone, gracchiando acuto, diceva improperi: contro di lui gli Achei
terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro…”.
“Fermati”, disse la professoressa. Poi continuò: “Ecco Tersite, ragazzi.
Immaginatevi la scena: Agamennone, per mettere alla prova i soldati, propone di
abbandonare la guerra e tornare a casa, ma è tutta una finta. La reazione è
caotica: i soldati lo prendono sul serio e corrono verso le navi. In questo
clima di confusione, questo soldato di nome Tersite si fa avanti criticando
Agamennone per la sua arroganza. Ma la sua ribellione viene zittita da Odisseo,
che ristabilisce l’ordine colpendolo e umiliandolo davanti a tutti”.
“E perché una reazione così esagerata?” – chiese Colantuono dall’altra parte
dell’aula. Lei rispose con calma: “Tersite è un personaggio controverso, è
l’antieroe per antonomasia. La voce del dissenso. Un soldato brutto, sgradevole,
un vinto dall’atteggiamento ribelle. Tersite si distingue per il suo coraggio,
ma anche per la sua sfrontatezza nel criticare Agamennone, il comandante supremo
dell’esercito”.
Era quella, l’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza? La lezione
da ricordare per sempre? Chi è che aveva il diritto di criticare il potere? E
noi da che parte ci dovevamo schierare? Dalla parte di Tersite o di Odisseo?
Bisognava cominciare a scavare più a fondo. Da quel giorno di fine marzo, una
cosa era certa: quella figura umana così tragica di nome Tersite era troppo
familiare per essere epica. L’avevo già incrociata mille volte per strada,
sentita nelle cuffie per bocca di un rapper abruzzese, intravista in quei film
noleggiati in videoteca. Era Stefano, il punk trovato dai custodi nei cessi dei
giardini della Reggia. E ora stava proprio lì, sgradevole e riottoso, fuori la
scuola di quel paesone della provincia meridionale, ad aspettarci al varco dei
giorni a venire. (pomè)
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(disegno di martina di gennaro)
Il 16 novembre scorso, al Centro di documentazione territoriale Maria Baccante
di Roma, i racconti di Alessandro Portelli, Lidia Piccioni, Alessandro Triulzi,
Paolo Isaja e Ambrogio Sparagna si sono alternati nel corso di un incontro di
circa tre ore, organizzato dall’Associazione italiana di storia orale (AISO) in
occasione della sua assemblea annuale. Un tentativo riuscito di ricordare “la
memoria della ricerca della memoria”, grazie alle esperienze di chi da oltre
mezzo secolo raccoglie storia orale.
Doveva essere presente anche Franco Ferrarotti, morto lo scorso 13 novembre.
Così l’incontro ha avuto inizio con l’ascolto di uno stralcio di una sua
intervista, realizzata qualche anno fa dalla storica Giulia Zitelli Conti. Il
sociologo ripercorre i primi passi della sua ricerca: un viaggio in autobus
dall’università sino al capolinea e una esplorazione del territorio raggiunto
(l’Acquedotto felice, San Policarpo, il Quadraro), nel quadrante est della
capitale: “È stata la mancanza di fondi a creare la nostra ricerca sulle
borgate”.
Sono gli anni Sessanta del secolo scorso, chi se lo può permettere parte oltre
oceano, fa ricerca a Chicago, intercetta la vecchia e nuova scuola dell’ecologia
sociale urbana, incontra il collettivo Martin Luther King. Alessandro Triulzi,
dopo l’esperienza statunitense, viaggia anche nell’Africa subsahariana, e lì
raccoglie storia orale, per ricostruire quelle fonti che non è possibile
reperire all’interno degli archivi coloniali, con risultati che lui stesso
definisce discutibili, e questo è un cruciale passaggio: il ragionamento, la
messa in discussione, perché le fonti orali assumono valore storico e
storiografico nel momento in cui si è capaci di analizzarle, di criticarle.
Ascolti, impari, ragioni, canti. È la sintesi ideale di chi lavora con e per la
storia orale.
C’è chi raccoglie suoni e voci con un registratore a nastro, chi si arma di una
videocamera, chi racconta il problema della casa nelle borgate, chi le consulte
popolari che dopo la guerra si preoccupano dei problemi delle periferie. Ci sono
tracce sonore e visive delle lotte, delle battaglie, dei dissidi nelle strade:
sono repertori preziosi, oggi per la maggior parte dispersi e in minima parte
acquisiti dagli archivi Rai. C’è chi vive in provincia e suona con la banda,
canta storie di tradizione, poi conosce musicisti e amanti della musica popolare
e suona fuori dalla provincia, dà il via a un precipitoso contagio e coinvolge
tante bande e tanti suoni. Scende nelle strade delle città, organizza concerti
comunitari, partecipa alla straordinaria esperienza della scuola di musica
popolare realizzata dal circolo Gianni Bosio.
Queste esperienze degli anni Sessanta proseguono nei decenni successivi e
arrivano sino a oggi, passando per la raccolta di racconti dei primi
protagonisti dei fenomeni migratori verso l’Italia (Triulzi ha ricordato il
lavoro fatto all’interno del cosiddetto “Hotel Africa”, il magazzino delle
Ferrovie dello Stato situato alle spalle della stazione Tiburtina di Roma, che è
stato per anni adibito a casa autogestita da centinaia di richiedenti asilo in
attesa di permesso). Di tutte queste ricerche, questi percorsi di raccolta di
memoria spesso frammentati, rimangono tracce sparse, grazie all’archivio del
circolo Gianni Bosio, all’Archivio Memorie Migranti, alla scuola di italiano per
stranieri Asinitas, alla collana di storie sulla città di Roma diretta da Lidia
Piccioni, ai tanti cori di quartiere che conservano e divulgano il canto
popolare.
La scelta del Centro di documentazione territoriale Maria Baccante non è stata
casuale. Il centro conserva l’archivio della fabbrica Viscosa che insisteva nel
parco che lo ospita, e cerca di approfondire temi che sono legati in senso lato
alla documentazione e all’archiviazione. In questa mattinata fredda siamo
riscaldati da racconti appassionati, piccole biografie di ricercatori esperti,
generosi, fini intellettuali fuori dai salotti. Sono storie che hanno arricchito
il bagaglio di conoscenze di chi era ad ascoltare, donne e uomini appassionati
di storia orale, avidi di memoria. Tuttavia, mi pare solo un punto di partenza.
Ora, credo, si può spalancare un portone. Ma come “usare” la storia orale? Oltre
a continuare la raccolta di memoria – esercizio necessario ed essenziale – come
mettere mani in tutta quella già archiviata? Come fare uscire i racconti dai
faldoni, dagli archivi più o meno ordinati, dai cassetti dei ricercatori e
consegnarli alle comunità, ai giovani, alle scuole, ai quartieri e alle strade?
Questa per me è la grande sfida.
All’inizio dell’incontro Sandro Portelli ha ricordato Giuseppe Morandi,
fotografo, cineasta, figura chiave della Lega di cultura di Piadena. Chi ha
avuto la fortuna di partecipare alla festa di Piadena, organizzata ogni anno da
Gianfranco Azzali, lo avrà conosciuto, o avrà potuto assaggiare la profondità,
la bellezza, la gioia di condividere storie, vite, vicende attraverso il canto.
È una festa di musica partecipata da centinaia di persone dall’Italia e dal
mondo, un’occasione originale e rara in cui non ci si scambia bigliettini da
visita ma stornelli, strofe, melodie, nuove interpretazioni. Ecco, l’auspicio è
che si trovino forme nuove di danza, di teatro, di drammaturgia radiofonica, di
disegno, di pittura, di video-arte, di gioco, per traslocare la storia orale
dagli scaffali in cui è conservata nei corpi delle persone.
Chi ha mai provato l’esperienza di cantare insieme ha sperimentato come la voce,
il corpo, il respiro si sappiano impastare con i contenuti dei testi, una
interpretazione che è capace di diventare immedesimazione e incarnazione. Se il
“lara, lallara, lallara, lallalà; lara, lallara, lallara, lallà” di Te possino
dà tante cortellate si scandisce e sussurra, ogni “lalllara” è una lama sottile
che infilza e punisce. E se la storia cantata è una storia collettiva, allora la
sofferenza del disertore, la rabbia del partigiano, il livore dell’operaia
sfruttata diventano sentimenti e vicende possibili da ascoltare, imparare,
ragionare, cantare. Così quella sintesi “ascolti, impari, ragioni, canti”
diventa formula antitetica al “produci, consuma, crepa”. (marzia coronati)
(un disegno di mario damiano)
È scomparsa ieri all’età di novantasei anni Licia Rognini Pinelli, moglie di
Giuseppe Pinelli , ferroviere anarchico ingiustamente accusato per la strage
fascista di Piazza Fontana e morto il 15 dicembre 1969 nei locali della questura
di Milano, durante l’interrogatorio da parte della polizia.
Pubblichiamo in suo ricordo un estratto da Una storia quasi soltanto mia. La
breve vita di Giuseppe Pinelli, anarchico, libro scritto da Licia Pinelli e
Piero Scaramucci e pubblicato nel 1982.
* * *
Quando ha cominciato a pesarti questa solitudine?
Avevo molto da fare, e poi era una cosa solo mia. Non avevo né voglia né tempo
di pensare alla solitudine. Si stava conducendo una battaglia politica.
Battaglia politica sulla diffamazione, sul fatto che la gente capisse. Quando il
fatto di Pino era successo da poche ore un amico mi ha portato un giornalista
dell’Unità, Wladimiro Greco: “Signora se lei potesse che cosa direbbe?”.
Non so se la risposta ha soddisfatto il giornale perché poi non è uscito niente.
Io gli avevo detto: “Lei faccia un appello ai parenti delle vittime di piazza
Fontana che non si accontentino della verità ufficiale ma che cerchino la
verità, che non sono gli anarchici. E non si accontentino di quello che gli
stanno raccontando”. Poi non se n’è fatto niente, logicamente, perché sai come
si sono mantenuti cauti.
Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo. Dopo la
bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano
la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la
sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe
stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per
anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione
pubblica ha cominciato a capire.
Non tutti e non subito.
Non da subitissimo, alcuni dopo qualche giorno hanno cominciato a chiedere di
più di una versione ufficiale, ma non su tutti gli anarchici, si sono cominciati
a porre delle domande su Pino. C’era un’atmosfera come se fossero attoniti, come
se la sinistra fosse stata presa in contropiede, uno sbigottimento.
Poi c’è stato il capovolgimento, le persone più intelligenti si sono poste
subito delle domande, le persone più intuitive, alcuni giornalisti, la Cederna,
Stajano, Nozza, Nozzoli, l’avvocato Malagugini e tanti altri.
Te lo ricordi come si sono comportati i giornali, le dichiarazioni degli uomini
politici?
Vedi, io ricordo e non ricordo. Andavo avanti per la mia strada e non mi
importava di niente. Quando mi venivano a dire: “Hai visto che bell’articolo?”.
“Benissimo”, era giusto che fosse così. Qualcuno mi pare ha messo “suicidio” con
il punto interrogativo. C’è stato un giornale che è uscito così. I miei amici mi
toglievano accuratamente i giornali dalle mani, i primi giorni.
Non c’è stato un momento in cui ti sei resa conto che il nome di Pino era
diventato una bandiera? Nelle prime ore dopo la strage di piazza Fontana
pochissimi hanno reagito contro la tesi della pista anarchica. Quando è morto
Pino hanno cominciato gli anarchici, alcuni democratici, qualche gruppo della
sinistra extraparlamentare, poi i partiti di sinistra…
Mi ricordo la gente non politica in quei giorni, cioè la reazione di gente
comune che mi dava solidarietà. Quelle lettere, quei biglietti che ti dicevo, in
portineria, ai primi di gennaio, con pacchi, regali… Persone completamente
estranee che mi scrivevano parole di incoraggiamento, di conforto. I vicini che
erano sempre per casa ad aiutare, e nessuno di loro ha mai detto ai giornali una
parola che non fosse positiva su Pino, sulla famiglia.
Molte volte anche i giornalisti mi vivevano più come una persona che come un
caso. C’era Manrico Punzo dell’Avanti! che per la Befana è venuto con due
bambole, bellissime, che abbiamo ancora e poi è tornato e mi diceva di suo padre
che era stato confinato dai fascisti a Ventotene dove il direttore del carcere
era Marcello Guida, proprio lui, il questore di Milano che io avevo denunciato.
Un altro era un ragazzo di Stop che mi voleva intervistare ma io preferivo non
dare interviste e lui è rimasto lì due ore a parlare e mi ha raccontato tutta la
sua vita. Era molto nervoso e gli ho regalato un pacco di tranquillanti che mi
aveva portato un amico medico. Io non volevo prenderli. In quei giorni sono
venuti anche i socialisti della sezione Torchietto con una colletta e tante
lettere, molto a livello umano più che politico.
Era come una carezza avvolgente che mi consolava.
Ti dicevo che pian piano Pino era diventato una bandiera. Sono cominciate
assemblee di movimento, di giornalisti democratici, si sono mossi i partiti
della sinistra. Anche i magistrati democratici avevano trovato una base di
lotta. C’erano manifestazioni contro la strage di Stato, scontri con la polizia,
sui muri di Milano centinaia di scritte per Pino e per Valpreda, volantini,
articoli, libri alimentati dalla controinformazione che faceva la sinistra. In
tutto questo crescere di mobilitazione il nome di Pino era diventato un simbolo,
un punto di riferimento per una parte della società. Tu te ne rendevi conto?
Me ne rendevo conto sì, anche se era una cosa al di fuori di me. Io non avevo
una visione politica, una esperienza. Il movimento studentesco lo conoscevo per
sentito dire, me ne parlavano gli amici: la Statale allora non sapevo nemmeno
dove fosse. Sarà stata la mia natura. Non ero abituata, non l’avevo mai fatto.
Io facevo questa cosa strettamente legale. Giravo in macchina da un avvocato
all’altro, quella era la mia vita e non vedevo altro attorno.
Non hai mai avuto l’incubo di camminare in un tunnel buio? Cammini lo stesso e
vai. Speri di avere qualcuno che ti aiuti, però vai lo stesso, ciecamente.
Perché questa immagine del buio?
È quello che mi è venuto in mente, che andavo così… Vedevo solo quello che
volevo fare, solo quello.
Non pensi, oggi, di esserti troppo isolata dal resto del movimento?
Forse se non fossi stata così staccata dalla vita politica avrei fatto delle
cose diverse, avrei agito nel collettivo. Ma non posso criticarmi o lodarmi
oggi. Sono gli altri che devono giudicare, se questa esperienza può servire a
qualcuno.
A gennaio Lotta continua aveva cominciato ad attaccare il commissario Calabresi
accusandolo apertamente di avere ucciso Pino. Sono uscite una serie di articoli
e le vignette di Roberto Zamarin, ti ricordi quei primi numeri?
Compravamo molti giornali per avere le diverse versioni, ma non conoscevo Lotta
continua, più tardi me l’hanno segnalato e ho visto qualche vignetta, con
ritardo. Poi naturalmente me ne sono interessata quando c’è stata la prima
querela di Calabresi, in maggio. Quello che ricordo è che Calabresi ha dovuto
querelare per tre volte Pio Baldelli, che firmava Lotta continua, la
magistratura sembrava che non avesse molta voglia di fare il processo. Mi
ricordo che ci fu uno scandalo su alcuni giornali, si diceva che il procuratore
De Peppo si teneva le denunce nel cassetto, e si arrivò fino a ottobre per avere
il processo.
Che ne dicevate nel vostro gruppo?
Non c’era una questione di priorità, l’importante era arrivare in tribunale. Noi
nel frattempo avevamo aperto una causa civile, che poi si è trascinata a lungo,
non ti dico quanto, perché erano tutti con il fiato sospeso a vedere come andava
a finire il processo Calabresi-Lotta continua. Comunque per noi andava bene. Con
queste tre querele si andava finalmente in tribunale e quando c’è un
dibattimento pubblico qualcosa salta fuori.
Non hai mai avuto paura che uscisse fuori qualcosa contro Pino?
Io ero certa di lui. Gli altri potevano non esserlo. Anzi avevo preso un impegno
con gli amici del gruppo di non nascondere niente. Se fosse venuto fuori
qualcosa di cui fossi stata all’oscuro avevo preso l’impegno di dirlo e l’avrei
mantenuto.
Come potevi essere certa che Pino non avesse per esempio delle conoscenze che
gli avessero fatto fare qualche passo falso?
Vedi, la casa era molto piccola, le telefonate le prendevo io, si sentiva tutto
attraverso le pareti, leggevo la posta. Pino poi con me era trasparente, magari
voleva tacermi qualcosa ma finiva sempre per dirla, le bugie non era in grado di
raccontarle perché aveva un suo modo di esprimerle che le capivo subito. Ci
capivamo molto. Il trovarsi d’accordo nelle sfumature e nelle risposte da dare
agli altri, guardarsi ed essere veramente d’accordo sulla frase che io sto
dicendo e lui la sta dicendo nello stesso modo, sulla stessa lunghezza d’onda,
con un’occhiata. C’era un quiz in tv: si presentavano due coppie, di ogni coppia
uno doveva rispondere a una domanda e l’altro, della stessa coppia, che non
sentiva, doveva dare la stessa risposta. Come affinità elettive. Ecco, Pino
aveva mandato la domanda di partecipazione, non so se ti ho risposto. Eravamo
cresciuti bene insieme.
A ogni modo avevo preso questo impegno e l’avrei mantenuto costasse quel che
costasse. Era un rischio da correre. Anche se c’è stata una volta che ho avuto
la tentazione di nascondere una cosa. Dopo l’autopsia. Gli avvocati mi hanno
detto che c’erano dei segni sulle gambe. Io sapevo che Pino si era fatto male in
ferrovia qualche giorno prima ma sul momento sono stata zitta. È durato poco,
poi l’ho detto.
Che cosa potevano sembrare quei segni?
Picchiato. La tentazione è stata forte, ma è stata l’unica volta. Anche perché
io non volevo nascondere niente, volevo difendere Pino e le sue idee. Perché
morire solo per delle opinioni politiche…
Te lo sarai sentita dire, magari con delicatezza perché eri la vedova: se fosse
stato tranquillo, se non avesse fatto politica, se non fosse andato in giro…
Senza tanti complimenti me lo sono sentita dire. Per conto mio possono prendere
un impiegato di banca, accusarlo di qualsiasi cosa. Cioè il tipo tranquillo, che
non fa politica, casa, chiesa, lavoro. Può capitare in qualche cosa che non
dovrebbe né vedere né sentire, e diventa un capro espiatorio, è molto facile.
È successo a Pino perché era anarchico, domani può succedere a qualsiasi altro,
non importa se fa politica, se ha idee politiche o anche se è senza fede
politica. Non è che ci sono sempre gli anarchici, può capitare a tutti. Se la
gente riuscisse a capire questo. Perché c’è sempre bisogno di un capro
espiatorio quando non si vogliono scoprire i colpevoli e il capro espiatorio
diventa il mostro.
Ti ricordi cosa aveva detto mia suocera quella notte: “Licia, vedrà, domani, i
giornali, adesso lui diventerà il colpevole di tutto”. “Hanno sbagliato”, le
risposi. “Dovevano buttarne giù un altro. Ora faranno i conti con noi”.
(disegno di nando gaeta)
Sono salita sulla barca della follia e non sapevo dove mi portasse.
Sono tornata a casa mia ed è più bella che mai.
Potremo dire che la follia esiste, è variopinta, è pittoresca, talvolta
grottesca. Ma a volte è la normalità a essere più spaventosa, terrificante,
raccapricciante e strana. È sottile la linea tra ragione e follia. Potrei
raccontare la mia esperienza nei fatti così come sono andati o potrei raccontare
la stessa storia dalle mie interiora, così com’è stata vissuta dentro di
me. Prima di lasciarvi entrare nel mio mondo interiore, lascio a voi giudicare
quanto è stato lungo il mio cammino.
Ero fortemente ribelle e spaesata, quando un giorno in preda alla disperazione
riempivo sacchetti della spazzatura della mia roba per andare via di casa, venni
fermata da mia madre e durante il nostro successivo litigio mentre tagliavo una
bistecca gridai: “Basta!”. Infilando il coltello nella carne le mie dita
scivolarono sulla lama, il mignolo e l’anulare si tagliarono, corremmo al pronto
soccorso; mentre un medico mi metteva con estremo dolore i punti, strillavo,
arrivarono due psichiatri… Mi dissero che dovevo seguirli, arrivati al reparto
non potevo accettare quello che stava accadendo, mi opposi con tutto il mio
dissenso e mi fecero firmare un foglio che firmai con: “X”. Così T.S.O. Come si
direbbe, feci la pazza pur di evitare quell’esperienza, firmando con le mie
stesse mani la mia condanna.
Una settimana con mia madre che dormiva nella stanza di ospedale che li obbligò
a restare con me, mio padre mi portò a uscire una sera. La mia ribellione non
serviva a niente, la mia voce non la sentiva nessuno e nemmeno sapevo usare la
mia voce e nemmeno sapevo parlare. Quanti al mondo soffrono e non hanno
attenzione, e sono abbandonati al loro destino? O non sanno di stare
male. Quella voce fu così sentita come un problema e un problema mio, inutile
urlare, inutile pensare di cambiare questo mondo. Non riuscii a collocare
quell’esperienza fittizia e buia, mi rimase dentro come qualcosa che si insinua
e non ti lascia più in pace, feci i conti con parti di me misteriose, qualcosa
che racchiude l’umanità tutta ma che viene tenuto distante dalla coscienza e
dagli occhi, il dolore di solito viene evitato.
Intrapresi un cammino in bilico, fino a undici anni dopo, duranti i quali mi
laureai, iniziai a meditare e trovai una sorta di equilibrio, tra il mondo
dentro e un mondo fuori sempre più brutto. In questo dentro e fuori riuscivo a
chiudermi e riaprimi, fino all’esordio della pandemia che mi vide comprare carta
e colori per chiudermi in casa e disegnare più che mai, la chiusura aumentava
fino al giorno in cui decisi di rompere tutti quei bellissimi disegni, da questo
punto bastò poco per passare ai miei vestiti, ai miei oggetti. Fatta a pezzi me
passai alla casa, in particolare le finestre.
La parte peggiore e in cui peggiorai fu tutta l’estate; mia madre non sapeva
come e cosa fare, così si sentì obbligata a chiedere soccorso ad alcuni medici
di sua conoscenza. Mi vidi circa sei persone sconosciute fuori la porta di casa,
mentre mi accingevo a mangiare un pranzo, presi un telefono per protezione e
pensai che erano i vicini che si erano venuti a lamentare, tutti mascherati
sfilarono una siringa e così feci mente locale, andammo all’ospedale con un’auto
e ho dimenticato quanto accaduto da quella siringa a due giorni dopo, nel letto
del reparto psichiatrico in cui ero.
Aprii gli occhi e c’era mio padre, mai come in quel momento presente a vegliare
su di me, chiesi che ora fosse ed ebbi una delle esperienze più importanti della
mia vita. In quanto ho imparato ad accettare gli eventi e le cose anche le più
dolorose, quel ricovero era stata una benedizione, un’esperienza che nel suo
estremo trova la via d’uscita, una fine e un inizio, un cambiamento, una
soluzione. Rimasi un mese nel reparto prima di poter essere dimessa, per via dei
miei valori ematici mi trovarono in pessime condizioni e la ripresa fu lenta.
Non si potrebbe raccontare una storia così? Storie invisibili, dovremmo
nasconderci?
Non ho niente da nascondere, ma è bene lasciare nella riservatezza una cosa
simile, per protezione; è facile giudicare, stigmatizzare, solo perché non si
comprende, non si può comprendere. Non si può capire. Quindi è un atto di
anonimo coraggio rendere nota la mia esperienza, non sono una vittima e non mi
sento colpevole, sono consapevole di aver sofferto e se questo era l’unico modo,
l’unica estrema via per tirarmi fuori dal posto irraggiungibile in cui ero
chiusa, in cui ero rimasta, ebbene mi ha aiutato, perché ora sono salva, ora
sono qui. Per un pelo a volte ci si può ritrovare dall’altro lato, senza nemmeno
accorgersene. Qualcuno chiama la “neuro”. Basta! Vi prego, mai più neuro.
Durante quel mese in ospedale c’era Raffaele, correva avanti e indietro per il
corridoio del reparto e si truccava, una volta mi colpì la gamba. Un giorno
c’era gente che entrava e usciva dalla stanza di Raffaele, morì d’infarto, un
cuore infranto aveva Raffaele. C’era Antonio che mi rubò il rossetto per
scrivere sulle finestre e sui muri del cortile, fu divertente. C’era Giovanna,
mangiona, rubava il cibo a tutti, ingurgitava roba e non le bastava mai, diceva
parolacce a chiunque. C’era un ragazzo che barcollava in corridoio; perso nel
vuoto, cadde a terra. Ce ne era un altro che aggredì l’infermiere per prendere
le chiavi del reparto. Avevo fatto due amici, Carla e Francesco, mi fecero
entrambi un regalo prima di andare via. Francesco fu trasferito a vivere in una
struttura, lo avevano trovato solo e malandato a casa sua, mi raccontò la sua
storia ed era felice di andare a vivere in una struttura. Carla invece si
sentiva tradita dal fratello che l’aveva fatta ricoverare, lei non stava così
male, ma soffriva, fu una vera amica in quel momento, ci scambiammo i numeri.
Il fumo era il passatempo ideale, l’accendino ce lo aveva l’infermiere, avevamo
un cortile grande in cui stare e non era male. Al cambio turno degli infermieri
c’era sempre un momento in cui restavamo soli, a me faceva paura, davano tutti
di matto. Ricordo molti bussare alla porta chiusa che ci teneva barricati;
battere ossessivamente, forsennatamente. Ho avuto bisogno di un mese di silenzio
dopo essere uscita per riprendermi da tutto quel chiasso e casino, mi facevano
male le orecchie.
Alcuni medici si presero cura di me, tra colloqui e farmaci ero tornata normale;
era fisso l’appuntamento in ospedale, un punto di ritrovo tra salute e malattia,
unica via era il compromesso: prendi i farmaci e sarai libero.
Ma erano bravi medici, mi apprezzavano come persona e riscontravano in me
un’intelligenza e sensibilità sopra la media, dissero che erano contro le
diagnosi e il mio disturbo era dovuto a una permeabilità, quindi il farmaco mi
serviva come impermeabile, come una protezione. Per i successivi due anni feci
un progressivo scalaggio delle medicine, o meglio della medicina, una sola
pastiglia al dì. Stavo meglio, miglioravo, ero parte del mondo anche io, chiesi
di fare una prova e sospendere questa pillola, sentivo di potercela fare e che
non sarebbe mai più potuto ricapitare né un ricovero in ospedale, né di stare
male. Mi vennero incontro, confidavano che ce la potessi fare e così sospendemmo
la medicina.
All’inizio andò bene, mi sentivo forte e mi era ritornata l’energia, ero felice.
Ma qualche mese dopo, insieme a una serie di eventi stressanti anche blandi,
ritornai gradualmente a chiudermi, di nuovo estate e di nuovo raggiungevo quel
recondito mondo interiore da cui la percezione del tempo si alterava e la
sensazione era quella di aver assunto una droga psichedelica, anche se non ho
mai provato droghe psichedeliche; era come un viaggio, come partire per
raggiungere un altro luogo della coscienza, della mente; la realtà non era più
la stessa. Fu breve, fu lieve. Mia madre si accorse in tempo, non ero ancora
andata molto lontano, c’ero, ero presente ma leggermente alterata.
Stavolta fu diverso.
Chiamò il 118, non ritenevano la mia situazione grave, stavano per andare via ma
pregai mia madre di portarmi di nuovo dentro, c’era comunque uno dei medici che
mi seguiva. Presi per la prima volta in vita mia un’ambulanza, alle cinque del
mattino senza sirena, nessuno fu violento, ero tranquilla e il medico mi chiese
se era “volontario”? Io dissi certo dottore che è volontario, ma dovevo vederla.
Aspettai a lungo il suo arrivo. Anche la volta precedente fu volontario (T.S.V.)
con la differenza che, mentre ero tranquilla e seduta su un muretto,
l’infermiere di punto in bianco mi afferrò scaraventandomi a terra, senza un
reale motivo, fu una reazione gratuita dato che io acconsentivo ad andare con
loro senza fare alcuna opposizione.
Poi si scusarono.
Come questa volta, senza violenza, entrai volontaria in reparto, era arrivato il
momento di riprendere quel farmaco, non aveva funzionato. Furono dieci giorni e
questa fu l’ultima volta della mia vita. Il reparto era cambiato, la pandemia
era finita, solo due anni dopo di nuovo dentro. C’è da dire che al pronto
soccorso in qualsiasi stato si arrivi quando si tratta di psichiatria sulla
cartella scrivono lo stesso per tutti: “stato di agitazione psico-motoria”; e
c’è da dire che la cosa più ingiusta e brutta è sempre presente nella cartella
clinica di chi va a finire in psichiatria, un foglio su cui è scritto “il
soggetto X è infermo di mente”; è questo il nome, l’atto più disumanizzante di
tutta la faccenda, la burocrazia che nel fare i conti con certe dinamiche
dell’umanità umilia la tua dignità di essere un umano con una storia, con una
vita, con un dolore… Leggere la mia cartella è stata la cosa più brutta che mi
potesse capitare.
Durante l’ultimo ricovero in quei dieci giorni, c’era la televisione, guardavo
Blob mentre tutti erano già a dormire. Aiutavo Silvia che aveva paura di lavarsi
i denti, litigai quasi con un eroinomane che urlava “datemi il metadoneeee”.
Diedi consigli sulla pelle a un signore che stava per essere trasferito in
Puglia e aveva proprio bisogno di una crema per il viso. Indicai quale fosse il
medico più adatto ed esperto in farmacologia a una signora che mi chiese
consigli. Disegnavo, fumavo e parlai con un tirocinante, un ragazzo non di qui.
Il dottore scherzava con me che sarei mancata al reparto, mi accompagnarono i
medici a casa, fu commovente. Mi sentivo indubbiamente voluta bene da loro…
(lisa more)
(disegno di ottoeffe)
Il tuo cognome: Pesce… mi ha sempre impressionato,
io non ti avrei sposato, te dico ‘a verità.
Io fo’ Casato Aprile, che bella novità:
‘e nozze Pesce & Aprile, vattenne ‘a parte ‘e là.
(ria rosa, non mi seccare)
Il mito vuole che le mummie siano state inventate da Iside, dea della vita e
della guarigione. Iside era sorella e moglie di Osiride, e insieme a lui ha
governato l’Egitto per migliaia di anni. Ma Osiride aveva un fratello, Seth, che
bramava la sua morte per poter prendere il potere, e che stava per riuscirci,
tanto che a un certo punto arrivò a imprigionarlo in un sarcofago e a gettarlo
nel Nilo.
Seth, però, non aveva fatto i conti con Iside. La dea, appresa la notizia, si
butta nel fiume, si mette a cercare e trova il sarcofago con il cadavere di
Osiride, finito in riva al mare dentro a un albero. Una volta che lo ha
recuperato, mummifica suo fratello-marito per non far disperdere la linfa
rimasta e lo mantiene in qualche modo in vita. Dopodiché, prende della terra e
dei semi d’orzo e gli fabbrica un pene nuovo di zecca, perfettamente eretto,
incastrandolo all’interno della mummificazione. Ci fa l’amore e al primo colpo
rimane incinta di quello che diventerà il loro figlio, Horus.
Seth ovviamente è disperato, ma non rinuncia ai suoi piani: si impossessa di
nuovo del corpo di Osiride, lo smembra e ne sparge i pezzi per tutto l’Egitto,
senza ricordarsi della caparbietà di sua cognata, che infatti dopo una lunga
ricerca li recupera tutti. Meno uno: il pene, che si scoprirà poi essere stato
mangiato da un pesce nel Nilo.
Il resto della storia è ancora più bello: Iside si uccide, raggiungendo Osiride
e diventando regina dell’oltretomba, mentre Horus fa fuori suo zio (tentando tra
l’altro di sodomizzarlo) e prende possesso del regno. Ciò che qui importa, però,
è che da quel momento una città del centro dell’Egitto acquisisce un nuovo nome
(Per-Medjed, nella lingua del tempo), assumendosi la paternità del
“pesce-elefante” che aveva mangiato il fallo di Osiride, che diventa da quel
momento sacro. Molti studiosi fanno risalire a quel momento l’associazione
(sacrale e ideale) tra il membro maschile e il più noto abitante dei mari del
nostro globo terraqueo.
Agata!
Tu mi capisci.
Agata!
Tu mi tradisci.
Agata!
Guarda!… Stupisci!
Ch’è ridotto quest’uomo per te.
(pisano-cioffi, agata)
Lunedì sono iniziati a piazza Municipio i lavori per l’installazione del
Pulcinella di Gaetano Pesce. Si tratta di una doppia installazione, in realtà,
dal nome Tu sì ‘na cosa grande, composta da un Pulcinella conico di dodici metri
e da una seconda scultura “La freccia nel cuore”, realizzata nell’ambito del
progetto “Napoli Contemporanea” (il costo dell’operazione, montaggio compreso,
pare si aggiri intorno ai duecentomila euro).
Ora, il fatto che si continuino a spendere soldi per opere di puro presunto
valore estetico, che al di là di questo presunto valore non stimolano nulla se
non la derisione nella maggior parte dei napoletani, non è una novità. Anzi, è
un fenomeno che in tempi di terziarizzazione totale dell’economia, e col turismo
che si mangia la città, è destinato a crescere di anno in anno. Gli infausti
destini della Venere degli Stracci (bruciata da un povero disgraziato che viveva
in strada senza il supporto sociale e sanitario di cui aveva bisogno) e della
scritta NAPOLI che si è praticamente squagliata al sole prima di essere messa in
sicurezza, bastano da soli a risparmiare ulteriori proiettili sulla Croce Rossa
e su questa giunta comunale di baroni universitari e nuove volpi della politica.
Ma che il Signore assoluto del populismo, quello del Corno gigante, di N’Albero,
della pizza lunga due chilometri sul lungomare (poi finita mangiata dei topi)
faccia dell’ironia su questo, provando a mettersi stelline che solo lui
riconosce, e a riemergere dal dimenticatoio in cui i suoi stessi insuccessi
politici (l’ultimo è il capolavoro calabrese) l’hanno ricacciato, forse fa più
piangere che ridere.
“Allargate ca me tigne!”, dicette ‘o caudararo.
Dicette ‘o puorco ‘nfaccia ‘o ciuccio: “Tenimmece pulite!”.
Porta Capuana predeca castità!
(proverbi napoletani)
Giovedì mattina ero un po’ malinconico, così mi sono andato a fare un panino e
sono andato a mangiarlo sulla spiaggia di Bagnoli, dove ancora ci sono le barche
di legno, davanti al Chiavicone (antico canale per le acque reflue, che pure in
altre zone della città assumeva questo nome, dal latino volgare “clavica”,
derivato a sua volta dal classico “cloaca”, ovvero “fogna”).
Lì ho conosciuto P., un bambino che se n’era sceso a mare con la sua canna da
pesca e il relativo necessaire, aveva infilato una sedia di ferro nella sabbia,
con metà delle gambe in acqua, e approfittava del mare agitato per fare man
bassa di orate, cefali e spigole. I pesci più piccoli, come fanno i veri
pescatori, li ributtava a mare.
Ho chiesto a P. se gli piace pescare sott’acqua, e gli ho raccontato di un libro
in cui tre ragazzini stanno pescando non lontano dalla barca di loro padre
Thomas Hudson, e a un certo punto si ritrovano davanti un gigantesco squalo
martello. Mi ha detto che non l’ha mai fatto, ma non sa se gli piacerebbe, poi
mi ha detto che era meglio andare a casa perché di lì a poco sarebbe venuto a
piovere. Non mi ha chiesto se i ragazzi si salvano oppure no.
La cosa che gli fece più impressione fu la grande altezza della pinna, il modo
in cui girava e cambiava bruscamente direzione, come un segugio sulle tracce di
un animale, e il modo in cui avanzava, con la crudeltà e la decisione di una
lama.
Imbracciò la carabina e sparò davanti alla pinna, a pochi centimetri di
distanza. Il colpo non andò a segno e sollevò uno spruzzo d’acqua, e allora
Thomas Hudson ricordò che la canna era unta d’olio e appiccicosa. La pinna
continuava minacciosamente ad avvicinarsi. […]
Thomas Hudson cercava di essere sciolto ma fermo, cercava di trattenere il
respiro e di non pensare ad altro che al tiro. […] Da poppa udì un mitra
sgranare il suo rosario e vide spruzzi d’acqua levarsi tutt’intorno alla pinna.
[…] La pinna andò sotto e nell’acqua ci fu un ribollire e poi il più grande
squalo martello che avesse visto prese a planare follemente nell’acqua,
rovesciato sul dorso, sollevando due baffi di schiuma come un acquaplano. […]
«Sei stato in gamba, Davy», disse Tom junior fieramente. «Aspetta che lo dica ai
ragazzi della mia scuola».
«Non ci crederanno. Non dirglielo se vengo».
«Perché?», chiese Tom junior.
«Non so», disse David. E scoppiò in lacrime come un bambino piccolo. «Oh merda,
se non ci credessero non resisterei».
Thomas Hudson lo sollevò e lo tenne in braccio con la testa sul petto, e gli
altri ragazzi si voltarono dall’altra parte. Poi arrivò Eddy con tre bicchieri
in uno dei quali aveva infilato il pollice. Thomas Hudson capì subito che giù se
n’era scolato un altro.
«Che ti piglia, Davy?», chiese.
«Niente».
«Bene, così mi piace sentirti parlare, vecchio figlio di puttana. Ora scendi,
smettila di piagnucolare e lascia bere il tuo vecchio».
(ernest hemingway, isole nella corrente)
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
La sfortuna non esiste. È una invenzione dei falliti. E dei poveri. (titta de
girolamo, le conseguenze dell’amore)
Durante gli ultimi dieci giorni ho: rotto la cinghia di trasmissione della
macchina, spezzato la chiave del motorino nell’apposita fessura del suddetto,
rotto il bauletto del motorino, rotto una prima volta lo schermo del Mac, perso
il bloccaruote del motorino, azzoppato involontariamente (ma piuttosto
seriamente) un amico giocando a calcetto, con relativi sensi di colpa, rotto una
seconda volta lo schermo del Mac.
L’incredibile sfortuna del cane Stella, adottato e restituito due volte in pochi
giorni (la stampa, 11 settembre)
‘A patenti è una novella di Pirandello scritta in siciliano nel 1911, poi
diventata un atto unico teatrale. Il protagonista è Rosario Chiarchiaro, che a
un certo punto, stanco delle dicerie sul suo conto da parte dei compaesani,
decide che piuttosto che passare il tempo a negare di essere uno jettatore, gli
conviene esserlo davvero. Potrà così chiedere ai superstiziosi una sorta di
tassa per non esercitare il suo influsso, ma per evitare l’accusa di estorsione
ha bisogno che un giudice lo condanni, affibbiandogli una vera e propria
“patente di jettatore”. La storia verrà ripresa insieme ad altre novelle
pirandelliane in un film del 1954, con la regia di Luigi Zampa e la
sceneggiatura di Vitaliano Brancati.
(totò nei panni di rosario chiarchiaro in “questa è la vita”, 1954)
Chiarchiaru, in siciliano, vuol dire frana.
Istat, M5S: con Meloni crescita frana con Conte sempre più boom (agenparl.eu, 23
settembre)
La coppia più sfortunata del mondo. Il viaggio di nozze ricco di catastrofi
naturali (robadadonne.it, 30 ottobre 2017)
Ti ammali in vacanza? Non è sfiga, è scienza! (adnkronos, 13 settembre)
“Salvini porta sfiga”, Ravetto contro Manconi e Zan (tgla7.it, 23 luglio 2024)
Una differenza sostanziale, che si va perdendo in epoca contemporanea, è quella
tra jettatura e malocchio. La prima parola viene dal latino iacere (gettare) e
trova origine forse nell’antica pratica di gettare in mare il carico di una
nave, per alleggerirla, durante le tempeste (“Dura e aspra cosa, a’ marinari,
dover far iattura delle lor mercanzie”, scriveva Buonarroti il Giovane,
pronipote di Michelangelo, a fine 1500). Da iattura arriva jettatore, persona a
cui si attribuisce il potere di esercitare la sfortuna, di far succedere guai
anche involontariamente.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2024/09/colabona.mp4
(credits in nota1)
Se lo jettatore “getta” anche involontariamente lo sguardo su qualcun altro, il
malocchio è sempre frutto di una volontà negativa, provocata per lo più da
sentimenti spregevoli come l’invidia, che d’altronde deriva da in + video,
ovvero “guardare male”, con cattiveria, con gli occhi stretti (“secchi”, come si
dice in napoletano). Un’altra tradizione vuole invece che l’occhio c’entri in
questa storia in quanto parte del corpo della persona maledicente da cui
verrebbe fuori il fluido negativo.
Se fino al Medioevo la capacità di provocare eventi nefasti era connessa per lo
più al malefico e al satanico, è la borghesia illuminista napoletana a sdoganare
la jettatura come atto scientifico, una sorta di compromesso tra le credenze
stregonesche della popolazione e le esigenze razionaliste del secolo dei Lumi
(Benedetto Croce si dice sicuro che fino al 1600 non ci sia traccia in
letteratura del termine “jettatore”). Nel 1787 il giurista e storico del diritto
Nicola Valletta scrive il saggio Cicalata sul fascino, volgarmente detto
jettatura, illudendosi di chiudere per sempre i conti con la magia nera, le
maledizioni, la spossatezza, la nausea, l’insonnia, e soprattutto i terribili
mal di testa provocati dal malocchio.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2024/09/gassman.mp4
(credits in nota2)
Salvatore Colasberna faceva il muratore, dieci anni addietro ha messo su la
cooperativa insieme a due fratelli suoi e a quattro o cinque altri muratori del
paese. […] Tirava avanti alla meglio: si contentavano, lui e i soci, anche di un
guadagno piccolo, come lavorassero a salario. […] Faceva cose solide: e
veramente c’è qui la via Madonna di Fatima, fatta dalla cooperativa sua, che con
tutti gli autocarri che vi passano non si è abbassata di un centimetro. […]
Precedenti penali? Sì. Tre novembre del quaranta… Viaggiava in autobus, a quanto
pare gli autobus erano la jettatura sua. Si parlava della guerra che avevamo
attaccata in Grecia; uno dice: «Entro quindici giorni ce la succhiamo», voleva
dire la Grecia; e Colasberna fece: «E che è, un uovo?». Sull’autobus c’era un
milite: lo denunciò… Come?… Scusate, voi mi avete chiesto se aveva precedenti
penali, io con le carte in mano dico: li aveva. Va bene: non aveva precedenti
penali… Fascista io? Ma io quando vedo il fascio faccio gli scongiuri. Sì
signore, agli ordini. Attaccò il telefono alla forcella con esasperata
delicatezza, si passò il fazzoletto sulla fronte: «Questo qui ha fatto il
partigiano – disse – mi mancava a provare proprio un comandante che ha fatto il
partigiano». (maresciallo ferlisi, il giorno della civetta)
In questi giorni mi capita che per pochi minuti, in momenti ricorrenti della
giornata, mi venga un leggero mal di testa che così come arriva, altrettanto
improvvisamente se ne va. Venerdì, nonostante abbia dimenticato di prendere le
mie medicine, sono stato bene tutto il giorno; ieri (sabato), ho approfittato
del regalo della Snai che quotava la Juve a Genova a 1,70.
I pensieri tossici e possono arrivare a essere molto dannosi, intaccando tutte
le aree della nostra vita. Quando la negatività si innesca, questa dà via a un
circolo vizioso in cui i pensieri negativi rafforzano le emozioni negative, che
a loro volta producono azioni negative. Se il ciclo non viene interrotto,
genererà inevitabilmente un effetto fisico e psicologico sulla persona che ne fa
esperienza. […] Le persone che soffrono di depressione sono più suscettibili a
dare un’interpretazione negativa degli eventi, anche quelli che non hanno un
grande valore in sé, come per esempio vedere delle persone chiacchierare e
pensare che stiano parlando male di noi o perdere l’autobus e convincersi di
essere sempre i soli sfortunati. (viviana cesana, sette consigli per liberarti
dai pensieri tossici)
Nell’articolo sopra citato la dottoressa Cesana presenta anche una serie di
pratiche utili per eliminare i pensieri negativi e – in un certo senso lo lascia
intendere – gli eventi avversi (tra i consigli: fare meditazione, appuntare i
piccoli eventi quotidiani su un quaderno, ma anche riordinare casa e una
disintossicazione digitale).
Non mi toccare il feeling,
la mia fantasia.
Lasciami almeno il mondo
visto a modo mio
[…]
E vedi di non toccarmi il feeling.
No, mai.
[…]
Non mi toccare dentro.
Scherzi a parte, sai
vedi che ti fai male.
Poi fai come vuoi.
(disegno di ottoeffe)
Sono passati quindici anni da quando ho scritto il primo articolo per Monitor,
un’inchiesta sulle case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per il mensile
cartaceo che stampavamo all’epoca. Incontrai un ex compagno di classe a via San
Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa
essere più). Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui
collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti,
persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di
averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una
copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva
pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel
Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.
Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati
arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio
razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo
[…] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali
trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte
seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria,
la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni
dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non
scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a
Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per
essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani.
(salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario
della strage)
Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di
Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei
raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il
giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano,
il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi
hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in
cui non volevo farle. Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano
ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti
ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo
pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere
il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho
scelto di essere infelice a modo mio”.
L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano.
Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una
ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli
articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila
battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al
rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”.
(palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)
L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo
dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e
ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e
mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura
vittime di uno scambio di persona. Forse è che al sangue uno non ci fa
l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio
rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come
i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si
sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente). Fatto sta che, da
quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19
di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla
memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i
poveri e i disperati.
Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto
che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave
dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono
andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi
sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi,
uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe
accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue. Quando il suo amico George lo
uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori
più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio
della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora
una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine
finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.
“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in
fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi
da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio
che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)
Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre
al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto
che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato
in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi,
all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è
stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni
della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni
fa.
Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)
(riccardo rosa)
(disegno di cyop&kaf)
Sono passati sedici anni dalla strage di Castel Volturno del 18 settembre del
2008. Quella notte un commando armato guidato da Giuseppe Setola, luogotenente
del clan dei Casalesi, fece irruzione in un piazzale della Domiziana, su cui si
affacciava una sartoria gestita da un uomo ghanese dove si ritrovavano molti
suoi connazionali. Il commando sparò in modo indiscriminato sui presenti
uccidendo sei immigrati.
La ferocia di quell’atto criminale, che poteva essere riconducibile solo alla
camorra locale, insieme all’impossibilità di concepire un qualsiasi movente se
non l’odio profondo per gli immigrati, e quindi la paura di essere tutti dei
bersagli indifesi, portarono il giorno dopo migliaia di immigrati in strada per
manifestare contro soprusi e razzismo, e per chiedere giustizia per i fratelli
morti.
Io arrivai a Castel Volturno nel tardo pomeriggio, quando la protesta rabbiosa,
a tratti violenta, era terminata da alcune ore. Il cielo plumbeo, che illuminava
la Domiziana deserta e bagnata da una fitta pioggia, con i cassonetti della
spazzatura rovesciati e i pali della segnaletica divelti, sembrava testimoniare
la drammaticità delle ore appena passate.
Nei giorni successivi percorsi spesso la Domiziana, che era tornata ad assumere
le sembianze di strada di commercio e di collegamento tra i vari agglomerati di
case sorti abusivamente lungo la costa di Castel Volturno. Durante quel
girovagare, mi capitava di soffermarmi a guardare i giornalisti intenti a
riprendere ora un luogo ora un altro, oppure a intervistare amici delle vittime
e residenti della zona.
Allora non conoscevo a fondo quei luoghi e ignoravo la vita e la storia degli
abitanti, italiani e stranieri, che si erano trasferiti a vivere nelle seconde
case a mare realizzate negli anni Sessanta e Settanta e quasi subito abbandonate
da coloro che le avevano costruite. Fu proprio scrutando i comportamenti di quei
cronisti e quelli della gente che si raggruppava intorno a loro, ascoltando i
dialoghi e le voci sovrapposte dei presenti, che iniziai a raccogliere le prime
notizie sulla strage e le testimonianze di qualche connazionale delle vittime.
L’occasione di trasformare questa esigenza in qualcosa di concreto arrivò
qualche mese dopo quando Luca Rossomando mi propose di scrivere insieme un
racconto sulla strage di Castel Volturno da pubblicare nell’annuario del
mensile Napoli Monitor.
Prima di iniziare andammo al centro sociale Ex Canapificio di Caserta a
incontrare Mimma, un’attivista da anni impegnata nella lotta per i diritti dei
migranti, che aveva partecipato alla manifestazione del giorno dopo e stava
battendosi, insieme ad amici e connazionali delle vittime, per chiedere
giustizia. Mimma ci spiegò che conosceva alcuni di loro perché in passato si
erano rivolti allo sportello legale del centro sociale e ci suggerì di
contattare Peter, un ragazzo ghanese che avrebbe potuto accompagnarci in giro a
raccogliere testimonianze sulle vite delle vittime.
Incontrammo Peter una sera a Castel Volturno. Era un ragazzo alto e robusto, con
occhi vivaci e un sorriso allegro. Abitava al secondo piano di una palazzina che
affacciava sulla via Domiziana, a pochi passi dal ponte dei Regi Lagni. Ci disse
di conoscere bene le persone uccise e che ci avrebbe portato volentieri nelle
case in cui abitavano, presentandoci familiari e amici.
Iniziai così ad andare con regolarità a Castel Volturno trascorrendo molte ore
con Peter, spostandoci da un posto all’altro, entrando nelle case di molte
donne, nigeriane o ghanesi, che avevano dei piccoli spacci e offrivano da bere e
da mangiare ai propri connazionali che, di ritorno dal lavoro, avevano
l’abitudine di fermarsi lì prima di rientrare a casa. In quelle malandate
villette, ancora arredate con i mobili degli anni Ottanta appartenuti ai vecchi
proprietari italiani, mi trattenevo a lungo. Osservavo le donne mentre servivano
in modo brusco i clienti, con loro provavo a scambiare qualche parola sulle loro
vite e sulla strage, di cui però molti non volevano parlare per diffidenza o
paura.
Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati
prontamente arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata
dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo
da solo inoltrandomi in zone sconosciute oppure andavo a trovare le donne che
avevo conosciuto, a casa della quali trascorrevo lunghissime ore bevendo e
chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte invece seguivo Peter nelle sue
giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, ma
soprattutto la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni
dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere bene le regole
non scritte che ne governavano le relazioni.
Più avanti decisi anche di andare a vivere a Torre di Pescopagano, una località
al confine tra i comuni di Castel Volturno e Mondragone, nota per essere abitata
prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. Quella esperienza mi
diede la possibilità di cambiare ancora una volta il modo di stare sul campo,
passando da ricercatore a volontario che segue le persone immigrate più anziane
e fragili e le aiuta a orientarsi accedendo ai servizi sociali e sanitari.
IL SALONE DI BETTY
In tutti questi anni trascorsi a Castel Volturno mi è accaduto raramente di
tornare a parlare della strage o di ascoltare dei ricordi di qualcuno che era
presente in quei giorni, come se – per la gran parte delle persone immigrate –
fosse stato necessario mettere da parte la storia di quei fratelli morti, e solo
così poter continuare a vivere senza la paura di diventare un giorno a loro
volta bersagli della camorra.
Nei mesi successivi alla strage, gli immigrati scelsero di essere meno visibili
spostandosi in zone più periferiche e isolate ed evitando di frequentare i
luoghi di ritrovo all’aperto a favore delle case private, dove la vita
continuava più chiusa e protetta di prima. Da allora, questa iniziale prudenza è
cresciuta trasformandosi in un modo di vivere sempre più isolato, come se le
vite dei bianchi e dei neri dovessero proseguire separatamente, distinte l’una
dall’altra, pur restando nel medesimo territorio.
Non è neppure un caso che in occasione dell’anniversario della strage, una
commemorazione organizzata tutti gli anni dall’Ex Canapificio insieme ad altre
realtà locali, quando ci si ritrova sul luogo dell’eccidio non siano presenti
amici, familiari e connazionali delle vittime, se si escludono i rappresentati
della comunità islamica e coloro che sono già attivi nel volontariato o in
percorsi di lotta e di rivendicazione dei diritti.
Cosa c’è dunque nel profondo dei loro animi? Cosa custodiscono di così intimo da
volerlo proteggere con il silenzio? Sono davvero distaccati, inerti e cinici
come vogliono far intendere quando si chiede loro della strage oppure questo è
solo l’ennesimo modo di porre una barriera tra noi e loro? Quella forza, quella
determinazione, quella rabbia con cui manifestarono il giorno dopo la strage è
ancora presente? La discriminazione, il razzismo, il sopruso segnano le loro
vite come accadeva nel passato? La camorra continua a imporre il suo dominio?
Con queste domande, nel mese di settembre, quindici anni dopo la strage, ho
deciso di trascorrere alcuni giorni a Castel Volturno, tornare a visitare i
luoghi e incontrare le persone che allora mi aiutarono nella ricerca. Sapevo che
alcuni di loro ci avevano lasciato per sempre, morti di stenti, sofferenze e
malattie mal curate; altri invece si erano trasferiti altrove, ma chissà dove,
forse in Germania o in Francia, forse in altri paesi europei, e di loro avevo
perso le tracce.
Sono andato dunque a Castel Volturno pochi giorni prima del quindicesimo
anniversario della strage, e ho cominciato questo personale viaggio tra passato
e presente visitando il luogo dell’eccidio: un piccolo piazzale ai bordi della
via Domiziana, in località Ischitella, su cui affaccia una palazzina di un piano
con un porticato profondo al di sotto del quale ci sono tre locali commerciali.
Uno di questi era occupato da un barbiere e un altro dalla sartoria Ob Ob Exotic
Fashion, ritrovo di molti ghanesi che abitavano nella zona e per questo motivo
bersaglio del commando criminale che sparò contro tutti coloro che si trovavano
all’esterno e all’interno della sartoria.
Dopo la strage, sulla serranda della sartoria fu disegnata un’ampolla, simile a
quella che conserva il sangue di San Gennaro, il cui “miracolo” si rinnova ogni
anno il 19 settembre; il sangue però oltre a liquefarsi fuoriusciva
dall’ampolla, circondata da sei spine nere e una bianca in ricordo delle vittime
e dell’unico sopravvissuto. Oggi quella serranda appare simile a tante altre,
l’insegna della vecchia sartoria è stata rimossa, e quel disegno è stato coperto
da una vernice grigio antracite uniforme e anonima. A ricordare la strage c’è
invece una stele realizzata dal Movimento dei migranti e dei rifugiati di
Caserta, composta da due tubi metallici, uno bianco e uno nero, che si
intrecciano e sorreggono una targa con la data della strage e i nomi delle
vittime.
Scorrendo quei nomi penso a quanto sia stato importante, nei giorni successivi
la strage, l’impegno degli attivisti dell’Ex Canapificio nel dare dignità a quei
morti ricostruendo le identità di ciascuno e dando visibilità alle loro storie,
in contrapposizione alle cronache dei quotidiani locali e nazionali, che
dedicavano ampio spazio ai carnefici e ipotizzavano come movente della strage un
conflitto tra bande criminali: da un lato la camorra e dall’altro la mafia nera.
Di fianco alla sartoria c’era allora, e c’è ancora oggi, il salone di Betty, una
donna ghanese che ebbe la fortuna, la sera della strage, di chiudere prima di
quanto abitualmente facesse per accompagnare la figlia all’incontro del coro
della chiesa pentecostale che frequentavano. Qualche mese dopo, Betty tornò a
vivere al primo piano di quella palazzina e riaprì il salone dove lavorava come
parrucchiera. Lo fece contro l’opinione di molti suoi connazionali che le
consigliavano di non tornare più in quel luogo. Lei ribatteva di non avere paura
perché non aveva fatto nulla di male, che la vita continuava e aveva bisogno di
lavorare. Io la conobbi quando cercavo di raccogliere informazioni sulle vittime
della strage e un tardo pomeriggio entrai nel suo negozio per chiederle una
testimonianza. Lei mi parlò delle premonizioni che aveva avuto quella sera, che
l’avevano portata a chiudere in anticipo il salone e allontanarsi. Da allora
sono tornato periodicamente a trovarla, trascorrendo del tempo con lei e
osservandola mentre faceva le treccine o le estensioni. Consuetudine che ho
mantenuto anche nei giorni che hanno preceduto quest’ultimo anniversario, ma a
differenza del passato, stavolta ho pensato di ripercorrere con lei quei giorni
e di chiederle se il ricordo di quella strage fosse ancora vivo tra gli
immigrati di Castel Volturno.
Quando le ho detto che erano passati quindici anni, lei ha reagito incredula:
«Davvero? Mamma mia! Come passano gli anni!». Le ho chiesto allora cosa restava
di quella strage e Betty mi ha spiegato che bisognava fare una differenza tra
chi è arrivato dopo e chi era già a Castel Volturno. «Quelli che c’erano in quei
giorni non dimenticheranno mai. Ora molti di loro sono andati via, qui sono
rimasti in pochi. Se non vengono alla commemorazione e non ne parlano volentieri
è perché non vogliono arrabbiarsi, continuare la “guerra”. Ancora oggi, nessuno
sa spiegarsi perché sono stati uccisi. Molti italiani dicono il razzismo, dicono
che agli italiani non piacciono gli africani. Boh! Se qualcuno di loro ha fatto
qualcosa di male perché non se la sono presi solo con lui?».
Questi di Betty sono interrogativi che ho sentito spesso, come se nessun
immigrato riesca ad accettare le motivazioni che hanno accompagnano le sentenze
della magistratura. Come se ci sia ancora qualcosa da chiarire o che
semplicemente non sia possibile spiegare, ed è forse questa difficoltà che
genera la paura di cui molti parlano. Di nuovo, però, ascoltando questi
discorsi, a tratti distaccati, percepisco una specie di rassegnazione, come se
prevalga quasi sempre la volontà di dimenticare, o ancora peggio, di riportare a
una dimensione privata quella rabbia che era esplosa collettivamente il giorno
dopo la strage e che aveva fatto dire ad alcuni osservatori che per la prima
volta in Italia ci si era ribellati alla camorra.
Ho salutato Betty con addosso quella frustrazione tipica di chi cerca una
risposta che non trova e forse non troverà mai, e ho percorso la Domiziana fino
all’abitazione di uno dei ragazzi uccisi: una villetta, ora abbandonata, ben
visibile dalla strada, che mi capita di guardare ogni volta che ci passo davanti
e che mi rimanda indietro nel tempo. Allora l’avevo visitata accompagnato da un
amico della vittima, un ragazzo giovane, alto e magro, con un viso serio e
triste, il quale mi aveva parlato del suo fratello morto, mostrandomi una foto
che lo ritraeva seduto su un muretto, sereno e sorridente, e mi aveva regalato
una maglietta con le immagini delle sei persone uccise con su scritto: “Our
beloving brothers rest in peace”.
Invece di proseguire, come mi accade di solito, questa volta ho parcheggiato
l’auto in una stradina secondaria e dal retro della villetta sono entrato
all’interno: gli infissi erano in parte divelti, alcune camere erano stracolme
di spazzatura, altre erano arredate con i mobili che avevo visto molti anni
prima, adesso vuoti e rovinati; una stanza invece aveva un letto matrimoniale
sfatto e sudicio che faceva immaginare che in quel luogo si rifugiasse ogni
tanto qualcuno per la notte. Ho perlustrato le stanze senza saperne il motivo,
continuando a mettere in relazione quanto vedevo ora con quanto avevo visto
all’epoca della strage, e ripensando alla figura triste ma viva che mi aveva
guidato allora. Non è forse questo abbandono, questa indifferenza, questa
presenza di anime disperate la strage che continua?
A quel punto ho ripreso l’auto e ho percorso un altro tratto di Domiziana fin
quasi al nucleo storico di Castel Volturno, e poco prima della stazione dei
carabinieri ho svoltato a sinistra in un viale privato. Ho fermato l’auto
davanti a un alto cancello bianco da cui si intravedeva un ampio cortile
pavimentato e una casa molto simile a un’abitazione mobile. Un luogo, ora
deserto e disabitato, anch’esso bersaglio del gruppo criminale guidato da Setola
che, qualche mese prima della strage, aveva fatto irruzione in questa stradina e
dall’esterno del cancello aveva sparato verso l’abitazione abitata allora dalla
famiglia di Teddy, il presidente di un’associazione nigeriana che dichiarava di
battersi contro la prostituzione; fortunatamente le armi si erano inceppate
quasi subito e l’agguato era fallito. Ero tornato altre volte su questa scena
del crimine, che era rimasta uguale nel tempo, e guardando il recinto, il
cancello, il cortile vuoto e la casa chiusa avevo provato a immaginare
quell’agguato fallito, l’incredulità e la paura delle persone che in quel
momento erano nella casa, sopravvissute a quei colpi sparati a raffica.
Dopo la villetta di Teddy ho percorso in senso contrario la Domiziana e
raggiunto Varcaturo, una località costiera nel comune di Giugliano. Ero alla
ricerca di una palazzina abitata da immigrati che aveva ospitato tra l’altro
alcune delle vittime, dove c’era anche una piccola moschea e per questo motivo
era il ritrovo di molti ghanesi di fede musulmana. La casa era chiamata Shaolin
House perché negli anni passati aveva accolto tanti immigrati che arrivavano di
continuo, e in gran numero, proprio come i monaci Shaolin nei combattimenti dei
film di arti marziali. La palazzina era più fatiscente del solito e abitata da
molte meno persone. Mi sono fermato a parlare con alcuni di loro. Uno era
tornato da poche settimane per rinnovare i documenti e presto sarebbe tornato in
Germania, dove si era trasferito da alcuni anni. Un altro era arrivato lì da
qualche mese, stava preparando del cibo in una cucina buia e maltenuta.
All’interno vi erano altre persone, una di queste era seduta al tavolo e
mangiava una zuppa di carne. Non conoscevo nessuno di loro. Dopo essermi
presentato, ho chiesto se c’era qualche abitante storico, mi hanno risposto di
no, ho fatto allora qualche altra domanda ottenendo solo risposte elusive:
nessuno di loro si fidava di un misterioso bianco apparso all’improvviso. Sono
andato così sul retro della palazzina dove c’era uno stabile più piccolo adibito
a moschea. Mi sono affacciato nella sala di preghiera e ho visto un uomo a torso
nudo: era l’imam. Si ricordava di me e mi ha salutato cordialmente. Abbiamo
parlato di alcuni amici in comune e del fatto che ora lì abitavano molte meno
persone. Gli ho chiesto se avrebbe partecipato alla commemorazione che si
sarebbe tenuta la settimana successiva. Mi ha risposto di no. Gli ho domandato
come mai non lo riteneva importante. Mi ha detto che per i musulmani c’era un
diverso modo di celebrare i morti, ma non mi ha spiegato quale. Ho fatto qualche
altra domanda, ma sempre meno convinta, ottenendo risposte via via più vaghe,
seguite da lunghi silenzi.
LA STRAGE CONTINUA
Deluso da quei primi incontri, decisi che nei giorni seguenti avrei proseguito
il giro a Torre di Pescopagano e a Destra Volturno dove avevo familiarità con
più persone, le quali – ne ero certo – sarebbero state più aperte nel confidarmi
i loro ricordi e sentimenti. Andai quindi a Pescopagano a trovare Abram e
Patricia, una coppia ghanese che conoscevo da oltre dieci anni e che nell’ultimo
periodo sentivo regolarmente per informarmi sulle condizioni di salute di
Patricia, gravemente ammalata. Appena varcai la soglia di casa, Abram mi
raccontò che Patricia aveva avuto dei forti dolori addominali e ogni qualvolta
mangiava vomitava. Conoscevo bene la malattia di Patricia per averla
accompagnata all’ospedale di Caserta più di una volta e aver visto i referti
medici. Poco dopo anche lei mi venne incontro con un volto pieno di sofferenza.
Mi spiegò che la dottoressa che la seguiva aveva cambiato la cura, ma il suo
corpo, piccolo e magro, non sembrava reagire bene: la pancia si gonfiava, aveva
nausea e vomito.
Ascoltai a lungo i loro racconti e poi, prima di salutarli, gli chiesi se il
giorno successivo avrebbero voluto accompagnarmi in giro. Mi dissero subito di
sì e aggiunsero che avrebbero voluto farmi conoscere delle persone. L’indomani
andai a prenderli alle 10 di mattina. Ci fermammo prima da Doris, un’anziana
piccola e magra, con un volto serio, gli occhi languidi e spauriti. Aveva il
capo coperto da un pezzo di stoffa rossa e blu e alle orecchie portava due
cerchi dorati e un piccolo crocifisso. Avevo conosciuto Doris alla parrocchia di
San Gaetano Thiene, sapevo che aveva il diabete, una malattia molto diffusa tra
gli africani di Castel Volturno, e che si curava male e in modo saltuario. Anche
stavolta mi disse che aveva bisogno di aiuto: avrebbe dovuto rinnovare la
tessera sanitaria e chiedere una nuova ricetta, ma le era difficile raggiungere
l’Asl a piedi. Le chiesi se aveva contattato Emergency che svolge un servizio di
assistenza a domicilio, mi disse che non l’aveva fatto e non sapeva chi
chiamare. Telefonammo insieme e prenotammo un appuntamento.
Dopo la visita a Doris, ci spostammo a Destra Volturno. Salimmo al primo piano
di una palazzina all’apparenza abbandonata. La porta dell’appartamento era
aperta, entrammo e vidi un uomo seduto al tavolo da pranzo e una donna minuta
stesa su un vecchio divano con addosso delle pesanti coperte di lana. Ci
accomodammo intorno al divano, la donna con fatica si tolse le coperte di dosso
e si mise a sedere. Aveva il volto coperto di macchie, gli occhi spenti e
assenti. Provammo a chiederle come stava, prima io in italiano e in inglese, poi
Patricia in ghanese. Capimmo molto poco delle sue risposte, perché parlava poco
e in modo confuso. Ci raggiunse un altro uomo che abitava con lei, spiegandoci
che stava male da giorni, era stata portata diverse volte al pronto soccorso ma
poco dopo riaccompagnata a casa. Le chiedemmo se aveva dei referti e se seguiva
una cura. Cercò tra i documenti che conservava sotto il cuscino ma non trovò
nulla. Le dissi di cercare con calma che sarei tornato il giorno dopo, ma quando
passai di nuovo la trovai nello stesso stato e potei solo starle accanto per
qualche ora. Uscii da quella casa con la consapevolezza che non avrei potuto
fare molto per quella donna e che la sua fine era vicina.
Risalimmo in auto e, senza dire nulla su quanto avevamo visto, tornammo a
Pescopagano dove ci aspettava un’altra visita. Ci fermammo davanti a un altro
edificio malridotto, con gli infissi chiusi e arrugginiti, l’intonaco divelto,
le tegole spaccate e i fili di ferro a vista. Sembrava anche questo chiuso e
disabitato da tempo. Patricia urlò più volte un nome, ma non rispose nessuno;
provò allora con il telefono e seppe che la persona che cercavamo era
all’interno. Aprimmo il cancello ed entrammo nell’appartamento al piano terra.
La cucina fu la prima stanza che vidi, buia e arredata con mobili usurati dal
tempo, alcuni senza ante, altri aperti e vuoti. Da una porta usci l’uomo che
cercavamo, camminava lentamente e a fatica, la parte sinistra del corpo era
offesa e una fascia gli sorreggeva il braccio. Dalla cucina ci spostammo nel
soggiorno, illuminato da una luce fioca, con arredi logori disposti in modo
disordinato. Seduti intorno a un tavolo di plastica, l’uomo ci raccontò che
aveva avuto un ictus e che era tornato a casa da poco tempo dopo un lungo
ricovero in un ospedale napoletano. Gli chiesi se stava facendo una terapia di
riabilitazione, mi disse di no e mi spiegò che trascorreva il suo tempo in
quella casa dove abitava insieme ad altri amici che lo aiutavano con il cibo. Mi
sembrò sereno, ma rassegnato a vivere in quella condizione di infermo. Parlammo
allora della sua vita, del tempo che aveva trascorso a Castel Volturno e anche
della strage: ricordava i nomi di tutte le vittime.
Durante quelle giornate in giro con Abram e Patricia incontrai altre persone, la
gran parte di loro povere, malate e abbandonate al proprio destino, con accanto
solo qualche connazionale, amico o semplice conoscente, che si prendeva cura di
loro, ben consapevole di non poter fare molto per alleviare quel malessere, che
non era solo fisico, ma economico e morale. Chissà se la lezione, consapevole o
meno, di Abram e Patricia era stata quella di mostrarmi l’indigenza degli
immigrati per farmi capire che l’odio e il razzismo che avevano armato i
criminali continuavano ad agire in una forma sotterranea ma altrettanto feroce.
Davanti a quelle vite perse non c’era bisogno di alcuna parola, non era
necessario ricordare il passato, bastavano i loro corpi, malati e sofferenti, a
testimoniare che la strage è ancora in corso. (salvatore porcaro)