C., un driver
Osservatorio Repressione - Wednesday, November 6, 2024Inizia un’altra giornata. Arrivo in magazzino molto presto al mattino, alle 6.30 sono lì per la distribuzione. La mia partenza da casa è lo spartiacque tra le stagioni che si susseguono. A quest’ora, d’inverno è ancora buio e umido, in estate c’è già luce e a volte si incontra il caldo fin da subito. Si sente già il vociare degli altri driver in attesa dei loro pacchi e dei facchini addetti allo smistamento, impegnati in una costante attività fisica. Se vuoi vedere i popoli del mondo, devi visitare un magazzino della logistica.
Mi accaparro uno stallo, spesso questo è motivo di scontro con i colleghi abitudinari, convinti che quel posto sia il loro diritto. La disorganizzazione aziendale si ripercuote nei rapporti tra colleghi, crea attriti. Il lavoro non crea solo alleanze.
Arrivo nella mia zona di assegnazione, l’F4. La distribuzione dei pacchi avviene dal terminale della rulliera centrale, dove sono etichettati i pacchi con un codice che riguarda la zona di assegnazione. Ognuno ha la sua zona di competenza, un territorio spartito dove ogni giorno avviene la consegna delle merci. Sono pronto, come gli altri, inizio: afferro i pacchi, uno dopo l’altro e li divido, caricandoli sul furgone con un criterio che corrisponderà poi al mio percorso, cercando di sistemarli anche in modo da bilanciare il carico. La difficoltà grossa del corriere non è tanto trovare le strade, ma i pacchi nel furgone. Sono loro a scandire il tempo e a determinare la mia giornata.
Se la strada non la conosci ti può aiutare il navigatore, il pacco nel furgone, invece, devi sapere esattamente dove si trova, è il segreto per non perdere tempo. C’è la necessità di avere un ordine allineato a una cronologia, in modo da fare una ricerca veloce. Ci vorranno un paio d’ore adesso. Ho finito di caricare il furgone, sono pronto. Si va per strada. Il piazzale antistante, visto dall’alto è uno schieramento di pedine pronte a muoversi verso le centinaia di strade tra campi e centri abitati.
Adesso dovrò affrontare un’altra delle difficoltà che un driver incontra nella sua giornata: la ricerca di un parcheggio per potere effettuare la consegna. In una giornata un corriere non esce con meno di novanta spedizioni, di cui magari settantacinque stop, in un condominio si potrebbero avere, ad esempio, tre pacchi e quello è considerato un solo stop. Però settantacinque stop, significa fermare il furgone e scendere. Questo è il nostro lavoro. Pacchi di diverso peso e diverse dimensioni. Percorsi piani, inclinati, scale, sali e scendi, centinaia di movimenti e passi che si ripetono tutto il giorno, ogni giorno.
Il giro da fare si basa molto sull’esperienza personale che si acquisisce man mano. La priorità viene data alle attività commerciali e alle aziende, le prime a dover essere rifornite, perché hanno orari di chiusura rigidi e necessitano della merce. Se le trovi chiuse diventa una perdita di tempo, perché bisogna tornare nel pomeriggio e il che comporta un ritardo sulla tabella di marcia. Siamo quelli che portano ossigeno all’incendio continuo della produzione e della vendita. Siamo i globuli rossi del sistema produttivo a bordo di furgoni con pneumatici e freni usurati. La manutenzione dei mezzi è scarsa e su questo la differenza la facciamo noi, riguarda la nostra vita. Siamo noi che dobbiamo capire se ci sono le condizioni per lavorare sicuri. Io se non ho un mezzo idoneo per poter fare il mio lavoro non esco. All’azienda do la mia disponibilità, ma se non ho un mezzo idoneo non vado a lavorare. Sono a conoscenza di molti guasti e mancati incidenti di miei colleghi. Un rischio che le aziende corrono pur di mantenere alti i margini di profitto. Se possono saltare qualche manutenzione, evitare di sostituire i mezzi, lo fanno. La distribuzione si basa sul valore della merce, non dei lavoratori che la movimentano e trasportano.
Ogni giorno so che il mio orario di lavoro dipende dal compimento di tutti i servizi che mi vengono assegnati. A ognuno viene assegnato un numero di servizi che non scende sotto il numero novanta. Nella smorfia napoletana è la paura. Paura di trovare ostacoli, allontanando l’ora di fine lavoro, paura di distrarsi per la stanchezza e fare un incidente, giostrandosi dentro arterie stradali spesso occluse. A questo, si aggiungono altri servizi, tipo una decina almeno di ritiri ogni giorno. La nostra giornata termina quando finiscono i servizi assegnati.
Un corriere che conosce bene la zona, un corriere veloce, che è bravo, finisce con orari decenti, quindi restare all’interno delle otto ore di lavoro. Orario che ti permette di avere una vita fuori dal lavoro. I nuovi – ci sono passato anche io come tutti – o comunque quelli che fanno il lavoro del jolly, ossia quello che va a coprire ogni mattina le esigenze dell’azienda, i buchi, dovuti alle mancanze, tipo persone in malattia o ferie, superano le otto ore. Il jolly è una figura che andrebbe retribuita in maniera diversa, maggiore, in quanto incontra difficoltà maggiori rispetto a noi, come orari di lavoro più lunghi. I più anziani ed esperti rientrano in filiale intorno alle sedici, mentre gli altri anche alle diciannove di sera. Ecco, a proposito, un ingorgo.
Oltre alle consegne ordinarie, ci sono anche altri servizi particolari da effettuare, come ad esempio rifornire alcune aziende, che prima delle diciotto non ritirano la merce per delle loro necessità organizzative. Sono servizi straordinari che vengono fatti a rotazione e vengono pagati come straordinari. Io questi servizi non li faccio, perché a fine mese ti trovi in busta quattro soldi. Perché alla fine la differenza retributiva non vale l’impegno, invece di rientrare a casa alle sedici, rientri alle diciotto di sera. Abbiamo provato a parlare con l’azienda per avere magari un fisso per questi servizi, ma l’azienda non è disponibile ad ascoltarci. Vagli a raccontare che a fine mese ti aspettano rate, bollette, manutenzioni alla macchina, spese mediche e tutto ciò che sta diventando inaccessibile per la maggioranza delle persone. Mondi che partono da bisogni diversi e che si incontrano solo nel momento dello scambio: tu mi porti questa merce entro questo tempo e io di do il cambio del tuo tempo e delle tue energie quanto ti basta per campare mese dopo mese. Interessi. uno più piccolo e suddiviso, frammentato per centinaia di persone, l’altro grande, unico, fruttuoso, per pochi.
Sono per strada ed è appena iniziata la settimana, dovrò lavorare fino a venerdì. Sabato l’azienda ci ha chiesto la disponibilità, è rimasta molta merce accumulata in magazzino, ma la mia non l’avranno. Io non la do più, perché non condivido come viene pagata la giornata del sabato. Sabato si rischia di uscire a lavorare per trenta/trentacinque euro, perché pagano un euro a consegna. Se si superano le cinquanta consegne aggiungono un bonus fisso. Quindi se fai cinquantacinque consegne prendi cinquantacinque euro più il bonus, e diventano centocinque. Se trovi meno di cinquanta persone in casa, fai per esempio trentacinque consegne, prendi trentacinque euro. Uscire il sabato per questa cifra? Non ci penso proprio. Preferisco stare a casa, riposare, fare altro. Intanto procedo con la prima consegna, il parcheggio stavolta è comodo. Un po’ di fortuna ogni tanto aiuta anche i driver!
Durante la giornata ordinaria i riposi non esistono di fatto, una volta che sei uscito fuori, e parti in consegna devi finire. Personalmente, a differenza di molti, la pausa pranzo me la impongo, mi fermo un’ora, un’ora e mezza, in base alle esigenze e poi riprendo a lavorare. Mi prendo del tempo per riposare e recuperare le energie. Non si può guidare di continuo, l’attenzione cala. La maggior parte dei lavoratori, non fanno pausa pranzo, tendono a fare orario continuato per cercare di finire prima le consegne e terminare la vicenda. È un meccanismo che si genera, scatta la voglia di finire il prima possibile e quindi si evitano le pause. A proposito, manca ancora tanto alla pausa. Ho finito la prima consegna da dieci pacchi, ora riparto, il traffico inizia a intensificarsi.
Mentre salgo sul furgone e riprendo a guidare, sarà perché ho delle spese da affrontare questa settimana, mi viene in mente di quando ho iniziato a lavorare. Ricordo che lo stipendio era poco più di milleduecento euro al mese, compreso tredicesima e quattordicesima, non c’erano ferie, non c’era niente. Eravamo schiacciati su una condizione minima. Adesso lo stipendio non scende mai sotto i millenovecento euro, escluso tredicesima e quattordicesima, e abbiamo le ferie che ci spettano. Ci sono volute tantissime lotte per portarci a questo, ci sono volute misure cautelari, denunce, rappresaglie e ricatti rigettati al mittente. Niente di tutto questo ha rotto la nostra coesione, nonostante gli attriti a volte. Il corpo unico non si è disunito.
Anche se abbiamo migliorato la nostra condizione salariale rispetto agli inizi, considerato il tipo di lavoro che facciamo, lo stipendio è basso, perché comunque le aziende tendono sempre a non elargire tutto quello che la legge prevede e il costo della vita è costantemente in aumento. Se noi andassimo ad analizzare le buste paga, sicuramente verrebbero fuori delle sorprese. Le aziende tendono sempre a cercare di tagliare i costi a danno dei lavoratori. Quelli messi peggio di noi, da questo punto di vista, sono i magazzinieri. Perché spesso queste aziende che eseguono il facchinaggio nei magazzini, impiegano lavoratori stranieri, gestiti da un caporale con molti che non conoscono la lingua e le leggi sul lavoro italiane. Non conoscendo le leggi, direi che sono spesso e volentieri derubabili, non mi viene un altro termine più esatto di questo. Sono quelli, infatti, che hanno molto da rivendicare e portano avanti lotte più dure nel nostro magazzino. Devono uscire dalle condizioni in cui, in qualche modo, eravamo anche noi, anni fa. Ci sono giochi societari occulti, cooperative nate e morte dopo poco, tecniche di aggiramento del fisco, contributi non versati, false fatturazioni. Questo danneggia l’erario, ma ricade nella vita reale dei lavoratori che si trovano in questo ambiente di avvoltoi.
Ho concluso la quinta consegna, il quinto stop, riprendo il giro. I miei occhi cadono subito sul cantiere della casa laterale alla via che sto imboccando, vedo i lavoratori a decine di metri in alto sulle impalcature e la mente mi porta alle tragiche notizie che sento alla radio mentre guido. La vista di quei lavoratori mi fa pensare alla sicurezza sul lavoro nei nostri magazzini. Che casino nei magazzini, i muletti che vengono utilizzati alla leggera, condotti anche da chi non ha il patentino e non ha fatto la formazione, le zone di stoccaggio materiali non mai nettamente separate dalle zone di transito dei pedoni. Quando stacchi un attimo per andare in bagno o a bere un caffè, corri il rischio di essere investito. Migliaia di movimenti, smistamenti al giorno, decine di muletti, in alcuni metri quadri, una densità notevole di elementi che si muovono, mezzi e persone. Perché non c’è tutta questa distinzione dei percorsi, come in altre aziende che noi serviamo tutti i giorni, tipo le metalmeccaniche? Io lì vedo che le zone di transito pedonale sono riservate esclusivamente ai pedoni, mentre da noi c’è questa promiscuità che è abbastanza pericolosa. Un risparmio da parte aziendale è un risparmio che genera un guadagno che si moltiplica se questo risparmio lo applichi in tutti i magazzini. Sono fermo al semaforo, incolonnato e penso che si debba fare ancora molto, soprattutto per le categorie più ricattabili. È scattato il verde, riprendo a guidare, se penso a come ci freghino continuamente, do i numeri.
Viviamo in un ambiente dove la pressione del ricatto da parte del datore di lavoro è l’arma vincente per avere un capannone che possa dare un massimo profitto. Per realizzare questo, l’azienda deve avere tutto sotto controllo. Ogni volta che vengono assunte persone nuove, gli si dice espressamente a quale sindacato non iscriversi e a quali invece iscriversi. Prevenzione: evitare la sindacalizzazione conflittuale dei neoassunti, impedire la comunicazione tra questi e i più combattivi. Nel momento in cui qualcuno tenta di ribellarsi di fronte a situazioni di ingiustizia scatta la rappresaglia da parte dell’azienda.
Ricordo che tempo fa, mi era stata assegnata per le consegne una zona di montagna, facevo quasi duecento km al giorno e arrivavo a millequattrocento metri di altezza, non avevo un furgone idoneo per farlo. Vedevo che c’era un furgone idoneo assegnato a un collega che e faceva però un percorso quotidiano di venti km in città, a quattro km dal deposito, tutto in pianura. Di fronte a questo, mi sono ribellato e ho chiesto l’utilizzo di quel furgone, è venuto fuori un macello. Alla fine, il furgone me l’hanno dovuto affidare, ma poi me l’hanno fatta pagare. Mi hanno assegnato a dei servizi tardivi, quelli per cui rientri tardissimo o lavori oltre le diciotto. Servizi tardivi significa tredici ore di lavoro al giorno. Ciò era per mettermi in difficoltà e darmi un segnale ben preciso. Però se non ti ribelli nulla può cambiare, tutto è in funzione di quando ti ribelli. Cercano di caricarti di lavoro all’infinito, soprattutto i primi tempi, quando sei appena assunto, per forgiarti come ti vorrebbero. Quando poi inizi a ribellarti, iniziano con le repressioni, però lì sta poi a te resistere e far capire che tu hai dei diritti e non sei obbligato a fare gli straordinari. Non ti possono obbligare tutte le sere a lavorare a oltranza!
Pausa pranzo. Stacco il cervello, mangio, riposo e penso a cose belle. Mi capita di sentire il bisogno di evadere da ciò che ogni giorno vedo con i miei occhi e vivo. Anche se non potrò fare ciò che immagino, mi trasporto mentalmente altrove, mi aiuta ad evadere un momento e ricaricarmi. Fuga momentanea.
Finita la pausa, si riparte, mi restano ancora molti pacchi da consegnare. Svolto l’angolo e mi viene in mente l’episodio dello scorso inverno, quando alcuni lavoratori avevano il contratto in scadenza e l’Unione Sindacale di Base, era diventato molto forte, rappresentava un terzo dei lavoratori del magazzino. Il nostro datore di lavoro, temendo di perdere il controllo della situazione, ha ben pensato di andare dai lavoratori in scadenza e proporgli il rinnovo a patto che lasciassero il nostro sindacato. Cosa che poi è stata disattesa da tutti, escluso un lavoratore. Questo lavoratore, anche amico, era venuto a raccontarmi di questa pressione da parte del datore. Conoscevo la sua condizione di ricattabilità, in casa lavora solo lui, ricordo di avergli detto «Vai a dire pure che ci schifi. Non è un problema, perché tu devi portare lo stipendio a casa».
Contemporaneamente, il datore ha provato a mettere sotto pressione anche noi, lavoratori sindacalizzati, non concedendoci il premio natalizio e andando da altri lavoratori, appartenenti al nostro sindacato, a dirgli che gliel’avrebbe dato a condizione che lasciassero l’Unione Sindacale di Base. Anche in questa occasione i lavoratori non hanno ceduto al ricatto. Un chiaro tentativo di provare a smontare la forza del sindacato all’interno di questo magazzino. Queste mosse e tutti i ricatti sono condizione temporanea, sono convinto che tutto ciò ci rafforzi, anziché indebolirci.
È finita anche questa giornata, mi aspetta ancora tutta la settimana. Non ricordo neanche il numero di fermate che ho fatto, di pacchi movimentati, di passi percorsi e strade incrociate. Arriva un momento della giornata in cui mi disoriento, procedo come se fossi un pilota automatico, un automa. Solo il flusso dei pensieri mi rende conscio che sono umano. Spero di conservare questa capacità nel tempo. Mi spavento quando mi accorgo di procedere meccanicamente. Il mio corpo e la mia attenzione, energia fisica ed energia del pensiero, insieme per produrre valore. Io le aziono per vivere, sopravvivere, a qualcun altro servono per accumulare ricchezza.
Spengo il furgone, chiudo la portiera, mi guardo intorno, vedo persone che come stanno rientrando a casa. Mi incammino verso la porta di casa e mi fermo un secondo. Un attimo che ferma il tempo e sospende il suo flusso inesorabile che consuma e fissa fatti, in cui in me aleggia una sensazione mista a convinzione. Il punto in cui la Storia ricade su di te, singolo e apparentemente solo e ti fa sussurrare «un giorno andremo a vincere!».