Carcere di Cuneo: Picchiare i detenuti era la prassi

Osservatorio Repressione - Wednesday, November 13, 2024

Dall’inchiesta sul carcere emerge una realtà infernale: “Picchiare i detenuti a Cuneo era la prassi”. Per i giudici del tribunale del Riesame non ci sono dubbi delle violenze sistematiche della Penitenziaria. I verbali dei detenuti nell’inchiesta che già conta 33 indagati. Gli agenti intercettati: «Quella notte li hanno portati tutti giù e bum bum bum»

di Elisa Sola  da La Stampa

Per i giudici del tribunale del Riesame non ci sono dubbi delle violenze sistematiche della Polizia penitenziaria. Condotte “crudeli, brutali e degradanti per le vittime”. E, soprattutto, “frutto non già di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza”.

Non esistono dubbi, secondo i giudici del tribunale del Riesame di Torino. Nel carcere di Cuneo picchiare i detenuti, perlomeno in un determinato periodo, sarebbe stata un’abitudine per alcuni agenti della penitenziaria. Accogliendo la tesi della procura – guidata da Onelio Dodero – e respingendo i ricorsi delle difese, i giudici del Tribunale della libertà (presidente Cristiano Trevisan) hanno confermato la misura dell’interdizione dal servizio, per 10 e 12 mesi, nei confronti di due poliziotti. Rappresentati dagli avvocati Antonio Mencobello e Leonardo Roberi, l’ispettore Giovanni Viviani e l’assistente capo Rosario Rossi, si erano difesi anche sostenendo che non vi fosse pericolo di reiterazione del reato.

Per i giudici non è così. L’indagine sui pestaggi subiti da un gruppo di detenuti, di cui molti pakistani, in particolar modo durante la notte tra il 20 e il 21 giugno 2023, avrebbe fatto emergere violenze dettate dalla volontà di “impartire ai detenuti una lezione su come ci si doveva comportare nel carcere di Cuneo”. Violenze che potrebbero essere replicate. Quella notte le vittime furono almeno cinque. Picchiate nude, scalze, trascinate dalla cella all’infermeria. E da qui, dopo la prima parte del pestaggio, fino alle stanze destinate all’isolamento. Dove, secondo l’accusa, sarebbero rimaste fino al giorno dopo “senza cibo né acqua, senza vestiti né coperte”. Ma, al di là di quella notte, l’inchiesta svolta dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, avrebbe fatto emergere, un quadro più preoccupante. Sarebbe stata “una prassi” picchiare i detenuti. Ecco perché il reato contestato dalla procura, la tortura, secondo il Riesame sarebbe sussistente, oltre alle lesioni.

“Gravi indizi di colpevolezza” peserebbero “nei confronti degli indagati”. Indizi confermati non solo dalle testimonianze, ma anche dalle consulenze medico legali, dai filmati delle telecamere e dalle intercettazioni. In totale gli indagati sono 33.

Le vittime di quella notte di giugno, schernite anche per la loro origine – “pakistani di merda” – sono quasi tutte incensurate. La notte della “mattanza” era iniziata con una perquisizione non autorizzata nella cella 417. Fra i presunti picchiatori, anche agenti liberi dal servizio con i guanti neri.

Per il Riesame i fatti denotano una “estrema gravità delle condotte, tenute in spregio ai principi costituzionali e che devono informare l’operato degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, funzione altamente delicata, in cui le funzioni di custodia devono accompagnarsi a doti di umanità e rispetto per chi è privato della libertà personale”. Nei confronti dei poliziotti per i quali la procura aveva chiesto e ottenuto dal gip la misura della sospensione dal servizio, per i giudici “sussiste un concreto e attuale pericolo di reiterazione, trattandosi di soggetti attualmente in servizio presso lo stesso carcere e stabilmente a contatto con i detenuti”.

Non consta, peraltro, che gli stessi siano stati sospesi disciplinarmente dal servizio – concludono – né che siano incorsi in altre sanzioni disciplinari per i fatti per cui si procede. Anzi, per quanto emerso in udienza, rispetto all’allegazione del pm non smentita dall’indagato presente né dalla sua difesa, parrebbe che Viviani sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria”.

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