Angela Davis e la repressione
Osservatorio Repressione - Tuesday, November 19, 2024La militante afroamericana individuò il ruolo delle strutture poliziesche e sicuritarie nel disciplinamento e nella gestione delle crisi capitalistiche. La sua lezione nell’Italia di oggi è ancora più attuale
di Cecilia Sebastian da Jacobin Italia
A ventisei anni, Angela Davis divenne una delle prigioniere politiche più famose al mondo e un’icona rivoluzionaria, la sua immagine era riconoscibile come quelle di Mao Zedong o Che Guevara. Le circostanze che portarono alla sua detenzione furono complesse e in parte artificiose.
Nell’agosto del 1970, diverse armi registrate a nome di Davis erano state brandite nel tentativo di liberare tre uomini non bianchi incarcerati in un tribunale della contea di Marin, in California. Dopo che le guardie della prigione di San Quentin aprirono il fuoco, quattro persone furono uccise, tra cui un giudice distrettuale. Davis non era a conoscenza degli eventi, ma venne implicata a causa delle armi.
Ancora più significativo, Davis era un membro noto del Partito Comunista degli Usa e un’attivista nera emergente: lo Stato la voleva morta o rinchiusa. Emise un mandato di arresto per accuse di cospirazione, rapimento e omicidio, che prevedevano la pena di morte, e Davis fu inserita nella lista dei più ricercati dall’Fbi.
Davis sostiene che furono la campagna di pressione internazionale condotta dal Pc degli Usa e dal National United Committee to Free Angela Davis a salvarle la vita. Tra il 1970 e il 1972 trascorse diciassette mesi in prigione prima di essere rilasciata su cauzione e infine assolta da tutte le accuse. Durante questo periodo, lettere di solidarietà da posti come Cuba, Francia, Germania dell’Est e Unione Sovietica inondarono la prigione di San Jose e il tribunale dove sarebbe stata processata. Per gente da tutto il mondo, non era Angela Davis a essere processata, ma il sistema di giustizia penale statunitense: avrebbe assolto una comunista nera palesemente innocente?
Ciò che rende l’esempio di Davis degno di nota è che non ha mai smesso di ripagare il debito che sente di avere nei confronti della sinistra internazionale per averle garantito la libertà e la vita. Dal movimento di boicottaggio contro l’apartheid sudafricano a Occupy Wall Street e alla ribellione dopo l’uccisione di George Floyd, nell’ultimo mezzo secolo si è presentata a quasi ogni mobilitazione di massa. In mezzo a una repressione e censura crescenti, ha espresso fermo appoggio alla lotta di liberazione palestinese. Ancora più importante, ha offerto alla sinistra una delle critiche più taglienti al profondo legame dello stato di sicurezza degli Stati uniti con lo sfruttamento e l’oppressione, individuando il nesso con gli ostacoli per l’organizzazione rivoluzionaria.
La Johannesburg del Sud
Angela Davis nacque nel 1944 sotto un sistema di apartheid razziale a Birmingham, Alabama. Suo padre gestiva una stazione di servizio; sua madre era attiva nel Southern Negro Youth Congress, un’organizzazione di sinistra per i diritti civili con una forte presenza comunista.
A Birmingham, nota come la Johannesburg del Sud, la minaccia della violenza bianca era costante. La famiglia Davis viveva in un quartiere che era stato soprannominato Dynamite Hill a causa dei frequenti attentati ai danni dei proprietari di case neri. Vicini e amici morirono a causa di attacchi razzisti, tra di essi l’attentato del Ku Klux Klan del 1963 alla 16th Street Baptist Church, che plasmò profondamente la coscienza politica di Angela Davis.
Angela frequentò scuole segregate fino all’età di quattordici anni, quando fu accettata da un programma quacchero che ammetteva studenti neri del Sud in scuole integrate del Nord. Scelse la Elisabeth Irwin High School di New York per la sua reputazione progressista.
Alla Elisabeth Irwin, Davis lesse il Manifesto del Partito comunista, che la colpì «come un fulmine», come ricordò in seguito. Iniziò a considerare la liberazione dei neri come parte della lotta più ampia dei lavoratori e delle lavoratrici. Aderì ad Advance, un’organizzazione giovanile socialista fondata da diversi suoi coetanei red diaper [letteralmente pannolino rosso, l’espressione indica i figli dei militanti comunisti, Ndt]. Tra di essi c’erano Eugene Dennis Jr, figlio del leader omonimo; Bettina Aptheker, figlia dello storico Herbert Aptheker; e Mary Lou Patterson, il cui padre, l’avvocato William L. Patterson, aveva consegnato alle Nazioni unite la famosa petizione We Charge Genocide per protestare contro i linciaggi dei neri nel Sud degli Stati uniti.
Il gruppo di giovani organizzò manifestazioni contro i test nucleari e fece picchetti al Woolworth’s per via dei banconi riservati ai bianchi. Si riunirono nel seminterrato dell’Apthekers tra le carte di WEB Du Bois, che Herbert Aptheker stava allora conservando.
Molto più tardi, Davis sarebbe tornata alla nozione di «democrazia abolizionista» di Du Bois per elaborare il concetto di una radicale trasformazione sociale in assenza del rovesciamento dello Stato. Ma all’età di diciassette anni, la rivoluzione le appariva nitidamente ancora all’orizzonte.
Il fronte estero
Nel 1961, Angela Davis si iscrisse alla Brandeis University. Era una dei tre studenti neri nella sua classe. La sua attenzione fu presto attratta dal principale intellettuale di sinistra del campus, Herbert Marcuse.
Marcuse era parte del gruppo di intellettuali marxisti ebrei tedeschi noti come Scuola di Francoforte. Costretti negli anni Trenta all’esilio negli Stati uniti, avevano ridefinito le categorie marxiste classiche come classe e sfruttamento per interpretare la loro esperienza storica dell’antisemitismo eliminazionista. Entro gli anni Cinquanta, avevano individuato molti degli impedimenti materiali e psichici che bloccavano la rivolta collettiva. Nella loro lettura, la violenza razzializzata funzionava come una manifestazione esteriore delle tendenze di crisi del capitalismo e una componente chiave nell’arsenale dello Stato per interrompere le lotte di liberazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’interpretazione del marxismo da parte della Scuola di Francoforte era una scelta naturale per Angela Davis, già attenta agli interessi condivisi, seppur spesso frustrati, del comunismo e della liberazione dei neri. A loro volta, il suo entusiasmo intellettuale e la sua notevole propensione a confrontarsi con le contraddizioni della filosofia idealista tedesca, il quadro analitico preferito dalla Scuola di Francoforte, impressionarono Marcuse, che ne divenne mentore per tutta la vita.
Grazie al legame con Marcuse, Davis si trasferì a Francoforte nel 1965 per proseguire gli studi in filosofia con Theodor Adorno. Si unì rapidamente al nucleo radicale della sezione di Francoforte della German Socialist Student Union (Sds). Si trasferì in un edificio industriale fatiscente con diversi membri della Sds, tra cui il leader studentesco Hans-Jürgen Krahl.
Di giorno, frequentavano le lezioni all’università con Adorno, Max Horkheimer e Jürgen Habermas. Di notte, trascrivevano e ciclostilavano opere di teoria critica fuori catalogo, producendo edizioni pirata che vendevano agli eventi Sds per finanziare le loro attività politiche.
Tra il 1965 e il 1967, le attività politiche dell’Sds tedesco si concentrarono sulle lotte di liberazione anticoloniali, in particolare sul Vietnam. Gli studenti erano convinti che la decolonizzazione avrebbe rotto il continuum capitalista globale, ed erano determinati a ostacolare le operazioni neocoloniali degli Stati uniti, per le quali la Germania Ovest fungeva da avamposto militare cruciale. Chiesero lo scioglimento della Nato, costruirono forme organizzative extraparlamentari, contestarono la disinformazione dei media e si scontrarono con la polizia.
La loro militanza impressionò Davis, che in seguito avrebbe ricordato la serietà con cui i suoi compagni Sds avevano cercato di sviluppare «forme di resistenza pratica» in modo da rompere l’apatia della loro stessa società e colmare le divisioni globali. L’esperienza evidenziò le possibilità di costruire coalizioni multi-classe, multirazziali e internazionali, che Angela Davis avrebbe sostenuto per il resto della sua vita.
Teoria critica e pratica rivoluzionaria
Nel 1967, Davis decise di tornare a casa per unirsi alla lotta per la liberazione dei neri. Marcuse si era nel frattempo trasferito alla neonata University of California, San Diego (Ucsd), così si iscrisse al suo corso di laurea in filosofia e iniziò a esplorare il ricco panorama dell’organizzazione politica radicale nella California meridionale.
Nei due anni successivi, si organizzò con lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc), il Black Panther Party for Self-Defense (Bpp) e il Che-Lumumba Club, sezione afroamericana del Partito comunista degli Usa nelle quali incontrò alcuni dei suoi compagni più stretti, tra cui la coppia Franklin e Kendra Alexander e i fratelli Charlene e Deacon Mitchell. Tutto il lavoro politico di Davis si concentrò sulla violenza razzista della polizia e sulla sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, le organizzazioni in cui era attiva avevano opinioni diverse sul percorso strategico e sul contenuto della liberazione dei neri, e a volte litigavano.
Nel 1969, Angela Davis fu assunta come professore associato di filosofia dall’Università della California, Los Angeles, dopo aver ufficialmente avanzato la candidatura presso l’Ucsd con una tesi sul problema della forza, o violenza, nella filosofia di Immanuel Kant. Il suo lavoro preliminare indicava che la nozione di libertà morale di Kant prevedeva logicamente un diritto individuale di resistenza e persino di rivoluzione, che era altrimenti negato nella sua filosofia politica proto-borghese. Fedele alla sua formazione marxista, Davis sosteneva che questa contraddizione teorica, che trovava il suo corollario contemporaneo nei dibattiti sulla legalità dell’attivismo, poteva essere risolta solo nella pratica, attraverso la totale trasformazione dello Stato costituzionale borghese.
Tuttavia, prima che il semestre autunnale alla Ucla potesse iniziare, un informatore dell’Fbi rivelò pubblicamente che Angela Davis era un membro del Partito comunista, e fu licenziata dal Board of Regents dell’Università della California. Da un giorno all’altro, divenne oggetto attacchi e minacce di morte anticomunisti, razzisti, misogini e anti-intellettuali.
Davis contestò con successo il suo licenziamento in tribunale, citando i suoi diritti del Primo Emendamento alla libertà di parola e di riunione e il suo diritto come professoressa alla libertà accademica. Ma aveva trovato un nemico determinato nel governatore di destra della California, Ronald Reagan, che riuscì a farla licenziare di nuovo alla fine dell’anno accademico.
Nel frattempo, Davis usò la sua fama per mettere in luce il lavoro del Soledad Brothers Defense Committee, a cui si era unita nel febbraio 1970. George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette erano tre afroamericani incarcerati nella prigione di Soledad, accusati dell’omicidio di una guardia carceraria bianca. Il comitato di difesa sostenne che erano stati presi di mira per la loro agitazione politica in prigione e cercò di ottenere il sostegno pubblico.
Fu attraverso il suo lavoro nel comitato di difesa che Davis strinse amicizia con il fratello minore di George Jackson, Jonathan, che alla fine avrebbe guidato il fallito tentativo di liberare altri tre uomini di colore, James McClain, William Christmas e Ruchell Magee, presso il tribunale della contea di Marin nell’agosto del 1970. I fratelli Soledad furono infine assolti nel marzo del 1972, sebbene George Jackson fosse già morto a quel punto, essendo stato ucciso nell’agosto del 1971 da una guardia carceraria durante un altro tentativo di fuga.
Una lotta costante
Nel novembre del 1970, Marcuse scrisse a Davis, allora incarcerata a New York, per dirle che aveva fatto un’importante scoperta filosofica mentre rileggeva i suoi scritti accademici: «La libertà non è solo l’obiettivo della liberazione, inizia con la liberazione; è lì per essere ‘praticata’. Questo, lo confesso, l’ho imparato da te!». Angela Davis si attiene ancora a questa convinzione, come è evidente nel suo mantra più noto: «La libertà è una lotta costante».
La libertà, insiste, non è una proprietà fissa. Non può essere conferita a una persona, men che meno da uno Stato. Allo stesso modo, non può essere ridotta alla dimostrazione negativa che siamo liberi perché ci sono altri che non sono liberi, altri che lo Stato ha rinchiuso. Per essere degna del concetto, la libertà deve avere il suo contenuto materiale positivo, che, poiché non esiste ancora, deve prima essere promulgato.
L’esperienza personale di Angela Davis dietro le sbarre è stata formativa per la sua comprensione critica non solo della negazione materiale della libertà che la prigionia costituisce, ma anche della pratica dinamica della libertà. A sua volta, il progetto abolizionista che ha iniziato a immaginare dalla prigione di San Jose ha trasformato il modo in cui la sinistra concepisce la politica contemporanea.
Mentre era incarcerata nel 1971, Davis scrisse con la sua compagna comunista e amica Bettina Aptheker che il ricorso dello Stato alla repressione violenta indicava che le sue istituzioni, inclusa la prigione, erano «impermeabili a riforme significative» e «devono essere trasformate in senso rivoluzionario». Nella pagina successiva, chiedevano «l’abolizione» del sistema carcerario in quanto tale.
La rivendicazione abolizionista di Davis e Aptheker si allontanava dall’attenzione ortodossa all’organizzazione intenzionale del lavoro industriale. Negli Stati Uniti, l’occupazione dei colletti blu era in declino dagli anni Cinquanta e quei lavoratori che erano stati storicamente gli ultimi a entrare nel rapporto salariale industriale (i neri e altre minoranze) furono i primi a esserne esclusi, ridotti allo status di sottoclasse definita dalle porte girevoli della precarietà salariale e da ciò che Davis allora chiamava «apparato giudiziario-penale-poliziesco».
Modulando il focus sulla polizia e sugli ostacoli carcerari alla lotta di classe, Davis cercò di valorizzare quella che riteneva essere la maggiore spinta oppositiva di quei proletari che erano più vulnerabili alla ridondanza economica e alla violenza dello Stato. Mirava anche a contrastare direttamente la capacità dello Stato di continuare a costringerli alla sottomissione molto tempo dopo che l’ordine capitalista razziale aveva cessato di elargire i salari necessari per l’auto-riproduzione della classe operaia. L’abolizione era una strategia rivoluzionaria, in altre parole, in sintonia con le contraddizioni del tardo capitalismo.
Ma l’abolizione, come sarebbe diventato chiaro, era anche una strategia rivoluzionaria adatta a un’epoca di riflusso della sinistra. La speranza della New Left di una rottura rivoluzionaria non si era concretizzata, non da ultimo a causa dell’enorme capacità di repressione dello Stato. Possiamo discutere le carenze e i punti ciechi della strategia della New Left, ma la sua sconfitta aveva più a che fare con programmi governativi come Cointelpro che con gli hippy e l’orizzontalismo.
In seguito alla sconfitta, gli obiettivi di chiudere le prigioni, riscrivere le leggi sulle condanne, bloccare la costruzione di nuove prigioni e carceri e istituzionalizzare alternative riparatrici alla reclusione sono diventate forme diffuse e frammentarie per estendere la visione di una radicale trasformazione sociale, erodendo al contempo la capacità controrivoluzionaria dello Stato. Il significato strategico di questo lavoro diventa ancora più chiaro quando agli attivisti di Stop Cop City viene contestato il reato associativo e quando gli attivisti pro-Palestina sono sottoposti alla di polizia e vigilanti, alla censura e alla perdita del lavoro.
Ora che ha ottant’anni, il continuo sostegno di Angela Davis alle proteste di massa sta iniziando ad assomigliare a quello del suo ex mentore. Negli anni Sessanta, Marcuse ottenne il titolo onorifico di nonno della Nuova Sinistra e i giovani attivisti modificarono il loro slogan in: «Non fidarti di nessuno sopra i 30, tranne che di Herbert Marcuse».
Pur essendone lusingato, Marcuse insistette sul fatto che non era lui la causa delle rivolte. Ciò che aveva cercato di fare era identificare le fratture materiali e psichiche all’interno della società che erano mature per lo scontro, e poi consolidare teoricamente i gruppi che emergevano da quelle fratture in una coalizione rivoluzionaria. Angela Davis ha fatto qualcosa di simile e possiamo ancora imparare dal suo esempio.
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