Gaza, la fame come arma da guerra e il trauma sociale della popolazione palestinese

NapoliMONiTOR - Friday, December 13, 2024
(disegno di escif)

La guerra israeliana a Gaza si è manifestata in una varietà di forme brutali. La più insidiosa e devastante è stata l’utilizzo della fame come arma. Il 9 ottobre 2023, il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che non avrebbe permesso l’arrivo a Gaza “di l’elettricità, cibo, né carburante”. La giustificazione è stata che Israele “sta combattendo contro bestie umane”. Due settimane dopo, il membro della Knesset Tally Gotliv ha dichiarato: “Senza fame e sete tra la popolazione di Gaza non potremmo essere in grado di corrompere la gente con cibo, bevande, medicine per ottenere informazioni”.

Nei mesi successivi Israele non solo ha ostacolato la consegna degli aiuti ai palestinesi di Gaza, ma ha anche monitorato e distrutto le infrastrutture per la produzione di cibo, tra cui campi coltivati, panifici, mulini e negozi di alimentari. Questa strategia, volta a soggiogare e spezzare lo spirito del popolo palestinese, ha mietuto innumerevoli vittime a Gaza – molte delle quali neonati e bambini piccoli. Ma ha avuto anche profonde conseguenze per i palestinesi di altre zone.

Come professionista della salute mentale ho riscontrato in prima persona il peso psicologico e fisico che questa punizione collettiva ha avuto sugli individui di Gerusalemme Est e della Cisgiordania occupata. Ho osservato giovani palestinesi che stanno sviluppando relazioni complicate con il cibo, con il loro corpo e con la loro identità sociale e nazionale come risposta agli orrori a cui assistono e di cui sentono parlare quotidianamente.

La cura richiederebbe un intervento molto più complesso che affronti non solo i traumi individuali ma anche quelli politici e storici dell’intera società.

TRAUMA POLITICO E SOCIALE
Per comprendere gli effetti dell’utilizzo della fame come arma, è essenziale considerare il più ampio quadro sociale e psicologico in cui si verifica. Ignacio Martín-Baró, figura di spicco della psicologia della liberazione, ha sostenuto che il trauma è prodotto a livello sociale. Questo significa che non è semplicemente un’esperienza individuale, ma è incorporato ed esacerbato dalle condizioni e dalle strutture sociali che circondano l’individuo.

A Gaza, le strutture traumatogene comprendono l’assedio in corso, l’aggressione genocida ma anche la deliberata privazione di risorse essenziali come cibo, acqua e medicine. Il trauma che ne deriva è aggravato dalla memoria collettiva della sofferenza avvenuta durante la Nakba (la pulizia etnica di massa dei palestinesi nel 1947-48), dal continuo esodo e dall’oppressione sistemica dell’occupazione. In questo ambiente, il trauma non è solo un’esperienza personale, ma una realtà collettiva, socialmente e politicamente radicata.

Sebbene i palestinesi al di fuori di Gaza non sperimentino direttamente la violenza genocida scatenata da Israele, sono esposti quotidianamente a immagini e storie strazianti su di essa. L’implacabile e sistematica morte per fame dei residenti di Gaza è stata una testimonianza particolarmente traumatica anche per loro.

A poche settimane dalla dichiarazione di Gallant, la carenza di cibo ha iniziato ad avere i suoi effetti. A gennaio, i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, soprattutto nel nord di Gaza, dove un collega mi ha detto di aver pagato duecento dollari per una zucca. Più o meno in questo periodo sono iniziate a emergere notizie di palestinesi costretti a mescolare foraggio animale e farina per fare il pane. A febbraio, le prime immagini di neonati e bambini palestinesi morti per malnutrizione hanno invaso i social media.

A marzo, l’UNICEF riferiva che un bambino su tre sotto i due anni era gravemente malnutrito nel nord di Gaza. Ad aprile, Oxfam stimava che l’assunzione media di cibo per i palestinesi nel nord di Gaza non superava le duecento quarantacinque calorie al giorno, ovvero solo il 12% del fabbisogno giornaliero. All’incirca in quel periodo, il ministero della sanità palestinese ha annunciato che trentadue palestinesi, tra cui ventotto bambini, erano stati uccisi dalla fame, anche se il vero bilancio delle vittime era probabilmente molto più alto.

Circolavano anche storie di palestinesi uccisi da colpi d’arma da fuoco in attesa della distribuzione di aiuti alimentari, o annegati in mare mentre correvano dietro a pacchi di cibo lanciati per via aerea da parte dei governi che hanno appoggiato la guerra israeliana a Gaza.

In una lettera pubblicata sulla rivista medica The Lancet il 22 aprile, il dottor Abdullah al-Jamal, l’unico psichiatra rimasto nel nord di Gaza, ha scritto che l’assistenza mentale è stata completamente smantellata. E ha aggiunto: “I problemi più grandi ora a Gaza, soprattutto nel nord, sono la carestia e la mancanza di sicurezza. La polizia non è in grado di operare perché viene immediatamente presa di mira da droni e aerei spia. Bande armate che collaborano con le forze israeliane controllano la distribuzione e i prezzi dei prodotti alimentari e farmaceutici che entrano a Gaza come aiuti, compresi quelli che vengono lanciati con i paracadute. Alcuni prodotti alimentari, come la farina, sono raddoppiati di prezzo molte volte, aggravando la crisi della popolazione”.

CASI CLINICI DI TRAUMA DA FAME
La politica di affamamento a Gaza ha avuto effetti psicologici e fisici a catena in tutte le altre comunità palestinesi. Nella mia esperienza clinica ho incontrato diversi casi nella Gerusalemme Est occupata e nella Cisgiordania occupata che illustrano come il trauma della fame si rifletta nelle vite di giovani palestinesi anche lontani dalla zona del conflitto. Eccone alcuni.

Alì, un diciassettenne della Cisgiordania, ha mostrato cambiamenti nel comportamento alimentare e ha perso otto chili in due mesi dopo la detenzione di un suo amico da parte delle forze israeliane. Nonostante la significativa perdita di peso, ha negato di sentirsi triste, insistendo sul fatto che “la prigione rende uomini”. Tuttavia, il fatto che avesse espresso apertamente la sua rabbia per le condizioni di Gaza, e i suoi disturbi del sonno, hanno suggerito un profondo impatto psicologico di questi eventi. “Non riesco a smettere di guardare i bombardamenti e la fame a Gaza, mi sento così impotente”. La perdita di appetito di Alì è una manifestazione della sua rabbia e del suo dolore interiorizzati, che riflettono il più ampio trauma sociale che lo ha avvolto.

Salma, a soli undici anni, ha accumulato lattine di cibo, bottiglie d’acqua e fagioli secchi nella sua camera da letto. Ha dichiarato di “prepararsi al genocidio” in Cisgiordania. Il padre di Salma ha riferito che diventa “isterica” quando lui porta a casa prodotti alimentari costosi come carne o frutta. La graduale diminuzione dell’assunzione di cibo e il suo rifiuto di mangiare, che si sono esacerbati durante il mese di Ramadan, rivelano un profondo senso di ansia e di colpa per la fame dei bambini di Gaza. Il caso di Salma illustra come il trauma della fame, anche se vissuto indirettamente, possa alterare profondamente il rapporto di un bambino con il cibo e il suo senso di sicurezza nel mondo.

Layla, ragazzina di tredici anni, mostra una misteriosa incapacità di mangiare, descrivendo la sensazione che “qualcosa nella mia gola mi impedisce di mangiare; una spina che blocca la mia gola”. Nonostante gli esami medici approfonditi non è stata trovata alcuna causa fisica. Ulteriori approfondimenti hanno rivelato che il padre di Layla è stato arrestato dalle forze israeliane e che lei non ha più avuto notizie di lui. L’incapacità di Layla di mangiare è una risposta psicosomatica al trauma della detenzione del padre e alla consapevolezza della fame, delle torture e delle violenze sessuali inflitte ai prigionieri politici palestinesi. Layla è stata anche profondamente colpita dalle notizie sulla fame e sulla violenza a Gaza, facendo un parallelo tra le sofferenze di Gaza e il destino incerto di suo padre, che ha amplificato i suoi sintomi psicosomatici.

Riham, una ragazza di quindici anni, ha sviluppato un processo di vomito involontario ripetitivo e un profondo disgusto per il cibo, in particolare per la carne. La sua famiglia ha una storia di obesità e di gastrectomia, ma lei ha negato qualsiasi preoccupazione per l’immagine corporea. Attribuisce il suo vomito alle immagini di sangue e di smembramento delle persone a Gaza che ha visto. Nel corso del tempo, la sua avversione si è estesa agli alimenti a base di farina, per il timore che possano essere mescolati con mangimi animali. Pur comprendendo che questo non accade nel luogo in cui si trova, è il suo stomaco a rifiutare il cibo quando tenta di mangiarlo.

APPELLO ALL’AZIONE
Le storie di Ali, Salma, Layla e Riham non sono casi classici di disturbi alimentari. Le raggrupperei come casi di disordine alimentare dovuti a un trauma politico e sociale senza precedenti nel contesto di Gaza e del territorio palestinese nel suo complesso.

Questi bambini non sono solo pazienti con problemi psicologici unici. Soffrono gli effetti di un ambiente traumatogeno creato dalla violenza coloniale in corso, dalla militarizzazione della fame e dalle strutture politiche che perpetuano queste condizioni.

Come professionisti della salute mentale, è nostra responsabilità non solo trattare i sintomi presentati da questi pazienti, ma anche affrontare le radici politiche del loro trauma. Questo richiede un approccio olistico che tenga conto del contesto socio-politico in cui questi individui vivono.

Il sostegno psicosociale ha il compito di dare potere ai sopravvissuti, restituire loro dignità e rispondere ai bisogni di base, in modo che prendano atto dell’interazione tra le condizioni di oppressione e la loro vulnerabilità, e perché possano non sentirsi soli. Gli interventi basati sulle relazioni di comunità dovrebbero essere realizzati promuovendo spazi sicuri per le persone, in modo che possano elaborare le loro emozioni, impegnarsi in una narrazione collettiva e ricostruire un senso di controllo.

I professionisti della salute mentale in Palestina devono adottare un quadro di psicologia della liberazione integrando il lavoro terapeutico con il sostegno alla comunità, l’intervento pubblico e strutturale. Questo significa affrontare le ingiustizie, sfidare le narrazioni che normalizzano la violenza e partecipare agli sforzi per porre fine all’assedio e all’occupazione. La difesa da parte degli operatori della salute mentale fornisce ai pazienti una validazione, riduce l’isolamento e promuove la speranza attraverso la solidarietà. Solo con questo approccio possiamo sperare di curare le ferite degli individui e della comunità. (samah jabr / traduzione di riccardo rosa)