Noterelle dal carcere: dove il controllo, non solo della polizia, è totale

Osservatorio Repressione - Friday, December 13, 2024

Una ragazza detenuta decide di smettere con la scuola. Si apre uno squarcio sulle relazioni all’interno del carcere. Nel caso, della sezione femminile, dove nulla può essere fatto alla luce del sole. Il controllo è totale: oltre alla polizia, il gruppo dei pari è onnipresente. Tutto è difficile, anche gestire le emozioni, i rifiuti, gli abbandoni.

di Tazio Brusasco da Volere la Luna

Il carcere è, per la “società libera” un’isola sconosciuta: per disinteresse, per mancanza di informazioni da parte dei media, perché è una “istituzione totale” per eccellenza, priva di contatti con l’esterno. E poi perché, per i più, i suoi ospiti – i detenuti e le detenute – non meritano alcuna attenzione e anzi, dopo il loro ingresso in carcere, si dovrebbe semplicemente buttare la chiave”. Neanche l’ormai interminabile sequenza di suicidi e di atti di autolesionismo basta a rompere l’isolamento di una realtà che accoglie e rinchiude, ogni giorno, 62.000 persone, in gran parte senza diritti e senza speranza. Per contribuire a uno sguardo diverso e alla considerazione del carcere come un “pezzo” della società ospitiamo (e lo faremo periodicamente) le noterelle di un insegnate in un istituto penitenziario del Paese, non importa quale. Sono affreschi di vita quotidiana finalizzati a restituire dignità e umanità a una condizione che spesso non ce l’ha (la redazione).

– Ragazze, dov’è Silvia (*nome di fantasia)? Come mai non è venuta a lezione?

– È qualche giorno che non viene, prof. Dice che si ritira.

– Scherzate?

– …

– Ma perché?!? Ho preso io la sua iscrizione poche settimane fa, era convintissima di venire a scuola. Poi è giovane, brava, l’avete visto. Vorrei almeno che mi spiegasse.

– Non sappiamo perché. Prova a parlarle.

Prova a parlarle. Un invito che qui è un messaggio chiaro. Per la mia esperienza, se davvero l’allieva non volesse più venire a scuola, le compagne direbbero semplicemente: non vuole più venire! e mostrerebbero una sostanziale indifferenza. Invece stavolta anche loro sono pensierose e quella mezza frase va colta al volo perché, evidentemente, non può essere resa più esplicitamente. Parlare degli altri qui può costare.

Non perdo tempo. Esco dall’aula e chiedo all’assistente (cioè al personale di polizia penitenziaria addetto al controllo dei piani e delle sezioni) di chiamarla. Lei telefona alla collega del piano ov’è reclusa, ne comunica il nome e chiede di farla venire a scuola.

Ringrazio, torno in classe e aspetto. Non si presenta. Continuo a fare lezione, ma credo traspaia che sono teso. Anche le ragazze scrivono, ma si guardano tra loro. Sto, stiamo aspettando a vuoto.

Dopo qualche minuto torno alla carica, l’assistente, gentile, telefona nuovamente al piano e questa volta la vedo comparire. Quando mi si avvicina atteggio il volto a gravità. Lei ha gli occhi bassi, ma alza lo sguardo e accenna un sorriso. Ecco la porta: abbandono l’espressione seria e sorrido anche io, serve certamente di più.

– Allora?

– Non vengo più, prof.

– Perché? Cos’è successo?

– Non posso.

– Perché?

Riabbassa gli occhi e scuote il capo. Insisto, ci metto quasi due minuti a vincerne la reticenza, ma ogni secondo che passa mi convinco che vuole parlare. Alla fine, tra allusioni e mezze frasi, spiega che una compagna di sezione è invidiosa del fatto che vada a scuola. Ci metto un altro po’ (homo sum) e capisco che non è invidia: è gelosia.

Partita delicata. La reclusione soffoca l’affetto, non il bisogno di sentirsi amati. Qui però nulla può essere fatto alla luce del sole, il controllo è totale: oltre alla polizia, il gruppo dei pari è onnipresente. Tutto è più difficile e molte persone hanno problemi a gestire le emozioni, soprattutto i rifiuti e gli abbandoni. Così, fisiologicamente, anzi, sociologicamente, tra queste mura spesso amore e possesso si confondono, la protezione diventa controllo. Come fuori, in queste vicende tutti soffrono, il più debole paga.

Ma questa volta posso intervenire, provare a modificare almeno alcuni aspetti della storia. Le spiego l’ovvio: chi ama non soffoca. Le propongo di invitare anche la sua compagna a lezione, scuote il capo, niente da fare. Però sento che ha bisogno delle mie parole un po’ retoriche. Mi fissa, annuisce, sorride. È un travaso di risorse, la condivisione momentanea tra chi ha avuto la fortuna di un’educazione e chi no. Quando le dico che la voglio a scuola e non intendo mollarla s’illumina e ha un piccolo fremito, mi ringrazia e per un attimo mi sento il padre che non ha avuto.

Non so se da domani verrà. Ma so che nel caso, con le mie colleghe, andrò a cercarla.

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