Alla fiera del sud. Colonialismo e storytelling in Puglia
NapoliMONiTOR - Wednesday, January 15, 2025C’è una musica incalzante e un pugile sul ring. Se ne sta buono nell’angolo mentre si fa riempire di pugni, ha smesso di combattere ma nessuno osa gettare la spugna. Sul viso ha una smorfia di estasi perversa, la scarica di colpi produce una voglia inconcepibile di farsi gonfiare di botte fino a perdere i connotati. Con la stessa smorfia beata e fiera il presidente della Puglia Michele Emiliano ha presentato un mese fa il nuovo marchio unico della regione, esito di un “progetto di identità visiva” che ha prodotto, oltre al logo che affiancherà lo stemma regionale, anche un video promozionale che mi si è conficcato nel petto come il pugnale delle Addolorate di cartapesta portate in processione il venerdì santo.
Il logo è un ottagono, simbolo di Castel del Monte, con dentro linee curve intrecciate che rimandano ai rami d’ulivo (ché solo rami secchi ci sono rimasti, non le chiome, dopo oltre dieci anni di “affare xylella”). Ecco come si fondono il patrimonio storico e artistico della regione e “l’integrazione delle diversità, peculiarità dei pugliesi, popolo storicamente vocato all’accoglienza”. Lo spiega Antonio Romano, creatore del nuovo marchio oltre che esperto di “brand identity” e fondatore di Inarea, a cui si devono tra l’altro i loghi di Rai, Enel, Trenitalia. Al logo si aggiunge un claim evocativo: “Puglia, l’Italia levante”. A detta di Rocco De Franchi, direttore regionale della comunicazione istituzionale, lo slogan rimanda alla posizione geografica della regione più a est della penisola, ma soprattutto alla “direttrice aspirazionale di persone accomunate dalla volontà di risollevarsi”.
CAFONI IN PARADISO
La vera linfa al branding territoriale arriva dal video che accompagna il nuovo logo, in cui si succedono a ritmo folle immagini pensate per tenere insieme la prospettiva di continua crescita e la presenza rassicurante di elementi tradizionali. Il filmato si apre con una sfilza di centri storici patinati, trulli ristrutturati, orecchiette con cime di rapa, pasticciotti, lo sguardo ammaliato di una turista col panama, una famiglia felice in vacanza al mare, feste con fuochi d’artificio e luminarie. Tutto scorre così veloce che quasi sfuggono alcuni fotogrammi frapposti tra le immagini di taralli, calici di vino e spiagge. Se giochiamo a trovare l’intruso e rallentiamo la riproduzione, spuntano macchinari futuristici, pale eoliche su un colle, vigneti a spalliera, distese di pannelli fotovoltaici. Insomma, il gioco è applicare forzatamente schemi precostituiti alla realtà locale, benché prima si dica di assecondare la vocazione del territorio e valorizzare le peculiarità. La scarica di pugni e il ritmo serrato culminano in alcune frasi patetiche: “Puglia, tante identità in una”, “la terra che vede per prima la luce del giorno”, “lo spirito solare dei suoi abitanti nell’elevare il proprio destino”.
Si fa leva sul presunto spirito d’identità per abbassare la guardia e lasciar passare come normali, come dato di fatto compiuto, una serie di scenari che non hanno nulla di naturale né di caratteristico all’interno della realtà pugliese. Premere il tasto del sentimento, dei riti e delle tradizioni significa restare nell’ambito del pre-politico, al di qua della storia. Mi soffermo su un’immagine di fitte reti e serbatoi galleggianti su una superficie verdastra. Ammesso che si tratti di un allevamento di cozze, sono sicura che non sia a Taranto né altrove in Puglia. In effetti, con Google lens scopro che è un allevamento superintensivo di mitili nella provincia di Rayong, in Thailandia, e da Greenpeace scovo altre immagini che mostrano i danni provocati dall’industria sulle popolazioni locali e sull’ambiente. “L’allevamento di cozze è situato accanto alla centrale elettrica a carbone BLCP nella zona industriale di Map Ta Phut, nota per i suoi problemi di inquinamento”, spiega una didascalia. “Le cozze prosperano in acque inquinate e i mitilicoltori sono pagati da BLCP per il loro lavoro”, mentre la stessa industria racconta di migliorare lo stile di vita dei nativi da cacciatori ad allevatori. Tutto questo ha del grottesco: non un intruso innocuo, ma una realtà simile a quella di Taranto, dove la mitilicoltura convive con il disastro dell’Ilva, il più grande stabilimento siderurgico italiano.
Le recenti gestioni della regione e la trovata del video promozionale non sono funghi velenosi inspiegabilmente cresciuti su un terreno rigoglioso, ma quel terreno è marcio quanto il fungo. Allora non c’è nessun pugile, non è un ring ma un recinto per animali alla fiera del bestiame, e non sono pugni che ci stanno sfinendo ma i colpi del banditore d’asta: progetti, appalti, marketing territoriale, manipolazione della storia e della cultura locali, finanziamenti pubblici attribuiti in modo da alimentare il consenso per le forze politiche al potere. Romano, padre del nuovo logo, vanta le sue origini pugliesi e sogghigna: “Un tempo questa era la terra da cui si emigrava e noi per primi non capivamo cosa avevamo. In Salento le masserie erano il simbolo della sconfitta dell’agricoltura, oggi provate a comprare una masseria in Salento e poi mi fate sapere”. Da cafoni all’inferno arretrati e incapaci di apprezzare la terra che abitano (ché il sottoproletariato è la brutta faccia della medaglia da tenere rovesciata, dimenticando gli emigrati macinati come manodopera a basso costo per l’industria del nord), a fortunati figli della terra della gioia di vivere e delle masserie trasformate in resort. Da terra promessa per poveri senza speranza (ricordando gli anni in cui ogni notte albanesi, kosovari, curdi, bengalesi sbarcavano sulle coste pugliesi) a regione vocata all’accoglienza di turisti, investitori, speculatori.
LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA
Un documentario del 1962 per la nascita dell’Italsider a Taranto si apre con una sequenza in cui terra rossa e ulivi secolari vengono annientati dalle ruspe di un enorme cantiere in costruzione. “Gli ulivi, il sole, le cicale, significavano sonno, abbandono, rassegnazione, miseria”, invece, spiega la voce fuori campo, “acciaio significa vita”. La retorica sviluppista e il mito della società industriale si sono consumati, le promesse di crescita e di futuro sono state disattese, conviviamo con le eredità di un modello di produzione che ha piegato alla logica del profitto l’ambiente e la salute. Eppure la stessa logica ritorna, celata dietro piani di “rigenerazione territoriale”, “sviluppo sostenibile”, “transizione ecologica”. Il mantra è muoversi a qualunque costo, voltare pagina è l’unica soluzione per un futuro migliore. Verdi narrazioni di speranza mascherano un land grabbing spietato, l’istituzione della ZES Unica del Sud, spacciata come volano per il meridione, spiana la strada al consumo di suolo e regala autorizzazioni a complessi turistici di extra lusso. Il tutto in una situazione sistematicamente deregolamentata: solo 46 comuni pugliesi su 257 hanno adottato in via definitiva un Piano urbanistico generale, manca un piano energetico regionale con l’individuazione delle aree non idonee agli impianti industriali di rinnovabili e l’assenza di una politica regionale in materia fa da tappeto alle speculazioni energetiche.
L’obiettivo al 2030 stabilito dal Piano energia e clima da raggiungere con la potenza da impianti eolici offshore è di 2,1 GW. Solo le proposte di impianti di fronte alle coste pugliesi raggiungono una potenza complessiva pari a 27,5 GW, “tanto da configurarsi una saturazione complessiva del mare aperto con impianti eolici posti a corona continua delle coste vincolate per legge o per il loro notevole interesse pubblico”. Lo si legge in un documento dello scorso aprile in cui la Soprintendenza speciale per il PNRR esprime parere negativo al progetto di un parco eolico marino nel Gargano. “Nella regione Puglia è in atto, già da tempo, una complessiva azione per la realizzazione di impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore e offshore), tale da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica, oltre il fabbisogno regionale previsto”.
Lo sfruttamento dei territori e l’appropriazione privata di risorse naturali sono tratti del colonialismo, che controlla lo spazio pubblico attraverso la neutralizzazione del dissenso e “cattura” la scelta pubblica, condizionando gli attori istituzionali a favore degli interessi economici delle multinazionali, a discapito degli interessi della collettività.
INVASIONE DEI CLONI
Il comparto turistico e l’industria culturale sono caratterizzati dalle stesse finalità predatorie di qualsiasi altra industria. La deregolamentazione come precisa linea politica si accompagna a narrazioni semplificate che, oltre a non rendere giustizia alla complessa storia del territorio, celano un altro inganno. Lo storytelling dell’accoglienza e della resilienza su cui è costruito il nuovo marchio regionale non si limita a descrivere la realtà, ma vuole produrne una ad hoc, cementare una morale comune, trasformare il modo di guardare prima che l’oggetto guardato. Si insiste sull’identità praticando una profonda mistificazione livellatrice, inducendo i pugliesi a identificarsi con costumi cuciti dall’alto fino a restare in contatto solo con la finzione di sé. L’operazione di marketing non è difficile da cogliere, ma c’è anche il sintomo di un disagio profondo, il tentativo di darsi un’identità omogenea mentre cresce la disgregazione del tessuto sociale. Una comunità frantumata ha disperato bisogno di simboli e riti, tanto da convincersi che i simulacri propinati ai turisti corrispondano alla realtà. Mettiamo in piedi il teatrino estivo e ci dimentichiamo di smontarlo d’inverno, finiamo per diventare marionette mosse da mani potenti. Così lo storytelling plasma il territorio e diventa strumento di pacificazione, in una pandemia dell’immaginario che ricorda L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e anche, come scriveva Leogrande, La città sostituita di Philip Dick.
Si appropriano di linguaggi e pratiche svuotandoli di senso e piegandoli a scopi altri, così cominciano ad affollarmi la testa gli scritti di Baudrillard, Wittgenstein, Kripke: la conoscenza del significato di una parola si manifesta nel modo in cui si usa quella parola, una parola ha un certo significato oggi perché l’abbiamo usata in un certo modo nel passato. Se il significato di una parola è dato dall’uso che se ne fa oggi, la rideterminazione semantica in atto deve metterci in guardia che tale uso non sia in accordo con l’uso passato. Mentre il consenso continua ad addensarsi dalla parte sbagliata, facciamo una fatica enorme per trovare una nuova grammatica che interpreti la crisi. La Puglia è tra i luoghi iper-raccontati, eppure la sovraesposizione mediatica non copre affatto tutta la realtà narrabile. Anzi, finisce per non (far) vedere la Puglia per quello che è: una regione fatta di viscere, frammenti. Nell’iper-racconto si smarrisce quella disperata vitalità che impregna campagne e paesi, quella visione lucida delle cose che resiste nelle pieghe dei territori. Da queste pieghe dobbiamo ripartire per analizzare le narrazioni dominanti e disarticolarle, per costruire un discorso critico sul meridione. E per riuscire ad ascoltare la voce subalterna serve cambiare registro, lontano dai vocabolari ufficiali consunti, risemantizzare il vivere politico. (chiara romano)