Stiamo dando una mano (armata) ai nostri figli

Osservatorio Repressione - Monday, January 27, 2025

Si stima che in Italia siano circa due milioni i bambini e ragazzi fino ai 17 anni colpiti da disturbi neuropsichiatrici, ma per risollevare i nostri ragazzi abbiamo già la soluzione pronta: la guerra!

di Marco Sommariva

Spesso riteniamo i problemi d’oggi essere unicamente il prodotto dei nostri tempi e che una volta non era così.

Per “problemi d’oggi” intendo, per esempio, l’aver ridotto i rapporti umani a tal punto da non riuscire neppure a immaginare chi abita due piani sopra il nostro; l’aver deciso che l’unica vera divinità per cui siamo disposti a fare qualsiasi cosa è il dio “Denaro”; l’aver continuamente bisogno di possedere cose e, quindi, di produrle per poi scoprire di non avere il tempo necessario per goderne; pensare sempre e soltanto a noi stessi o, comunque, interessarsi agli altri solo in termini competitivi o fortemente critici; non essere disposti a cedere ai più sfortunati neppure la minima parte dei nostri averi; inventare lavori noiosi che spengono la luce dei nostri occhi; parlare di Dio senza averlo mai fatto nostro per davvero; correre ininterrottamente di qua e di là perché abbiamo dimenticato che esistono altre velocità, le stesse che ci farebbero apprezzare molto di più ciò che abbiamo e ciò che siamo; eccetera.

Io non credo che la frase “ai miei tempi”, che prima o poi a tutti scappa di dire, significhi che, veramente, a quei tempi, le cose andassero meglio, non ci fossero tanti problemi; non può esserlo semplicemente perché se quella stessa frase è stata profferita da almeno quattro generazioni – la mia, quella di mio figlio, dei miei genitori e dei miei nonni –, significa che nei primi del Novecento le cose andavano bene così come andavano bene nei nostri anni Zero ma che poi, purtroppo, il mondo è cambiato e i tempi si sono rovinati.

A dar forza a questa mia banale teoria che non sono i tempi a essersi rovinati ma che eventualmente già lo erano, c’è un libro che consiglio vivamente; s’intitola Papalagi che indica, nella lingua samoana, l’uomo bianco.

Questo libro raccoglie tutti i discorsi concepiti esclusivamente per le sue genti polinesiane da Tuiavii, un saggio capovillaggio delle isole Samoa tedesche – un protettorato dell’Impero tedesco durato dal 1900 al 1919, nella parte occidentale delle isole Samoa –, quando compì un viaggio in Europa agli inizi del secolo scorso e venne a contatto con gli usi e i costumi dell’uomo bianco – il Papalagi, appunto.

Aveva raccolto le sue impressioni perché dovevano servirgli a mettere in guardia il suo popolo dal fascino pericoloso dell’Occidente, e sono arrivate a noi a sua insaputa e contro la sua volontà, perché Erich Scheurmann – conosciuto soprattutto per aver dato alle stampe nel 1920 proprio Papalagi, in quegli anni in Polinesia per fuggire dagli orrori della Prima guerra mondiale –, colpito dalle parole del capovillaggio, decise di offrire “[…] i discorsi di questo nativo al mondo dei lettori europei […] nella convinzione che anche per noi bianchi e ‘illuminati’ [potesse] essere importante sapere con quali occhi un uomo ancora così strettamente legato alla natura vede noi e la nostra civiltà.” – il passaggio virgolettato è tratto dalla sua prefazione al libro.

E ora credo sia venuto il momento di andare a leggere cosa diceva di noi un “ester(n)o”, oltre un secolo fa.

Sul sesso: “[…] le membra che si toccano per generare creature per la gioia della grande Terra, sono peccato. Tutto quel che è carne è peccato.”

Sulle nostre case e la nostra incomunicabilità: “La maggioranza delle capanne sono abitate da più persone di quante non ce ne siano in un solo villaggio delle Samoa, e per questo bisogna conoscere bene il nome della famiglia che si vuole andare a trovare, perché ognuno ha per sé una determinata parte del cassone di pietra, sopra, sotto, o nel mezzo, a sinistra, a destra o davanti. E una famiglia spesso non sa niente delle altre, ma proprio niente, come se non ci fosse tra loro solo una parete di pietra, ma le isole Manono, Apolima e Savaii e poi molti mari.”

Sul nostro attaccamento al denaro: “Tutti voi potete testimoniare che il missionario dice: “Dio è amore”. […] Il missionario ci ha mentito, ingannato, il Papalagi lo ha corrotto perché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il metallo rotondo e la carta pesante, chiamati denaro, questi sono la vera divinità del Bianco.”

Su come monetizziamo tutto: “Ho trovato solo una cosa per la quale non viene richiesto denaro, della quale se ne può avere quanta se ne vuole: l’aria che si respira. Ma devo pensare che è solo una dimenticanza, e non esito ad affermare che se qualcuno potesse udire in Europa queste mie parole, pretenderebbe immediatamente il metallo rotondo e la carta pesante. Perché tutti gli Europei cercano sempre nuove scuse per chiedere denaro.”

Su come il denaro ci rovini: “Ho trovato occhi come i vostri solo tra i bambini del Papalagi, prima che inizino a parlare, perché fino a quel momento non sanno ancora niente del denaro.”

Sul nostro consumismo: “Più uno è un vero Europeo, più ha bisogno di cose. Per questo le mani del Papalagi non cessano mai di fare cose. Per questo i volti dei Bianchi sono spesso così stanchi e tristi […].”

Sulla nostra ricerca spasmodica di tempo che riteniamo non essere mai abbastanza: “Il Papalagi ama il metallo rotondo e la carta pesante […], ma più di tutti ama quel che non si lascia afferrare e che tuttavia esiste: il tempo. Fa tanta scena e discorsi ridicoli, e anche se non ce ne potrà mai essere di più di quanto non ce ne sia tra l’alba e il tramonto, per lui non è mai abbastanza.”

Su quanto poco abbiamo capito della Vita: “Solo una volta ho incontrato un uomo che aveva molto tempo e non si lamentava mai per la sua mancanza; ma quest’uomo era povero, sporco e abbandonato. La gente si teneva alla larga da lui e nessuno lo rispettava. Non riuscivo a comprendere un tale comportamento: camminava senza fretta e i suoi occhi sorridevano in modo tranquillo e amichevole.”

Sul nostro egoismo: “Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed estremamente contorto. (…) Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante. E questa persona è lui stesso.”

Sulla proprietà privata, il potere e la nostra (in)giustizia: “Ovunque tu vada dai Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto, un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice: “Questo è mio! Guardati dal prendere quel che è mio!”. Se tu lo fai, ti urla contro, ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo perché hai osato toccare il “mio” del tuo prossimo. Accorrono gli amici e i servitori delle supreme autorità ti mettono in catene e ti portano in prigione, e sei disprezzato per tutta la vita.”

Sul nostro vivere frenetico: “Quando cavalco attraverso un villaggio, lo supero velocemente, ma se vado a piedi, vedo di più e gli amici mi chiamano nelle loro capanne. Arrivare velocemente a una meta è raramente un vero guadagno. Il Papalagi vuol arrivare sempre in fretta. La maggior parte delle sue macchine servono unicamente allo scopo di raggiungere velocemente un posto. Una volta giunto alla meta, una nuova lo chiama. E così il Papalagi attraversa correndo la sua vita, senza pace, disimpara il piacere di camminare e vagabondare, di muoversi contento verso la meta che ci viene incontro e che non cerchiamo.”

Su come il lavoro riesca a rovinarci l’esistenza: “Ogni Papalagi ha un lavoro. È difficile spiegare cosa sia. È un qualcosa che si dovrebbe avere una gran voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un lavoro significa: fare sempre la stessa identica cosa.”

Su come non si salvi nessuno: “Persino quelli che hanno il compito di parlare di Dio nelle splendide capanne erette in suo onore, non lo tengono dentro di loro e le parole scivolano nel vuoto portate dal vento.”

Insomma, così ci vedeva nel 1920 il saggio capo Tuiavii che, pensando all’uomo bianco, disse: “Rimani lontano da noi, con le tue voglie e i tuoi pensieri, con l’accumulare ricchezza nelle mani e nella testa, con la frenesia di sovrastare tuo fratello, con l’insensatezza del tuo fare, con il mulinare delle mani, con il curioso pensare e sapere, con le follie che rendono inquieto il tuo sonno sulla stuoia.”

Allora mi chiedo: Non è che non sono i tempi che cambiano ma, molto più banalmente, siamo noi a viverli in maniera diversa a seconda dell’età che abbiamo? Ossia, non è che ci godiamo la Vita sino a quando siamo nell’infanzia, preadolescenza e adolescenza e, poi, entrando nel mondo degli adulti, scopriamo che la Società che ci ha accolto è marcia fin nelle radici? Nel caso, non sarebbe una conclusione troppo brillante, lo ammetto. Allora provo ad avanzare un quesito: Non è che, non contenti di rovinarci l’esistenza dal raggiungimento della maturità in poi, ora ci stiamo attrezzando per rovinarla all’essere umano iniziando a colpire i ragazzi a inizio adolescenza o, addirittura, a inizio pubertà? Nel novembre del 2023 ho letto sul Corriere della Sera  che “[…] i numeri della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia) sono spaventosi: il 59% delle persone che soffrono di disturbi alimentari ha un’età compresa tra i 13 e i 25 anni (il 6% ha meno di 12 anni); sono in aumento i comportamenti autolesivi e suicidari (+27% rispetto al periodo pre Covid).” E ancora: “I disturbi mentali sono in drammatico aumento […] tra i giovanissimi: nel mondo ne soffre tra il 10 e il 20% di bambini e adolescenti e il 50% delle patologie psichiatriche esordisce prima dei 14 anni di età, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Si stima che in Italia siano circa due milioni i bambini e ragazzi fino ai 17 anni colpiti da disturbi neuropsichiatrici.”

Ma state tranquilli perché per risollevare i nostri ragazzi abbiamo già la soluzione pronta: la guerra! Diversamente, non si spiegherebbe come mai, da tempo, si stia assistendo a un processo di militarizzazione delle scuole: sempre più spesso, presidi e docenti preferiscono le visite alle basi NATO in Italia, alle caserme e alle industrie belliche piuttosto che alle città d’arte e ai musei. Crescono anche le attività didattiche affidate a generali docenti, così come aumentano gli stage formativi su cacciabombardieri e carri armati o l’alternanza scuola-lavoro a fianco di reparti delle forze armate o nelle aziende produttrici di armi.

Bene, la strada per risolvere i problemi dei nostri giovani è oramai intrapresa. E chissà che dopo gli adolescenti, non s’inizi a dare una mano (armata) anche ai ragazzini e infine ai bambini, risolvendo i loro futuri eventuali problemi formandoli subito militarmente, come scriveva nel 1940 Karin Boye, nel suo romanzo distopico Kallocaina: “[…] l’assistente domestica della settimana aveva già apparecchiato per la cena e ci aspettava con i piccoli che era andata a prendere al piano dei bambini. Sembrava una ragazza diligente e a posto e se la salutammo amichevolmente non era solo perché sapevamo che, come tutte le altre assistenti domestiche, era tenuta a fornire un rapporto sulla famiglia alla fine della settimana – in obbedienza a una riforma che, secondo l’opinione generale, aveva nettamente migliorato l’atmosfera di molte case. L’allegria e il buonumore si instaurarono immediatamente intorno alla nostra tavola, tanto più che Ossu, il nostro primogenito, era con noi, essendo la sua sera di permesso di rientro a casa dal campo d’infanzia. […] Intorno a noi vedevamo coppie dividersi non appena la loro nidiata di bambini era pronta per il campo d’infanzia – dividersi e risposarsi per creare nuove nidiate. Ossu, il nostro primogenito, aveva otto anni, e già da un anno era al campo d’infanzia. Laila, la più piccola, ne aveva quattro e le restavano ancora tre anni in casa. […] I bambini raccontarono quel che era successo al loro piano nel corso della giornata. Avevano giocato nella cassa dei giochi – un’enorme vasca smaltata, di più di quattro metri per lato e uno di profondità, nella quale potevano lanciare piccole bombe-giocattolo per incendiare i boschi e i tetti delle case in materiale infiammabile che vi spuntavano, oppure combattere vere e proprie battaglie navali in miniatura, riempiendo la vasca di acqua e caricando i cannoni delle minuscole navi con lo stesso leggero esplosivo usato per le bombe; c’erano perfino le torpediniere. Era un modo per sviluppare giocando il senso strategico dei bambini fino a renderlo naturale, quasi istintivo, garantendo al tempo stesso un divertimento di prim’ordine. Talvolta invidiavo ai miei bambini di crescere con giochi così perfetti – nella mia infanzia quel leggero esplosivo non era ancora stato inventato – e veramente non capivo come, nonostante questo, aspettassero con trepidazione di compiere i sette anni per poter andare al campo d’infanzia, dove le esercitazioni erano molto più simili a una vera formazione militare e dove si restava giorno e notte.”

Fosse vero sarebbe preoccupante. In realtà, possiamo dormire sonni tranquilli: è solo l’estratto di un vecchio romanzo e per di più del genere distopico: come ci si può preoccupare delle visioni di una scrittrice svedese dello scorso millennio? Quando mai profezie di romanzi distopici si sono poi avverate, dài!

www.marcosommariva.com

 

 

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