La sentenza sulla Terra dei Fuochi e l’archivio delle lotte ambientali

NapoliMONiTOR - Tuesday, February 4, 2025
(disegno di naum)

Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni politici e mediatici che negli anni hanno presieduto allo svolgersi di uno dei più grandi disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano due: “siete manovrati dalla camorra” e “se vi ammalate è colpa dei vostri stili di vita”. Noi che ci siamo stati sulle discariche, noi che abbiamo denunciato la camorra e lo Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue articolazioni criminali, tossicologiche e sanitarie, noi sapevamo che erano accuse strumentali. Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali scaricavano le proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro complicità o indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando la repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi, altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo, e ve l’abbiamo detto in tutti i modi.

E ora, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ci ha dato ragione, condannando lo Stato italiano perché se n’è sempre lavato le mani. Il 30 gennaio 2025, la Corte ha infatti emesso una sentenza che riscrive la storia ufficiale della Terra dei Fuochi, conferendo i crismi della verità giudiziaria alle analisi e alle accuse che i comitati campani contro l’inquinamento da rifiuti – che abbiamo chiamato Biocidio – avevano già portato nelle strade, nei media, nelle prefetture e negli uffici ministeriali. Una sentenza che inchioda le istituzioni dello Stato alle proprie menzogne e inettitudini.

Il procedimento, iniziato nel 2015, ha preso le mosse dalla denuncia di quarantuno cittadini campani e cinque associazioni locali contro lo stato italiano per aver messo a repentaglio il loro diritto alla vita. Secondo i querelanti, le istituzioni del nostro paese hanno tollerato che i rischi da contaminazione ambientale da rifiuti persistessero, e addirittura aumentassero, ben oltre l’emergere delle evidenze che ne imponevano la presa in carico e la risoluzione. Il processo ha affrontato la questione Terra dei Fuochi in tutta la sua estensione temporale: dal finire degli anni Ottanta fin quasi al presente. La sentenza chiarisce le omissioni continue delle autorità statali nell’intervenire in maniera efficace sulla prevenzione, deterrenza, messa in sicurezza e informazione di un disastro ambientale certamente complesso e diffuso, ma eclatante e documentato fin dalle origini.

In particolare, la Corte ha rilevato che “non vi fossero prove sufficienti di una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi”. I progressi nella valutazione degli impatti dell’inquinamento su salute e ambiente sono stati “glaciali”, di una lentezza inammissibile per i doveri di uno Stato. Rispetto poi alle bonifiche, la Corte stigmatizza un “problema generalizzato di coordinamento e attribuzione di responsabilità”, tale da rendere “impossibile farsi un’idea generale di dove si debba ancora decontaminare”.

Lo stato italiano ha inoltre fallito nel combattere lo smaltimento illegale di rifiuti a causa di un ordinamento normativo sui crimini ambientali prima assente e poi, quando lentamente approvato, parziale e inefficace. Constatata l’entità e la gravità della situazione, la Corte ha anche deplorato lo stato italiano per l’incapacità di approntare “una strategia di comunicazione completa e accessibile per informare il pubblico sui rischi per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi”.

Per queste ragioni, la Corte certifica che il problema della Terra dei Fuochi non è stato affrontato “con la diligenza giustificata dalla gravità della situazione”. E conclude, lapidaria: “Lo stato italiano non ha fatto tutto ciò che gli era richiesto per proteggere la vita dei ricorrenti”. Esattamente la ragione per cui protestavano i comitati campani.

Alla luce del giudizio, la Corte fornisce indicazioni dettagliate sulle misure che le autorità italiane devono adottare. In primo luogo, occorre approntare una strategia complessiva che riunisca tutte le misure esistenti o previste per affrontare il fenomeno dell’inquinamento, includendo la cittadinanza e le associazioni locali nella pianificazione. Ciò implica identificare le aree di smaltimento illegale, valutarne la contaminazione ambientale e indagare gli impatti sulla salute. I tempi devono essere chiari, le risorse dedicate corpose, e la loro allocazione trasparente. In secondo luogo, queste attività devono essere supervisionate da un meccanismo indipendente che ne monitori l’attuazione, l’impatto e l’aderenza alle tabelle di marcia. I membri di tale organo di controllo devono essere liberi da influenze del governo; le loro deliberazioni rese pubbliche. Infine, in terzo luogo, la cittadinanza va informata puntualmente sui problemi e sulle misure per affrontarli, attraverso un’unica piattaforma pubblica. In sostanza, la Corte impone all’Italia di programmare, controllare informare: tutto quello che è stata incapace di fare correttamente per tre decadi.

L’Italia ha ora due anni per attuare queste misure. Ad attenderla al varco, nel caso fallisca (ancora) nell’onorare gli obblighi, ci sono più di quattromila ulteriori denuncianti dalla medesima terra e con la medesima accusa che la Corte si impegna a valutare. Essendo questo un ricorso-pilota, si offre all’Italia abbastanza tempo per dimostrare un radicale cambio di passo nell’affrontare le condizioni strutturali alla base della violazione del diritto alla vita, condizioni rilevanti per le altre cause pendenti mosse dai cittadini campani.

RIAPRIRE L’ARCHIVIO
Il collegio di avvocati per l’Italia si è difeso dinanzi alla corte con lo stesso vecchio arnese che rappresentanti dello Stato hanno già utilizzato in passato per delegittimare le ragioni dei cittadini in agitazione: l’assenza di un nesso di causalità certo tra uno specifico inquinante da una determinata discarica e un preciso danno biologico in ogni singolo querelante. Volevano convincere i giudici che non può essere dimostrato che quelle che si definiscono “vittime” dell’incompentenza e corruzione delle istituzioni italiane siano tali. D’accordo, stanno morendo, ma siamo sicuri che sia per la diossina e i PCB che respirano quotidianamente? L’Italia ha provato di nuovo ad affrancarsi da ogni responsabilità.

Ma la Corte ha determinato che il chiarimento scientifico del nesso di causalità tra le discariche illegali e i roghi di rifiuti che hanno contaminato le matrici ambientali, da un lato, e l’insorgenza di patologie nei residenti, dall’altro, non è mai stato dirimente per la presa in carico da parte dello Stato dell’obbligo di proteggere la cittadinanza dall’inquinamento.

La conoscenza che vi era una dispersione incontrollata di inquinanti che hanno impatti devastanti sulla salute sarebbe sempre dovuta essere, ed è tuttora, condizione sufficiente e necessaria per agire. La Corte ha accettato l’esistenza nella Terra dei Fuochi di un rischio per la vita “sufficientemente grave, reale e accertabile” e “imminente”. E in base al principio di precauzione ciò impone il dovere di protezione da parte dello Stato. Prendano nota gli oppositori istituzionali alle richieste dei cittadini in altre zone inquinate d’Italia.

La corte non poteva essere più chiara. E così mette un’altra pietra sopra le narrazioni tossiche – già stroncate nei processi penali e dalla scienza – che proliferavano durante gli anni delle mobilitazioni. Riaprendo l’archivio delle lotte ci troviamo i ministri e gli “esperti” che a più riprese hanno stigmatizzato le popolazioni campane in rivolta come ignoranti e irrazionali. Il ministro Lorenzin, il ministro Balduzzi, gli epidemiologi di stato, i medici senza deontologia, costoro blandivano e accusavano i campani preoccupati dei tumori e della mortalità inusitate nella loro terra, additando come causa la povertà relativa e i supposti stili di vita individuali dei meridionali. Ma quelle illazioni, come sapevamo e come deduciamo dalla sentenza della Corte, servivano solo a sviare l’attenzione dalle condizioni concrete del territorio e dalle omissioni dello Stato.

La Corte riconosce che solo dopo il 2013, con il decreto 136/2013, poi convertito nella legge 6/2014, lo sdetato italiano inizia, con estremo ritardo, a interessarsi alla questione in maniera sistematica. Risalgono alle disposizioni di quel decreto la mappatura dei terreni agricoli contaminati, l’elargizione di risorse per il monitoraggio ambientale e gli screening sanitari, e l’aumento dei controlli sul territorio. Un anno prima, nel dicembre 2012, l’allora ministro degli interni Cancellieri nominava Donato Cafagna “commissario antiroghi” e lo metteva a capo della cabina di regia presso la prefettura di Napoli con il compito di con­trasto e prevenzione degli smaltimenti abusivi. E un anno dopo, nel 2014, i cittadini campani formati come “osservatori civici” vengono per la prima volta inclusi e ascoltati. E ancora, nel 2015, sono finalmente codificati nel codice penale, con la legge 68/2015, i delitti ambientali.

Ma cos’era successo per arrivare a quelle leggi e a quegli interventi? Apriamo l’archivio e scopriamo una stagione di mobilitazioni ambientali senza precedenti in Campania per persistenza e numeri, che costruiva sull’eredità dei comitati campani dei primi dieci anni del duemila, i quali combattevano contro il piano disastroso per i rifiuti urbani e denunciavano gli sversamenti illegali. Nell’estate del 2012 fu organizzato il Coordinamento Comitati Fuochi, una rete di oltre cinquanta comitati campani contro l’inquinamento, che si adoperò con campagne di denuncia e bussò a tutte le porte, sedendosi a tutti i tavoli di concertazione che poteva. Alimentò una campagna mediatica martellante e ubiqua, che con il supporto del quotidiano Avvenire a poco a poco veicolò il dolore e la rabbia di vivere tra fumi tossici e discariche illegali sempre più lontano, sempre più in alto. Si dedicò inoltre al lavoro di raccordo e comunicazione tra comitati, attori economici, parrocchie e centri sociali. Giungendo, grazie all’alleanza con i Cittadini Campani per un Piano Alternativo dei Rifiuti, con la Rete Commons e con altri gruppi storicamente impegnati sull’ambiente, a costituire la Coalizione Stop Biocidio. Decine di marce per la vita attraversarono i territori tra il 2012 e il 2013, fino all’apice del Fiume in Piena, la manifestazione dei centomila da tutta la regione che il 16 novembre 2013 inondò Napoli per imporre il problema della Terra dei Fuochi. Fu solo la pressione delle mobilitazioni sociali a costringere i governi regionale e nazionale a intervenire, pur se ancora in maniera insufficiente.

La pubblicazione della sentenza ha innescato il si salvi chi può. Come ha provato a fare l’assessore regionale all’ambiente Fulvio Bonavitacola, lesto a diramare una dichiarazione in cui tenta di smarcare la Regione dalle responsabilità dettagliate dalla Corte, e prova a incensare il suo operato. Ma con il governo regionale di cui Bonavitacola è assessore non è aumentata né la sicurezza né la chiarezza per i cittadini campani. La sentenza della Corte rileva che nel periodo 2018-2021 “il fenomeno dell’inquinamento non sembrava essersi esaurito, in quanto continuavano a essere scoperte discariche abusive di rifiuti e segnalazioni di incendi abusivi”, mentre le informazioni ai cittadini erano scarne e imprecise. Inoltre, continua, nello stesso periodo “i progressi complessivi negli sforzi di decontaminazione sono stati lenti e molte delle azioni hanno riguardato solo fasi preliminari intraprese di recente”, nonostante la responsabilità per le bonifiche fosse passata alla Regione. Attenti ad attribuirvi meriti che non avete, noi ricordiamo tutto. Anche lo “spot pubblicitario” della rimozione delle ecoballe, o il fatto che la Regione Campania nel 2020 non riconfermò la Commissione Speciale Terra dei Fuochi.

UNA FINE CHE È UN INIZIO
La sentenza della Corte Europea ha mandato scariche elettriche sulle sedie di non pochi rappresentanti dello stato. Costringendoli ad attivarsi. Già il giorno dopo, sabato primo febbraio, è stato convocato un incontro alla prefettura di Napoli per fare il punto sugli interventi, invitando anche gli esperti dei comitati. Gli stessi comitati che stanno analizzando la sentenza, con l’impegno di riportarla sui territori in incontri e dibattiti pubblici.

A partire da ora, ci sembra siano almeno tre le priorità emergenti dalla discontinuità che la Corte ha segnato sulla questione Terra dei Fuochi. Come affermato con forza dai giudici, la popolazione non deve solo essere informata puntualmente, ma le espressioni di cittadinanza attiva che la Campania ha prodotto in numero considerevole vanno incluse nella pianificazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle soluzioni approntate. Per assicurarsi che ciò accada, non basterà avere la forza di una sentenza dietro, pur se basata sui diritti umani ed emessa dalla più alta autorità giudiziaria a livello europeo. La pressione popolare è imprescindibile, occorre riannodare i fili della cooperazione tra gruppi di base, storici e recenti. Una larga Coalizione – determinante in passato per i destini regionali e nazionali – va riorganizzata e potenziata. Infine, l’agenda da imporre dal basso deve includere tutte le direttive della sentenza, ma anche andare oltre. Le parole d’ordine sono riparazione e rigenerazione del territorio. Per fare questo ingenti risorse economiche devono essere messe a disposizione, e qualunque sia il governo di turno bisogna fargli sentire il fiato sul collo. Le mistificazioni che abbiamo dovuto sopportare finora vanno spazzate via, non accetteremo mezze misure. Sappiamo la verità e ci assicureremo che venga onorata.

Ci assumiamo la responsabilità di tenere alta l’attenzione, ma qualunque figura istituzionale che è o sarà incaricata di agire materialmente sulle consegne della Corte, deve assumersi la piena responsabilità del proprio ruolo e delle azioni che metterà in moto. È finito lo scaricabarile, è finita la confusione. Vi abbiamo trascinato in tribunale e fatto condannare, non metteteci ancora alla prova. Ci siamo mobilitati e continueremo a farlo. Finché non riusciremo a riappropriarci di questa amata terra nostra. (salvatore de rosa)