(disegno di india santella)
Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini.
La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di
un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio
il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui
nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu
salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio,
raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile
associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco
Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la
battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi
respinti dalla popolazione della vicina Massafra.
A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante
le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del
Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché
le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare
che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici.
Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante
contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte
integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale
costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone
fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua
dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche
la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume
rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente
caratterizzata dalle attività antropiche.
Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano
essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma
negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato
da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società
partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le
dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia,
quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e
Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026.
Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di
euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione
temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International,
Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa,
società molto attiva nel settore dei rifiuti.
Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il
via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la
modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri.
Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità,
salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi
“no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa
Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la
maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione
d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che
consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul
peso della componente politica rispetto a quella tecnica.
Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma
la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe
realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e
che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche
Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza
naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del
fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia. Arpa fa
notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento
ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento
alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto
Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove,
e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove
aree ed eventualmente ad avere frutti.
Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo
delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel
fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata
media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti
negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A
oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese
pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di
Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il
progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei
prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico
(quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso.
Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non
si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se
strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante
la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti
gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate.
In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di
associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche
tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e
impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha
prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È
prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri,
condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici
chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in
prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La
somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi
all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da
calcio.
Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la
comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno
di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in
corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici
chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si
dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti
e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta
cittadini.
Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per
desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto,
costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente
sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per
produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più
salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero
in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti
a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat
marino.
Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di
dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno
dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo
rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato
che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo
aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei
documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione
pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre
parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento
strutturale del piano iniziale.
Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il
quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico,
mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità
che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero
rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da
porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante
soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda.
Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la
costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione
ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la
Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è
giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte
della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso
problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso
di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo
territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini
continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica
pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il
caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi?
(domenico colucci)
Tag - ambiente
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.
(disegno di naum)
Tra le calunnie mosse agli attivisti e ai comitati campani dai vari carrozzoni
politici e mediatici che negli anni hanno presieduto allo svolgersi di uno dei
più grandi disastri ambientali della storia italiana, le più infamanti erano
due: “siete manovrati dalla camorra” e “se vi ammalate è colpa dei vostri stili
di vita”. Noi che ci siamo stati sulle discariche, noi che abbiamo denunciato la
camorra e lo Stato in ogni sede, noi che abbiamo studiato il problema nelle sue
articolazioni criminali, tossicologiche e sanitarie, noi sapevamo che erano
accuse strumentali. Erano modi attraverso cui governanti e pseudo-intellettuali
scaricavano le proprie responsabilità, sotterrando la verità della loro
complicità o indifferenza nel vociare della propaganda di regime, legittimando
la repressione. Nei presìdi e alle manifestazioni alle volte eravamo in pochi,
altre in tanti, molti di più di quanto i nostri avversari si aspettassero. In
ogni caso, niente di ciò che è stato fatto al suolo, all’aria e all’acqua di
quella che è diventata tristemente famosa come Terra dei Fuochi, fu ignorato o
non combattuto dalla militanza ecologica degli attivisti campani. Noi sapevamo,
e ve l’abbiamo detto in tutti i modi.
E ora, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ci ha dato ragione,
condannando lo Stato italiano perché se n’è sempre lavato le mani. Il 30 gennaio
2025, la Corte ha infatti emesso una sentenza che riscrive la storia ufficiale
della Terra dei Fuochi, conferendo i crismi della verità giudiziaria alle
analisi e alle accuse che i comitati campani contro l’inquinamento da rifiuti –
che abbiamo chiamato Biocidio – avevano già portato nelle strade, nei media,
nelle prefetture e negli uffici ministeriali. Una sentenza che inchioda le
istituzioni dello Stato alle proprie menzogne e inettitudini.
Il procedimento, iniziato nel 2015, ha preso le mosse dalla denuncia di
quarantuno cittadini campani e cinque associazioni locali contro lo stato
italiano per aver messo a repentaglio il loro diritto alla vita. Secondo i
querelanti, le istituzioni del nostro paese hanno tollerato che i rischi da
contaminazione ambientale da rifiuti persistessero, e addirittura aumentassero,
ben oltre l’emergere delle evidenze che ne imponevano la presa in carico e la
risoluzione. Il processo ha affrontato la questione Terra dei Fuochi in tutta la
sua estensione temporale: dal finire degli anni Ottanta fin quasi al presente.
La sentenza chiarisce le omissioni continue delle autorità statali
nell’intervenire in maniera efficace sulla prevenzione, deterrenza, messa in
sicurezza e informazione di un disastro ambientale certamente complesso e
diffuso, ma eclatante e documentato fin dalle origini.
In particolare, la Corte ha rilevato che “non vi fossero prove sufficienti di
una risposta sistematica, coordinata e completa da parte delle autorità
nell’affrontare la situazione della Terra dei Fuochi”. I progressi nella
valutazione degli impatti dell’inquinamento su salute e ambiente sono stati
“glaciali”, di una lentezza inammissibile per i doveri di uno Stato. Rispetto
poi alle bonifiche, la Corte stigmatizza un “problema generalizzato di
coordinamento e attribuzione di responsabilità”, tale da rendere “impossibile
farsi un’idea generale di dove si debba ancora decontaminare”.
Lo stato italiano ha inoltre fallito nel combattere lo smaltimento illegale di
rifiuti a causa di un ordinamento normativo sui crimini ambientali prima assente
e poi, quando lentamente approvato, parziale e inefficace. Constatata l’entità e
la gravità della situazione, la Corte ha anche deplorato lo stato italiano per
l’incapacità di approntare “una strategia di comunicazione completa e
accessibile per informare il pubblico sui rischi per la salute e sulle azioni
intraprese per gestire tali rischi”.
Per queste ragioni, la Corte certifica che il problema della Terra dei Fuochi
non è stato affrontato “con la diligenza giustificata dalla gravità della
situazione”. E conclude, lapidaria: “Lo stato italiano non ha fatto tutto ciò
che gli era richiesto per proteggere la vita dei ricorrenti”. Esattamente la
ragione per cui protestavano i comitati campani.
Alla luce del giudizio, la Corte fornisce indicazioni dettagliate sulle misure
che le autorità italiane devono adottare. In primo luogo, occorre approntare una
strategia complessiva che riunisca tutte le misure esistenti o previste per
affrontare il fenomeno dell’inquinamento, includendo la cittadinanza e le
associazioni locali nella pianificazione. Ciò implica identificare le aree di
smaltimento illegale, valutarne la contaminazione ambientale e indagare gli
impatti sulla salute. I tempi devono essere chiari, le risorse dedicate corpose,
e la loro allocazione trasparente. In secondo luogo, queste attività devono
essere supervisionate da un meccanismo indipendente che ne monitori
l’attuazione, l’impatto e l’aderenza alle tabelle di marcia. I membri di tale
organo di controllo devono essere liberi da influenze del governo; le loro
deliberazioni rese pubbliche. Infine, in terzo luogo, la cittadinanza va
informata puntualmente sui problemi e sulle misure per affrontarli, attraverso
un’unica piattaforma pubblica. In sostanza, la Corte impone all’Italia
di programmare, controllare e informare: tutto quello che è stata incapace di
fare correttamente per tre decadi.
L’Italia ha ora due anni per attuare queste misure. Ad attenderla al varco, nel
caso fallisca (ancora) nell’onorare gli obblighi, ci sono più di quattromila
ulteriori denuncianti dalla medesima terra e con la medesima accusa che la Corte
si impegna a valutare. Essendo questo un ricorso-pilota, si offre all’Italia
abbastanza tempo per dimostrare un radicale cambio di passo nell’affrontare le
condizioni strutturali alla base della violazione del diritto alla vita,
condizioni rilevanti per le altre cause pendenti mosse dai cittadini campani.
RIAPRIRE L’ARCHIVIO
Il collegio di avvocati per l’Italia si è difeso dinanzi alla corte con lo
stesso vecchio arnese che rappresentanti dello Stato hanno già utilizzato in
passato per delegittimare le ragioni dei cittadini in agitazione: l’assenza di
un nesso di causalità certo tra uno specifico inquinante da una determinata
discarica e un preciso danno biologico in ogni singolo querelante. Volevano
convincere i giudici che non può essere dimostrato che quelle che si definiscono
“vittime” dell’incompentenza e corruzione delle istituzioni italiane siano tali.
D’accordo, stanno morendo, ma siamo sicuri che sia per la diossina e i PCB che
respirano quotidianamente? L’Italia ha provato di nuovo ad affrancarsi da ogni
responsabilità.
Ma la Corte ha determinato che il chiarimento scientifico del nesso di causalità
tra le discariche illegali e i roghi di rifiuti che hanno contaminato le matrici
ambientali, da un lato, e l’insorgenza di patologie nei residenti, dall’altro,
non è mai stato dirimente per la presa in carico da parte dello Stato
dell’obbligo di proteggere la cittadinanza dall’inquinamento.
La conoscenza che vi era una dispersione incontrollata di inquinanti che hanno
impatti devastanti sulla salute sarebbe sempre dovuta essere, ed è tuttora,
condizione sufficiente e necessaria per agire. La Corte ha accettato l’esistenza
nella Terra dei Fuochi di un rischio per la vita “sufficientemente grave, reale
e accertabile” e “imminente”. E in base al principio di precauzione ciò impone
il dovere di protezione da parte dello Stato. Prendano nota gli oppositori
istituzionali alle richieste dei cittadini in altre zone inquinate d’Italia.
La corte non poteva essere più chiara. E così mette un’altra pietra sopra le
narrazioni tossiche – già stroncate nei processi penali e dalla scienza – che
proliferavano durante gli anni delle mobilitazioni. Riaprendo l’archivio delle
lotte ci troviamo i ministri e gli “esperti” che a più riprese hanno
stigmatizzato le popolazioni campane in rivolta come ignoranti e irrazionali.
Il ministro Lorenzin, il ministro Balduzzi, gli epidemiologi di stato, i medici
senza deontologia, costoro blandivano e accusavano i campani preoccupati dei
tumori e della mortalità inusitate nella loro terra, additando come causa la
povertà relativa e i supposti stili di vita individuali dei meridionali. Ma
quelle illazioni, come sapevamo e come deduciamo dalla sentenza della Corte,
servivano solo a sviare l’attenzione dalle condizioni concrete del territorio e
dalle omissioni dello Stato.
La Corte riconosce che solo dopo il 2013, con il decreto 136/2013, poi
convertito nella legge 6/2014, lo sdetato italiano inizia, con estremo ritardo,
a interessarsi alla questione in maniera sistematica. Risalgono alle
disposizioni di quel decreto la mappatura dei terreni agricoli contaminati,
l’elargizione di risorse per il monitoraggio ambientale e gli screening
sanitari, e l’aumento dei controlli sul territorio. Un anno prima, nel dicembre
2012, l’allora ministro degli interni Cancellieri nominava Donato Cafagna
“commissario antiroghi” e lo metteva a capo della cabina di regia presso la
prefettura di Napoli con il compito di contrasto e prevenzione degli
smaltimenti abusivi. E un anno dopo, nel 2014, i cittadini campani formati come
“osservatori civici” vengono per la prima volta inclusi e ascoltati. E ancora,
nel 2015, sono finalmente codificati nel codice penale, con la legge 68/2015, i
delitti ambientali.
Ma cos’era successo per arrivare a quelle leggi e a quegli interventi? Apriamo
l’archivio e scopriamo una stagione di mobilitazioni ambientali senza precedenti
in Campania per persistenza e numeri, che costruiva sull’eredità dei comitati
campani dei primi dieci anni del duemila, i quali combattevano contro il piano
disastroso per i rifiuti urbani e denunciavano gli sversamenti
illegali. Nell’estate del 2012 fu organizzato il Coordinamento Comitati Fuochi,
una rete di oltre cinquanta comitati campani contro l’inquinamento, che si
adoperò con campagne di denuncia e bussò a tutte le porte, sedendosi a tutti i
tavoli di concertazione che poteva. Alimentò una campagna mediatica martellante
e ubiqua, che con il supporto del quotidiano Avvenire a poco a poco veicolò il
dolore e la rabbia di vivere tra fumi tossici e discariche illegali sempre più
lontano, sempre più in alto. Si dedicò inoltre al lavoro di raccordo e
comunicazione tra comitati, attori economici, parrocchie e centri sociali.
Giungendo, grazie all’alleanza con i Cittadini Campani per un Piano Alternativo
dei Rifiuti, con la Rete Commons e con altri gruppi storicamente impegnati
sull’ambiente, a costituire la Coalizione Stop Biocidio. Decine di marce per la
vita attraversarono i territori tra il 2012 e il 2013, fino all’apice del Fiume
in Piena, la manifestazione dei centomila da tutta la regione che il 16 novembre
2013 inondò Napoli per imporre il problema della Terra dei Fuochi. Fu solo la
pressione delle mobilitazioni sociali a costringere i governi regionale e
nazionale a intervenire, pur se ancora in maniera insufficiente.
La pubblicazione della sentenza ha innescato il si salvi chi può. Come ha
provato a fare l’assessore regionale all’ambiente Fulvio Bonavitacola, lesto a
diramare una dichiarazione in cui tenta di smarcare la Regione dalle
responsabilità dettagliate dalla Corte, e prova a incensare il suo operato. Ma
con il governo regionale di cui Bonavitacola è assessore non è aumentata né la
sicurezza né la chiarezza per i cittadini campani. La sentenza della Corte
rileva che nel periodo 2018-2021 “il fenomeno dell’inquinamento non sembrava
essersi esaurito, in quanto continuavano a essere scoperte discariche abusive di
rifiuti e segnalazioni di incendi abusivi”, mentre le informazioni ai cittadini
erano scarne e imprecise. Inoltre, continua, nello stesso periodo “i progressi
complessivi negli sforzi di decontaminazione sono stati lenti e molte delle
azioni hanno riguardato solo fasi preliminari intraprese di recente”, nonostante
la responsabilità per le bonifiche fosse passata alla Regione. Attenti ad
attribuirvi meriti che non avete, noi ricordiamo tutto. Anche lo “spot
pubblicitario” della rimozione delle ecoballe, o il fatto che la Regione
Campania nel 2020 non riconfermò la Commissione Speciale Terra dei Fuochi.
UNA FINE CHE È UN INIZIO
La sentenza della Corte Europea ha mandato scariche elettriche sulle sedie di
non pochi rappresentanti dello stato. Costringendoli ad attivarsi. Già il giorno
dopo, sabato primo febbraio, è stato convocato un incontro alla prefettura di
Napoli per fare il punto sugli interventi, invitando anche gli esperti dei
comitati. Gli stessi comitati che stanno analizzando la sentenza, con l’impegno
di riportarla sui territori in incontri e dibattiti pubblici.
A partire da ora, ci sembra siano almeno tre le priorità emergenti dalla
discontinuità che la Corte ha segnato sulla questione Terra dei Fuochi. Come
affermato con forza dai giudici, la popolazione non deve solo essere informata
puntualmente, ma le espressioni di cittadinanza attiva che la Campania ha
prodotto in numero considerevole vanno incluse nella pianificazione, nel
monitoraggio e nella valutazione delle soluzioni approntate. Per assicurarsi che
ciò accada, non basterà avere la forza di una sentenza dietro, pur se basata sui
diritti umani ed emessa dalla più alta autorità giudiziaria a livello europeo.
La pressione popolare è imprescindibile, occorre riannodare i fili della
cooperazione tra gruppi di base, storici e recenti. Una larga Coalizione –
determinante in passato per i destini regionali e nazionali – va riorganizzata e
potenziata. Infine, l’agenda da imporre dal basso deve includere tutte le
direttive della sentenza, ma anche andare oltre. Le parole d’ordine sono
riparazione e rigenerazione del territorio. Per fare questo ingenti risorse
economiche devono essere messe a disposizione, e qualunque sia il governo di
turno bisogna fargli sentire il fiato sul collo. Le mistificazioni che abbiamo
dovuto sopportare finora vanno spazzate via, non accetteremo mezze misure.
Sappiamo la verità e ci assicureremo che venga onorata.
Ci assumiamo la responsabilità di tenere alta l’attenzione, ma qualunque figura
istituzionale che è o sarà incaricata di agire materialmente sulle consegne
della Corte, deve assumersi la piena responsabilità del proprio ruolo e delle
azioni che metterà in moto. È finito lo scaricabarile, è finita la confusione.
Vi abbiamo trascinato in tribunale e fatto condannare, non metteteci ancora alla
prova. Ci siamo mobilitati e continueremo a farlo. Finché non riusciremo a
riappropriarci di questa amata terra nostra. (salvatore de rosa)
img
prova
prova
prova
(disegno di vinylico)
La Basilicata è una tra le regioni del meridione d’Italia che dispone di
maggiori quantità di risorse idriche. Nonostante sia notoriamente ricca d’acqua,
una parte della sua popolazione ha subito una crisi idrica che si è protratta
dalla metà dello scorso ottobre al 20 gennaio 2025. Ben ventinove comuni
(ventisette della provincia di Potenza e due della provincia di Matera) sono
stati privati dell’acqua corrente per dodici ore al giorno. Le restrizioni hanno
riguardato 140 mila persone.
LA CRONACA
A ottobre il governo a guida Giorgia Meloni dichiara lo stato di crisi nominando
il presidente della Regione Basilicata Vito Bardi quale commissario
straordinario all’emergenza idrica. Si aggiunge paradosso al paradosso: chi ha
in parte generato il problema viene chiamato a risolverlo. La crisi nasce,
secondo la narrazione istituzionale, dalla mancanza di piogge che avrebbe
determinato l’esaurimento dell’acqua in una delle dighe lucane, la diga della
Camastra. Per la prima volta anche il governo regionale fa riferimento al
cambiamento climatico, a suo avviso l’unico colpevole che fa precipitare i
ventinove comuni lucani nella serrata dei rubinetti. La Camastra è la diga che
raccoglie e consegna l’acqua allo schema idrico Basento-Camastra. Nel novembre
scorso arriva al minimo storico di acqua invasata, scendendo a 350 mila metri
cubi contro i 32 milioni di metri cubi di capacità del progetto originario. Da
quel momento per i cittadini di quei comuni inizia un vero e proprio calvario. I
lucani non sono i primi, né sicuramente gli unici, ad avere disagi per via del
razionamento dell’acqua. L’assurdità è però evidente: in Basilicata la
popolazione residente è di cinquecentomila persone mentre la sua risorsa idrica,
grazie alla presenza di una rete idrografica fitta e generosa, ha la possibilità
di soddisfare le esigenze di oltre cinque milioni di persone. La situazione
lucana disegna una distopia se ci si interroga su quella che sarà la gestione
dell’acqua in tempi futuri, in cui le risorse idriche della terra di sicuro
diminuiranno in seguito alle modifiche del clima e, soprattutto, la loro
gestione sembra orientata verso una privatizzazione sempre più marcata. Il
racconto istituzionale della crisi idrica in Basilicata, infatti, non convince
per nulla. Le cause della crisi – vedremo – non sono imputabili alla sola
assenza di pioggia, ma sono di tutt’altra natura.
Torniamo a ottobre 2024. L’unità di crisi con a capo il commissario/governatore
Vito Bardi comunica che, dal giorno 16, i comuni serviti dallo schema idrico
Basento-Camastra andranno incontro a restrizioni. Stop all’acqua corrente dalle
18:30 della sera fino alle 6:30 del mattino successivo. Un annuncio scarno,
freddo e perentorio. Nel comunicato si aggiunge la notizia che la diga della
Camastra è in sofferenza e che, se non arriveranno imminenti piogge, si arriverà
a uno svuotamento totale della riserva d’acqua entro il 25 novembre; da quel
punto l’unica soluzione per garantire l’acqua sarà attingerla dal fiume Basento.
Succederà esattamente così. Il Basento nasce poco distante dal capoluogo di
regione, precisamente tra le montagne del comprensorio di Monte Arioso, e dopo
150 km sfocia nello Ionio. È un fiume storicamente considerato molto inquinato.
Prima di immergersi nel mare, infatti, attraversa varie zone industriali, tra
cui quella di Tito. L’area industriale di Tito ospita un Sin, Sito d’interesse
nazionale ai fini della bonifica. Da anni si parla del disastro provocato dalla
ex Daramic, una fabbrica ora chiusa che produceva separatori in plastica per
batterie. Tra il 1985 e il 1987 c’è stato uno sversamento accidentale di
quindici tonnellate di tricloroetilene (trielina), una sostanza cancerogena che
è potuta arrivare fino alla falda acquifera. Allo sversamento non è ancora
seguita la rimozione e la conseguente bonifica dei terreni. La Daramic
scaricava, come alcune altre aziende, i reflui di lavorazione nel torrente Tora,
un affluente del Basento. A certificare il disastro ambientale ci ha pensato la
magistratura. L’ultima inchiesta della procura di Potenza è del 2023 e
riconferma che a Tito Scalo la situazione è ferma al momento dell’incidente, con
valori di trielina superiori ben 270 mila volte alla soglia stabilita per legge.
Il Basento raccoglie pure i reflui della produzione siderurgica presente nella
zona industriale di Potenza e, continuando la sua corsa verso il mare, raccoglie
anche le acque di scarto del depuratore della città. Con questo potenziale
carico inquinante arrivava alla piscina temporanea scavata a servizio del
neonato impianto di sollevamento di Albano di Lucania. Dall’impianto
provvisorio, con una condotta lunga 4 km, si porta l’acqua a una vasca,
battezzata Camastrino, per poi immetterla nella condotta esistente che in
origine portava le acque della diga della Camastra nell’acquedotto fino al
potabilizzatore di Masseria Romaniello a Potenza.
La mobilitazione popolare rispetto a questa scelta a dir poco affrettata è
subito massiccia e spontanea. Nessuno rimane in silenzio, dagli studenti ai
comitati dei genitori fino ai pensionati. Per convogliare e dare un minimo di
struttura alla protesta nasce il comitato acqua pubblica “Peppino Di Bello”. Al
contrario, in viale Verrastro, la sede della Regione Basilicata, il mutismo e
l’autoritarismo nelle decisioni sono l’unica risposta. La protesta è
etichettata, come da copione, populista e allarmista da tutto l’arco governativo
regionale, con l’aggiunta di immancabili minacce di querele per procurato
allarme.
La prima risposta pubblica di Bardi al suo stesso consiglio regionale arriva in
data 19 novembre, a oltre un mese dal razionamento dell’acqua e a pochi giorni
dall’arrivo delle acque del Basento nei rubinetti dei lucani. Una risposta
scritta probabilmente altrove e letta dal presidente dal primo all’ultimo rigo,
con fiato corto, senza un minimo di partecipazione emotiva. Il nodo
responsabilità è l’unico su cui Bardi costruisce l’intervento, per scaricare le
colpe sulle precedenti amministrazioni, colpevoli di scarsa cura e manutenzione
delle dighe lucane, omettendo di sottolineare che da sei anni è lui il
presidente della regione. Vaghe e sommarie le informazioni sui lavori da
realizzare alle dighe da parte del nuovo gestore degli invasi lucani. Dal
messaggio di Bardi letto in assise regionale, senza possibilità di replica da
parte dei consiglieri e con la gente a occupare la strada fuori dal Consiglio,
vengono fuori i nomi di altri attori della crisi idrica: i responsabili politici
e tecnici di Acquedotto Lucano e Acque del Sud spa. Acquedotto Lucano è una
controllata pubblica della Regione Basilicata. Acque del Sud è una nuovissima
creatura dello Stato italiano, una società nelle mani del ministero delle
economie e delle finanze.
STATO DI EMERGENZA
L’emergenza, e i commissari che derivano dalle emergenze, è ciò che mette in
campo la politica italiana. A capo dell’unità di crisi ci finisce il governatore
di una piccola regione del Sud che, guarda caso, è anche generale, cosi come lo
era il Figliuolo durante l’emergenza Covid. Una carica militare rivendicata da
Bardi stesso a dicembre, in conferenza stampa, come replica a una giornalista di
Report. “Qui rispondo da generale”, salvo poi in verità non rispondere, né lì né
ad altre domande, per tutti i mesi di durata della crisi, né da generale né da
commissario né da governatore della Basilicata. Il finanziamento stanziato dal
governo Meloni per l’emergenza lucana dovuta alla crisi idrica è di 2,5 milioni
di euro, finiti presto. La sola condotta dal fiume Basento alla diga della
Camastra, con le sue pompe di sollevamento, assorbe la metà del budget. Poi c’è
l’acquisto di buste di acqua potabile da Acquedotto Pugliese, che prende l’acqua
potabile dalle dighe lucane, altro ridicolo cortocircuito. L’emergenza permette
a Bardi e ai suoi istituti di vigilanza e controllo, Arpa Basilicata su tutti,
di andare in deroga alla legge su un tema come l’acqua a uso civile, e questo
desta ulteriore preoccupazione. Prima di potabilizzare l’acqua di un fiume,
infatti, andrebbero eseguite analisi ripetute e continuate per un anno intero.
Solo nell’eventualità di esito positivo si può procedere alla potabilizzazione.
In Basilicata le acque del Basento sono analizzate per meno di due settimane. Si
può andare in deroga alle leggi in periodi emergenziali, ma non su questioni che
riguardano potenziali problemi legati alla salute della cittadinanza. Invece è
quello che il generale Bardi fa per tre mesi con i cittadini lucani, con
l’avallo dell’Asp, dell’Arpab e delle analisi di Acquedotto Lucano. La
magistratura lucana, che affida ulteriori analisi dell’acqua del fiume Basento
all’Arpa Campania, ha confermato quanto sostenuto dagli altri organi di
controllo e così l’acqua del Basento in quindici giorni diventa potabile. Ma
potabile non vuol dire per forza buona. Infatti si sostengono processi di
potabilizzazione spinti a livello chimico-fisico e per la disinfezione
dell’acqua si usano percentuali di cloro incredibilmente alte, al punto che
l’odore del cloro dai rubinetti perfora le narici. Dulcis in fundo, il direttore
scientifico di Arpa Basilicata ammette candidamente, ai microfoni di Report, che
è meglio bere acqua minerale invece che quella del Basento, mentre il direttore
generale dell’Arpab parla di analisi “moderatamente positive”. Trapela un
allarmismo non tanto velato da questi uomini delle istituzioni, le stesse
invocate per l’intera durata della crisi come modello inattaccabile a cui
credere ciecamente; le stesse che non aprono un dialogo con la popolazione e non
chiedono se i cittadini sono disposti a sostenere sacrifici maggiori in tempo di
ore di sospensione dell’erogazione evitando l’ingerenza dell’acqua del Basento.
Tornando ai veri attori della crisi, troviamo di sicuro l’ente gestore della
rete idrica, l’Acquedotto Lucano completamente a gestione pubblica e sotto
l’egida della Regione Basilicata. Nato nei primi anni duemila staccandosi da
Acquedotto Pugliese, ne sono soci tutti i 131 sindaci dei comuni lucani. Ad
Acquedotto Lucano tocca tuttavia la sola distribuzione dell’acqua dagli invasi
alle case, non la reperibilità della risorsa. Se di acqua nell’invaso della
Camastra non ce n’è, non è possibile imputarne la responsabilità ad Acquedotto
Lucano, ma gravano sull’ente le responsabilità delle perdite delle condotte, il
65% dell’acqua che trasportano (dati Istat). Un quantitativo enorme,
l’ingiustificabile perdita di acqua è presente da anni, ma questo è un fenomeno
diffuso in tanti acquedotti italiani. È grave, ma il tema vero qui è la gestione
dell’acqua invasata, in questo momento storico la gestione delle grandi dighe
lucane è sotto il controllo del vero protagonista di questa vicenda: Acque del
Sud spa.
CARROZZONI
La risorsa idrica del meridione d’Italia è in capo ad Acque del Sud spa, che ha
sostituito il commissariato Eipli, Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la
trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia. Acque del Sud nasce della
legge 74/2023 per volontà del governo Meloni. Luigi De Collanz, già commissario
e liquidatore Eipli, diventa il presidente della nuova società per azioni. Il
ministero delle economie e finanze detiene il 65% delle quote; un restante 30% è
destinato a soci privati e l’ultimo 5% sarà diviso tra le regioni del Sud. Il
carrozzone Eipli – cosi definito dalla politica stessa – in tanti anni di
gestione lacunosa e debitoria non aveva mai lasciato i lucani senz’acqua. Acque
del Sud ci riesce subito.
Le dighe italiane, in virtù di una serie di norme per la sicurezza sismica
imposte dal 2019 dalla Direzione generale per le dighe e le infrastrutture
idriche, sono tutte drasticamente ridotte per capacità d’invaso. È solo la
Camastra, tuttavia, a risultare vuota al punto da attingere acqua dal fiume. Lo
svuotamento repentino non è normale se si osservano i dati sul prelievo
giornaliero dalla diga verso lo schema idrico Basento-Camastra, che nell’anno
2024 è sempre più importante rispetto al passato. Acque del Sud non spiega il
perché, indica la vecchia gestione come il male assoluto e annuncia imminenti
lavori con somma urgenza per ampliare la quota invasabile cosi da ottenere una
maggiore riserva d’acqua; questo a parole perché già dopo le nevicate di inizio
gennaio la diga della Camastra ha raggiunto il suo volume massimo e pare si
rischia già di sversare l’acqua nel fiume. Insomma Eipli era un carrozzone e non
era capace, ma Acque del Sud non si sta dimostrando più efficace.
Il vertice della società a partecipazione statale, alle prime domande e dubbi
sorti sulla gestione della risorsa invasata da parte dei comitati di lotta,
risponde con un’offesa: “qualunquisti da marciapiede”. Ai cittadini lucani
spaventa l’indicazione governativa che offre il 30% delle azioni di una risorsa
come l’acqua ai privati. L’acqua non può essere oggetto di mercificazione. Le
regioni del sud devono detenere minimo il 35% delle quote della società per
avere un ruolo da protagonista, nessun privato può comperare l’acqua e trattarne
il costo e il valore. Nel 2011, in Italia, il referendum sull’acqua pubblica ha
sancito questo principio, il contrario di quello che indica la linea politica
che sta portando avanti il governo Meloni. La legge che ha portato ad Acque del
Sud va rivista e concertata con le regioni, soprattutto con quelle come la
Basilicata che dispongono dell’acqua. Su questo bisogna intestare la battaglia
civile e soprattutto politica.
Si sta smantellando quanto fatto di buono fin qui in termini di collaborazione
tra regioni. Negli ultimi decenni l’accordo di programma tra lo Stato e le
regioni Basilicata e Puglia per una gestione condivisa dell’acqua aveva
funzionato. L’accordo stipulato con la legge 36 del 1994, attivo dal 1999, aveva
tra le finalità il superamento dei conflitti legati alla disponibilità della
risorsa idrica, era una vera forma di federalismo solidale tra regioni. Un
unicum europeo. Ventisei anni dopo quell’accordo è alle soglie di possibili
scontri sociali tra porzioni di territori che dispongono di acqua, la
Basilicata, e territori che ne sono privi, la Puglia.
La trazione industriale e capitalista che il mondo sta imponendo a una velocità
che pare inarrestabile, investe anche la risorsa più importante per l’uomo e la
sua esistenza. Questo concetto possiamo spiegarlo con un esempio e pochi freddi
numeri: il 50% dell’acqua prelevabile in natura è utilizzata per l’agroindustria
e l’allevamento intensivo, un ulteriore 30% è utilizzato per la produzione di
energia e per le attività minerarie; a uso civile idropotabile rimane solo il
20% e in caso di crisi idrica, come quella lucana, a chi viene razionata
l’acqua? A chi produce carne? A chi produce elettricità o estrae petrolio e gas?
No, l’acqua viene razionata prima alla gente e poi alle industrie.
Serve una mobilitazione forte e diffusa tra le persone per provare a salvarsi
tutti insieme. E forse proprio da una vertenza che metta al centro l’acqua come
bene comune, pubblico e intoccabile dal denaro, potremmo provare a ripartire per
dare voce a questa regione del meridione d’Italia cosi ricca di acqua e petrolio
al punto che è colonizzata ormai da trent’anni dalle più grandi multinazionali
dell’estrattivismo fossile con Eni in testa. (mimmo nardozza)
ACQUE INQUINATE DAI PFAS IN VALSUSA E PIEMONTE
Piazza della stazione di Bussoleno - .
(venerdì, 24 gennaio 18:00)
Rilanciamo l'appuntamento di QUESTO Venerdì alle 18 in piazza della Stazione a
Bussoleno, per mobilitarsi sulla questione delle acque inquinate dai PFAS in
Valsusa e Piemonte.
https://www.notav.info/post/comitato-acqua-sicura-analisi-dei-pfas-nelle-acque-potabili-di-235-comuni-italiani-bussoleno-il-comune-record-in-italia-per-quantita-di-pfoa-e-una-sostanza-cancerogena-venerdi-24-01-ore-18/
#lottaambientalista
#territorio@cazafeu
#inquinamentodaPFAS
(archivio disegni napolimonitor)
Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale
alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto
sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso
brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative,
sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla
questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di
organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe
cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione
del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università
romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando
c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi
sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto
alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti
degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze
dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni
intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una
democrazia.
L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata
colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia
climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a
Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno
di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della
Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion
Italia.
* * *
La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno
seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili
scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene
impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non
violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata.
Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i
miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni
si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai
bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo
a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa.
Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli
altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci
dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale.
Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato
dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di
fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a
presidio dell’ingresso del palazzo.
Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione
diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da
molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi
ha preso qualche calcio e qualche botta in testa.
La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi
volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non
esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le
attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce,
raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono
rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere
non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso
entrare, ma ci sono i social.
I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per
arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non
finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non
voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso.
Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di
rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di
patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite
scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio
immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi
della politica.
Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte.
Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la
metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di
Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a
Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di
rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza.
Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci
sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per
la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno
di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo
combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di
mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora
in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che
disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?).
Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone
hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di
Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che
caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia.
Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo
proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso
tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una
democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in
altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a
quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie
conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come
un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre
più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie
generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o
disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa
realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari
fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la
retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in
società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”.
Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può
comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta,
il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo
preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e
che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno
svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo.
Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse
passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste
in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate
diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con
l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono
rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in
questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga
rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e
rilasciate.
Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti.
Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo
stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena.
La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state
formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo.
Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone
identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue
fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma.
Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il
viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma
è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il
giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla
fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che
aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si
riempie improvvisamente di vita.
Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR,
dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un
momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a
turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di
volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che
lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato,
spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione
della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad
approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e
climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e
delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure.
Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento
significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente
delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di
movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per
l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di
disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per
affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole.
Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono
preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente.
Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera
subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è
una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo
il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con
un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al
corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle
donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa,
nonostante tutto. (francesco dal cerro)
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci:
quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza
dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per
scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha
invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura.
In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è
radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera
facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in
maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del
territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità
nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi,
utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate.
PARTE TERZA
– LA VERSIONE MOLOTOV –
Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e
consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti
si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando.
Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe
necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza
pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila
nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita.
Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse
a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei
cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro.
Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può
fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero,
mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno.
Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi,
e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata
competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la
mappa non è il territorio.
La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in
solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada.
C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che
affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli
altri.
Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure
scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una
cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è
mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si
fa rischiare a chi è intorno.
Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è
isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono
comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita.
Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente
precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa
esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un
contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto
attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa
rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta
con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce,
figuriamoci di altre, ben più delicate.
OUTRO
– UN ESEMPIO –
Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello
snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella.
Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina
talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i
grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono
l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali
protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”.
L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata
Bepi Zac alle creste di Costabella.
Il fatto è il seguente:
alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre
sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate
nel secondo tratto, in zona Costabella.
Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno
questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi
totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché
incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court.
A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un
bimbo in braccio ci si è comportati idioti.
Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere
l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui
normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre
allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della
zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti
sprovveduti?»
Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più
esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il
pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne
possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…).
Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto,
che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore
se lo carica in collo).
Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai?
È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene
preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare
l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere
sicuri e al sicuro.
Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il
potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio
spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti
nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo.
Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che
obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o
un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli.
È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo
sulla pelle delle valli e delle cime.
In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i
mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera
proficua.
La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione
di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di
ragionevolezza.
In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è
‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico,
salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione
l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani.
Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti
acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale
e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando
con la pelle degli animali umani.
Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori
sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per
alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno
scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche
criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità
di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta
giocando con la pelle della società.
Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte
politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso
le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche
verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad
andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui
andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale.
In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate.
Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di
emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e
risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
(seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
INTRO
– INQUADRAMENTO-
La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il
ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio
maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed
esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone.
In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e
impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa
passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di
verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché
conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da
bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie.
Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione
turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo
terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle
similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e
poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano
il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello
spazio e appiattimento dell’immaginario.
Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido,
sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e
riflessione generale crediamo vada fatta.
La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario.
Bocchette centrali di Brenta.
Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di
mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche
o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma
esplicitamente per cercare la difficoltà.
Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a
che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la
medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto.
Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata
Castiglioni alla Cima d’Agola.
Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di
fruizione.
1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in
alpi occidentali;
2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica,
rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad
arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima
Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel
gruppo dell’Adamello;
3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé
stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura:
scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad
alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi,
la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark.
A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza.
A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta –
per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i
fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo
incivile».
Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di
attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano
così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole.
Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione
che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente
aumento del potere d’acquisto del ceto medio.
Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in
Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari
classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza.
Sopra la ferrata delle Aquile in Paganella.
Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel.
PARTE PRIMA
– L’APPROCCIO SCERIFFO –
Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le
sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile.
Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato
a tema
modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli
entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti
assimilabili al tipo 3.
Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto
dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su
ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto
un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso
risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente
più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde
non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada
che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma
non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e
si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’.
buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo
sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore
della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si
racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si
sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano
tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta
come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario
schizzano dritte nella 3: adrenalina.
Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi
opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da
marketing, come nel caso dell’Epic trail.
L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi
spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei
geometri che progettano siffatti percorsi.
Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori.
Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel
che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in
montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il
moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e
seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare
l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico
gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e
invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco.
In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei
sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati
esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica
conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati
soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno
lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno
senso.
Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il
biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti
alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che
lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che
userà sarà in buono stato, funzionante e certificata.
PARTE SECONDA
– L’APPROCCIO BIMBOMINKIA –
Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti
di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro
in sé niente, non si sa, non si dice.
Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si
fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano
domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere
alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo.
Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al
sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta
tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa).
Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per
stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero,
alla preservazione della ‘carne-lavoro’.
Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono
insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non
dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali.
La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per
scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso
diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere
qualcuno che ne ha colpa.
In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle
pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata
‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la
colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due
macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa.
A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si
potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.»
Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi.
Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte
quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’
potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono
manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di
roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che
sentieri tecnicamente più difficili.
In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della
rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i
sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di
responsabilità post tragedia in Marmolada.
O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per
uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in
generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione.
Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei
territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo
qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo
l’assicurazione, che l’individuo paghi.
Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo
di comportamenti non corretti per la morale corrente?
Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare
l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto.
Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi
riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si
auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza.
In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata)
è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo,
se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile,
assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e
regolarne la corrente, il flusso.
L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada
era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI
voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un
altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto.
Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un
giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di
aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo
morale.
Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome
del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà
la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita
o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della
salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto
ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità
collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è
acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte
come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali
o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata
la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e
sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura,
anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento
‘riservato’».
Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono
fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il
dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di
allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro.
Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista
che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal
momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e
quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le
responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e
descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire
in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua».
Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la
prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di
come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
(disegno di ginevra naviglio)
Il 6 novembre il Senato ha approvato con voto di fiducia il decreto cosiddetto
Salva-infrazioni, con l’obiettivo di “agevolare la chiusura di 15 procedure
d’infrazione” con l’Unione Europea.
Uno degli articoli più discussi è quello che riguarda l’assegnazione delle
concessioni balneari. La riforma prevede che i concessionari potranno mantenere
installati “fino all’aggiudicazione della nuova gara i manufatti amovibili, come
prefabbricati e depositi”. Soprattutto, la legge proroga la chiusura delle nuove
gare per l’affidamento delle concessioni al 30 giugno 2027. Esclude inoltre
dall’applicazione della direttiva Bolkestein i circoli sportivi e le
associazioni sportive dilettantistiche che svolgono attività in via “stabile e
principale” con finalità sociali e ricreative, purché siano iscritte al Registro
nazionale e usino il demanio marittimo per attività non economiche.
Anziché intervenire sul problema, in sostanza, la legge lo aggira, prorogando
ancora una volta le concessioni in essere (l’ultima proroga risaliva al
Milleproroghe del febbraio 2023), non affrontando in alcun modo il tema
dell’utilizzo libero e gratuito da parte dei cittadini di spiagge e mare, e anzi
normalizzando l’anomalia per la quale l’Unione Europea aveva più volte
richiamato ed esortato vari governi italiani a intervenire.
Su quanto sta accadendo abbiamo intervistato alcuni attivisti e attiviste del
comitato Mare libero, pulito e gratuito di Napoli.
* * *
«Dal nostro punto di vista la riforma rappresenta un attacco all’idea stessa di
“beni comuni”; fa un grosso regalo alla lobby dei balneari che continueranno
senza nuove gare a dettare legge sulle spiagge e a fare profitti, pagando cifre
irrisorie per le concessioni. Nel rispetto della Costituzione, delle leggi e
delle norme che regolano i beni demaniali, le spiagge e l’intera linea di costa
non possono essere ridotte a semplici risorse da cui trarre profitto. Il codice
civile per esempio ci dice che i beni demaniali sono beni a utilizzo collettivo,
in quanto, per la loro naturale attitudine a soddisfare interessi pubblici, non
possono che essere accessibili a tutti.
«Questa legge mira a porre rimedio alle ben quindici procedure d’infrazione
accumulate negli anni dall’Italia per essere stata inadempiente sulle direttive
europee in merito di libera concorrenza, quindi non solo rispetto alle
concessioni balneari. Nel concreto, si prosegue sulla linea della mercificazione
di ciò che dovrebbe rimanere patrimonio naturale di tutti, e come se non
bastasse la riforma non arriva dopo un confronto parlamentare, perché l’adozione
di un voto di fiducia ha impedito ogni dibattito. Da un punto di vista tecnico,
poi, è in contrasto con la giurisprudenza, come sancito dal Consiglio di Stato,
che ha stabilito che tutti i rinnovi delle concessioni demaniali oltre il 2023
devono essere considerati nulli.
«Il punto che più ci interessa è che con la proroga automatica non si discuterà
del riequilibrio, previsto dalla legge Draghi, delle percentuali tra le spiagge
libere e quelle in concessione, una percentuale che oggi è totalmente
sbilanciata sulle seconde. È fuorviante focalizzare lo sguardo, l’attenzione e
tutto il dibattito sul rinnovo o la messa a bando delle concessioni: il problema
vero riguarda il diritto di accesso libero e gratuito al mare. Che mettano a
bando o rinnovino le concessioni per noi è secondario rispetto alla necessità di
garantire ciò che già da molti anni è normato in termini di legge: il diritto di
accesso gratuito e libero, oltre che di fruizione, della battigia e del mare,
anche in caso di un arenile dato in concessione (legge 296 del 2006, articolo 1,
comma e254; legge 217 del 2011, articolo 11, comma 2; legge 118 del 2022,
articolo 4, comma 2). La questione non è semplicemente di fare nuovi bandi per
le concessioni, quanto piuttosto di cambiare l’impianto di questi bandi,
affinché nel rispetto del libero accesso di tutti alle spiagge e al mare le
concessioni siano esclusivamente di servizi e non, come accade illecitamente e
tacitamente oggi, delle vere e proprie occupazioni di suolo.
«La riforma non affronta in alcun modo il problema della scarsità e della
vulnerabilità delle risorse marine, mettendo a rischio l’ecosistema costiero.
L’errore più eclatante è che, ancora una volta, non sono stati coinvolti i
legittimi proprietari delle spiagge, cioè i cittadini. Ciò che era ben chiaro
agli antichi romani duemila e passa anni fa riguardo la res communes omnium oggi
sfugge ai più, e si persevera nel trattare la natura come una merce da cui
trarre profitto, Nella sua ratio la riforma svilisce il valore del mare e del
libero accesso a esso, riducendolo a uno spazio turistico-ricreativo,
equiparandolo a una merce da vendere, dimenticando tra l’altro che “il bene
comune mare” svolge un ruolo fondamentale per la salute pubblica e per il
benessere psicofisico dei cittadini, come dimostrato da innumerevoli studi e
ricerche.
«Per quanto concerne il contesto napoletano, la riforma porterà al
consolidamento dell’inaccettabile situazione di negazione del diritto di
accessoal mare. Va ricordato che a Napoli solo il cinque per cento della costa è
liberamente accessibile, e per di più negli ultimi anni, in molti casi, solo
attraverso una prenotazione. Grazie alle mobilitazioni la consapevolezza della
situazione è aumentata, e con essa anche la rabbia per non poter liberamente e
gratuitamente fare un bagno a mare, per questo siamo convinti che a partire
dalla primavera ci siano gli estremi per una mobilitazione ancora più ampia, con
azioni di protesta e sensibilizzazione per far comprendere la necessità di
mantenere libere le nostre coste da qualunque tipo di privatizzazione, abusi e
inquinamento. Da parte nostra continueremo a rivendicare il ripristino
morfologico della linea di costa e a lottare per le bonifiche a Bagnoli e San
Giovanni, oltre che oer il libero accesso alle spiagge a cui oggi si accede solo
attraverso le proprietà private di Posillipo.
«Un elemento su cui dobbiamo insistere è il fatto che il decreto lascia
comunque alle autorità locali la possibilità di fare nuovi bandi e rivedere i
piani concessori anche prima del 2027. Per quanto ci riguarda eserciteremo tutta
la pressione possibile affinché questo avvenga e perché il comune di Napoli si
assuma finalmente e per intero questa responsabilità. Porteremo avanti la
battaglia per superare la principale anomalia che riguarda la città, ovvero il
fatto che la gestione della costa è ancora in capo all’Autorità Portuale
piuttosto che al Comune: un passaggio già previsto da diversi accordi che doveva
avvenire entro il 2022 e che non è avvenuto. Si tratta di un passaggio
necessario, in quanto preliminare alla riscrittura della pianificazione sulla
costa, al bilanciamento tra le percentuali di spiagge libere e in concessione, e
all’elaborazione delle modalità con cui verranno scritti i bandi. Il Comune ha
approvato nei mesi scorsi una Consulta sul mare aperta ai comitati e alle
associazioni ma non l’ha ancora attivata: dovrà essere quello, e non un altro,
il luogo per la riscrittura di un nuovo piano, che dovrà avere come priorità il
libero e gratuito accesso di tutti al mare.
Naturalmente, parallelamente all’azione politica diretta continueremo a
esplorare tutte le possibili azioni legali contro la lobby delle spiagge, così
come abbiamo fatto in questi anni. Attendiamo la primavera del 2025 per le
sentenze contro il numero chiuso e la prenotazione on-line con divieto ai minori
non accompagnati alla spiaggia delle Monache, di Donn’Anna e della Gaiola,
imposti dal Comune. Nel frattempo, continueremo a sollecitare palazzo San
Giacomo e l’Autorità Portuale per ripristinare l’accesso a Riva Fiorita e
cercheremo di allargare il fronte organizzando una conferenza internazionale sul
mare libero a Napoli». (intervista a cura di riccardo rosa)