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Firenze, l’offensiva antisindacale di Montblanc e il diritto di sciop…ping
NapoliMONiTOR - Friday, February 7, 2025
L’offensiva antisindacale di Montblanc fa un buco nell’acqua. La società voleva ottenere dal tribunale l’ordine per il sindacato Sudd Cobas di “astenersi dall’organizzare, promuovere e/o svolgere manifestazioni nei confronti di Montblanc Italia S.r.l. a distanza inferiore a 500 metri dalle vetrine della boutique sita in via Tornabuoni”. Una proposta senza precedenti, che minaccia le fondamenta della libertà sindacale e di manifestazione, nel solco della direzione tracciata dal ddl 1660. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione. Il sindacato e un’ampia comunità solidale non hanno mancato di rispondere pubblicamente, con una assemblea pubblica molto partecipata domenica 2 febbraio a Firenze e la diffusione di un appello di solidarietà internazionale.
COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO
Facciamo un passo indietro e proviamo a riepilogare i fatti che hanno portato alla situazione attuale. Prima di tutto occorre chiarire cosa vuol dire parlare di “operai Montblanc”: secondo un meccanismo rodato e ampiamente diffuso, i grandi marchi non producono direttamente le proprie merci, o lo fanno solamente in minima parte, commissionando ad altri il grosso della produzione e alimentando filiere lunghe e torbide. Nel caso di Montblanc, il brand commissiona le proprie borse alla Pelletteria Richemont Firenze, una società detenuta dal Gruppo Richemont, l’holding finanziaria cui appartiene anche Montblanc stessa. La distinzione tra le due aziende è quindi formale, tanto che la stella simbolo del marchio è ben visibile sull’edificio di Pelletteria Richemont. La produzione vera e propria, tuttavia, veniva sub-commissionata a un’altra azienda, la Z Production, la quale aveva a sua volta un sub-fornitore, Eurotaglio (azienda in realtà solo formalmente distinta da Z Production, operante nello stesso stabile e con lo stesso capo). Erano gli operai di queste ultime due aziende a lavorare le borse di Montblanc, costretti a turni di dodici ore al giorno, sei giorni a settimana, per pochi euro l’ora.
Fin qui, per quanto si intuisca la ricerca del massimo profitto da parte di Montblanc attraverso un sistema di appalti che massimizza il plusvalore assoluto prodotto dai lavoratori, qualcuno potrebbe ancora sostenere che l’azienda non possa essere ritenuta responsabile per le condizioni di lavoro in queste aziende. Occorre quindi far presente che (1) appare chiaro a chiunque che una borsa pagata settanta euro, ma lavorata secondo alti standard qualitativi, deve necessariamente implicare del lavoro sottopagato e che (2) un supervisore della pelletteria Richemont visitava regolarmente Z Production ed Eurotaglio per assicurare gli standard di produzione. Non si deve quindi immaginare, tra queste aziende, il classico rapporto tra cliente e fornitore, ma una distorsione di questo a favore del cliente che, grazie alle sue dimensioni spropositate, impone a ditte in mono-committenza tempi, modi e prezzi di produzione.
Dopo quattro mesi dall’inizio del percorso di lotta, a febbraio 2023, gli operai di Z Production ed Eurotaglio sono riusciti a ottenere il rispetto dei propri diritti (quelli garantiti dalla legge italiana) e l’applicazione del contratto nazionale. Il costo del prodotto per Montblanc è così passato da settanta a cento euro al pezzo (il prezzo al pubblico di questi prodotti supera i mille euro per borsa). Poche settimane dopo, la committenza comunica a Z Production che, alla scadenza del contratto, non lo avrebbe rinnovato, condannando di fatto i lavoratori alla perdita del proprio impiego. Gli operai però non mollano e cambiano la propria strategia: anche l’idra ha un punto debole, se si ha l’intelligenza e il coraggio di trovarlo.
Al grido di “Montblanc sfrutta, Montblanc scappa”, la lotta riprende, dirigendosi direttamente contro il brand. La strategia diventa quella di colpire ciò che veramente viene venduto dall’azienda: il marchio, l’immagine, l’aura del lusso. I picchetti davanti al sontuoso negozio si susseguono e a settembre 2024 il Sudd Cobas lancia la campagna “Shame in Italy”, con l’obiettivo di fare luce sulle ombre che si nascondono dietro le scintillanti vetrine del marchio. Il coraggioso gruppo di operai arriva perfino a Ginevra per protestare sotto la sede di Richemont, mentre in varie città d’Europa si attiva una giornata di convergenza sotto i negozi Montblanc e in via Tornabuoni, nel cuore della Firenze bene, gli operai montano le tende in mezzo alle vetrine di gioiellerie, boutique e alberghi a cinque stelle. La stampa internazionale inizia a interessarsi e Al Jazeera produce un documentario che conferma quanto sostenuto dagli operai fin dall’inizio: Montblanc sa tutto.
IL PRIVILEGIO È UN DIRITTO, I DIRITTI UN PRIVILEGIO
Messo alle strette, il gruppo Richemont decide di reagire con forza e mostrare ciò di cui è capace un colosso finanziario da venti miliardi di euro di fatturato. Facendo appello al tribunale civile di Firenze, Montblanc costruisce un ricorso con cui chiede che sia impedito al sindacato di manifestare a meno di cinquecento metri dal proprio negozio in via Tornabuoni, di fatto volendo imporre le proprie prerogative su un’area che copre un terzo del centro storico cittadino.
Se chi legge potrebbe essere stupito da una tale arroganza, forse non lo sarà chi vive nel capoluogo toscano, ormai abituato alla gestione privatistica dello spazio pubblico, vedasi piazza della Signoria affittata a Ferragamo per una sfilata o Ponte Vecchio a Ferrari per una cena, solo per citare i due eventi più eclatanti. Si aggiunga a questo che via Tornabuoni, insieme a diverse altre decine di strade del centro storico, è “tutelata” da una norma che limita l’apertura di nuove attività unicamente a quelle “di pregio”, come negozi di antiquariato, design e gallerie d’arte. Se infine si considera la messa in vendita di gran parte degli immobili di maggiore pregio in possesso del Comune, il quadro che ne emerge è quello di una città che da anni, marcatamente dall’amministrazione Renzi in poi, è espressione dell’organizzazione pubblica di interessi privati.
L’estrazione di valore operata da privati che si appropriano di porzioni via via crescenti della città, mostra però continuamente le sue contraddizioni. È così che le folle di turisti devono essere disciplinate da ordinanze “anti-panino” che impediscano loro di ungere le preziose pavimentazioni degli edifici storici, e i fruitori della movida notturna devono essere controllati da guardie private che li guidino nel consumo attraverso selve di ristoranti, bar e locali. E sempre così si rende necessaria la smart control room che coordina le circa 1.700 telecamere cittadine, una ogni 230 abitanti (primato nazionale) e la continua richiesta di nuovi agenti di polizia al governo.
La trasformazione dei quartieri, da espressione dei bisogni, dei conflitti e degli espedienti di una comunità a luogo di produzione di valore, non è indolore. Per produrre diventa necessario controllare tutte le espressioni non coerenti con la ricerca costante di profitto, siano esse modalità di fruizione dello spazio incentivate proprio dalla sua commercializzazione o l’espressione di soggettività incompatibili con questo modello. Strumenti come il “daspo urbano” e le “zone rosse” (sperimentate in modo fallimentare a Firenze a partire dal 2019 e ora incentivate dal governo in tutte le maggiori città italiane) si rendono così necessari a silenziare con la forza tutte le forme che non seguono la strada prevista.
In questo contesto, dove il negozio in via Tornabuoni è parte fondamentale della costruzione dell’immagine per la valorizzazione delle merci e, perciò, nodo in cui può esprimersi la conflittualità operaia, non appare così incredibile che Montblanc pretenda di difendersi ampliando la portata degli strumenti già esistenti, per usarli contro il sindacato. Degna di nota risulta però la modalità con cui avviene il tentativo da parte del brand: ricorrendo al tribunale civile, infatti, esso non solo derubrica la questione a gestione dell’ordine pubblico, anziché a conflitto tra parte datoriale e sindacale, ma scavalca anche l’amministrazione cittadina. Quest’ultima, trasformata col processo neoliberista in strumento dei privati, viene ritenuta evidentemente obsoleta da chi si sente ormai in grado di governare da sé.
Fortunatamente, la mobilitazione attivata dal sindacato, a cui hanno fatto eco le numerose realtà che lottano per un diverso futuro della città, stavolta è stata in grado di bloccare sul nascere questo tentativo, evitando un pericoloso precedente per tutto il territorio. Resta però la necessità di analizzare il bivio di fronte a cui la comunità democratica si trova di fronte: il declivio verso città amministrate direttamente dai privati, ormai liberi dalla maschera della politica rappresentativa, o l’accidentato sentiero da percorrere per portare in centro, al centro, le necessità di tutte quelle operaie e operai che i padroni vorrebbero chini a lavorare. Che possa essere la convergenza tra lotte sindacali e realtà territoriali a riaprire una strada che sembrava ormai impraticabile? (cosimo barbagli, marco ravasio)