(disegno di francesca ferrara)
A luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia accoglieva il ricorso
avanzato dal Sud Africa che deliberava che in Palestina fosse in corso un
genocidio. Nonostante questa sentenza, il nostro paese ha continuato a fornire
assistenza materiale a Israele come previsto dall’accordo di cooperazione
militare e di difesa, il Memorandum Italia-Israele, ratificato nel 2005. Allo
stesso modo, come conferma il più recente rapporto della relatrice speciale Onu
Francesca Albanese, si è andata a configurare l’esistenza di un’economia del
genocidio che non si è fermata in questi due anni.
Da qui parte l’indagine di un gruppo di lavoratori di Poste italiane di Roma,
sindacalizzati Cobas – portalettere, sportellisti, lavoratori della logistica –
che dopo l’ingresso dell’azienda italiana tra i soci di Med-Or, a gennaio 2024,
decidono di scavare a fondo su questa partnership provando a ricostruire le
complicità tra Poste e la Leonardo Spa.
Il collettivo – da sempre impegnato contro lo sfruttamento e l’aumento del
lavoro straordinario – considera l’indagine come uno strumento comunicativo
imprescindibile per accendere i fari sul ruolo della loro azienda nel genocidio.
I lavoratori scelgono di formare una redazione e dare vita a un piccolo giornale
aziendale: Il postaccio.
L’inchiesta individua una serie di peculiarità che caratterizzano i rapporti tra
Poste e la Leonardo. Innanzitutto la “doppia morale” dell’azienda: il collettivo
denuncia la sospensione del servizio di spedizione internazionale Poste Air
Cargo verso la Russia all’indomani dell’offensiva in Ucraina, mentre continua lo
scambio commerciale verso Israele; rimarca le complicità dei sindacati
confederali (Cgil, Cisl, Uil) che detengono quote del Fondo Poste che fa affari
con società vicine a Israele, e riscontrano elementi di green washing delle
aziende socie con Med-Or, come la Snam, vicina a Israele, che opera per ripulire
l’immagine della Leonardo, come accaduto a Foggia fuori dallo stabilimento della
fabbrica di armi italiana. Lì la società realizza un boschetto privato, non
accessibile alla popolazione, per ridurre l’impatto di Co2 e mostrare il lato
green dell’azienda.
L’indagine, presentata a Roma in un locale del Pigneto, “Zazie nel Metro”, da
uno dei lavoratori del collettivo, diventa motivo di approfondimento della mia
intervista.
Quando e perché avete deciso di fare un’indagine su Poste italiane?
«L’indagine risale all’inizio del 2025, in concomitanza con le mobilitazioni
universitarie contro l’accordo di cooperazione industriale, scientifica e
tecnologica tra Italia e Israele, promosso dal ministero degli esteri. Ma una
spinta viene anche dall’interno, vista la partecipazione di alcuni nostri
compagni al gruppo del Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Così
quando è emerso che Poste italiane aveva aderito a Med-Or, a gennaio 2024,
decidiamo di andare fino in fondo perché rintracciavamo un elemento di
complicità. Parliamo di una fondazione voluta da Leonardo che ha rapporti
consolidati con Israele e l’area mediorientale. Sapevamo che non c’era solo
Poste ma tutte le grandi società partecipate italiane – da Telecom a Fincantieri
fino a Snam, la società dei gasdotti italiani, che ha acquistato quote della
compagnia East mediterranean gas company, proprietaria del gasdotto che collega
Israele con l’Egitto – e visto che come sindacato siamo attenti alle questioni
sociali, abbiamo deciso di attivarci».
Che cosa avete scoperto nella vostra indagine?
«Dal 2021 Poste Air Cargo viene adibita al trasporto merci, nello stesso anno
viene previsto uno scalo a Tel Aviv. Abbiamo notizie ufficiali che Poste Air
Cargo dispone di una flotta adibita al trasporto di materiali “dual use”, a uso
civile e militare. Il suo ruolo è quello di supporto logistico alla causa
israeliana fornendo componenti di natura aerospaziale e elettronica. Il
trasporto è al centro di forti critiche da parte delle Nazioni Unite che hanno
richiesto più volte un embargo completo contro Israele. Dopo l’inizio delle
operazioni militari israeliane e l’attentato di Hamas, i voli non solo non sono
stati sospesi ma le tratte e la flotte sono cresciute. A maggio 2024 sono
raddoppiate le rotte verso Tel Aviv. E tra il novembre 2024 e febbraio 2025,
Poste Air Cargo ha aumentato le sue flotte aeree, passate da cinque a otto. Dal
nostro paese partono almeno due voli a settimana, come riporta l’ex
l’amministratore delegato di Poste, Rosario Fava, che ha confermato che Poste
Air Cargo trasporta materiale aerospaziale verso Israele. Insomma, ci sono tante
coincidenze che fanno pensare che esiste una complicità diretta con Israele».
Cosa pensate del Fondo Poste?
«È un fondo privato soggetto a meccanismi finanziari e scelte di investimento
non sempre trasparenti. Il fondo non è solo uno strumento previdenziale, ma
affida miliardi a società che finanziano direttamente la macchina bellica
israeliana: come Allianz, Axa, Amundi, Generali, Ubs, Eurizon. Nel fondo
compaiono anche le grandi società Big Tech del progetto Nimbus – Microsoft,
Amazon, Google – che forniscono sistemi di intelligenza artificiale e cloud che
consentono al governo israeliano di schedare e sterminare la popolazione
palestinese. La questione del fondo l’abbiamo sollevata più volte. All’epoca
come Cobas avevamo consigliato ai lavoratori di lasciare il Tfr in azienda ma la
maggioranza decise – spinta dai sindacati confederali – di acquistare quote del
Fondo Poste. Sapevamo i rischi a cui andavamo incontro: il fondo privato è
soggetto a speculazioni finanziarie, a rialzi, in una logica basata
sull’inflazione. Recentemente hanno introdotto delle misure di welfare aziendali
che spingono i lavoratori ad acquistare quote aggiuntive del fondo. Ti danno una
quota in più, ma se non la vuoi non prendi i soldi. Parliamo di investimenti
pianificati da consigli di amministrazione in cui troviamo i sindacati
confederali. C’è quindi una responsabilità diretta: quando si investe in società
coinvolte in conflitti o in progetti come Med-Or, non si può dire “non lo
sapevamo”. Non parliamo di una responsabilità equiparabile a quella di un
cittadino: costretto a fare un’assicurazione sulla propria auto perché meno
costosa, ma poco consapevole di quello che c’è dietro».
Come nasce il giornale?
«L’idea c’era da anni, ma mancavano le forze. E nei primi mesi del 2025
decidiamo di formare una redazione: chi impagina, chi scrive, chi disegna. Un
compagno di Poste, autodidatta, ci regala vignette straordinarie. Il primo
numero esce, come prova, ad aprile. Dopo l’estate decidiamo di farlo diventare
mensile. Lo distribuiamo a mano negli uffici. E piace: i lavoratori lo leggono,
ci parlano. In poco tempo si trasforma in un piccolo spazio critico all’interno
di un’azienda in cui la sindacalizzazione “conflittuale” è molto bassa. La
nascita del giornalino ha influito sulla mobilitazione degli ultimi scioperi. In
alcuni uffici abbiamo avuto una partecipazione più alta del solito: quasi venti
persone su cento hanno preso parte alle ultime mobilitazioni. Non è una
rivoluzione, ma è un cambiamento. Alcuni lavoratori ci hanno chiesto come
uscire dal Fondo Poste, dopo aver scoperto dove finiscono i soldi. Certo,
parliamo di una categoria in cui il sindacalismo conflittuale ha difficoltà a
fare breccia. Altrettanto difficile è scardinare i meccanismi di marketing
aziendale. Poste si vuole presentare dalla parte dei cittadini, vicina alle loro
esigenze. Conosciamo bene queste immagini: il postino sorridente, il pensionato
che esce felice dall’ufficio postale… Una maschera che cela gli scenari
inquietanti che ci stanno dietro. Come quello sulla Palestina».
Cosa si può fare per bloccare l’economia del genocidio?
«Come sigla sindacale proviamo ad aprire le procedure di raffreddamento, e lo
facciamo sempre ogni tre mesi contro l’incremento del lavoro straordinario. Un
incremento che alimenta lo sfruttamento dentro la categoria. E in questo
contesto si inserisce la complicità di Poste con il governo israeliano, visto
che quei soldi non vanno ad arricchire solo gli investitori privati, ma anche
l’economia di guerra. Ma visto che siamo in minoranza – la maggioranza dei
lavoratori è sindacalizzata Cisl – Poste Italiane si rifiuta di trattare. Il che
rende tutto complicato. Il 3 giugno 2025 abbiamo fatto uno sciopero per l’intera
giornata, e ne volevamo fare altri. Ma alla fine abbiamo preferito confluire
negli scioperi generali di settembre e ottobre. Bisogna fare tutto il possibile:
sia il boicottaggio, dove si può fare, sia la partecipazione agli scioperi, come
è stato fatto ultimamente; e intanto sedimentare una consapevolezza tra le
persone, continuando a fare tanta informazione. Bisogna costruire una
convergenza tenendo unite tutte le questioni: dal decreto sicurezza, al ddl
Gasparri, all’allungamento dell’età pensionabile, all’abuso del lavoro precario
fino alla questione dei salari. Tutto questo è legato al riarmo e al genocidio.
Cerchiamo di promuovere una visione complessiva della società; d’altronde, se
vivi meglio lavori meglio, non possiamo separare le cose». (giuseppe mammana)
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(foto del movimento disoccupati 7 novembre)
Chissà se quando il dirigente della Digos saluta i manifestanti con il canonico:
«Finisce qua?», si rende conto dell’allegoria prodotta. È martedì mattina, siamo
all’esterno della sede Rai di Napoli, dove il Movimento disoccupati 7 Novembre
ha organizzato una conferenza stampa per rivendicare il recente avvio di un
percorso di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo, ottenuto dopo
oltre dieci anni di lotte.
Sono le dieci e trenta, la conferenza è finita da poco e il gruppo si sta
lentamente sciogliendo. La domanda del poliziotto è quella che fanno di solito
gli agenti al termine di una manifestazione, per assicurarsi che questa non
continui altrove o che non vi siano altre azioni in continuità con quella
conclusa. In quel contesto, mentre il movimento celebra quella che è una
innegabile vittoria, e in un certo senso la conclusione di un percorso politico
decennale, la sua domanda potrebbe risuonare come una sorta di invito a darsi
una calmata: “Il posto l’avete avuto: ora avete finito?”.
In realtà, le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai delegati del
movimento, vanno nella direzione opposta. Per prima cosa, dicono, bisogna
continuare a vigilare, e se necessario a fare pressione, affinché tutti i mille
e duecento tirocini comincino; secondo, è importante che gli impegni presi
riguardo alla trasformazione in un lavoro stabile e dignitoso di questi tirocini
vengano rispettati; terzo, nel movimento c’è già chi pensa che la lotta per il
lavoro debba mutarsi ora in lotta sindacale, per un mantenimento e miglioramento
delle condizioni e dei diritti.
Il Movimento disoccupati 7 novembre nasce undici anni fa, dopo che un gruppo di
abitanti delle periferie a ovest della città partecipa alla grande
manifestazione di Bagnoli contro lo Sblocca Italia e il commissariamento dell’ex
area industriale. Col tempo il gruppo cresce, arriva a raccogliere circa
quattrocento iscritti da diversi quartieri e si “federa” con un’altra grossa
lista di lotta per il lavoro, il Cantiere 167 di Scampia. Centinaia di persone
sono in strada quotidianamente, pretendono la garanzia di un diritto
costituzionale, e manifestano, presidiano, occupano, arrivano a forme di scontro
radicale per ottenerla. Gli anni passano, si creano opportunità, ci sono inganni
e tradimenti istituzionali, ogni volta si ricomincia daccapo. Le inchieste
giudiziarie si moltiplicano, le accuse sono spesso assurde, arrivano anche
condanne, pesantissime. Eppure oggi il prefetto, che evidentemente ha la memoria
corta, parla di “proteste garbate”, e nelle prime righe del recente accordo
firmato da comune e governo ammette che il movimento ha rappresentato un
problema di ordine pubblico, perché queste centinaia di persone non facevano
altro che rivendicare per un proprio diritto.
Alla fine, dopo undici anni di lotta, l’accordo arriva. Mille e duecento
disoccupati napoletani verranno impiegati per la cura e la manutenzione del
verde pubblico e scolastico, la sorveglianza delle strutture museali, altri
interventi di pubblica utilità. I primi cominceranno a breve, gli ultimi saranno
chiamati entro febbraio. Dopo un anno si comincerà a pianificare la loro
assunzione in cooperative comunali che si occupano di questo stesso genere di
interventi. L’investimento complessivo è di circa tredici milioni di euro. «La
nostra intenzione – ha spiegato il sindaco Manfredi – è quella di far
progressivamente transitare queste persone all’interno delle cooperative che
operano al Comune e Città metropolitana, che noi utilizziamo per la gestione del
verde pubblico. Queste cooperative oggi vivono una riduzione dei partecipanti
per i pensionamenti, ma l’obiettivo è quello di mantenere immutata la loro
dimensione numerica». Questo scenario fino a qualche anno fa non sembrava
nemmeno lontanamente ipotizzabile, considerando le resistenze delle stesse
istituzioni che oggi rivendicano il risultato, che si è invece delineato
soprattutto grazie agli sforzi del movimento.
Al termine della conferenza abbiamo fatto alcune domande a Eduardo Sorge, uno
dei portavoce dei 7 Novembre, chiedendogli se davvero, come sottintendeva forse
l’ispettore della Digos, la loro lotta è finita qua. (riccardo rosa)
* * *
«Al netto della forza della lotta, dell’incessante lavoro di mobilitazione e di
piazza, negli ultimi due anni c’è stata un’attenzione trasversale su questa
vertenza, perché si potesse concretizzare un risultato in questa direzione. Dal
punto di vista prefettizio c’è stato e c’è l’interesse a pacificare una delle
poche aree che rompeva e speriamo rompa l’immagine della Napoli città-vetrina,
per cui in un momento in cui Napoli sta diventando un parco giochi, una delle
loro valutazioni è stata che forse non era il caso di continuare ad alzare muri
verso una lotta che coinvolgeva un migliaio di persone, le quali tra l’altro
andranno a svolgere un’attività che va a colmare un vuoto di servizi. Dal canto
nostro, sappiamo che anche questo intervento sui servizi è finalizzato a
supportare una città che si prepara ad accogliere flussi turistici ancora più
imponenti di quelli attuali, e insomma il ragionamento istituzionale è stato che
conviene anche a loro che una serie di persone piuttosto che stare a bloccare le
strade vadano a garantire quello che considerano “decoro urbano”, a potenziare
l’accoglienza museale o migliorare i servizi scolastici.
«Le cooperative dove si andranno a svolgere questi tirocini sono le stesse dove
i disoccupati hanno svolto gli stage in una fase precedente, con il piano Gol,
sono cooperative attualmente finanziate da un investimento nazionale di decine
di milioni di euro, soldi che vanno nelle casse del comune che li gestisce.
Quindi l’amministrazione per questo servizio non investe risorse, seppure per
l’allargamento della platea ha contribuito con una quota. Di questa platea di
mille e duecento persone noi possiamo dire di rappresentarne circa la metà, ma
ci sono state spinte, per esempio durante la campagna elettorale delle
regionali, con interessi di parte molto lontani da noi, per frammentarla; il
vantaggio di essere riusciti a mantenere compatto il movimento, sta nel fatto
che questo risultato non potrà essere merce di scambio, non saremo disponibili a
essere strumentalizzati. Negli ultimi mesi, soprattutto i partiti di governo,
hanno provato a candidarsi come “rappresentanti” di questa vertenza. Da questo
punto di vista, riuscire a garantire risultati per tutta la platea, e non
soltanto per i nostri iscritti, è stato decisivo. Anche il fatto che
ventiquattr’ore prima di questo risultato siano arrivate condanne di due anni e
due mesi per otto esponenti del Movimento è un modo per dire “ok, vi siete presi
quello che volevate, ora però non rompete le scatole su tutto il resto”. Ma se è
vero che il movimento è nato per il lavoro, è anche vero che è sempre stato
nelle battaglie politiche generali – contro il riarmo, contro la guerra, per
l’unità dei lavoratori; e rispetto alla città, nella denuncia della
privatizzazione del verde cittadino e di tutte le operazioni che si stanno
svolgendo sulla costa, da San Giovanni a Bagnoli, e quindi continuerà ad
alimentare le lotte territoriali.
«Quando si fa un bilancio politico, tutto va inquadrato nel momento storico. Da
un certo punto di vista è una vittoria gigantesca, non tanto per il risultato,
ma per la rete che si è costruita tra la gente, i quartieri popolari, l’unità
anche con chi, come il Cantiere 167, politicamente non era vicinissimo a noi.
Forse se trent’anni fa avessimo raccontato questa vertenza non avremmo parlato
di vittoria, avremmo parlato di un’elemosina di Stato fatta per risolvere un
problema di ordine pubblico, ma io credo che tutto vada inquadrato in un
contesto, e in quello attuale gli operai e i lavoratori prendono sempre meno
salario, sono sempre più sfruttati, hanno sempre meno diritti sindacali. Siamo
in un momento di arretramento a oltranza, e il fatto che si ottenga un risultato
per mille e duecento persone, che non è solo il tirocinio, ma è qualcosa che
darà la possibilità dopo dodici mesi di entrare nelle cooperative, significa non
solo dare a chi ha cinquanta o sessant’anni una dignità personale, ma anche per
diverse centinaia di ragazzi di venticinque-trent’anni di avere un’alternativa a
fare il rider sotto la pioggia, oppure a fare i servizi nei b&b di cui Napoli è
piena.
Questo io credo sia il grande valore politico: la lotta ha pagato, e questo, in
un momento in cui c’è una disillusione totale verso le pratiche collettive di
organizzazione, è la cosa più importante. Molti di quelli che ieri erano bassa
manovalanza della criminalità o erano nella totale marginalità sociale, adesso
fanno i corsi nelle loro sedi, nei quartieri popolari, con i bambini di comunità
srilankesi, fanno battaglie contro le chiusure degli ospedali pubblici. In una
fase, tra l’altro, in cui siamo bombardati da giornali che ci dicono che non è
possibile garantire la spiaggia e il parco urbano a Bagnoli, ora noi abbiamo un
esercito di manutentori del verde, per cui sarebbe anche divertente andare a
dire al comune di Napoli: perché queste persone che già pagate non le spostate
tutte quante per garantire il parco urbano e la spiaggia? Stimolarli quindi sul
fatto che se il danaro pubblico si vuole tirar fuori per il lavoro pubblico,
dignitoso e stabile, si può tirare fuori.
(archivio disegni napolimonitor)
Genova, 21 ottobre. Le mobilitazioni che hanno attraversato il paese nelle
ultime settimane, portando in piazza centinaia di migliaia di studenti e
lavoratori, preparano il terreno a un grande sciopero contro la legge
finanziaria del governo. Negli ambienti del sindacalismo di base si discute
delle prossime iniziative, e a Genova, città portuale che ha contribuito
significativamente a polarizzare durante l’inizio dell’autunno il fenomeno dei
blocchi della produzione e delle arterie metropolitane, c’è agitazione nei
magazzini della logistica. In arrivo ci sono il “black friday” e il picco
natalizio.
Un gruppo di lavoratori iscritti al Si Cobas si riunisce in assemblea. Nel
magazzino di Cornigliano della Bartolini, periferia ovest del capoluogo ligure,
lavorano circa duecento facchini assunti dalla Alba Srl, la metà dei quali sono
attivi a livello sindacale. Nei periodi di incremento del lavoro, come quelli
compresi tra novembre a gennaio, si registra un continuo ricambio della
manodopera, con il via vai di lavoratori delle agenzie interinali. I diritti
conquistati negli anni dagli operai attraverso gli accordi sindacali, a loro
sembrano non spettare.
Così, dopo lo sciopero, i lavoratori di Cornigliano chiedono che al tavolo di
trattativa per il rinnovo del Premio di risultato annuale si discuta anche della
stabilizzazione dei precari. Lo stato di agitazione sentenzia che qualsiasi
accordo sul premio dovrà essere garantito “anche ai nuovi”.
L’astensione dal lavoro inizia la notte tra il 4 e il 5 novembre, ma i
lavoratori presidiano i cancelli di via Fratelli di Coronata fino al primo
pomeriggio. All’alba dell’11 inizia un presidio che si protrarrà per venti ore.
«In quel magazzino – spiegano i delegati sindacali – c’è un accordo firmato, che
va rispettato. Chi si spacca la schiena scaricando camion per diciotto mesi ha
diritto alla priorità di assunzione». Bartolini e la società in appalto però, in
risposta al blocco, riorganizzano i volumi e firmano in gran segreto un accordo
con Cgil, Cisl e Uil per il taglio al premio di duemila euro che era stato
ottenuto proprio dal Si Cobas negli anni addietro.
La merce viene intanto spostata verso altri hub nel milanese e nel torinese e
così, a pochi giorni dalle festività natalizie, per i lavoratori interinali
nella filiale “002” non c’è più lavoro. Per loro, e per altri quaranta operai
del sindacato, viene stabilito un piano di ferie forzate. La serrata è alle
porte. La lotta dei lavoratori per le nuove assunzioni, per l’aumento del premio
natalizio correlato all’aumento del lavoro (e alla possibilità di fronteggiare
le spese di fine anno con un aumento minimo in proporzione alla perdita del
potere di acquisto delle famiglie), si appresta a trasformarsi in lotta per la
difesa del posto di lavoro. La minaccia esplicita è quella della cassa
integrazione.
Milano, 28 novembre. Sono le sette del mattino. Al bancone del bar che chiude
via Dante Alghieri, a Pioltello, si affollano decine di lavoratori
dell’hinterland milanese per consumare la colazione al caldo, prima di
immergersi nella nebbia fittissima che coprirà per tutta la mattina la visuale
sull’arteria logistica più trafficata dell’area. A pochi passi ci sono gli
uffici doganali e i terminal di DSV, a sinistra il magazzino di stoccaggio e
scarico merci di Logtainer. Due grossi cancelli, a poche centinaia di metri di
distanza uno dall’altro, segnalano l’entrata e l’uscita dei mezzi pesanti su
gomma delle due società specializzate nel trasporto merci intermodale.
Le bandiere in spalla agli operai del Si Cobas, e un grande vessillo che recita
“Embargo, ora!”, sostenuto da un’attivista dei Giovani Palestinesi d’Italia,
riempiono improvvisamente lo stradone. Mentre gli operai legano le bandiere, già
posizionati al primo cancello, un addetto alla sicurezza, dal vetro del suo
gabbiotto, fa un cenno all’agente della guardia di finanza addetto al controllo
doganale. Prima che gli operai abbiano avuto il tempo di spegnere la sigaretta
che segue al caffè, i due cancelli si chiudono. Inizia lo sciopero generale
proclamato dai sindacati di base contro la Finanziaria 2026, contro il riarmo
europeo e il cosiddetto “piano di pace” nella Striscia di Gaza.
Il picchetto a Pioltello ha l’obiettivo di bloccare la logistica di guerra in
uno snodo strategico della pianura padana: dai terminal dell’interporto
milanese, la società DSV, tra le tre compagnie di spedizione più influenti al
mondo, e la Logtainer, che nel 2025 ha puntato i suoi investimenti sul trasporto
merci ferroviario, fanno partire ogni giorno centinaia di container targati
Maersk verso i porti di Genova, La Spezia, Livorno, per gli interporti di
Rubiera e Padova, e l’aeroporto di Milano Malpensa. Dalla fila di camion che si
allunga fino allo svincolo dell’autostrada si nota che molti carichi su gomma
arrivano dall’estero. Per gli organizzatori del picchetto, “sotto l’apparente
routine della movimentazione ordinaria di merci, si nascondono i flussi di
materiale bellico destinati all’industria militare”.
A denunciare l’opposizione alla guerra ci sono decine di lavoratori dei
magazzini di Sda e Poste italiane. Sono stati proprio loro, nell’ultima
settimana, a siglare un accordo-quadro provinciale che in parte sopperisce alle
problematiche legate ai picchi di lavoro intensivi. «A Milano ci sarà qualche
piccolo nuovo impianto dove gestire il surplus della merce. Grazie a questo
accordo qualcuno potrà decidere di lavorare lì, con un’indennità di dieci euro
al giorno, anche se la distanza dal magazzino attuale è minima», spiega un
driver. L’accordo prevede anche altri aumenti salariali che verranno effettuati
con gradualità entro il febbraio 2026. I lavoratori rivendicano il risultato
della loro lotta, soprattutto perché le nuove introduzioni salariali non saranno
legate a maggiori e più dure prestazioni di lavoro.
In contrasto con le rivendicazioni operaie, e con il tema della riduzione
dell’orario di lavoro, si configura però la bozza di proposta di Legge di
bilancio 2026, che assoggetta le agevolazioni fiscali per i lavoratori
dipendenti a modelli di produttività più flessibili e intensi. In riferimento ai
premi di risultato, la bozza di legge presume una riduzione delle tasse tra il
cinque e l’uno per cento su un premio massimale di cinquemila euro annui. In
cambio di prestazioni usuranti come lavoro notturno, festivo e straordinario, la
tassazione verrà ridotta al quindici per cento sul massimale di mille e
cinquecento euro annui, con un recupero del potere di acquisto di appena
centoventi euro.
Sono le tre del pomeriggio quando la nebbia lascia spazio a qualche raggio di
sole che batte sull’asfalto. Qualcuno tra i camionisti in coda ha spento il
motore, altri giurano di non stare trasportando “neanche un proiettile” e
vengono invitati dai manifestanti a bere un caffè e a partecipare a un’assemblea
sul posto. I lavoratori prendono la parola, si rivolgono a colleghi che non
conoscono, provano a spiegare che lo sfruttamento nella logistica non è un
ricordo del passato, ma uno spettro sempre in agguato, come testimoniano i fatti
di Genova: «Quelli che fanno gli scioperi continuano a rischiare i
licenziamenti, perché le condizioni stanno peggiorando e il tema della guerra
c’entra molto con questo peggioramento. È con le nostre tasse che si possono
comprare le armi, ma non è con qualche sconto che possono comprarsi il nostro
sudore».
Passano più o meno ventiquattr’ore e nel pomeriggio di domenica, sempre a
Milano, sfila una grande manifestazione indetta dalle realtà palestinesi. I
lavoratori della logistica sono presenti al concentramento di piazza 24 Maggio.
Il corteo avanza verso piazza Fontana, dove prendono parola gli operai di
Bartolini “002”, spiegando ai colleghi delle altre regioni e di altre filiere la
propria preoccupazione. Dopo un’iniziativa al comune di Genova, le istituzioni e
la dirigenza della Fedit, la Federazione italiana trasportatori, hanno promesso
un incontro per risolvere la vertenza. «Rischiamo la cassa integrazione per aver
scioperato, rivendicando l’assunzione dei nostri colleghi, ma in questo fine
settimana abbiamo voluto comunque presidiare i cancelli della fabbrica. Siamo
pronti a mettere le tende!», urla uno di loro tra gli applausi.
La difficile lotta, tutta in salita, dei facchini del genovese, è in connessione
non solo con le complicate vertenze in atto da Torino a Napoli, ma anche con le
vittorie, come quella ottenuta dai lavoratori di Sda a Milano. Le radici dei
conflitti, certo, sono diverse, ma a emergere è un obiettivo comune: superare le
dinamiche di una stantia contrattazione sindacale, quella sui bonus di Natale,
per mettere al centro i temi delle condizioni di lavoro, la necessità di nuove
assunzioni, gli aumenti salariali per tutti. (alessandra mincone)
Il parlamento greco, guidato dal secondo governo di Mitsotakis, cioè la destra
di Nuova Democrazia, ha approvato una legge che prevede la possibilità di
arrivare a lavorare 13 h al giorno. il tutto coperto dall’ideologia di portare
il “lavoro giusto e flessibile per tutti”. Con un compagno di Atene facciamo il
punto sull’ultima legislazione e […]
(disegno di otarebill)
Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci,
Roma, 2025, pagg.119, euro 14.
Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una
ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti,
seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica
(soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la
dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale
sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La
conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare
oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze
del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe
operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale
– diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore.
E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto
subisce.
Bottalico propone innanzitutto una perimetrazione – non scontata né
semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un
qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è
affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente
impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i
lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti
si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da
molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono
le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene
generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine
chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola,
di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica
significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una
scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti
nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione,
espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che
hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come
Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9)
Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce
quanto le trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione
di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso”
integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano
sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale
sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni
tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la
logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni.
La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”,
rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta
intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di
esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate
quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti.
Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la
costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire
questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci.
Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la
precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di
molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il
loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento del margine di profitto.
“L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come
l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti
sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo
sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le
precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in
Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono
stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello
logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli
ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il
mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si
sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11)
Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi
storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la
ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel
mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete
ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità
integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi
corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura
sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei
binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori
portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli
anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede
una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre
figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e
sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che
caratterizzava le diverse fasi storiche.
La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di
professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale –
è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito
nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la
manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro
dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in
cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento
esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui
territori.
“La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La
storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia
della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di
usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce.
In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed
utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi
e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale
che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato
da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o
committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla
destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per
investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma
di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica
prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di
trasferimento di una merce”. (pag. 10)
L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui
fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce
dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da
indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella
definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il
processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a
isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso
cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al
committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di
“delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni
contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i
luoghi “centrali” del processo produttivo.
Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche
per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della
logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo
italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto
produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà,
sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha
riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del
legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore
logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali
anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone
industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre
alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube.
Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato –
anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia
pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di
base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un
pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto
Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di
questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei
picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)
Nella giornata di domenica 28, come redazione di Frittura Mista alias Radio
Fabbrica, abbiamo realizzato due approfondimenti all’interno del Festival Alta
Felicità 2025, essendo stata Radio Blackout parte integrante di questa edizione
del festival. La seconda intervista la abbiamo realizzata in compagnia di Dario
Salvetti, del collettivo di fabbrica ex GKN, presente all’assemblea tenutasi
venerdì […]
(disegno di otarebill)
È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in
provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti
sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente
della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e
infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in
Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli
di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o
niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh
a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a
incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si
recavano o tornavano dal lavoro.
Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in
provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa
un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è
impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e
nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di
origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni
di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure
semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state
lasciate sole, senza alcun supporto.
Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal
quotidiano La Città di Salerno:
“Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto
da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia
in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre,
guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo
Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di
effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano
presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della
ditta che non è indagato”.
Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la
mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per
svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che
raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a
Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della
vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già
in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato
ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare
se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista
per evitare incidenti.
Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato
senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono
informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una
moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato
nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato
e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno.
Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio
dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un
tecnico di parte, o se ne siano stati informati.
In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto
colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si
conosce il nome della vittima né altri dettagli.
Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina
(paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza
vita in circostanze “misteriose”:
“Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si
infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore,
a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di
Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire
cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti:
omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo
mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli
amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”.
A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei
risultati dell’autopsia e delle indagini.
Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini
indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea.
I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene
riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale
televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno
Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di
Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di
dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in
Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno
nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo
qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in
Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano
pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da
nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un
lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in
provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a
causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”.
L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder,
quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi
della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso
la pala meccanica del mezzo agricolo.
Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da
testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei
campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e
stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e
qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari
sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni
dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La
famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede
un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è
avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I
parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”.
“Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto
Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il
lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un
po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato
di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha
inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma
di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore
punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha
riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo
datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”.
Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne
scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene
proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie
delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e
periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana.
I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze
dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i
racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è
possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali
organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di
queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare
superficiale.
Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano,
nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare
dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in
appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel
salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è
necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui
territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo
sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di dalila amendola)
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto
della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e
quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più
approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti
a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo
contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha
conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti,
la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che
tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in
virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo
– gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi
provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si
chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e
desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha
minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un
questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno
concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali,
dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le
loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato
il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono
dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai
metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce
avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa
una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno
identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via
Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o
no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero
accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero
lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno
passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani
accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di
pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono
invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via
crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo
indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi
un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e
scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto
alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si
standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili
basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i
gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro
imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si
stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il
prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al
di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse
le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi,
non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di
qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole
rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non
conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano
negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un
protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai
clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in
gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato,
saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare
in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta
proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa
generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura
dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente
integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità
operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere
Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella
storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo
testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della
mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e
soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E
quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere
rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono
proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e
si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito,
ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il
plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza
dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un
rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno
violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno
violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è
una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e
ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non
uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali
sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o
crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il
più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una
psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al
centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo
importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per
l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro
il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi
pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena
dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che
del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali
di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti,
negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché
abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che
qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione
del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e
concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti
della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o
ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale
attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i
sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle
contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la
dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il
Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando
cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro,
sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che
agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo,
perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie,
brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come
qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse.
Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento
produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici –
quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi
mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i
metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso
ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la
procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in
mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un
qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno
cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia”
si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da
mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine
di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e
ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato.
A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha
reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei
binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità
e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di
cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che
si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta
paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile,
non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo
stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno,
specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana
costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36
della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un
tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza
privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e
degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la
maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di
cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato
neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni
cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente
collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e
incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i
benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non
regge più? (giovanni iozzoli)
DUE GIORNI DI SCIOPERO CONTRO IL LAVORO POVERO - LAVORATOR3 BOA SENZA DIMORA
Torino -
(lunedì, 26 maggio 09:30)
BASTA LAVORO POVERO NEL SOCIALE: 2 GIORNI DI SCIOPERO
LAVORATOR3 VALDOCCO SERVIZIO BOA PER SENZA DIMORA
Siamo un gruppo di lavoratorə della Cooperativa Valdocco del servizio Boa per
persone senza dimora. Il mandato della BOA è agganciare le persone che vivono in
strada ai servizi comunali e privati della città e offrire loro supporto
materiale ed emotivo. Ciò è possibile grazie alla costruzione di relazioni
significative che vanno ad evolversi nel corso di mesi/anni. Nonostante il
nostro sia considerato un servizio di bassa soglia, nei fatti ci troviamo ad
affrontare questioni e relazioni riguardanti la progettualità di vita della
persona in diversi ambiti.
Vogliamo il riconoscimento del nostro operato che va oltre il mero
assistenzialismo materiale. Le nostre condizioni contrattuali e lavorative sono
inaccettabili, i nostri inquadramenti contrattuali non corrispondono affatto
alle mansioni richieste e alle competenze messe in campo da tuttə noi
quotidianamente; inoltre siamo costantemente espostə, senza tutele, a rischi di
ogni tipo (biologico, violenza verbale e/o fisica) spesso sottostimati. I nostri
stessi stipendi rientrano nella bassa soglia.
Per questo motivo abbiamo deciso di sindacalizzarci e mobilitarci. Con il
sindacato “CUB sanità” abbiamo aperto una vertenza con la cooperativa, da cui
ancora non abbiamo ricevuto risposte.
Le nostre rivendicazioni:
1. Aumenti salariali, adeguamento del livello contrattuale: vogliamo essere
pagatə per il lavoro che effettivamente svolgiamo, il nostro salario è sotto la
soglia di povertà. Siamo lavoratorə poverə, chiediamo quindi il livello D1.
2. Pagamento ore supplementari: chiediamo che le ore in più svolte vengano
retribuite con le maggiorazioni previste dal CCNL.
3. Permessi studio: chiediamo che vengano pagate a tuttə le ore di permesso
studio retribuite, molte di noi sono infatti studentesse lavoratrici con estreme
difficoltà a conciliare studio e lavoro.
4. Diritti sindacali: riconoscimento del sindacato CUB, in quanto maggiormente
rappresentativo, e delle sue RSA elette dalle lavoratrici e relativi diritti
sindacali.
Molte di questi problemi inoltre non riguardano solo il nostro servizio o solo
la cooperativa Valdocco ma tantissimə altrə lavoratorə del sociale. La crescente
esternalizzazione dei servizi ha fatto sì che la qualità dei servizi e le
condizioni di lavoro siano sempre più basse, con conseguenze sia per chi lavora
nel sociale sia per chi dovrebbe usufruire dei servizi, che sono sempre meno
accessibili.
Per questo il 26 e 27 maggio scioperiamo!
26/5 h. 15 Presidio all’assessorato alle politiche sociali, via Carlo Ignazio
Giulio 22
27/5 h. 9.30 ritrovo per lo sciopero indetto dalla CUB Sanità in Piazza Bengasi
27/5 h. 18.30 Assemblea pubblica sul lavoro sociale al Cecchi point.
A seguire apericena up to you per costruire una cassa di resistenza.
Per contribuire alla cassa mutua dell3 lavorator3:
* post IG: https://www.instagram.com/p/DJ_2g52soPn/?igsh=MW9hejlyNmY0eWZlbw==
* raccolta fondi Satispay:
https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN--F7C14417-0E2A-48FC-9F97-BEF728635086?locale=it_IT
* crowdfunding su produzioni dal basso: sostieni.link/38202
* puntata in radio:
https://radioblackout.org/podcast/frittura-mistaradio-fabbrica-20-05-2025/