(disegno di elena mistrello)
L’offensiva antisindacale di Montblanc fa un buco nell’acqua. La società voleva
ottenere dal tribunale l’ordine per il sindacato Sudd Cobas di “astenersi
dall’organizzare, promuovere e/o svolgere manifestazioni nei confronti di
Montblanc Italia S.r.l. a distanza inferiore a 500 metri dalle vetrine della
boutique sita in via Tornabuoni”. Una proposta senza precedenti, che minaccia le
fondamenta della libertà sindacale e di manifestazione, nel solco della
direzione tracciata dal ddl 1660. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un
pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione. Il sindacato e
un’ampia comunità solidale non hanno mancato di rispondere pubblicamente, con
una assemblea pubblica molto partecipata domenica 2 febbraio a Firenze e la
diffusione di un appello di solidarietà internazionale.
COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO
Facciamo un passo indietro e proviamo a riepilogare i fatti che hanno portato
alla situazione attuale. Prima di tutto occorre chiarire cosa vuol dire parlare
di “operai Montblanc”: secondo un meccanismo rodato e ampiamente diffuso, i
grandi marchi non producono direttamente le proprie merci, o lo fanno solamente
in minima parte, commissionando ad altri il grosso della produzione e
alimentando filiere lunghe e torbide. Nel caso di Montblanc, il brand
commissiona le proprie borse alla Pelletteria Richemont Firenze, una società
detenuta dal Gruppo Richemont, l’holding finanziaria cui appartiene anche
Montblanc stessa. La distinzione tra le due aziende è quindi formale, tanto che
la stella simbolo del marchio è ben visibile sull’edificio di Pelletteria
Richemont. La produzione vera e propria, tuttavia, veniva sub-commissionata a
un’altra azienda, la Z Production, la quale aveva a sua volta un sub-fornitore,
Eurotaglio (azienda in realtà solo formalmente distinta da Z Production,
operante nello stesso stabile e con lo stesso capo). Erano gli operai di queste
ultime due aziende a lavorare le borse di Montblanc, costretti a turni di dodici
ore al giorno, sei giorni a settimana, per pochi euro l’ora.
Fin qui, per quanto si intuisca la ricerca del massimo profitto da parte di
Montblanc attraverso un sistema di appalti che massimizza il plusvalore assoluto
prodotto dai lavoratori, qualcuno potrebbe ancora sostenere che l’azienda non
possa essere ritenuta responsabile per le condizioni di lavoro in queste
aziende. Occorre quindi far presente che (1) appare chiaro a chiunque che una
borsa pagata settanta euro, ma lavorata secondo alti standard qualitativi, deve
necessariamente implicare del lavoro sottopagato e che (2) un supervisore della
pelletteria Richemont visitava regolarmente Z Production ed Eurotaglio per
assicurare gli standard di produzione. Non si deve quindi immaginare, tra queste
aziende, il classico rapporto tra cliente e fornitore, ma una distorsione di
questo a favore del cliente che, grazie alle sue dimensioni spropositate, impone
a ditte in mono-committenza tempi, modi e prezzi di produzione.
Dopo quattro mesi dall’inizio del percorso di lotta, a febbraio 2023, gli operai
di Z Production ed Eurotaglio sono riusciti a ottenere il rispetto dei propri
diritti (quelli garantiti dalla legge italiana) e l’applicazione del contratto
nazionale. Il costo del prodotto per Montblanc è così passato da settanta a
cento euro al pezzo (il prezzo al pubblico di questi prodotti supera i mille
euro per borsa). Poche settimane dopo, la committenza comunica a Z Production
che, alla scadenza del contratto, non lo avrebbe rinnovato, condannando di fatto
i lavoratori alla perdita del proprio impiego. Gli operai però non mollano e
cambiano la propria strategia: anche l’idra ha un punto debole, se si ha
l’intelligenza e il coraggio di trovarlo.
Al grido di “Montblanc sfrutta, Montblanc scappa”, la lotta riprende,
dirigendosi direttamente contro il brand. La strategia diventa quella di colpire
ciò che veramente viene venduto dall’azienda: il marchio, l’immagine, l’aura del
lusso. I picchetti davanti al sontuoso negozio si susseguono e a settembre 2024
il Sudd Cobas lancia la campagna “Shame in Italy”, con l’obiettivo di fare luce
sulle ombre che si nascondono dietro le scintillanti vetrine del marchio. Il
coraggioso gruppo di operai arriva perfino a Ginevra per protestare sotto la
sede di Richemont, mentre in varie città d’Europa si attiva una giornata di
convergenza sotto i negozi Montblanc e in via Tornabuoni, nel cuore della
Firenze bene, gli operai montano le tende in mezzo alle vetrine di gioiellerie,
boutique e alberghi a cinque stelle. La stampa internazionale inizia a
interessarsi e Al Jazeera produce un documentario che conferma quanto sostenuto
dagli operai fin dall’inizio: Montblanc sa tutto.
IL PRIVILEGIO È UN DIRITTO, I DIRITTI UN PRIVILEGIO
Messo alle strette, il gruppo Richemont decide di reagire con forza e mostrare
ciò di cui è capace un colosso finanziario da venti miliardi di euro di
fatturato. Facendo appello al tribunale civile di Firenze, Montblanc costruisce
un ricorso con cui chiede che sia impedito al sindacato di manifestare a meno di
cinquecento metri dal proprio negozio in via Tornabuoni, di fatto volendo
imporre le proprie prerogative su un’area che copre un terzo del centro storico
cittadino.
Se chi legge potrebbe essere stupito da una tale arroganza, forse non lo sarà
chi vive nel capoluogo toscano, ormai abituato alla gestione privatistica dello
spazio pubblico, vedasi piazza della Signoria affittata a Ferragamo per una
sfilata o Ponte Vecchio a Ferrari per una cena, solo per citare i due eventi più
eclatanti. Si aggiunga a questo che via Tornabuoni, insieme a diverse altre
decine di strade del centro storico, è “tutelata” da una norma che limita
l’apertura di nuove attività unicamente a quelle “di pregio”, come negozi di
antiquariato, design e gallerie d’arte. Se infine si considera la messa in
vendita di gran parte degli immobili di maggiore pregio in possesso del Comune,
il quadro che ne emerge è quello di una città che da anni, marcatamente
dall’amministrazione Renzi in poi, è espressione dell’organizzazione pubblica di
interessi privati.
L’estrazione di valore operata da privati che si appropriano di porzioni via via
crescenti della città, mostra però continuamente le sue contraddizioni. È così
che le folle di turisti devono essere disciplinate da ordinanze “anti-panino”
che impediscano loro di ungere le preziose pavimentazioni degli edifici storici,
e i fruitori della movida notturna devono essere controllati da guardie private
che li guidino nel consumo attraverso selve di ristoranti, bar e locali. E
sempre così si rende necessaria la smart control room che coordina le circa
1.700 telecamere cittadine, una ogni 230 abitanti (primato nazionale) e la
continua richiesta di nuovi agenti di polizia al governo.
La trasformazione dei quartieri, da espressione dei bisogni, dei conflitti e
degli espedienti di una comunità a luogo di produzione di valore, non è
indolore. Per produrre diventa necessario controllare tutte le espressioni non
coerenti con la ricerca costante di profitto, siano esse modalità di fruizione
dello spazio incentivate proprio dalla sua commercializzazione o l’espressione
di soggettività incompatibili con questo modello. Strumenti come il “daspo
urbano” e le “zone rosse” (sperimentate in modo fallimentare a Firenze a partire
dal 2019 e ora incentivate dal governo in tutte le maggiori città italiane) si
rendono così necessari a silenziare con la forza tutte le forme che non seguono
la strada prevista.
In questo contesto, dove il negozio in via Tornabuoni è parte fondamentale della
costruzione dell’immagine per la valorizzazione delle merci e, perciò, nodo in
cui può esprimersi la conflittualità operaia, non appare così incredibile che
Montblanc pretenda di difendersi ampliando la portata degli strumenti già
esistenti, per usarli contro il sindacato. Degna di nota risulta però la
modalità con cui avviene il tentativo da parte del brand: ricorrendo al
tribunale civile, infatti, esso non solo derubrica la questione a gestione
dell’ordine pubblico, anziché a conflitto tra parte datoriale e sindacale, ma
scavalca anche l’amministrazione cittadina. Quest’ultima, trasformata col
processo neoliberista in strumento dei privati, viene ritenuta evidentemente
obsoleta da chi si sente ormai in grado di governare da sé.
Fortunatamente, la mobilitazione attivata dal sindacato, a cui hanno fatto eco
le numerose realtà che lottano per un diverso futuro della città, stavolta è
stata in grado di bloccare sul nascere questo tentativo, evitando un pericoloso
precedente per tutto il territorio. Resta però la necessità di analizzare il
bivio di fronte a cui la comunità democratica si trova di fronte: il declivio
verso città amministrate direttamente dai privati, ormai liberi dalla maschera
della politica rappresentativa, o l’accidentato sentiero da percorrere per
portare in centro, al centro, le necessità di tutte quelle operaie e operai che
i padroni vorrebbero chini a lavorare. Che possa essere la convergenza tra lotte
sindacali e realtà territoriali a riaprire una strada che sembrava ormai
impraticabile? (cosimo barbagli, marco ravasio)
Tag - lavoro
Mercoledì 19 gennaio alle 19 allo Spazio popolare Neruda ci sarà una riunione
del tavolo lavoro e reddito verso lo sciopero dell’8 marzo. Il tavolo lavoro e
reddito di Non Una di Meno è uno spazio per discutere di tutte le forme di
lavoro, anche quelle non riconosciute come il lavoro domestico e di cura, […]
(disegno di ottoeffe)
Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione
delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per
il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla
festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a
pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra.
Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia
metalmeccanica e sindacalista meridionale.
Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda.
Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre,
durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per
partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria
automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato
costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La
conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte
e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus.
Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato
delle città. Qui la prima parte dell’intervista.
NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO
«A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista
quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre
e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman
che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un
pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi
operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire
una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente
davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da
Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a
carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse
sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il
costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di
straordinario al giorno per il viaggio.
«I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per
strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo
rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia
nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della
mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti
a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci
fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa
mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus.
Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un
cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia.
«Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì
alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006.
Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato
un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi
accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi
dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti
passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per
andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto
tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si
muovesse. Per un periodo è stato sempre così.
«Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro
e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini
piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché
altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie
perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una
recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di
dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare.
Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché
ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento
e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno
imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro
già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché,
come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.
«In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei
diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando
siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non
ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio
Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di
Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi
informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non
partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più
di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il
lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero
capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la
busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus,
ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi
candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo.
«A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino
partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci.
Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che
si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo
fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea
di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo
sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo
uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho
subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto
un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare
i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più
pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui
e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre
eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo,
non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di
olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di
respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo
ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di
inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro.
La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio
quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un
lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano
pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul
banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi
portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena
andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di
resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per
farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli
scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove
leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia
determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove
stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare
una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine
pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle
cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo,
sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove
c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino
alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di
catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come
stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e
subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha
sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava.
«In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della
Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine
furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva
l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a
preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la
stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro
era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo
scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo
l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo
recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello
stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo
stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli
uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e
mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei
tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti
uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano,
sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante…
«L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel
colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori
avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel
colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo
usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi
vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e
gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono
costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto
e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a
Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva
la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in
pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della
mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero
di operai si è ridotto sempre di più.
«Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto
sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo
sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di
Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche
viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo.
Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano
pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di
responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che
stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la
sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.
L’ARRIVO ALLA IRISBUS
«Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a
trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci
erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas.
Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è
nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni.
In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea
e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole,
gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006
viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo
stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a
trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non
si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di
Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e
appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del
1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata
per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età
pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono
aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché
lavoro da una vita come metalmeccanica.
«All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era
trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine.
Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli
laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti
del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì
l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei
lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano.
Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il
Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando
stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi
perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto
e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici.
Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non
accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si
arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo
un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con
queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai.
Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla
fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno
arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre
operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi
trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro
l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione
lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la
facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel
ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano
dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma
a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno
un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi
dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro
pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega
e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un
giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto
contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non
riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo
solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi
potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei
così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal
capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice
“signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta
in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto
un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla
da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati
positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo
officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua
e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un
cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non
mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello
preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il
caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono
una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti
che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto
della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io.
“Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì
c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di
lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva
il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le
chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado…
«Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la
scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li
mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il
2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a
Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto
1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni,
dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando
arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai
senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la
tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di
fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata
nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io
non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo
dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per
farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur
non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno
sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata
sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò
in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)
(disegno di ottoeffe)
Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione
delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per
il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla
festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a
pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra.
Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia
metalmeccanica e sindacalista meridionale.
Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda.
Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre,
durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per
partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria
automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato
costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La
conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte
e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus.
Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato
delle città.
LA FAMIGLIA, L’INFANZIA, LA GIOVINEZZA
«Io sono nata a San Mango sul Calore, in provincia di Avellino. Sono l’ultima di
cinque figli. Mia mamma era contadina e mio padre faceva il manovale nelle ditte
edili. Mia mamma si occupava della campagna, che non era la nostra perché allora
c’era la mezzadria: una buona parte di quello che raccoglievi andava al padrone
e quel poco che rimaneva andava a te. Poi negli anni questa cosa è cambiata e
mia mamma ha continuato a coltivare i terreni degli altri, però la maggior parte
del raccolto lo teneva per noi. Nonostante la povertà di allora, non ho sofferto
la fame. Avevamo i prodotti della campagna: grano, mais, ortaggi, alberi di
ulivo, nocciole, noci; e poi polli, galline, conigli, pecore… Mio padre era
trasfertista, ha lavorato con varie ditte. Aveva un fratello che pascolava le
pecore al paese, poi a sedici anni se ne andò a Prato, dove iniziò a lavorare
come manovale e pian piano creò una ditta sua. Negli anni ha guadagnato
benissimo, è diventato miliardario. Mio padre è andato a lavorare con lui per un
certo periodo. Poi, siccome mia mamma anche di salute non stava bene, è tornato
di nuovo in paese. Mia sorella, primogenita, ha vissuto a Battipaglia, mentre i
miei fratelli sono tutti emigrati: chi in Germania, chi a Firenze con mio zio…
Adesso sono tutti qua, un paio sono già in pensione, uno purtroppo è deceduto.
«Conservo un bel ricordo della mia infanzia. Ero una bambina vivace, ribelle fin
da piccola, forse perché avevo tre fratelli che mi volevano sempre imporre le
cose. Anche non avendo le conoscenze, quando c’è stato il referendum per il
divorzio ho detto a mia mamma che doveva votare per il divorzio, e poi per
l’aborto. A quei tempi le famiglie duravano in eterno, anche se non andavano
d’accordo. I miei genitori sono stati sposati fino alla morte di mia madre, che
era più grande di mio padre di cinque anni. Sono stati insieme sessantadue anni
e mezzo. Mio padre è stato un esempio, non l’abbiamo mai visto urlare nei
confronti di mia mamma, non ha mai alzato le mani. Mia mamma aveva la seconda
elementare, ma era molto avanti coi tempi.
«Quando ho votato per la prima volta avevo diciotto anni e ho votato il Partito
Comunista. La Democrazia Cristiana era sovrana qui in Irpinia, votare il Pci era
una forma di ribellione nei confronti di chi aveva amministrato e, per quel che
potevo capire, non mi pareva che amministrassero così bene. Io ho la terza
media. Dopo la licenzia media mi volevo iscrivere all’istituto d’arte perché mi
piaceva disegnare. Mio padre, siccome mia cugina andava all’istituto
commerciale, ha assegnato anche me a quella scuola. A quell’epoca ti imponevano
queste scelte. Dopo sei mesi mi sono ritirata. Mio padre disse: “Ah, non sei
voluta andare? Allora non andrai da nessun’altra parte”.
«Dopo un po’, verso settembre, passano per il paese alcune insegnanti che
tenevano dei corsi professionali ad Avellino, all’Istituto Guido Dorso. Erano
corsi di cucitura industriale, di confezionista in serie e di confezionista in
pelle. Con un anno di scuola avevi già un attestato di qualifica e potevi
cercare lavoro. La scuola prevedeva dei laboratori, non era solo teoria. C’era
la pratica, come in una piccola industria. Mio padre non voleva che andassi, poi
mia madre lo convinse. Era tutto gratis, anche l’abbonamento dell’autobus ci
pagavano. Non dovevamo comprare nemmeno la penna e la matita, ci forniva tutto
l’Istituto. In questa scuola ho scoperto di avere la passione per la cucitura
industriale. A fine anno davano un premio di 15 mila lire alla più brava. Io lo
prendevo sempre perché avevo questa qualità nascosta di cui non sapevo. Le
macchine erano quelle industriali, non la solita macchina per cucire della
Singer che tenevamo tutti in casa. Dopo il primo anno conseguivi un attestato,
dopo il secondo il diploma di perfezionamento come confezionista in serie. Io ho
fatto due anni di perfezionamento. Dopo c’era anche il corso di perfezionamento
per cucire la pelle, perché la pelle ha un procedimento diverso dalla stoffa, e
ho fatto anche quello. Dopo questo corso mi iscrissi anche a quello di maglieria
industriale, però venne il terremoto del 1980 e non ho potuto frequentarlo.
«Il ricordo che ho di quegli anni è di tanta spensieratezza. Non si temeva il
futuro perché non lo si conosceva. Non avevi i mezzi che si hanno oggi per
capire tutto quello che accade intorno a te. Il paese distava venti chilometri
da Avellino, ma era come se fosse oltreoceano. In città si andava solo per
necessità. La città l’ho frequentata poi durante gli anni della scuola. I miei
fratelli, invece, hanno deciso di non studiare e sono emigrati: Germania,
Svizzera, Firenze. Non c’erano soldi, però non si moriva di fame. Allora era
quella la priorità: non morire di fame.
«Dopo il terremoto siamo stati un anno nella roulotte. Ho perso tante amiche a
causa del terremoto. Il mio paese, che non era grande, ha avuto ottantaquattro
morti. In rapporto alla popolazione residente è stato uno dei primi per numero
di morti. Nel paese c’era il campo sportivo e lì avevano allestito un campo di
sfollati. Noi invece, con altre due o tre famiglie, stavamo presso un cugino che
aveva uno spazio davanti casa dove ci faceva appoggiare le roulotte.
«Dopo la roulotte siamo andati nei prefabbricati. Hanno fatto una task force per
trovare l’area e hanno creato duecentottanta prefabbricati in un anno. Tutti
quelli che abitavano in campagna e che avevano la casa inagibile a fianco dei
terreni si sono fatti fare la piazzola e ci hanno messo sopra questo
prefabbricato. Erano in legno, abbastanza confortevoli. Io mi ero fidanzata con
un ragazzo di un paese vicino al nostro e, considerando tutto quello che era
successo, abbiamo pensato di andarcene in Svizzera perché lì c’era mio fratello.
Poi però non siamo più partiti.
IL LAVORO NERO
«In quel periodo mi iscrivo all’ufficio di collocamento e inizio a lavorare in
una sartoria dove facevano i jeans. Dentro di me avevo già l’animo da
sindacalista perché creavo sempre problemi alla direzione, in modo coerente
ovviamente. Per esempio, la mattina arrivavo e dicevano: “Voi avete fatto un
minuto di ritardo”. Io dicevo: “Ok, allora metti un orologio in modo che tutti
quanti ci atteniamo a quell’orologio, perché tu mi puoi dire che ho fatto un
minuto, ma secondo me sono arrivata in orario ed è il tuo orologio che va
avanti”. Era un lavoro precario. Il proprietario diceva: “Portatemi il tesserino
– allora c’era il tesserino che si andava a timbrare –, che poi vi assicuro. Un
giorno mi venne da pensare, e quella fu la fortuna, che quello non ci aveva
assicurato. Allora non c’erano gli strumenti per verificare se era vero o no.
Quindi gli dissi: “Senti, tu mi devi dare il mio tesserino”. Lui rispose:
“Silvia, io ti ho assicurato”. Io dico: “Dammi il mio tesserino”. Lui a un certo
punto apre il cassetto e i tesserini stavano tutti là dentro. Non aveva
assicurato nessuno. Io mi prendo il tesserino e me ne vado. Non mi voleva pagare
nemmeno i quindici giorni che avevo lavorato. Eravamo tutti a nero. Non sono più
andata. Dopo di me molte ragazze fecero la stessa scelta e alla fine chiusero.
Erano venuti da Alessandria a impiantare la fabbrichetta lì in paese. In un ex
frantoio, che non aveva nemmeno il pavimento. C’era fame di lavoro e loro
potevano sfruttare la situazione. Eravamo diciassette operai, tutti a nero. I
padroni erano una madre con il figlio. Se ne tornarono ad Alessandria.
«Dopo questa esperienza, dall’ufficio di collocamento ci mandarono a Solofra, la
città dove fanno le pelli. Eravamo in quattro, tutte persone che avevano fatto
il corso con me. Sul nostro diploma c’era scritto che eravamo confezioniste in
pelle. Dovevamo raggiungere Atripalda e lì salire in un furgone completamente
chiuso e senza finestre. Non sapevamo la strada che faceva l’autista, e ci
portavano a Solofra. Questo ti fa capire quello che succede col caporalato oggi.
Il primo giorno ci fanno scendere all’uscita della galleria di Solofra, dove
c’era una fabbrichetta ben attrezzata per quei tempi. Dopo un po’ si avvicinano
e ci dicono: “Voi però adesso venite con noi da un’altra parte”. E così ci
portano in una campagna sperduta. Eravamo cinque ragazze, tutte dello stesso
paese. In questa campagna c’era una casa vecchissima e disabitata. In una stanza
c’erano dei telai di ferro dove sopra si mettevano le pelli, si stendevano, si
fissavano con delle pinze di ferro ed entravano in un forno dove venivano cotte
e diventavano bollenti. Quando uscivano dal forno i capi-operai non ti davano
nemmeno il tempo che le pelli si raffreddassero, dovevi prenderle a mani nude.
Io vedevo le ragazze e i ragazzi che lavoravano là che avevano le mani tutte
callose, piene di piaghe, lesionate dalle ustioni. I telai erano bollenti e non
ti potevi nemmeno avvicinare. Le pinze diventavano incandescenti, quando le
andavi a togliere dovevi essere veloce altrimenti ti scottavi. Prendevi la
pelle, la mettevi sopra le altre, ne mettevi un’altra, la stendevi e poi entrava
di nuovo nel forno. Questa era l’operazione che dovevi fare tutta la giornata.
Al terzo giorno me ne andai. Beccai il collocatore del paese e dissi: “Lì ci
mandi a tua moglie e tua figlia perché tu hai detto che noi saremmo andate a
cucire le pelli ma facciamo tutt’altro. Poi ci mettono come bestie in un furgone
la mattina per farci arrivare là”. Alla fine non ci pagarono nemmeno i tre
giorni di lavoro che avevamo fatto. Non c’era nessuna norma di sicurezza,
diciamo che allora non si parlava nemmeno di sicurezza…
OPERAIA A PRATOLA SERRA
«Insomma, lascio questo lavoro e resto comunque iscritta all’ufficio di
collocamento. Nel settembre del 1982 sposo il mio attuale marito perché la
nostra intenzione era quella di emigrare in Svizzera. Io però nel frattempo
facevo la sarta in casa: cucivo i vestiti per le amiche del paese, facevo gli
orli ai pantaloni, ecc. Stavamo preparando i documenti per andarcene, nel
frattempo ero rimasta incinta. A febbraio arriva una raccomandata in cui mi
chiedono di recarmi a Pratola Serra. Io non sapevo manco dove si trovasse
Pratola Serra. Il mio orizzonte finiva a San Mango sul Calore o al massimo ad
Avellino. Nella raccomandata c’era scritto di recarsi presso l’Arna (Alfa Romeo
Nissan Auto) come sarta. Io pensai che era un’altra di quelle jeanserie dove ero
stata. Ero al quinto mese di gravidanza, ma decisi di andare lo stesso. Quando
entrai nella fabbrica la persona che ci faceva il colloquio mi chiese a che mese
di gravidanza fossi e io risposi al quinto. Dopo abbiamo scoperto che quando
l’azienda aveva fatto richiesta di personale specializzato all’ufficio di
collocamento e avevano scoperto che erano tutte donne ci rimasero male perché
non volevano assumere le donne. Ecco perché lì il sindacato ha fatto
un’operazione giusta a quell’epoca, perché era una discriminazione non far
entrare le donne. Quindi loro ci hanno chiamato, però si aspettavano che non
superassimo il colloquio, in modo da poterci mandare a casa senza problemi. La
prova era di dodici giorni. Faccio questo colloquio e non arriva più nessuna
notizia. Passano quasi due mesi, poi all’improvviso, era il venerdì santo, mi
arriva il telegramma. Era il primo aprile 1983. Il telegramma diceva che mi
dovevo presentare il 5 aprile allo stabilimento di Pratola Serra. Pensavo fosse
un pesce d’aprile. Il 5 aprile vado e faccio la prova. Per non creare intralcio
alla produzione ci facevano fare il turno di prova dalle quindici alle ventitré.
Mio marito mi accompagnava e mi veniva a prendere. Avevano creato un indotto
dell’Alfa Romeo di Pomigliano qui a Pratola Serra dove avremmo dovuto cucire i
rivestimenti dei sedili delle auto. C’era un gruppo di sellatori che
confezionava il sedile. Noi cucivamo i sedili, che venivano poi tappezzati da
questi lavoratori. Poi c’era un altro macchinario che tagliava i pannelli,
quelli che vanno dentro lo sportello, e un capannone a fianco che era di
saldatura perché lì facevano anche il telaio dell’Arna Alfa Romeo. C’erano già i
robot, due robot per essere precisa. Ci ritrovammo a fare questi colloqui tutti
noi ragazzi che eravamo usciti da quella scuola finanziata dalla Regione, perché
all’ufficio di collocamento risultavamo come sarti-cucitori.
«Il secondo giorno andiamo in aula dove ci viene fatta una specie di formazione.
Dopo le diciassette ci portano in reparto per andare a provare la cucitura.
C’erano alcuni che erano venuti come formatori da Pomigliano perché quelle
lavorazioni, prima di esternalizzarle a Pratola Serra, le facevano lì. Io avevo
un pancione enorme e stavo seduta alla macchina per cucire. Il pedale era
elettrico. I formatori erano tutti premurosi e venivano vicino a dirmi “non ti
devi preoccupare, devi stare tranquilla, pensa che devi partorire, deve nascere
un bambino, non devi avere ansia”. Era una sorta di strategia per prepararmi al
fatto che non mi avrebbero assunta, perché sarei andata in maternità poco dopo
la prova. Nel frattempo iniziamo queste prove. La macchina era formata dagli
schienali, poi il sedile, i poggiatesta e il sedile posteriore. Tu dovevi cucire
tutti questi pezzi, assemblarli e inserire il cordoncino delle cuciture. Io sono
stata l’unica a terminare la produzione. Questo creava un problema all’azienda.
In pratica erano costretti ad assumermi perché se non l’avessero fatto avrei
potuto rivalermi sul fatto che la prova l’avevo superata. Dopo l’assunzione i
formatori mi dissero: “Lei signora è stato il più grande problema che ci è mai
capitato perché era brava però allo stesso tempo non avrebbe potuto lavorare
perché prossima alla maternità. Però ci siamo assunti la responsabilità di
assumerla”. Infatti, finiamo i dodici giorni di prova e alle sette di sera ci
portano in una saletta. Eravamo ventuno persone. Iniziano a chiamare tre ragazze
e dicono loro di andare all’ufficio retribuzioni per riscuotere l’assegno perché
la prova non l’avevano superata. Io avevo il cuore in gola, pensavo “chiameranno
anche me”. Alla fine non mi chiamano e così vengo assunta. Dopo l’assunzione
dovevamo fare cinque mesi di formazione in un altro capannone vicino al casello
dell’autostrada di Avellino Est. Andai solo per i primi due giorni perché poi
cominciò la maternità.
«Appena rientrata dai cinque mesi di maternità sono riuscita subito a fare la
produzione che facevano gli altri operai perché avevo l’esperienza. Infatti il
terzo livello me l’hanno dato dopo otto mesi, una delle poche che l’ha preso
velocemente, e poi l’ho tenuto per tutta la vita. Noi siamo state assunte come
operaie specializzate perché la cucitura era un’attività ad alta
specializzazione. Il primo impatto con la fabbrica non è stato traumatico perché
l’Alfa Romeo Nissan era parastatale e avevamo tutti i diritti. Diritti che
nessuno di noi aveva mai avuto prima. Io ho trovato tutto già fatto perché
qualcuno ha fatto le battaglie prima di me. Avevo molta flessibilità, facevo due
ore di allattamento e solo sei di lavoro. Poi avevamo la mensa, lo spogliatoio,
i camici. Avere tutti i diritti quarantadue anni fa per noi rappresentava un
privilegio. Il lavoro non era pesante. All’inizio dovevi imparare a fare il
rivestimento completo della macchina. Ognuno di noi doveva rivestire quattro
vetture al giorno. Successivamente il lavoro è diventato a catena: c’era chi
assemblava, chi inseriva il cordoncino, ecc. Le macchine per cucire avevano
duemilacinquecento giri al minuto.
«Lo stabilimento dell’Arna nasce nel 1982 per esternalizzare alcune attività
svolte all’Alfa Romeo di Pomigliano. Prima della chiusura contava 680
dipendenti. Dopo tre anni l’Arna fallisce perché la macchina non ha mercato e
quindi inizia il periodo di cassa integrazione. Allora presidente dell’Iri era
Romano Prodi. Dopo il fallimento ci fu una manifestazione di interesse per
l’Alfa Romeo da parte della Ford, ma le venne preferita la Fiat, che subentrò
nella proprietà nel 1986. Nel 1987, durante la cassa integrazione, nacque il mio
secondo figlio. Con l’acquisizione dello stabilimento da parte di Fiat la nostra
azienda prese il nome di Somepra. Continuavamo a fare le stesse produzioni, però
anche per altri marchi del gruppo: non solo vetture Alfa Romeo, ma anche Lancia,
Fiat, ecc. Dopo due anni, nel 1990, hanno aperto un altro periodo di cassa
integrazione perché l’azienda aveva intenzione di ristrutturare lo stabilimento
per avviare lì la produzione di motori. Più tardi lì nascerà la Fiat di Pratola
Serra. Promettevano duemila posti di lavoro. Durante la ristrutturazione
iniziarono a chiamare ognuno di noi ad Avellino dicendo che il lavoro alla
Somepra non c’era, che l’azienda stava per chiudere e dovevamo andare a
Pomigliano. Avrebbero potuto assumerci tutti nella fabbrica per la produzione di
motori a Pratola Serra, ma nessun operaio dell’ex Arna è stato assunto in quella
fabbrica. La verità è che non volevano lavoratori già sindacalizzati che
avrebbero potuto coinvolgere i nuovi assunti. Hanno preferito licenziare noi e
fare nuove assunzioni. Ancora oggi quella fabbrica fa fatica se deve fare uno
sciopero, gli operai non partecipano.
«Nel 1988, quando io sono in cassa integrazione, chiude anche l’Isochimica di
Avellino dove lavorava mio marito. Per fortuna, a oggi ha solo le fibre nel
liquido dei polmoni, non ci sono placche. Mentre ci sono duecentocinquanta
operai ammalati e una trentina sono già morti per mesotelioma pleurico. Dopo una
lunga battaglia a mio marito non gli hanno riconosciuto nulla. Il
prepensionamento non gli è stato riconosciuto perché non ha le placche, non è
malato per loro. A gennaio compirà sessantasei anni.
«Insomma, alla fine degli anni Ottanta ci troviamo in una situazione di grande
difficoltà perché l’Isochimica chiude e gli operai non vengono pagati. Io, a
differenza di mio marito, riesco almeno a percepire la cassa integrazione.
Quando mi propongono il trasferimento a Pomigliano cerco di temporeggiare per
altri due anni. Dopo un po’ mi propongono di andare alla Denso di Pianodardine,
ma non accetto perché pensavo che la nostra fabbrica ripartisse in qualche modo.
Nel 1992 mi mandano a chiamare e mi dicono che mi devo presentare a Pomigliano
per andare a firmare il contratto. Io non ci vado. Loro che fanno? Mandano un
addetto di Pomigliano all’ufficio postale del mio paese a consegnare una
raccomandata. Quello dell’ufficio postale mi chiama. Era il 3 febbraio. Il 5
terminava la cassa integrazione e io sarei stata licenziata. Allora penso “ma se
questi sanno che mi possono licenziare, perché si sono preoccupati di mandarmi
questo signore all’ufficio postale facendomi chiamare a casa per firmare la
raccomandata?”. Quando arrivo all’ufficio postale noto un’Alfa 33 targata Napoli
e una persona appoggiata alla porta. Era quasi l’una e in un paese piccolo come
il mio a quell’ora non c’è più nessuno in giro. Poi conoscevo tutti e sapevo che
questa persona ferma lì non era del posto. In pratica, quest’uomo aspettava che
io andassi dentro a firmare per poi prendere la ricevuta e portarla in Fiat a
Pomigliano. Io entro e leggo la lettera. Vado al sindacato, ma non mi sanno dare
risposte. Mi dicono che mi conviene accettare il trasferimento a Pomigliano
altrimenti mi avrebbero licenziata. Non era vero, perché i cinque che non
accettarono furono poi mandati alla Denso, vicino casa. Il 4 febbraio, di
mattina, dopo una notte passata al pronto soccorso perché mio figlio si era
fatto male, io e mio marito andiamo a Pomigliano con la mia 126 e consegno la
lettera. Loro mi fanno firmare e mi dicono che il 5 febbraio, giorno del mio
compleanno, avrei dovuto prendere servizio dalle otto alle diciassette per fare
la formazione. Da quel giorno ho iniziato a lavorare come operaia allo
stabilimento Fiat di Pomiglianod’Arco». (intervista di giuseppe d’onofrio –
continua…)
(disegno di sam3)
La lotta per tenere aperta la Hiab di Statte, in provincia di Taranto, non è
ancora finita ma gli operai intanto sono tornati a lavoro e le vertenze sono
fatte anche di attese e fatica. La storia della Hiab, ramo d’azienda del gruppo
finlandese Cargotec, è una storia come altre. Uno stabilimento tra i tanti, di
proprietà di una multinazionale, a un certo punto finisce fuori dalle strategie
aziendali di massimizzazione dei dividendi per i propri azionisti. La storia è,
però, allo stesso tempo complessa. Con l’aiuto degli operai in occupazione a
Statte, abbiamo provato a raccontarla.
Dopo aver scorporato e quotato in borsa il ramo Kalmar la scorsa primavera, il
gruppo Cargotec, di cui Hiab fa parte, ha venduto l’altro ramo d’azienda,
MacGregor, proprio lo scorso novembre. La MacGregor è stata venduta per 480
milioni di euro al fondo d’investimenti londinese Triton. La transazione sarà
ultimata entro luglio 2025, mentre entro aprile il gruppo Cargotec verrà
rinominato Hiab e sarà quotato in borsa come società a sé stante.
Per coincidenza, Hiab festeggia il suo ottantesimo anniversario proprio
quest’anno. Nel video che celebra l’evento sul sito dell’azienda, mentre
scorrono le immagini di lavoratori impegnati a guidare camion attrezzati e
manovrare bracci meccanici in giro per il mondo, la voce narrante dice: “Ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto solleviamo e consegniamo beni essenziali per la
vita di milioni di persone. All’occhio poco allenato può sembrare che tutto si
muova senza sforzo, come se fosse guidato da una mano invisibile. Quella mano
invisibile siamo noi”.
Nei suoi ottant’anni di storia, Hiab ha acquisito imprese e marchi in giro per
il mondo. Tra questi c’è anche l’italiana Effer, con i suoi stabilimenti a
Minerbio e a Statte. L’estate scorsa l’azienda ha comunicato agli operai di
Statte che a fine anno ci sarebbero stati esuberi. Gli operai hanno occupato la
fabbrica e hanno costretto l’azienda a fare chiarezza sui suoi programmi in una
serie di tavoli al ministero delle imprese e del made in Italy. A novembre
l’azienda ha chiarito di voler chiudere lo stabilimento di Statte e concentrare
la produzione italiana a Minerbio. I componenti, snodi e tubolari, prodotti a
Statte per l’assemblaggio fatto a Minerbio verranno esternalizzati a fornitori
terzi. Lo stabilimento tarantino verrà chiuso, venticinque lavoratori con
competenze specifiche potranno essere trasferiti a Minerbio e gli altri andranno
in mobilità. L’azienda, nei numerosi tavoli di contrattazione, si è impegnata a
seguire la procedura di delocalizzazione prevista dalla legge 234 del 2021 che
impone di trovare un accordo con i sindacati per la tutela dei lavoratori e
fornisce dodici mesi di cassa integrazione per la ricollocazione dei lavoratori.
A metà novembre, i lavoratori di Statte hanno smobilitato l’occupazione durata
un mese e hanno ripreso la produzione. Da quel momento, delegati e
organizzazioni sindacali sono alle prese con la stesura di un accordo che sarà
propedeutico alla procedura di chiusura e delocalizzazione e all’erogazione
della cassa integrazione.
L’opinione diffusa tra chi siede al tavolo del negoziato è che l’occupazione
della fabbrica abbia pagato perché ha costretto l’azienda a rendere trasparenti
le sue intenzioni e a impegnarsi a intraprendere una procedura concordata di
delocalizzazione. Il 5 novembre la Hiab, infatti, chiarisce che vuole andare via
da Statte. Il 12 novembre si impegna con i sindacati a pagare gli stipendi dei
lavoratori in occupazione e a intavolare una trattativa secondo la legge 234 a
patto che questi riprendano a lavorare. A Statte sono ferme le gru di piccola
taglia da consegnare ai clienti e gli snodi necessari alle produzioni delle gru
di taglia più grossa che vanno consegnati a Minerbio dove i lavoratori sono in
cassa integrazione in attesa dei componenti di Statte. Ricomincia la produzione
e iniziano delle consultazioni tra azienda e sindacati per redigere un piano di
delocalizzazione e ammortizzatori sociali. Nell’incontro del 19 novembre si
palesano i primi punti di discussione dell’accordo. Il 4 dicembre e poi di nuovo
il 10 dicembre le posizioni si avvicinano pur restando distinte su alcuni punti
fondamentali.
L’azienda vuole creare un polo di eccellenza a Minerbio per la produzione di gru
di grossa portata. Per farlo vuole usare alcune delle professionalità operaie di
Statte. Propone quindi un incentivo, per chi vorrà trasferirsi, pari a diecimila
euro lordi e novanta giorni di albergo che aiutino gli operai a trovare una
sistemazione duratura. La proposta non ha trovato per ora l’interessamento degli
operai. Mi spiega Leonardo, uno degli operai: “Qua nessuno valuta davvero
l’ipotesi di andare sopra. Secondo loro uno si sradica di qua, porta la famiglia
lì e trova una soluzione in novanta giorni. Tu mi devi dire quanto prendo, non
che mi dai ottomila euro netti e poi me la devo vedere io con uno stipendio da
fame a Bologna”.
Il secondo punto è quello degli incentivi all’esodo. Per chi decidesse di
interrompere il proprio rapporto di lavoro prima del tempo ci sarebbe una buona
uscita di circa dieci-quindici mila euro. Bisognerà poi negoziare i dettagli
sugli scivoli che potranno accompagnare una manciata di lavoratori con
sufficiente anzianità lavorativa al pensionamento anticipato.
Mi spiega Gregorio, delegato di fabbrica della Fiom, che nella trattativa
l’azienda si è mostrata ricettiva ma le somme messe a disposizione non cambiano:
“Hanno un budget per chiudere questa partita. Se mettono risorse da una parte le
tolgono dall’altra”.
Il punto che però rimane al centro della negoziazione riguarda la conclusione
delle attività produttive e l’inizio dei dodici mesi di cassa integrazione. Mi
spiega Mimmo, rappresentante provinciale della Uilm che segue la vertenza, che
l’azienda si è impegnata a integrare la cassa fino a raggiungere lo stipendio
intero dei lavoratori. Questo ammortizzatore, però, una volta avviato non è
prorogabile e l’azienda si è preclusa l’utilizzo di altre forme di cassa
integrazione perché ha già comunicato l’intenzione di chiudere lo stabilimento.
L’azienda vorrebbe far partire la procedura dal primo gennaio mentre gli operai
vorrebbero guadagnare tempo. Secondo quanto comunicato ufficialmente
dall’azienda, mi spiega Giuseppe, adesso lo stabilimento ha ordini per una
novantina di snodi e una ventina di macchine da consegnare. Questo monte lavoro
porterebbe la produzione a prolungarsi almeno fino alla fine di marzo 2025. La
richiesta dei sindacati è quindi di far partire la cassa integrazione nel
momento in cui la produzione sarà esaurita e comunque non prima di aprile.
L’azienda si è opposta, confermando la volontà di far partire la procedura a
gennaio. Proprio il primo di aprile il gruppo Cargotec verrà rinominato Hiab ed
è probabile che il management abbia necessità di mostrare agli azionisti di aver
chiuso definitivamente la partita di Statte per quella data. I lavoratori però
sono convinti che la produzione possa protarsi anche oltre il primo trimestre
del 2025. C’è poi il rischio che il piano di Hiab di esternalizzare la
produzione tarantina a fornitori terzi richieda più tempo di quanto previsto. Mi
spiega sempre Giuseppe della Fim che i saperi collettivi sviluppati a Statte in
anni di produzione hanno creato una conoscenza informale, difficilmente
replicabile altrove ma comunque cruciale alla produzione. “Qua non ci sono
schemi di montaggio. La gente va avanti per l’esperienza che ha acquisito nel
tempo. Da noi, se non ci sono gli operai che insegnano a montare gli snodi ai
nuovi arrivati, quegli snodi non li monta nessuno. Un terzista che volesse
montare gli snodi per Hiab dovrebbe prendere parte dell’organico di Taranto per
qualche mese e formare gli altri. Ma i nostri non sono disposti perché il modo
in cui l’azienda ci sta ripagando non è stato visto di buon occhio. Dopo
ventiquattro anni, essere trattati come carta straccia, lascia l’amaro in
bocca”.
Il timore è quindi che l’azienda usi gli ammortizzatori sociali previsti dalla
legge 234, che devono servire alla ricollocazione dei lavoratori, per sistemare
le proprie strategie produttive. “Cosi ci mangiamo la cassa integrazione per la
produzione loro”, dice Leonardo.
Incontro Pietro, il rappresentante provinciale della Fim, in piazza Bettolo,
dove si riuniscono gli uffici delle federazioni metalmeccaniche di Taranto. Mi
dice che buona parte della trattativa può considerarsi chiusa. I sindacati hanno
ottenuto migliorie sulle proposte dell’azienda per quanto riguarda gli incentivi
all’esodo e i trasferimenti. I punti che restano aperti sono la data di inizio
della cassa e la procedura di scouting che l’azienda si è impegnata a
intraprendere per un potenziale acquirente. L’interessamento di un’azienda
brasiliana, che si era manifestato quando ancora gli operai occupavano la
fabbrica, pare non abbia avuto seguito. La regione Puglia ha poi convocato
l’azienda per discutere di un secondo potenziale investitore per il sito, non si
conosce però il nome del gruppo interessato né l’esito dell’incontro in Regione.
La procedura di cessione a un terzo è la questione più importante di tutte per
gli operai, eppure la meno trasparente al momento. Non è chiaro come Hiab si
stia muovendo per lo scouting né quanto le interessi che questo processo vada in
porto.
Giuseppe mi spiega che Hiab deve riconsegnare lo stabilimento senza i macchinari
e ripristinare le opere murarie fatte per l’installazione delle linee di
produzione: “Loro per riportare alla norma quel sito dovrebbero portarsi via
tutto, smontare i carroponti, le gru a bandiera, colmare buchi e buchini… sono
costi. Cipriani pure, che è il padrone dello stabilimento, sta a Rovereto e
avrebbe tutto l’interesse a trovare un acquirente perché altrimenti quel
capannone senza i macchinari rimarrebbe un’altra cattedrale nel deserto”. Per la
Hiab non avrebbe senso mantenere macchinari per una produzione che verrà
esternalizzata in futuro o linee che sono comunque già presenti nei siti
bolognesi: “Loro i macchinari di Statte li hanno già ammortati. Sono manutenuti
sì, ma per loro non hanno un costo rilevante come produzione. Dovrebbero
spendere soldi su qualcosa che poi dovrebbero rottamare”.
Se si passa dai cancelli della Hiab in questi giorni, non c’è più il presidio
dei lavoratori in occupazione e la produzione procede normale. Non c’è il
capannello di operai che discutono, che accolgono gli interessati, che mettono
insieme le loro conoscenze per ribaltare la storia che l’azienda aveva deciso di
raccontare. Se non fosse stato per l’occupazione, la fabbrica sarebbe un deserto
e l’azienda sarebbe già andata via, eppure per adesso il conflitto è solo un
ricordo. Bisogna produrre, evadere gli ultimi ordini. Certo, non si lavora a
pieno ritmo, mi spiega Gregorio: “Con che spirito vuoi che si possa lavorare
adesso? Non c’è più fiducia”. I lavoratori mi raccontano che molti quadri
dell’azienda sono andati via negli ultimi mesi e che ai tavoli Hiab continua a
mandare rappresentanti legali che capiscono poco di produzione e hanno deleghe
limitate per negoziare. I lavoratori tarantini sono stanchi ma i colleghi di
Bologna non possono stare tranquilli. L’azienda si è mostrata inaffidabile e
pochi credono al piano di fare di Minerbio un centro d’eccellenza. È sempre
Giuseppe che racconta: “Li hai un sito diviso a metà da una strada, che era già
vecchio nel 2000 quando sono salito io; non hai le figure necessarie alla
produzione perché le vuoi prendere da Taranto, e hai comunicato che per l’anno
prossimo prevedi una produzione di un terzo inferiore a quella di quest’anno
senza però prevedere cassa integrazione. I conti non tornano”.
Adesso la palla è nella metà campo dell’azienda che deve redigere un verbale
dell’incontro e una bozza di accordo e deve mettere nero su bianco gli impegni
presi. I sindacati dovranno firmare il preaccordo per dare inizio alla procedura
di delocalizzazione. La data di inizio della cassa integrazione è il punto su
cui si deciderà il negoziato.
Leonardo mi dice che serve coraggio e conflitto in queste trattative. Che senza
coraggio sarebbero già tutti a casa. Far saltare il tavolo però significa
licenziamenti collettivi. Per ora si attende. Quel che è certo è che Hiab non
intende rinnovare il contratto d’affitto dei capannoni che scade a novembre
2025. Per loro, pare sia quella la data di scadenza di tutta la
storia. (francesco bagnardi)
Issa Loum, originario del Senegal, e Mamadou Saliou Diallo, della Guinea,
entrambi sotto i 30 anni, hanno perso tragicamente la vita mercoledì in un
casolare abbandonato ad Alba, soffocati dal monossido di carbonio di un braciere
acceso per combattere il gelo. Così scrive il Collettivo Mononoke di Alba, che
ha organizzato per domenica 15 dicembre […]
(foto di -gd)
“Lavoratrici e lavoratori, a seguito della mancanza materiale per il blocco
degli ingressi, domani 6 dicembre 2024, primo turno, secondo turno e terzo turno
di tutti i reparti dello Stabilimento non lavora. Per tale giornata verrà
richiesta la CIGO”.
Sabato 7 dicembre 2024. È da poco passata la mezzanotte quando Felice, con una
certa soddisfazione, mi mostra dal suo cellulare il messaggio inviato dalle RSA
(Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Aqcfr) nel pomeriggio di giovedì 5 dicembre agli
operai e alle operaie della fabbrica Stellantis di Pomigliano d’Arco. Il blocco
della produzione di automobili in uno dei più grandi stabilimenti italiani del
gruppo è la conseguenza diretta dei picchetti degli operai della Trasnova
cominciati lunedì 2 dicembre dopo la decisione del colosso francese Stellantis
di non rinnovare la commessa all’impresa di logistica automotive Trasnova e di
re-internalizzare le attività utilizzando la forza lavoro interna in eccesso.
«Lunedì abbiamo iniziato il picchetto, il giorno dopo hanno finito già il
materiale. L’azienda ha chiamato la cassa integrazione. Abbiamo bloccato la
produzione. Era l’unico modo per farci sentire e iniziare la trattativa. Da mesi
chiedevamo il rinnovo del contratto e ogni volta che si faceva una call ci
dicevano “non vi preoccupate” e rimandavano l’incontro. Quando abbiamo capito
che stavano solo prendendo tempo abbiamo cominciato scioperare. Non avevamo mai
fatto sciopero prima d’ora. Lo stiamo facendo perché non possiamo accettare il
licenziamento. Con il blocco abbiamo fermato anche lo stabilimento Sevel di
Atessa. Qui c’è un reparto che stampa i portelloni dei furgoni assemblati alla
Sevel. I camion non possono entrare a caricare, quindi Stellantis è costretta a
fermare la produzione anche lì».
Siamo all’Ingresso Merci n.1 bis dello stabilimento Giambattista Vico di
Pomigliano. Molti autoarticolati sono fermi, in fila lungo lo stradone che
collega Acerra a Pomigliano, nella speranza di poter entrare e caricare la
merce. Le lettere di licenziamento sono arrivate venerdì 6 dicembre. Tutti i
partiti politici hanno espresso solidarietà, gli stessi partiti che in questi
anni hanno sostenuto i processi di deregolamentazione del mercato del lavoro,
accelerato l’erosione della base manifatturiera del paese, favorito la crescente
degradazione del lavoro e delle relazioni di impiego, dichiarato guerra alla
classe operaia e criminalizzato le lotte per il lavoro. La solidarietà politica
e sindacale ricevuta da questi lavoratori non è stata di certo la stessa
riservata agli operai di un’altra azienda della logistica, quelli della GLS di
Napoli e provincia, in lotta da marzo per il miglioramento delle condizioni di
lavoro e raggiunti poche settimane fa da sessantaquattro lettere di
licenziamento.
A picchettare ci sono una decina di operai. Lo striscione a sinistra del
presidio recita: “Stellantis. Il colosso francese chiude le imprese”. È stato
proprio Felice a scriverlo con la bomboletta blu su un lenzuolo bianco. I varchi
per l’ingresso delle merci nello stabilimento sono quattro. Per impedire
l’accesso ai tir, i cinquanta operai in lotta si sono distribuiti a gruppi di
dieci sui diversi ingressi. Con il ricorso al picchetto i lavoratori della
Trasnova bloccano l’ingresso delle merci prodotte dalle aziende della filiera
automotive (sedili, motori, cruscotti, portelloni, marmitte, sospensioni,
pneumatici, traverse, martinetti, verricelli, ecc.), in modo da impedire alla
multinazionale Stellantis – il gruppo nato dalla fusione nel gennaio 2021 dei
gruppi Fiat Chrysler Automobile e PSA – di immagazzinare i componenti da
assemblare nella fabbrica napoletana del gruppo, rallentando così la produzione
e determinando dei ritardi nella consegna delle vetture.
«Ho cominciato a lavorare nel 2002, nel reparto carrozzeria di un’azienda della
componentistica – racconta Mario –. L’impresa si chiamava Stola Sud e si
occupava della lavorazione delle lamiere. Era una delle tante aziende della
componentistica che lavorava per Fiat, produceva i longheroni posteriori (destro
e sinistro) della Stilo che venivano poi consegnati allo stabilimento di Cassino
per l’assemblaggio. Dopo due anni in carrozzeria sono passato in logistica. In
questi venti anni ci sono stati diversi cambi di società, ma a lavorare siamo
sempre gli stessi. Si firma un nuovo contratto e si ricomincia con una nuova
casacca. Con l’arrivo di Stellantis non si è capito più niente. Noi siamo solo
la punta dell’iceberg. Tutte le ditte esterne faranno la nostra stessa fine. Qui
c’è un’altra ditta esterna che si chiama Fenice. Ci siamo confrontati anche con
gli operai di questa azienda e abbiamo capito che stanno cominciando da noi
semplicemente perché la nostra commessa scade il 31 dicembre, ma nel 2025 la
stessa sorte toccherà anche a loro. Stellantis si è messa in testa di buttare
fuori le ditte esterne. Vogliono cacciare anche la Sirio, l’azienda che si
occupa di sicurezza industriale. Vogliono mettere una società di vigilanza
privata e automatizzare tutto con le telecamere pur di non pagare i lavoratori.
Questo per dire che il problema qua è di tutti, non è solo il nostro. Ma il
problema vero è che in questo stabilimento non ci sono più investimenti.
Attualmente a Pomigliano sono in produzione solo la Panda, l’Alfa Romeo Tonale e
la Dodge Hornet, destinata esclusivamente al mercato americano. Non c’è un
modello nuovo in questo sito. Tieni conto che solo per allestire una linea ci
vogliono minimo due anni. Questo significa che se lo dicono nel 2025 la
produzione partirà, se tutto va bene, nel 2027».
L’Italia è l’unico paese industrializzato in cui è presente un solo produttore
di automobili. Il paese è passato da una produzione di circa due milioni di
autovetture e veicoli commerciali nel 1990 a 750 mila vetture e veicoli
commerciali nel 2023, perdendo più del venti per cento degli occupati negli
ultimi venti anni.
Sugli operai della Trasnova si sta abbattendo la crisi che attraversa
l’industria automobilistica italiana e il suo indotto. Una crisi attribuita
furbescamente da Stellantis – alimentando la storica contrapposizione
salute-lavoro – alla regolamentazione europea che mette fine alla produzione di
motori endotermici entro il 2035, ma in realtà determinata da fattori di ordine
produttivo, tecnologico e di mercato: i cambiamenti nella domanda di consumo; la
riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo e nella produzione di nuovi
modelli; il ridimensionamento dell’attività produttiva nei siti di assemblaggio
italiani a seguito di precise scelte manageriali in termini di allocazione
geografica delle produzioni e la ristrutturazione della catena di
approvvigionamento del gruppo.
Trasnova è un’azienda di logistica del frusinate alla quale Stellantis
commissiona la movimentazione delle vetture all’interno degli stabilimenti di
Pomigliano, Cassino, Melfi e Mirafiori. È Antonio a descrivere il funzionamento
di un piccolo segmento della logistica dell’automotive, quello relativo
all’organizzazione delle attività che regolano lo spostamento di una vettura
dalla catena di montaggio al concessionario finale: «Noi ci occupiamo della
movimentazione delle vetture, dello stoccaggio e della manutenzione. La macchina
quando sta ferma per un periodo lungo all’interno dello stabilimento necessita
di manutenzione. Inoltre, all’interno del parcheggio arrivano anche vetture
usate, a cui bisogna fare il controllo pneumatici, il conteggio chilometri,
l’analisi dei danni, verificare il kit di accessori all’interno del cofano… A
queste attività si aggiunge poi la spedizione delle vetture. Nel piazzale, a
bordo di furgoni, gli operai selezionano le vetture che devono andare in Italia
e quelle destinate all’estero. A ogni vettura prodotta è associato un codice a
barre, un certificato che ti dice dove è destinata: Milano, Venezia, Austria,
Germania, Francia, Belgio, Olanda, Sudafrica, Giappone, ecc. Quando arrivano le
bisarche gli autisti, dopo aver compilato le bolle di accompagnamento, si
rivolgono a noi “piazzalisti” per il carico della merce sulla bisarca. Anche per
lo scarico delle auto che arrivano da fuori hanno bisogno della bolla. Sono le
vetture prodotte negli altri stabilimenti del gruppo: Cassino, Mirafiori, Melfi,
Atessa, Polonia, Serbia, ecc. In pratica, non movimentiamo solo le vetture
prodotte qui a Pomigliano ma anche quelle prodotte negli altri stabilimenti
Stellantis e destinate al mercato dell’Italia meridionale e ai mercati esteri.
Il piazzale di Pomigliano è un punto strategico sia per il porto di Napoli che
per quello di Salerno. È uno dei piazzali più grandi d’Italia e d’Europa,
abbiamo una capienza di oltre ventimila macchine».
A fare da sottofondo al racconto di Antonio è lo scricchiolio della legna che
brucia nel bidone di ferro posto al centro del presidio. I lavoratori sono
disposti in cerchio e discutono del più e del meno. Ci sono sette gradi e
l’umidità è al novanta per cento. Intorno a noi solo terre e capannoni. G.,
amico d’infanzia da cui è partita l’idea di passare al presidio e portare la
solidarietà ai lavoratori con un paio di bottiglie di vino, mi presenta Gennaro.
Ha una sessantina d’anni ed è uno dei più anziani del gruppo. Dopo avermi
domandato vita, morte e miracoli si lascia finalmente andare a un breve racconto
del proprio lavoro e dei continui cambi di appalto delle aziende di logistica
che operano da decenni nel sito produttivo napoletano per conto della casa
automobilistica. «Trasnova è stata costituita all’inizio del Duemila, ma io sto
sul piazzale da più di trent’anni. All’inizio le attività erano gestite da Fiat
Auto, poi sono passato alla Logint, che mi ha ceduto alla Novafero e da questa
alla Trasnova. Noi siamo rimasti sempre gli stessi sul piazzale, l’unica cosa
che è cambiata, per noi, è stata la divisa, anzi la casacca, perché spesso manco
le divise ci danno».
Alle dipendenze dirette della Trasnova qui a Pomigliano ci sono cinquantatré
lavoratori. Poi c’è un’altra società, costituita da trentasette lavoratori, a
cui la Trasnova subappalta alcune lavorazioni. Sono i lavoratori della Logitech
e provengono da Cassino. «Con il passare degli anni molti nostri colleghi sono
andati in pensione e non sono stati più rimpiazzati – continua Gennaro –.
Trasnova non ha fatto assunzioni ed è subentrata questa società che opera in
supporto a Trasnova. Ovviamente i lavoratori della Logitech non hanno lo stesso
livello contrattuale che abbiamo noi. La società lavora sia sul piazzale di
Pomigliano che su quelli di Melfi, Cassino e Torino. È chiaro che se Trasnova
perde le commesse su tutti questi piazzali, in automatico li perderà anche la
Logitech. Stellantis ha deciso di non rinnovare più la commessa e di
internalizzare queste attività, cioè di farle fare ai suoi dipendenti diretti.
Noi abbiamo iniziato lo sciopero perché abbiamo visto che le vetture in uscita
dal reparto finizione non andavano più nel piazzale ma in pista, cioè venivano
messe come in un parcheggio, e le bisarche non venivano a caricare nel piazzale
ma nei corridoi dello stabilimento. Così, senza sicurezza e senza il rispetto
della procedura: arrivavano e prendevano le macchine senza alcun criterio.
Questo è illegale e l’abbiamo detto anche al prefetto di Napoli. Abbiamo
denunciato questa cosa con i sindacati perché noi abbiamo un contratto e loro lo
devono rispettare fino al giorno della scadenza. A causa dello sciopero, stanno
portando le macchine a Pontecagnano dove c’è un piazzale dell’Automar e da lì le
distribuiscono nei concessionari. Stanno pagando un’altra società per fare
quello che facciamo noi, stanno pagando le penali più il costo della gestione di
questo piazzale fittato a Pontecagnano. Abbiamo denunciato tutto al prefetto,
non lo possono fare. Adesso abbiamo un tavolo di trattativa il 10 dicembre al
ministero delle imprese, perché Stellantis non vuole tavoli provinciali ma solo
tavoli nazionali».
«Ti spremono e poi ti buttano via – sbotta Felice –. Noi abbiamo un contratto a
tempo indeterminato, però Trasnova si occupa solo di spedizione. Dato che
perderà le commesse in tutti gli stabilimenti in cui opera, per noi non ci sarà
possibilità di essere collocati altrove. Dal primo gennaio siamo a casa. Siamo
incazzati perché è una vita che lavoriamo per loro. Se ci chiedevano di lavorare
il sabato, la domenica o di notte noi ci andavamo. Ad agosto, quando tutto lo
stabilimento va in ferie, per garantire le spedizioni facevamo la rotazione. Il
piazzale è sempre aperto, non si ferma mai. Solo il 15 agosto. Quante volte è
capitato che pure la vigilia di Natale e di Capodanno siamo stati qua dentro a
lavorare, perché quando le macchine escono dalla fabbrica c’è l’urgenza di
consegnare. Non sapevamo manco cosa fosse un picchetto. Lo stiamo imparando
adesso perché ci vogliono togliere il posto di lavoro».
Sono quasi le due quando si intravedono delle luci in lontananza. Sono i fari di
una bisarca. Si avvicina all’Ingresso Merci n.2. Gli operai capiscono che
l’autista ha intenzione di forzare il picchetto. Immediatamente, arrivano le
telefonate dall’altro presidio. Un operaio sale in macchina, ingrana la prima e
sfreccia verso l’ingresso 2. Lo seguiamo con la macchina di Felice. Tre minuti e
siamo all’altro presidio. L’autoarticolato è fermo. Quattro macchine messe di
traverso gli sbarrano l’accesso. Sono tutte Fiat. (giuseppe d’onofrio)
(foto di redazione)
Dopo sette mesi di battaglie contro l’assenza di ogni regola contrattuale, il
lavoro nero e carichi di lavoro disumani, i lavoratori della logistica in
Campania, sulla strada tracciata nel decennio precedente al centro-nord, hanno
cominciato a cambiare la propria condizione. Partita dai lavoratori della Gls,
tale battaglia sta contagiando operai di altre aziende per arrestare le pratiche
di super-sfruttamento imposte finora dai padroni. Una situazione inaccettabile
per chi controlla la Gls in Campania (la TEMI di Francesco Tavassi) che ha
scatenato un’offensiva contro i protagonisti di questa lotta: provvedimenti
disciplinari pretestuosi, sospensioni dei lavoratori sindacalizzati, infine,
meno di una settimana fa, i licenziamenti di più di sessanta facchini, con
l’obiettivo di distruggere la rappresentanza sindacale e tornare a imporre un
dominio incontrastato.
Gli operai hanno risposto a muso duro, senza farsi intimorire. Tra la notte del
14 e la giornata del 15 novembre vi è stato prima il blocco del centro di
smistamento regionale in Campania gestito direttamente dalla Gls Enterprise e
poi lo sciopero nazionale che ha riguardato tutti i magazzini da nord a sud;
mercoledì 20 il blocco dell’hub Gls di Marcianise, e altre iniziative sono in
cantiere sul piano locale e nazionale, fino al ritiro di licenziamenti,
sospensioni e provvedimenti disciplinari. “A nessuno dovrebbe sfuggire la
rilevanza dello scontro in atto per il futuro dei rapporti tra capitale e lavoro
in Campania e per tutto il meridione – scrive in un comunicato il Sol Cobas che
organizza i lavoratori in Gls -. Se la lotta degli operai della logistica
riuscirà a respingere le provocazioni padronali può trasformarsi in uno stimolo
e incoraggiamento per i tanti lavoratori sottoposti a trattamenti salariali e
normativi anche peggiori e che non trovano la forza per organizzarsi e lottare a
loro volta. […] È decisivo che intorno a questa vertenza si crei un clima di
solidarietà e di consenso da parte degli altri lavoratori e degli attivisti
anticapitalisti”.
Per un confronto sul significato di questa esperienza e la possibilità di
contribuire a un suo rafforzamento è convocata oggi alle ore 18 una assemblea
nei locali dell’ex Asilo Filangieri, in vico Maffei 4, Napoli.
Fotografie di Mario Spada
Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel
sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di
Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con
scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco
pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.
I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate
allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei
contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una
retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane.
In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di
smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.
(disegno di -rc)
Il 15 ottobre scorso c’è stato, alla biblioteca Ramondino-Neiwiller di via
Sedile di Porto a Napoli, il primo incontro di scuola popolare. Sono intervenuti
Marco Veruggio, autore del libro Conflitto di classe e sindacato in Amazon
(Edizioni PuntoCritico) e un driver di Amazon, che ha raccontato la sua
esperienza professionale e di lotta. Riportiamo qui un estratto del suo
intervento.
Io faccio il corriere presso un magazzino di Amazon che si chiama in gergo
“delivery station”, perché Amazon ha un linguaggio tutto suo. Le chiamano così,
le stazioni di consegna. Nel 2020, al tempo della pandemia, io lavoravo ancora
in Bartolini. Siamo entrati in Amazon quando ha inaugurato questo magazzino nel
settembre 2020. All’inizio ti sembra di essere contento, perché rispetto a chi
lavora in Bartolini, GLS, SDA, il lavoro è più semplice, diciamo che la rotta te
la fanno loro, non ci sono le bolle, è tutto preciso, studiato, è tutto
apparecchiato; solo che subito capisci il trucco: cioè che ti fanno uscire fuori
di testa, la loro politica è questa, metterti un livello di stress e di tensione
e di fatica tale per cui ti spremono e ti buttano via. Noi su quattrocento
corrieri che siamo, trecento sono a scadenza e solo in cento siamo fissi; e
anche tra questi c’è un ricambio fortissimo; nel 2020 eravamo entrati in
sessanta sotto la mia ditta, perché poi Amazon per i magazzinieri usa l’agenzia
interinale, per i corrieri usa le cooperative o le aziende; di quelli, in
quattro anni siamo rimasti in dieci; ce lo dissero chiaramente nell’incontro
sindacale dopo che facemmo questi blocchi e scioperi in maniera molto spontanea
nel 2021, ce lo disse il loro capo delle ditte in appalto che un lavoratore di
Amazon più di tre anni non ci può stare lì. Noi siamo come le merci a scadenza,
dopo quella data non puoi più andare. Ecco, bisogna capire il perché.
Io sono già quattro anni e mezzo che sono lì e non ho intenzione di andare via,
perché è quello che vorrebbero loro. Però è dura e come mai è dura? Non si
tratta di fare le vittime, ma di capire cos’è che questi studiano per fare in
modo che ogni secondo del tuo tempo e ogni tua energia sia spremuta in modo che
a fine giornata tu abbia fatto il 99,5% dei pacchi consegnati. Nel mio magazzino
ci sono quarantamila pacchi che vengono lavorati la notte, e noi il giorno si
deve portare il 99,5% di questi pacchi. Uno pensa che è impossibile, invece è
possibile. Come è possibile? Cos’è che gli permette questa cosa? Primo, il
ricatto.
Il ricatto è dato dal fatto che la maggior parte dei lavoratori sono a scadenza
e quando uno entra a scadenza è contento di entrare in Amazon perché lo
stipendio, siccome c’è la trasferta, è un po’ sopra la media degli altri
corrieri. Quindi uno per tenersi quel lavoro fa quello che vogliono loro. E cosa
vogliono loro? Vogliono che tu finisca la rotta.
La rotta: non hai sempre la solita zona, non hai sempre i soliti clienti, non
hai sempre il solito furgone. Ogni giorno ti danno un’applicazione, te entri e
ti dicono questo giorno c’hai 140 stop, 160 posizioni, 185 pacchi. E se sei a
scadenza le devi fare veloce, le devi fare bene e se non lo fai loro lo vedono
in diretta, non è che aspettano il giorno dopo che qualche crumiro o qualche
rompicoglioni ti va a segnalare, no, loro vedono in diretta come stai lavorando.
Come fanno? Con questi telefonini qui che ti danno, entrano nella tua pagina
mentre lavori e sono lì seduti nel magazzino mentre te schiatti sotto il sole o
sotto la pioggia e te sei un puntino, loro vedono questo puntino… queste cose le
abbiamo scoperte dopo tre anni che eravamo lì, a suon di parlare con i capetti
che hanno fatto carriera, sono loro che ce le raccontano, poi ora c’è stata
anche l’inchiesta della procura a Torino che gli ha fatto il solletico ad
Amazon, gli ha sequestrato centoventi milioni di euro, li fanno in mezza
giornata loro centoventi milioni, però la cosa interessante che è venuta fuori è
come fanno a farti lavorare in quella maniera, loro utilizzano questo
telefonino, ti vedono sullo schermo, e non è tramite il GPS ma tramite il
telefonino che lo fanno, in diretta vedono se hai chiamato il cliente, se gli
hai mandato il messaggio, se gli hai lasciato il pacco nel giardino, se l’ha
mangiato il cane, se l’ha rubato l’altro vicino, vedono tutto e soprattutto
vedono la media che è calcolata dall’algoritmo perché il punto fondamentale di
lotta per noi è stata questa cosa qua, che noi praticamente si lavora a cottimo,
ma noi non saremmo a cottimo, noi si dovrebbe fare otto ore di lavoro al giorno;
ne facciamo nove e mezzo, ma in realtà te lavori fino a che non finisci la tua
rotta, che tu abbia cento pacchi o duecento. Loro dicono: l’algoritmo è
scientifico, se l’algoritmo dice che puoi farne centoquaranta tu devi farne
centoquaranta e invece non è vero assolutamente, lo fanno per convincerti che se
non li fai è perché sei sfaticato, perché sei distratto, perché non ti impegni
abbastanza.
Quelli come me o altri che siamo lì da più anni, che si è lottato e non ci
facciamo mettere troppo piedi in testa, se ti chiamano e ti dicono vai più
veloce, oppure perché a quel cliente non gliel’hai consegnato? perché non l’hai
lasciato al vicino? io butto giù e faccio la mia giornata, ma lo posso fare io;
quelli a scadenza cosa fanno? li chiamano e gli dicono vai a prenderti i pacchi
degli altri… e questo lo chiamano “l’aiuto”. Ma non è l’aiuto a me, è l’aiuto a
loro. Perché l’aiuto a loro? Perché le ditte hanno i bonus, cioè se fanno il 95%
di consegnato Amazon gli dà dei soldi in più e ai capetti uguale. Ma a me, che
io porto cento pacchi o ne porto cinquanta, lo stipendio è quello, a me non mi
cambia niente. Noi abbiamo una tabella, una classifica che viene fatta ogni
settimana, tramite questa applicazione che registra se io sono stato gentile col
cliente, se ho trasgredito la sua proprietà, se gliel’ho messo male il pacco, se
gliel’ho messo bene… io non la guardo nemmeno perché a me non mi cambia niente,
ma loro la usano per dare questi bonus all’azienda e soprattutto per fare
pressione sui lavoratori per arrivare al cento per cento di consegne.
Il punto è questo. Perché loro stressano così tanto? Perché loro non vogliono
resi, non vogliono nulla a magazzino e vogliono continuare a inebetire, a
rendere come degli automi tutte le persone che consumano. Perché se te ordini il
martedì, loro ti dicono: il pacco è previsto per giovedì. Ma se ti arriva il
giorno prima, te subito rifai un altro acquisto. Se io invece vado piano e tutti
andassimo alla velocità normale, il pacco arriverebbe venerdì. E allora il
consumatore è più difficile che nel frattempo acquisti altro. Quindi c’è un
meccanismo infernale che loro fanno tramite questo controllo e tramite il
ricatto.
Un’altra cosa che mi sono scordato di dire è che la maggior parte di noi siamo
assunti a tre giorni o a quattro giorni, in modo tale che per lavorare sei
giorni e avere uno stipendio dignitoso devi fare come dicono loro. Se non lavori
come vogliono loro, cioè se non finisci la rotta, ti fanno fare solo quei tre
giorni lì e con 1.100 euro non ce la fai. Questo è il ricatto che loro usano, ma
ce ne sono tantissime di strategie che utilizzano per cercare di evitare
l’unione dei lavoratori.
Negli Stati Uniti, durante la pandemia, Amazon non era riuscita a controllare il
fatto che la gente rallentava il lavoro, si sentiva male, ecc. Allora è lì che
ci sono stati i primi scioperi, che la gente ha iniziato a contestare il ritmo,
ma contestare il ritmo è anche contestare il modo in cui sei trattato. E negli
Stati Uniti si sono creati degli scioperi, dei picchetti, dei movimenti
sindacali, e cosa ha fatto Amazon? Quando siamo entrati noi in magazzino hanno
messo questi rilevatori di distanza che all’inizio loro dicevano che erano per
non infettarsi e invece hanno usato questa cosa che se io mi avvicino a te più
di un metro e mezzo suona tutto, tipo allarme, e anche ora che la pandemia non
c’è più c’è sempre questa cosa che te non devi stare vicino a quell’altro, non
solo nel magazzino ma nemmeno vicino col furgone; se io mi metto insieme ad
altri due colleghi perché magari finisco prima sul viale prima di rientrare al
magazzino, dopo un minuto lo chiamano, a me no perché sono fisso ma quell’altro
che è precario lo chiamano perché lo vedono da questi telefonini, quindi diciamo
che questo elemento del controllo a distanza che loro dicono che è per la
sicurezza, in realtà è un controllo utile per la produttività e per tenere
separati i lavoratori.
Questa è l’ideologia loro, che te devi essere il primo e ti fanno proprio la
classifica. E poi c’è qualche rintronato, scusate il termine, che fa la gara: io
ne ho fatti 170, io ne ho fatti 190, io ne ho fatti 210 e questo è il sistema
che loro vogliono, la competizione. Tanto i soldi che becchi sono sempre gli
stessi e soprattutto levi il lavoro all’altro. Noi abbiamo fatto scioperi e
blocchi nel 2021, il magazzino era appena aperto, loro non erano tanto preparati
e fecero questa cosa assurda che dopo il periodo del picco, che ora li chiamano
picchi di produzione, prima era il Black Friday, ora ogni settimana c’è un
picco, ogni settimana c’hai una mole di lavoro maggiore, e loro dopo il picco di
Natale dissero che c’era un calo, che però non era vero, semplicemente stava
andando giù il picco e questi geni, d’accordo col sindacato confederale,
provarono a farci mettere un giorno in cassa integrazione per continuare a
guadagnare come guadagnavano prima. Questa cosa non è riuscita, noi
gliel’abbiamo impedita, però ti fa capire proprio il tipo di sistema di queste
multinazionali, basato sul controllo, sull’oppressione, sul fatto che noi siamo
stressati e diamo retta a loro quindi questo è il punto sul quale sicuramente
Amazon è avanti; anche se all’apparenza ti sembra più agevole, è agevole solo
per loro per farti portare più pacchi e per costringere la gente a comprare
sempre di più. (un driver di amazon)