(disegno di otarebill)
Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci,
Roma, 2025, pagg.119, euro 14.
Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una
ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti,
seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica
(soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la
dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale
sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La
conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare
oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze
del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe
operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale
– diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore.
E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto
subisce.
Bottalico propone innanzitutto una perimetrazione – non scontata né
semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un
qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è
affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente
impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i
lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti
si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da
molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono
le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene
generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine
chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola,
di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica
significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una
scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti
nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione,
espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che
hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come
Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9)
Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce
quanto le trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione
di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso”
integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano
sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale
sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni
tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la
logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni.
La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”,
rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta
intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di
esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate
quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti.
Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la
costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire
questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci.
Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la
precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di
molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il
loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento del margine di profitto.
“L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come
l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti
sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo
sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le
precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in
Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono
stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello
logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli
ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il
mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si
sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11)
Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi
storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la
ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel
mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete
ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità
integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi
corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura
sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei
binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori
portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli
anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede
una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre
figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e
sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che
caratterizzava le diverse fasi storiche.
La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di
professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale –
è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito
nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la
manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro
dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in
cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento
esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui
territori.
“La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La
storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia
della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di
usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce.
In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed
utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi
e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale
che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato
da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o
committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla
destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per
investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma
di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica
prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di
trasferimento di una merce”. (pag. 10)
L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui
fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce
dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da
indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella
definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il
processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a
isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso
cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al
committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di
“delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni
contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i
luoghi “centrali” del processo produttivo.
Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche
per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della
logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo
italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto
produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà,
sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha
riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del
legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore
logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali
anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone
industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre
alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube.
Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato –
anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia
pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di
base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un
pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto
Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di
questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei
picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)
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Nella giornata di domenica 28, come redazione di Frittura Mista alias Radio
Fabbrica, abbiamo realizzato due approfondimenti all’interno del Festival Alta
Felicità 2025, essendo stata Radio Blackout parte integrante di questa edizione
del festival. La seconda intervista la abbiamo realizzata in compagnia di Dario
Salvetti, del collettivo di fabbrica ex GKN, presente all’assemblea tenutasi
venerdì […]
(disegno di otarebill)
È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in
provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti
sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente
della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e
infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in
Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli
di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o
niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh
a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a
incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si
recavano o tornavano dal lavoro.
Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in
provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa
un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è
impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e
nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di
origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni
di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure
semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state
lasciate sole, senza alcun supporto.
Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal
quotidiano La Città di Salerno:
“Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto
da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia
in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre,
guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo
Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di
effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano
presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della
ditta che non è indagato”.
Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la
mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per
svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che
raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a
Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della
vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già
in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato
ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare
se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista
per evitare incidenti.
Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato
senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono
informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una
moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato
nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato
e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno.
Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio
dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un
tecnico di parte, o se ne siano stati informati.
In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto
colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si
conosce il nome della vittima né altri dettagli.
Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina
(paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza
vita in circostanze “misteriose”:
“Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si
infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore,
a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di
Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire
cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti:
omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo
mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli
amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”.
A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei
risultati dell’autopsia e delle indagini.
Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini
indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea.
I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene
riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale
televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno
Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di
Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di
dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in
Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno
nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo
qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in
Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano
pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da
nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un
lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in
provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a
causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”.
L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder,
quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi
della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso
la pala meccanica del mezzo agricolo.
Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da
testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei
campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e
stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e
qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari
sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni
dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La
famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede
un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è
avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I
parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”.
“Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto
Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il
lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un
po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato
di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha
inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma
di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore
punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha
riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo
datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”.
Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne
scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene
proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie
delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e
periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana.
I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze
dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i
racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è
possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali
organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di
queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare
superficiale.
Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano,
nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare
dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in
appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel
salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è
necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui
territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo
sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di dalila amendola)
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto
della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e
quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più
approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti
a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo
contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha
conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti,
la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che
tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in
virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo
– gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi
provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si
chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e
desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha
minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un
questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno
concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali,
dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le
loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato
il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono
dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai
metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce
avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa
una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno
identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via
Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o
no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero
accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero
lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno
passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani
accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di
pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono
invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via
crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo
indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi
un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e
scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto
alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si
standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili
basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i
gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro
imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si
stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il
prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al
di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse
le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi,
non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di
qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole
rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non
conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano
negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un
protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai
clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in
gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato,
saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare
in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta
proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa
generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura
dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente
integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità
operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere
Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella
storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo
testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della
mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e
soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E
quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere
rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono
proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e
si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito,
ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il
plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza
dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un
rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno
violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno
violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è
una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e
ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non
uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali
sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o
crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il
più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una
psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al
centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo
importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per
l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro
il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi
pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena
dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che
del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali
di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti,
negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché
abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che
qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione
del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e
concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti
della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o
ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale
attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i
sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle
contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la
dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il
Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando
cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro,
sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che
agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo,
perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie,
brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come
qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse.
Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento
produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici –
quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi
mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i
metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso
ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la
procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in
mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un
qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno
cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia”
si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da
mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine
di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e
ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato.
A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha
reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei
binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità
e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di
cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che
si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta
paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile,
non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo
stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno,
specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana
costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36
della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un
tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza
privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e
degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la
maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di
cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato
neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni
cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente
collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e
incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i
benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non
regge più? (giovanni iozzoli)
DUE GIORNI DI SCIOPERO CONTRO IL LAVORO POVERO - LAVORATOR3 BOA SENZA DIMORA
Torino -
(lunedì, 26 maggio 09:30)
BASTA LAVORO POVERO NEL SOCIALE: 2 GIORNI DI SCIOPERO
LAVORATOR3 VALDOCCO SERVIZIO BOA PER SENZA DIMORA
Siamo un gruppo di lavoratorə della Cooperativa Valdocco del servizio Boa per
persone senza dimora. Il mandato della BOA è agganciare le persone che vivono in
strada ai servizi comunali e privati della città e offrire loro supporto
materiale ed emotivo. Ciò è possibile grazie alla costruzione di relazioni
significative che vanno ad evolversi nel corso di mesi/anni. Nonostante il
nostro sia considerato un servizio di bassa soglia, nei fatti ci troviamo ad
affrontare questioni e relazioni riguardanti la progettualità di vita della
persona in diversi ambiti.
Vogliamo il riconoscimento del nostro operato che va oltre il mero
assistenzialismo materiale. Le nostre condizioni contrattuali e lavorative sono
inaccettabili, i nostri inquadramenti contrattuali non corrispondono affatto
alle mansioni richieste e alle competenze messe in campo da tuttə noi
quotidianamente; inoltre siamo costantemente espostə, senza tutele, a rischi di
ogni tipo (biologico, violenza verbale e/o fisica) spesso sottostimati. I nostri
stessi stipendi rientrano nella bassa soglia.
Per questo motivo abbiamo deciso di sindacalizzarci e mobilitarci. Con il
sindacato “CUB sanità” abbiamo aperto una vertenza con la cooperativa, da cui
ancora non abbiamo ricevuto risposte.
Le nostre rivendicazioni:
1. Aumenti salariali, adeguamento del livello contrattuale: vogliamo essere
pagatə per il lavoro che effettivamente svolgiamo, il nostro salario è sotto la
soglia di povertà. Siamo lavoratorə poverə, chiediamo quindi il livello D1.
2. Pagamento ore supplementari: chiediamo che le ore in più svolte vengano
retribuite con le maggiorazioni previste dal CCNL.
3. Permessi studio: chiediamo che vengano pagate a tuttə le ore di permesso
studio retribuite, molte di noi sono infatti studentesse lavoratrici con estreme
difficoltà a conciliare studio e lavoro.
4. Diritti sindacali: riconoscimento del sindacato CUB, in quanto maggiormente
rappresentativo, e delle sue RSA elette dalle lavoratrici e relativi diritti
sindacali.
Molte di questi problemi inoltre non riguardano solo il nostro servizio o solo
la cooperativa Valdocco ma tantissimə altrə lavoratorə del sociale. La crescente
esternalizzazione dei servizi ha fatto sì che la qualità dei servizi e le
condizioni di lavoro siano sempre più basse, con conseguenze sia per chi lavora
nel sociale sia per chi dovrebbe usufruire dei servizi, che sono sempre meno
accessibili.
Per questo il 26 e 27 maggio scioperiamo!
26/5 h. 15 Presidio all’assessorato alle politiche sociali, via Carlo Ignazio
Giulio 22
27/5 h. 9.30 ritrovo per lo sciopero indetto dalla CUB Sanità in Piazza Bengasi
27/5 h. 18.30 Assemblea pubblica sul lavoro sociale al Cecchi point.
A seguire apericena up to you per costruire una cassa di resistenza.
Per contribuire alla cassa mutua dell3 lavorator3:
* post IG: https://www.instagram.com/p/DJ_2g52soPn/?igsh=MW9hejlyNmY0eWZlbw==
* raccolta fondi Satispay:
https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN--F7C14417-0E2A-48FC-9F97-BEF728635086?locale=it_IT
* crowdfunding su produzioni dal basso: sostieni.link/38202
* puntata in radio:
https://radioblackout.org/podcast/frittura-mistaradio-fabbrica-20-05-2025/
(disegno di blu)
«Tanti tra noi sono nati e vivono in questo quartiere. Ne conosciamo bene le
problematiche». A parlare è Antonio Silione, del movimento Disoccupati 7
Novembre e del Comitato San Gennaro. «Abbiamo voluto che il corteo del primo
maggio partisse dal rione Sanità per dei motivi concreti: qui di fronte si trova
l’ospedale San Gennaro, un presidio che offriva servizi sanitari essenziali a
decine di migliaia di abitanti della zona, chiuso nel 2017. A pochi passi c’è
anche il parco San Gennaro: circa sei ettari di foresta mediterranea,
inaccessibile da anni. Tutto questo in un quartiere storicamente popolare, oggi
invaso da turisti e b&b, l’unico modello di “lavoro” su cui si punta».
Numerosi anche quest’anno sono stati gli appuntamenti promossi da collettivi,
movimenti e sindacati in occasione del primo maggio a Napoli. Il primo è stato
il corteo partito intorno alle dieci dall’ospedale del popolare quartiere del
centro. La scelta di far partire il corteo dalla Sanità è legata alla necessità
di attraversare luoghi dove l’impatto della mancanza di lavoro e di servizi si
sente maggiormente, elemento che lega tra loro la moltitudine di istanze
differenti che hanno caratterizzato questo corteo. La composizione infatti era
piuttosto eterogenea: disoccupate e disoccupati del Movimento 7 Novembre,
lavoratrici e lavoratori di diversi settori – dalla logistica ai servizi – per
lo più aderenti al sindacato Si Cobas, insieme a numerosi collettivi
studenteschi. Presenti anche gruppi solidali con la resistenza del popolo
palestinese, la rete Liberi/e di lottare contro guerra e decreto sicurezza, i
comitati per l’ospedale e il parco San Gennaro, i lavoratori precari della
ricerca accademica, che hanno promosso una giornata di sciopero nazionale
prevista per il 12 maggio.
Il corteo ha raccolto circa cinquecento persone, mettendo in connessione le
differenti questioni: dalle istanze legate al mondo del lavoro – disoccupazione,
sfruttamento, precarietà, lavoro nero, morti bianche – a quelle contro riarmo,
guerra e repressione, fino alla riappropriazione dello spazio urbano e la
necessità di interventi decisi contro caro-vita e caro-affitti.
Per alcune ore ha sfilato tra le strade del quartiere, tra interventi al
megafono e cori. La manifestazione si è conclusa in vico Arena alla Sanità, dove
all’interno di un edificio utilizzato fino a qualche anno fa dall’azienda
cittadina per la raccolta dei rifiuti vi è oggi la sede del movimento dei
disoccupati organizzati. Al corteo non hanno potuto partecipare alcuni attivisti
del centro culturale Handala Ali, che fin dalle prime ore del mattino si erano
recati al Vomero, per esporre uno striscione sulla terrazza di Castel Sant’Elmo
con la scritta “Libertà per Anan”, in riferimento alla detenzione nel carcere di
Terni di Anan Yaeesh, cittadino palestinese residente da anni in Italia, e
arrestato su esplicita richiesta del governo israeliano. Le forze dell’ordine
hanno fatto a lungo pressione su attiviste e attivisti, i quali solo dopo alcune
ore sono riusciti a compiere l’azione.
Un secondo corteo è partito nel pomeriggio, alle quattro, da piazza San Domenico
Maggiore, dietro uno striscione contro sfruttamento e precarietà lavorativa. Il
corteo era organizzato da Potere al Popolo, dagli attivisti dell’ex Opg e del
Movimento migranti e rifugiati, dal sindacato di base Usb e dalla Rete dei
comunisti. La “passeggiata rumorosa” rivendicava esplicitamente come obiettivo
un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, una maggiore sicurezza sul
lavoro e la riduzione del numero di ore quotidiane, tutele e investimenti nel
welfare anziché nella guerra.
Il corteo ha attraversato Spaccanapoli, via San Sebastiano, i Tribunali, San
Gregorio Armeno, arrestandosi in più punti per permettere ai partecipanti di
ribattezzare le strade con fogli che portano i nomi di chi è morto sul lavoro:
Yassin Boussena, per esempio, ragazzo di soli diciassette anni che ha perso la
vita mentre lavorava in un’azienda di smaltimento del legno; Patrizio Spasiano,
diciannovenne, tirocinante morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è
riuscito a mettersi in salvo, perché si trovava sopra un’impalcatura; Nicolò
Giacolone, trentaduenne travolto da un autogru; Luana D’Orazio, operaia tessile
di ventidue anni, stritolata da un macchinario a Montemurlo. I loro nomi sono
stati affissi proprio nei tratti più affollati dal passeggio turistico, tra
pizzerie, trattorie e insegne colorate, sottolineando che in molti casi i
procedimenti giudiziari nei confronti degli imprenditori e delle aziende
responsabili per questo genere di decessi, non trovano seguito adeguato.
In momenti come questi, fa effetto guardare la città che osserva. Dai bar ancora
aperti i lavoratori spesso si affacciavano verso il corteo: qualcuno in
silenzio, altri facendo un cenno d’intesa. Alcuni turisti scattavano foto,
incuriositi, mentre i manifestanti gridavano che “il turismo non ci piace se ci
toglie via le case”. Parecchi tra gli ambulanti, applaudivano intanto dalle loro
bancarelle.
Il corteo si è ricomposto dopo qualche ora a piazza San Domenico, dove la
protesta si è chiusa con la lettura di alcune testimonianze scritte: lavoratori
e lavoratrici impiegati per “giorni di prova” mai retribuiti, altre licenziate
dopo anni di servizio perché incinte… Sono queste voci a chiudere una giornata
che, in una città trasformata in vetrina, ha voluto ridare visibilità a chi
lavora troppo, guadagna poco e muore dimenticato. (serena bruno e flora
molettieri)
(disegno di sam3)
Con tutti i suoi difetti, il tobleronico edificio della Fondazione Feltrinelli a
Milano è un posto perfetto dove far partire un corteo. L’algida piazza davanti
all’ingresso sembra fatta apposta per essere invasa da scarpe da ginnastica,
bandiere, striscioni, fumogeni e da una playlist, dai Lunapop ai Depeche Mode,
che esce da una cassa tirata da una bicicletta. Sulle vetrate della Fondazione,
pulitissime come sempre, si riflettono le figure dei manifestanti che arrivano
alla spicciolata, mentre la citazione di Ferruccio Parri a lettere cubitali
sulla facciata – È IN GIOCO L’AVVENIRE – si presta ad automatici détournement. I
sindacati di librai e libraie Feltrinelli (Filcams Cgil, Fisascat Cisl e
Uiltucs) hanno convocato il concentramento per il corteo qui il 17 marzo perché
contemporaneamente era prevista una convention di due giorni per i settant’anni
dell’editore. Convention poi ridotta a un giorno solo, il 18. La mattina di sole
dopo tanti giorni di pioggia sembra confermare che è comunque il giorno giusto
per scioperare.
Nelle centoventi librerie del gruppo sparse per l’Italia si sciopera per il
rinnovo del contratto integrativo aziendale, le questioni in ballo sono:
abolizione del salario d’ingresso per i neoassunti, chiarezza sui premi di
risultato e aumento di 1,5 euro dei buoni pasto, oggi fermi a 6 euro. A quanto
pare l’azienda ha abbandonato la trattativa proprio su quest’ultima questione,
vorrebbe spalmare l’aumento su tre anni, mentre per i sindacati deve avvenire
entro un anno. Dalle interviste raccolte da Radio Onda d’Urto è chiaro che
librai e libraie non scioperano solo per anticipare l’arrivo di un buono da 7
euro e cinquanta con cui, non solo a Milano, serve una certa creatività per
mettere insieme un pasto degno di questo nome. Il conflitto ha a che fare con il
progressivo svilimento del lavoro, con i tanti anni di contratti di solidarietà
e cassa integrazione e con la speculare narrazione trionfalistica con cui
vengono raccontati i successi aziendali – uno stile sopra le righe anche per gli
standard del settore culturale che, si vocifera da qualche anno, potrebbe essere
il preludio di un corposo riassetto della proprietà.
Al di là della retorica, il gruppo Feltrinelli appare in buona salute – nel 2023
i ricavi hanno raggiunto i 510 milioni e il margine operativo lordo è aumentato
del dieci per cento –, un momento ideale per ottenere miglioramenti del
contratto, ma l’adesione allo sciopero non è scontata: sia nelle interviste in
radio che nelle chiacchiere in piazza è chiaro che per molti lo sciopero è una
novità e, soprattutto, che buona parte di chi lavora in Feltrinelli ha scelto di
farlo per un’adesione al progetto culturale, oggi brand, che da settant’anni è
schierato “a sinistra”. Una componente vocazionale – che si traduce in una
maggiore capacità di sopportare condizioni di lavoro peggiori, a parità di
salario, per un lavoro che “piace” – che riguarda molti altri che lavorano in
ambiti culturali e creativi. Forse è per questo che quando ho letto per la prima
volta la frase che chiude il volantino distribuito nei giorni prima del corteo
ho pensato che non si rivolgesse solo a librai e libraie Feltrinelli: “Leggere
insegna a leggere. Scioperare insegna a scioperare”. Si rivolgeva anche a noi.
Faccio parte del contingente di freelance editoriali di Redacta che accompagna
il corteo, in solidarietà con chi sciopera. Negli anni abbiamo organizzato
eventi e firmato petizioni per i lavoratori della stampa, in particolare Grafica
Veneta, e per quelli della logistica, sia quelli del gigantesco magazzino
editoriale di Stradella (Pavia) – dove la joint venture Feltrinelli-Messaggerie
stocca e distribuisce la maggior parte dei libri italiani –, sia quelli della
Gls di Napoli. La solidarietà non è mai scontata, ma può essere anche facile, un
post sui social e poco più. Per questo preferiamo gli incontri. Tre anni fa
abbiamo organizzato un confronto in uno storico spazio anarchico milanese con
alcuni di quelli che oggi scioperano. Alcuni di loro tre anni fa non lavoravano
in libreria, erano freelance. Aspettando la partenza del corteo ci facciamo due
chiacchiere: qualcuno ha fatto per anni da
“consulente” con scrivania, con orario di lavoro, ma senza contratto per una
casa editrice indipendente, qualcun altro ha migliaia di euro di crediti da una
scuola di editoria che, mentre i founder riempiono il proprio feed Instragram di
viaggi ai tropici, ha smesso di pagare i fornitori. C’è il ragazzo con il record
di stage e la ragazza che ci racconta la volta che, da collaboratrice esterna di
un’altra casa editrice con brand progressista, ha contrattato il proprio indegno
compenso e si è vista proporre un magnanimo aumento di venti centesimi a pagina.
Tutte persone con lauree e master che hanno abbandonato il lavoro freelance e
sono finite a vendere libri in Feltrinelli. Alcune hanno ottenuto il tempo
indeterminato, altre no: partecipano allo sciopero da clandestine, nel giorno di
riposo. Le riconosci perché si sfilano opportunamente dalle foto. È la prima
volta che hanno occasione di scioperare nella loro carriera editoriale e non se
la sono fatta sfuggire.
Alle 11 abbiamo assorbito abbastanza radiazioni solari e partiamo per il breve
percorso che prevede una tappa a Casa Feltrinelli, nuova sede della casa
editrice e di altri uffici del gruppo, per concludersi sul cavalcavia Bussa,
tozzo e grigio asfalto, da cui si vede buona parte dei grattacieli spuntati
negli ultimi quindici anni a Milano. Feltrinelli ha anche un prestigioso
patrimonio immobiliare, non solo tobleroni.
Alla partenza del corteo, con le bandiere che sventolano e i fumogeni che ci
avvolgono, ci scambiamo un’occhiata perplessa: il fatto che dopo sei anni di
Redacta non abbiamo ancora uno striscione, o almeno una bandierina, può essere
spiegato con le particolarità sociologiche e organizzative del lavoro freelance,
sì, ma rimane un peccato. La nostra borsina di tela con lo slogan “Belli i
libri, ma la vita di più” fa comunque la sua discreta figura.
L’impasse viene superata grazie a una signora che distribuisce bandiere della
Cgil, ci vede con le mani libere e ce ne porge una, la afferriamo con una certa
convinzione e ci mettiamo a sventolare verso la sede della casa editrice. Dalle
finestre dell’ultimo piano alcuni impiegati si sbracciano per salutare, non sono
coinvolti direttamente nello sciopero perché sono inquadrati con un altro
contratto integrativo. Altri aspettano in strada e si uniscono ai cori che
partono dal corteo. Passano diversi minuti così, con canti, fumogeni, bandiere e
gruppetti che chiacchierano da una parte, un palazzo tirato a lucido che si
svuota pian piano di persone dall’altra.
Alla fine le adesioni allo sciopero in tutta Italia hanno avuto percentuali
molto alte, secondo i sindacati tra l’ottanta e il novanta per cento, un
successo. Lo scopriremo solo qualche ora dopo. Tra i parcheggi del cavalcavia
Bussa ascoltiamo una delegata che legge una lettera di solidarietà dei
lavoratori dell’Ikea, molto bella, e poi invita tutti a pranzare insieme nei
dintorni. Noi abbiamo già ricominciato a guardare la mail, rispondiamo a
caporedattrici e autori scombussolati dalla nostra assenza di risposte dalle 10
alle 12 di lunedì mattina: il file deve andare in stampa oggi pomeriggio, puoi
ricontrollare le testatine? E queste ultime correzioni alla bibliografia, le
puoi inserire? E questo titolo, ti convince?
Eravamo così concentrati sullo sciopero che non ci siamo accorti di aver smesso
di lavorare. (mattia cavani)
Dalla Germania a Torino, capitale dell’automotive italiano, sta diventando
realtà la massiccia riconversione al militare delle fabbriche che producevano
auto, carrozzeria, componentistica – e insieme a loro dell’enorme galassia
dell’indotto. Le grandi fabbriche dell’automotive tedesche sono già entrate da
anni in una irreversibile crisi di produzione, con effetti sociali “collaterali”
devastanti (come gli oltre 30 […]
(disegno di elena mistrello)
L’offensiva antisindacale di Montblanc fa un buco nell’acqua. La società voleva
ottenere dal tribunale l’ordine per il sindacato Sudd Cobas di “astenersi
dall’organizzare, promuovere e/o svolgere manifestazioni nei confronti di
Montblanc Italia S.r.l. a distanza inferiore a 500 metri dalle vetrine della
boutique sita in via Tornabuoni”. Una proposta senza precedenti, che minaccia le
fondamenta della libertà sindacale e di manifestazione, nel solco della
direzione tracciata dal ddl 1660. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un
pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione. Il sindacato e
un’ampia comunità solidale non hanno mancato di rispondere pubblicamente, con
una assemblea pubblica molto partecipata domenica 2 febbraio a Firenze e la
diffusione di un appello di solidarietà internazionale.
COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO
Facciamo un passo indietro e proviamo a riepilogare i fatti che hanno portato
alla situazione attuale. Prima di tutto occorre chiarire cosa vuol dire parlare
di “operai Montblanc”: secondo un meccanismo rodato e ampiamente diffuso, i
grandi marchi non producono direttamente le proprie merci, o lo fanno solamente
in minima parte, commissionando ad altri il grosso della produzione e
alimentando filiere lunghe e torbide. Nel caso di Montblanc, il brand
commissiona le proprie borse alla Pelletteria Richemont Firenze, una società
detenuta dal Gruppo Richemont, l’holding finanziaria cui appartiene anche
Montblanc stessa. La distinzione tra le due aziende è quindi formale, tanto che
la stella simbolo del marchio è ben visibile sull’edificio di Pelletteria
Richemont. La produzione vera e propria, tuttavia, veniva sub-commissionata a
un’altra azienda, la Z Production, la quale aveva a sua volta un sub-fornitore,
Eurotaglio (azienda in realtà solo formalmente distinta da Z Production,
operante nello stesso stabile e con lo stesso capo). Erano gli operai di queste
ultime due aziende a lavorare le borse di Montblanc, costretti a turni di dodici
ore al giorno, sei giorni a settimana, per pochi euro l’ora.
Fin qui, per quanto si intuisca la ricerca del massimo profitto da parte di
Montblanc attraverso un sistema di appalti che massimizza il plusvalore assoluto
prodotto dai lavoratori, qualcuno potrebbe ancora sostenere che l’azienda non
possa essere ritenuta responsabile per le condizioni di lavoro in queste
aziende. Occorre quindi far presente che (1) appare chiaro a chiunque che una
borsa pagata settanta euro, ma lavorata secondo alti standard qualitativi, deve
necessariamente implicare del lavoro sottopagato e che (2) un supervisore della
pelletteria Richemont visitava regolarmente Z Production ed Eurotaglio per
assicurare gli standard di produzione. Non si deve quindi immaginare, tra queste
aziende, il classico rapporto tra cliente e fornitore, ma una distorsione di
questo a favore del cliente che, grazie alle sue dimensioni spropositate, impone
a ditte in mono-committenza tempi, modi e prezzi di produzione.
Dopo quattro mesi dall’inizio del percorso di lotta, a febbraio 2023, gli operai
di Z Production ed Eurotaglio sono riusciti a ottenere il rispetto dei propri
diritti (quelli garantiti dalla legge italiana) e l’applicazione del contratto
nazionale. Il costo del prodotto per Montblanc è così passato da settanta a
cento euro al pezzo (il prezzo al pubblico di questi prodotti supera i mille
euro per borsa). Poche settimane dopo, la committenza comunica a Z Production
che, alla scadenza del contratto, non lo avrebbe rinnovato, condannando di fatto
i lavoratori alla perdita del proprio impiego. Gli operai però non mollano e
cambiano la propria strategia: anche l’idra ha un punto debole, se si ha
l’intelligenza e il coraggio di trovarlo.
Al grido di “Montblanc sfrutta, Montblanc scappa”, la lotta riprende,
dirigendosi direttamente contro il brand. La strategia diventa quella di colpire
ciò che veramente viene venduto dall’azienda: il marchio, l’immagine, l’aura del
lusso. I picchetti davanti al sontuoso negozio si susseguono e a settembre 2024
il Sudd Cobas lancia la campagna “Shame in Italy”, con l’obiettivo di fare luce
sulle ombre che si nascondono dietro le scintillanti vetrine del marchio. Il
coraggioso gruppo di operai arriva perfino a Ginevra per protestare sotto la
sede di Richemont, mentre in varie città d’Europa si attiva una giornata di
convergenza sotto i negozi Montblanc e in via Tornabuoni, nel cuore della
Firenze bene, gli operai montano le tende in mezzo alle vetrine di gioiellerie,
boutique e alberghi a cinque stelle. La stampa internazionale inizia a
interessarsi e Al Jazeera produce un documentario che conferma quanto sostenuto
dagli operai fin dall’inizio: Montblanc sa tutto.
IL PRIVILEGIO È UN DIRITTO, I DIRITTI UN PRIVILEGIO
Messo alle strette, il gruppo Richemont decide di reagire con forza e mostrare
ciò di cui è capace un colosso finanziario da venti miliardi di euro di
fatturato. Facendo appello al tribunale civile di Firenze, Montblanc costruisce
un ricorso con cui chiede che sia impedito al sindacato di manifestare a meno di
cinquecento metri dal proprio negozio in via Tornabuoni, di fatto volendo
imporre le proprie prerogative su un’area che copre un terzo del centro storico
cittadino.
Se chi legge potrebbe essere stupito da una tale arroganza, forse non lo sarà
chi vive nel capoluogo toscano, ormai abituato alla gestione privatistica dello
spazio pubblico, vedasi piazza della Signoria affittata a Ferragamo per una
sfilata o Ponte Vecchio a Ferrari per una cena, solo per citare i due eventi più
eclatanti. Si aggiunga a questo che via Tornabuoni, insieme a diverse altre
decine di strade del centro storico, è “tutelata” da una norma che limita
l’apertura di nuove attività unicamente a quelle “di pregio”, come negozi di
antiquariato, design e gallerie d’arte. Se infine si considera la messa in
vendita di gran parte degli immobili di maggiore pregio in possesso del Comune,
il quadro che ne emerge è quello di una città che da anni, marcatamente
dall’amministrazione Renzi in poi, è espressione dell’organizzazione pubblica di
interessi privati.
L’estrazione di valore operata da privati che si appropriano di porzioni via via
crescenti della città, mostra però continuamente le sue contraddizioni. È così
che le folle di turisti devono essere disciplinate da ordinanze “anti-panino”
che impediscano loro di ungere le preziose pavimentazioni degli edifici storici,
e i fruitori della movida notturna devono essere controllati da guardie private
che li guidino nel consumo attraverso selve di ristoranti, bar e locali. E
sempre così si rende necessaria la smart control room che coordina le circa
1.700 telecamere cittadine, una ogni 230 abitanti (primato nazionale) e la
continua richiesta di nuovi agenti di polizia al governo.
La trasformazione dei quartieri, da espressione dei bisogni, dei conflitti e
degli espedienti di una comunità a luogo di produzione di valore, non è
indolore. Per produrre diventa necessario controllare tutte le espressioni non
coerenti con la ricerca costante di profitto, siano esse modalità di fruizione
dello spazio incentivate proprio dalla sua commercializzazione o l’espressione
di soggettività incompatibili con questo modello. Strumenti come il “daspo
urbano” e le “zone rosse” (sperimentate in modo fallimentare a Firenze a partire
dal 2019 e ora incentivate dal governo in tutte le maggiori città italiane) si
rendono così necessari a silenziare con la forza tutte le forme che non seguono
la strada prevista.
In questo contesto, dove il negozio in via Tornabuoni è parte fondamentale della
costruzione dell’immagine per la valorizzazione delle merci e, perciò, nodo in
cui può esprimersi la conflittualità operaia, non appare così incredibile che
Montblanc pretenda di difendersi ampliando la portata degli strumenti già
esistenti, per usarli contro il sindacato. Degna di nota risulta però la
modalità con cui avviene il tentativo da parte del brand: ricorrendo al
tribunale civile, infatti, esso non solo derubrica la questione a gestione
dell’ordine pubblico, anziché a conflitto tra parte datoriale e sindacale, ma
scavalca anche l’amministrazione cittadina. Quest’ultima, trasformata col
processo neoliberista in strumento dei privati, viene ritenuta evidentemente
obsoleta da chi si sente ormai in grado di governare da sé.
Fortunatamente, la mobilitazione attivata dal sindacato, a cui hanno fatto eco
le numerose realtà che lottano per un diverso futuro della città, stavolta è
stata in grado di bloccare sul nascere questo tentativo, evitando un pericoloso
precedente per tutto il territorio. Resta però la necessità di analizzare il
bivio di fronte a cui la comunità democratica si trova di fronte: il declivio
verso città amministrate direttamente dai privati, ormai liberi dalla maschera
della politica rappresentativa, o l’accidentato sentiero da percorrere per
portare in centro, al centro, le necessità di tutte quelle operaie e operai che
i padroni vorrebbero chini a lavorare. Che possa essere la convergenza tra lotte
sindacali e realtà territoriali a riaprire una strada che sembrava ormai
impraticabile? (cosimo barbagli, marco ravasio)