Tag - lavoro

Mo’ basta! La protesta dei lavoratori Gls a Napoli
Fotografie di Mario Spada Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.  I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane. In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.  
November 17, 2024 / NapoliMONiTOR
“Ti spremono e buttano via”. Quattro anni di consegne per Amazon nella testimonianza di un lavoratore
(disegno di -rc) Il 15 ottobre scorso c’è stato, alla biblioteca Ramondino-Neiwiller di via Sedile di Porto a Napoli, il primo incontro di scuola popolare. Sono intervenuti Marco Veruggio, autore del libro Conflitto di classe e sindacato in Amazon (Edizioni PuntoCritico) e un driver di Amazon, che ha raccontato la sua esperienza professionale e di lotta. Riportiamo qui un estratto del suo intervento. Io faccio il corriere presso un magazzino di Amazon che si chiama  in gergo “delivery station”, perché Amazon ha un linguaggio tutto suo. Le chiamano così, le stazioni di consegna. Nel 2020, al tempo della pandemia, io lavoravo ancora in Bartolini. Siamo entrati in Amazon quando ha inaugurato questo magazzino nel settembre 2020. All’inizio ti sembra di essere contento, perché rispetto a chi lavora in Bartolini, GLS, SDA, il lavoro è più semplice, diciamo che la rotta te la fanno loro, non ci sono le bolle, è tutto preciso, studiato, è tutto apparecchiato; solo che subito capisci il trucco: cioè che ti fanno uscire fuori di testa, la loro politica è questa, metterti un livello di stress e di tensione e di fatica tale per cui ti spremono e ti buttano via. Noi su quattrocento corrieri che siamo, trecento sono a scadenza e solo in cento siamo fissi; e anche tra questi c’è un ricambio fortissimo; nel 2020 eravamo entrati in sessanta sotto la mia ditta, perché poi Amazon per i magazzinieri usa l’agenzia interinale, per i corrieri usa le cooperative o le aziende; di quelli, in quattro anni siamo rimasti in dieci; ce lo dissero chiaramente nell’incontro sindacale dopo che facemmo questi blocchi e scioperi in maniera molto spontanea nel 2021, ce lo disse il loro capo delle ditte in appalto che un lavoratore di Amazon più di tre anni non ci può stare lì. Noi siamo come le merci a scadenza, dopo quella data non puoi più andare. Ecco, bisogna capire il perché. Io sono già quattro anni e mezzo che sono lì e non ho intenzione di andare via, perché è quello che vorrebbero loro. Però è dura e come mai è dura? Non si tratta di fare le vittime, ma di capire cos’è che questi studiano per fare in modo che ogni secondo del tuo tempo e ogni tua energia sia spremuta in modo che a fine giornata tu abbia fatto il 99,5% dei pacchi consegnati. Nel mio magazzino ci sono quarantamila pacchi che vengono lavorati la notte, e noi il giorno si deve portare il 99,5% di questi pacchi. Uno pensa che è impossibile, invece è possibile. Come è possibile? Cos’è che gli permette questa cosa? Primo, il ricatto. Il ricatto è dato dal fatto che la maggior parte dei lavoratori sono a scadenza e quando uno entra a scadenza è contento di entrare in Amazon perché lo stipendio, siccome c’è la trasferta, è un po’ sopra la media degli altri corrieri. Quindi uno per tenersi quel lavoro fa quello che vogliono loro. E cosa vogliono loro? Vogliono che tu finisca la rotta. La rotta: non hai sempre la solita zona, non hai sempre i soliti clienti, non hai sempre il solito furgone. Ogni giorno ti danno un’applicazione, te entri e ti dicono questo giorno c’hai 140 stop, 160 posizioni, 185 pacchi. E se sei a scadenza le devi fare veloce, le devi fare bene e se non lo fai loro lo vedono in diretta, non è che aspettano il giorno dopo che qualche crumiro o qualche rompicoglioni ti va a segnalare, no, loro vedono in diretta come stai lavorando. Come fanno? Con questi telefonini qui che ti danno, entrano nella tua pagina mentre lavori e sono lì seduti nel magazzino mentre te schiatti sotto il sole o sotto la pioggia e te sei un puntino, loro vedono questo puntino… queste cose le abbiamo scoperte dopo tre anni che eravamo lì, a suon di parlare con i capetti che hanno fatto carriera, sono loro che ce le raccontano, poi ora c’è stata anche l’inchiesta della procura a Torino che gli ha fatto il solletico ad Amazon, gli ha sequestrato centoventi milioni di euro, li fanno in mezza giornata loro centoventi milioni, però la cosa interessante che è venuta fuori è come fanno a farti lavorare in quella maniera, loro utilizzano questo telefonino, ti vedono sullo schermo, e non è tramite il GPS ma tramite il telefonino che lo fanno, in diretta vedono se hai chiamato il cliente, se gli hai mandato il messaggio, se gli hai lasciato il pacco nel giardino, se l’ha mangiato il cane, se l’ha rubato l’altro vicino, vedono tutto e soprattutto vedono la media che è calcolata dall’algoritmo perché il punto fondamentale di lotta per noi è stata questa cosa qua, che noi praticamente si lavora a cottimo, ma noi non saremmo a cottimo, noi si dovrebbe fare otto ore di lavoro al giorno; ne facciamo nove e mezzo, ma in realtà te lavori fino a che non finisci la tua rotta, che tu abbia cento pacchi o duecento. Loro dicono: l’algoritmo è scientifico, se l’algoritmo dice che puoi farne centoquaranta tu devi farne centoquaranta e invece non è vero assolutamente, lo fanno per convincerti che se non li fai è perché sei sfaticato, perché sei distratto, perché non ti impegni abbastanza. Quelli come me o altri che siamo lì da più anni, che si è lottato e non ci facciamo mettere troppo piedi in testa, se ti chiamano e ti dicono vai più veloce, oppure perché a quel cliente non gliel’hai consegnato? perché non l’hai lasciato al vicino? io butto giù e faccio la mia giornata, ma lo posso fare io; quelli a scadenza cosa fanno? li chiamano e gli dicono vai a prenderti i pacchi degli altri… e questo lo chiamano “l’aiuto”. Ma non è l’aiuto a me, è l’aiuto a loro. Perché l’aiuto a loro? Perché le ditte hanno i bonus, cioè se fanno il 95% di consegnato Amazon gli dà dei soldi in più e ai capetti uguale. Ma a me, che io porto cento pacchi o ne porto cinquanta, lo stipendio è quello, a me non mi cambia niente. Noi abbiamo una tabella, una classifica che viene fatta ogni settimana, tramite questa applicazione che registra se io sono stato gentile col cliente, se ho trasgredito la sua proprietà, se gliel’ho messo male il pacco, se gliel’ho messo bene… io non la guardo nemmeno perché a me non mi cambia niente, ma loro la usano per dare questi bonus all’azienda e soprattutto per fare pressione sui lavoratori per arrivare al cento per cento di consegne. Il punto è questo. Perché loro stressano così tanto? Perché loro non vogliono resi, non vogliono nulla a magazzino e vogliono continuare a inebetire, a rendere come degli automi tutte le persone che consumano. Perché se te ordini il martedì, loro ti dicono: il pacco è previsto per giovedì. Ma se ti arriva il giorno prima, te subito rifai un altro acquisto. Se io invece vado piano e tutti andassimo alla velocità normale, il pacco arriverebbe venerdì. E allora il consumatore è più difficile che nel frattempo acquisti altro. Quindi c’è un meccanismo infernale che loro fanno tramite questo controllo e tramite il ricatto. Un’altra cosa che mi sono scordato di dire è che la maggior parte di noi siamo assunti a tre giorni o a quattro giorni, in modo tale che per lavorare sei giorni e avere uno stipendio dignitoso devi fare come dicono loro. Se non lavori come vogliono loro, cioè se non finisci la rotta, ti fanno fare solo quei tre giorni lì e con 1.100 euro non ce la fai. Questo è il ricatto che loro usano, ma ce ne sono tantissime di strategie che utilizzano per cercare di evitare l’unione dei lavoratori. Negli Stati Uniti, durante la pandemia, Amazon non era riuscita a controllare il fatto che la gente rallentava il lavoro, si sentiva male, ecc. Allora è lì che ci sono stati i primi scioperi, che la gente ha iniziato a contestare il ritmo, ma contestare il ritmo è anche contestare il modo in cui sei trattato. E negli Stati Uniti si sono creati degli scioperi, dei picchetti, dei movimenti sindacali, e cosa ha fatto Amazon? Quando siamo entrati noi in magazzino hanno messo questi rilevatori di distanza che all’inizio loro dicevano che erano per non infettarsi e invece hanno usato questa cosa che se io mi avvicino a te più di un metro e mezzo suona tutto, tipo allarme, e anche ora che la pandemia non c’è più c’è sempre questa cosa che te non devi stare vicino a quell’altro, non solo nel magazzino ma nemmeno vicino col furgone; se io mi metto insieme ad altri due colleghi perché magari finisco prima sul viale prima di rientrare al magazzino, dopo un minuto lo chiamano, a me no perché sono fisso ma quell’altro che è precario lo chiamano perché lo vedono da questi telefonini, quindi diciamo che questo elemento del controllo a distanza che loro dicono che è per la sicurezza, in realtà è un controllo utile per la produttività e per tenere separati i lavoratori. Questa è l’ideologia loro, che te devi essere il primo e ti fanno proprio la classifica. E poi c’è qualche rintronato, scusate il termine, che fa la gara: io ne ho fatti 170, io ne ho fatti 190, io ne ho fatti 210 e questo è il sistema che loro vogliono, la competizione. Tanto i soldi che becchi sono sempre gli stessi e soprattutto levi il lavoro all’altro. Noi abbiamo fatto scioperi e blocchi nel 2021, il magazzino era appena aperto, loro non erano tanto preparati e fecero questa cosa assurda che dopo il periodo del picco, che ora li chiamano picchi di produzione, prima era il Black Friday, ora ogni settimana c’è un picco, ogni settimana c’hai una mole di lavoro maggiore, e loro dopo il picco di Natale dissero che c’era un calo, che però non era vero, semplicemente stava andando giù il picco e questi geni, d’accordo col sindacato confederale, provarono a farci mettere un giorno in cassa integrazione per continuare a guadagnare come guadagnavano prima. Questa cosa non è riuscita, noi gliel’abbiamo impedita, però ti fa capire proprio il tipo di sistema di queste multinazionali, basato sul controllo, sull’oppressione, sul fatto che noi siamo stressati e diamo retta a loro quindi questo è il punto sul quale sicuramente Amazon è avanti; anche se all’apparenza ti sembra più agevole, è agevole solo per loro per farti portare più pacchi e per costringere la gente a comprare sempre di più. (un driver di amazon)
November 14, 2024 / NapoliMONiTOR
“Lottiamo per sessant’anni di storia”. Voci dalla fabbrica occupata di Statte, Taranto
(archivio disegni napolimonitor) “La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”. C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti, dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze operaie. Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre. «Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte, inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche altro pezzo di mondo. *     *    * La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore, mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a cambiare davvero. La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar (movimentazione di container) e la stessa Hiab. A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una S.p.a. autonoma. In mezzo a queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio. La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi, ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del made in Italy. Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del Made in Italy. Gli operai ci hanno creduto. Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione, Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori, carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è lavoro solo per poche settimane ancora. Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda. Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione dello stabilimento che scade a novembre del 2025. I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale, credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite, fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti. «I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci spiega uno degli operai che si occupa del magazzino. A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio perché non sanno cosa produrre». Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita. *     *    * È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri, quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone. I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del 5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti: «Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini». Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento, lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita. Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre. Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio altoforno 1 dell’acciaieria.  «Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione, di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani. È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte. Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede.
November 12, 2024 / NapoliMONiTOR
Promesse mancate e lotta dura. Un’altra settimana in piazza per i disoccupati napoletani
(disegno di sam3) Lunedì mattina. Una trentina di disoccupati del Movimento 7 novembre entra nel palazzo della Città metropolitana di Napoli, occupando i due piani in cui hanno sede gli uffici dei partiti di maggioranza e opposizione: è necessario riportare attenzione sulla vertenza che riguarda quasi settecento disoccupati che da anni lottano per avere un lavoro stabile in città. Negli ultimi due anni questi disoccupati hanno partecipato ai corsi di formazione finalizzati all’inserimento lavorativo e tenuti da enti ingaggiati dal comune di Napoli. Il 23 maggio scorso è stato siglato un protocollo di intesa con il ministero del lavoro, il comune di Napoli e la Città metropolitana, che ha finanziato con circa dieci milioni di euro un progetto per l’inserimento lavorativo di disoccupati di lunga durata. Dopo i soliti rallentamenti burocratici ha avuto il via la fase esecutiva, una procedura che avrebbe dovuto tenere in considerazione i requisiti specifici acquisiti nel corso dei tirocini da tutti coloro i quali hanno completato il percorso. Ciò non è avvenuto, soprattutto a causa dell’intervento nella gestione del progetto del ministero del lavoro, che ha completamente scavalcato il comune di Napoli, ignorandone le direttive, come l’assunzione prioritaria per i disoccupati che avevano completato il ciclo di formazione. Nella giornata di ieri, allora, dopo vari incontri e tavoli istituzionali senza esiti rilevanti, i disoccupati si sono ritrovati a piazza San Domenico Maggiore per muoversi in corteo. Alle 15.30, orario del concentramento, il gruppo è già folto e compatto: circa un centinaio di uomini e donne, uniti tutti dietro lo striscione storico del movimento; davanti, gli attivisti più longevi fanno servizio d’ordine. In piazza c’è tensione, ci si muove rapidamente, esplode qualche petardo che spaventa i turisti intenti a riprendere il corteo come in un film d’azione. La rabbia dei proletari napoletani senza lavoro si riversa nei vicoli iper-turistificati del Centro storico, si battono le mani, si intonano cori che rivendicano i quasi dieci anni di lotta. All’incrocio tra via Acton e via Medina, non senza aver dovuto affrontare qualche rimostranza di turisti e concittadini poco interessati al loro destino, i disoccupati bloccano la strada. La municipale arriva tardi, non riesce a dirigere il traffico, che va in tilt. Dalla questura scendono agitati ispettori e cameramen della Digos che cercano di raccogliere elementi utili per l’ennesima fase giudiziaria che rischia di seguire a questa giornata di lotta. In generale, i poliziotti sembrano sorpresi dalla determinazione dei disoccupati. Dopo pochi minuti il corteo si muove verso piazza Borsa, dove effettua un altro blocco. Stavolta gli agenti della Digos si arrampicano con le loro telecamerine sulla statua di Vittorio Emanuele II, ma i manifestanti sono rapidi a spostarsi nei vicoli che danno verso via Mezzocanone. La gente sorpresa chiede cosa stia accadendo, qualcuno straparla a sproposito di lavoro nero e reddito di cittadinanza, tra i disoccupati c’è chi trova persino la pazienza e la forza per spiegare i passanti che il movimento lotta per il lavoro da molti anni prima che l’opzione del reddito – durata in verità molto poco – venisse presa in considerazione dalla politica istituzionale. Da Mezzocannone il corteo risale verso piazza San Domenico Maggiore. Il cameriere di un bar offre acqua ai manifestanti, un paio di interventi ribadiscono ai passanti l’importanza delle questioni portate in piazza. Dopo qualche ulteriore “scambio di opinioni” con la Digos, il corteo si muove senza scorta della polizia verso l’ex Asilo Filangieri, dove è in corso un’assemblea in vista della manifestazione di sabato a Roma, contro il genocidio in corso in Palestina. (angelo della ragione)
October 3, 2024 / NapoliMONiTOR
Accordi disattesi e intimidazioni ai lavoratori. Gli ultimi scioperi nella logistica in Campania
(disegno di rosario vicidomini) Una chiara risposta al decreto. Può essere vista in tal modo la giornata di ieri dai lavoratori della logistica campana, che dalle prime luci del mattino hanno bloccato i magazzini di Napoli e Frattamaggiore. Facchini e corrieri della Gls da un lato, lavoratori Brt a Marcianise dall’altro, alle prese con vertenze che durano da mesi e che hanno mostrato con chiarezza il volto di padroni e padroncini della filiera logistica in questi territori. Il professor Pietro Ichino, che la settimana scorsa ha rincarato la dose sul discorso repressivo strizzando l’occhio alle controparti datoriali del settore logistico, ha puntato il dito sul “cancro nelle nostre relazioni industriali”, con forme di lotta che definisce “illegali, che non possono avere cittadinanza in una società democratica e che stanno soppiantando lo strumento normale dello sciopero”. Meglio che se ne faccia una ragione e si rinfreschi la memoria. Nel settore logistico, di fronte a una controparte datoriale senza scrupoli, non c’è retorica sulla legalità che tenga. Da nord a sud. Non è possibile parlare da legalitari in un settore dove di legalità spesso non ce n’è nessuna. Dove la tutela sindacale minima non è garantita. Dove il rapporto di forza con il padrone o con un suo intermediario è diretto. Svolgere attività politica e sindacale in certi settori della logistica significa scontrarsi con un’organizzazione di interessi spietata, che i modelli e le norme di comportamento del sindacato tradizionale non sono riusciti a scalfire. La repressione dei diritti sindacali, l’illegalità strutturale, la violenza sistematica sono le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci nel nostro paese. Questi fenomeni non sono effetto ma causa nella traiettoria del modello logistico italiano, nei confronti del quale le pratiche del sindacalismo di movimento continuano a svolgere un’opposizione efficace, facendo emergere le contraddizioni tuttora irrisolte nel sistema di relazioni industriali. Il vero cancro di tutta questa faccenda semmai sono le connivenze con le controparti datoriali. Ne è la prova l’ennesima intimidazione sfociata in un’aggressione nei confronti di un lavoratore davanti al magazzino di Frattamaggiore. Colpito alle spalle, è stato portato in ospedale. Accadeva ieri mattina, mentre un centinaio di lavoratori scioperava contro le intimidazioni nei confronti di chi aderisce al sindacato. È storia recente quella di un lavoratore iscritto e poi intimorito. Sono intervenuti alcuni delegati sindacali, ma era troppo tardi: il lavoratore piangendo ha ritirato la firma. I padroncini offrono viaggi e automobili per guadagnarsi la fedeltà dei corrieri, ma si tratta di finti regali che graveranno con un peso e una dicitura specifica nelle prossime buste paga. “Ogni mese dobbiamo rincorrere tentativi di riappropriazione del salario dei lavoratori – racconta un sindacalista –. Per esempio, un lavoratore ha rotto il palmare; loro dovrebbero attivare una procedura che prevede la contestazione e dare al lavoratore alcuni giorni per giustificarsi; invece i datori vanno a prendersi i soldi direttamente in busta paga. I lavoratori devono usare il loro cellulare per il lavoro e non viene loro riconosciuta nessuna indennità; non gli riconoscono gli scatti di anzianità, e poi c’è la questione delle conciliazioni sulle spettanze arretrate, con sottrazione indebita di denaro ai lavoratori, e parliamo di decine di migliaia di euro”. I padroncini della filiera Gls sono più di trenta, e hanno il terrore di perdere margini di profitto sempre più residuali in seguito al riconoscimento di diritti e tutele conquistate dai lavoratori. Fino a poco fa credevano di sopperire scaricando tutto il peso sul costo del lavoro. Gli scioperi di questi mesi li hanno messi sulla difensiva. I lavoratori hanno migliorato le loro condizioni salariali, ma non basta. Ancora non si è fatto nulla per il rispetto delle norme di sicurezza di chi lavora in strada a consegnare pacchi. Ancora i padroncini della logistica dell’ultimo miglio cercano di grattare laddove possono, di fregare i soldi in busta paga attraverso sotterfugi, di imporre con il ricatto conciliazioni fraudolente. I lavoratori che in questi mesi hanno portato avanti gli scioperi nella filiera logistica in Campania ormai conoscono i loro avversari, e sanno che è vietato abbassare la guardia di fronte a chi non mantiene fede agli accordi. Tra le rivendicazioni, quella di un unico fornitore di servizi di consegna alla Gls-Temi, che continua ad avvalersi di trentaquattro fornitori. Ieri mattina, di fronte ai cancelli del magazzino di Poggioreale, corrieri e facchini bloccavano l’accesso con uno striscione che recitava: “Gls: un unico fornitore è ciò che chiede il tuo lavoratore”. Per guadagnare terreno, qualche mese fa sul tavolo delle trattative i padroncini avevano proposto un accordo sul premio di produttività, ma sono stati i lavoratori stessi a spedire al mittente l’offerta, rifiutando l’idea di lavorare di più per guadagnare di più. “Dobbiamo alzare i numeri. Fateci capire cosa vi dobbiamo dare”, si sono sentiti dire da una rappresentanza dei fornitori di Gls-Temi. “Se avete bisogno di maggiore produttività, assumete”, gli hanno risposto i lavoratori. “Alle stesse condizioni, beninteso”. Sul premio di produttività si è rotto il tavolo di trattativa. Lo sciopero di ieri mattina mostra l’attraversamento di una nuova frontiera da parte di questa forza lavoro di recente sindacalizzata. È la frontiera politica di un processo ancora in atto. I lavoratori hanno risposto con uno sciopero e un blocco dei magazzini a un cambiamento concreto del quadro normativo nel nostro paese. Hanno mandato un messaggio al ministro Piantedosi, che in parlamento ha puntato il dito proprio contro i lavoratori più combattivi della logistica. Hanno capito che gli scioperi non si conducono solo per la rivendicazione di diritti che riguardano il proprio lavoro. Il nuovo decreto darà linfa vitale alle controparti, che agiranno “secondo la legge”, convinti che le nuove misure repressive contro le lotte del lavoro avranno effetti concreti. Sarà un’illusione. Di fronte si troveranno questa forza lavoro giovane e combattiva, dotata di un orizzonte politico oltre che sindacale. Uomini e donne che, alzando la testa, hanno iniziato a guardarsi intorno, riconoscendo uno scenario desolante contro il quale vale la pena opporsi. (andrea bottalico / luca rossomando)
October 2, 2024 / NapoliMONiTOR
PER UNA CHIAMATA DI DISCUSSIONE E MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO I MILLE VOLTI DEL RAZZISMO DI STATO.
TORINO / 1,2 e 3 Novembre 2024 Se primavera ed estate 2024 sono state scandite dal calore di proteste, scioperi, rivolte ed evasioni – sopratutto dentro le galere di in ogni parte del paese – non si può dire che la controparte non stia, di pari passo, affilando la sua lama, puntandola spietatamente contro poverx, migranti e ribelli nonché chiunque porta solidarietà e prova a opporsi e resistere. Gli strumenti legislativi a disposizione delle procure si stanno, infatti, rimpolpando di disegni e decreti legge criminogeni che mirano ad ampliare il ventaglio dei reati, intensificarne le pene e abbassare la soglia di punibilità. Il ddl 1660, in corso di approvazione, rispecchia molto bene la realtà in cui ci vogliono costringere a vivere. Difatti, in maniera molto dettagliata e puntuale, va a colpire tutti gli ambiti dove negli ultimi anni sono state portate avanti le proteste e le lotte più incisive che hanno attraversato il paese, dai luoghi di detenzione (carcere e CPR) alle mobilitazioni contro il disastro climatico. D’altronde non servirebbe uno degli ultimi omicidi – in ordine temporale, e tra i più noti, che da decenni accadono nelle campagne italiane – di Satnam Singh a ricordarci che la linea del colore e l’oppressione di classe segnano indelebilmente il destino all’interno delle dinamiche di sfruttamento della forza lavoro. O l’assassinio di Oussama Darkaoui nel CPR di Palazzo San Gervasio a ribadire, ancora una volta, come le galere amministrative assolvano quotidianamente a uno dei loro compiti principali: terrorizzare i/le liberx senza documenti europei – resx clandestinx dalle leggi – affinché non osino lottare, autodeterminarsi ed esistere fuori dagli schemi della paura e del dominio. Eppure, questa calda estate ci ha dimostrato che davanti alla brutale ingiustizia e violenza agita dallo Stato, non è solo la paura a dominare gli animi. Da Nord a Sud le proteste hanno scaldato i centri di detenzione – sia penale che amministrativi, ad ogni latitudine e per mano di ogni età. Fuori da quelle mura, solidali e complici han cercato le proprie strade per mostrare supporto, tessere legami, far circolare le notizie, rendersi tasselli di comunicazione, affiancando chi ha deciso di parlare per sé attraverso rivolte e proteste. Sappiamo che il capitalismo differenziale – tanto più se in crisi economica e in un panorama bellico – ha sempre più bisogno di allargare le maglie quantitative del contenimento, irregimentare i metodi di tortura con il fine – neanche tanto sottinteso – di terrorizzare su larga scala e contenere coloro che si ribellano. Guerra, violenza, repressione, sorveglianza e incarcerazione, costituiscono gli strumenti necropolitici per antonomasia che si ripercuotono materialmente sui corpi provocando morte e sofferenza. Spezzano i legami ma, allo stesso tempo, producono nuove relazioni sociali, nuove grammatiche del potere, iscrivendole all’interno di un’economia politica imperniata sulla gerarchizzazione dell’umano. La necropolitica, provando a interpretare i presenti sconvolgimenti globali, non è tuttavia semplicemente un processo bensì un vero e proprio paradigma. Il conflitto bellico tra l’Ucraina e la Federazione Russa e il genocidio in atto da parte dello stato sionista nei confronti della popolazione palestinese, sono – all’interno di questo quadro – potenti esempi di come agisce tale macchina. Alle nostre latitudini i venti di guerra soffiano in molteplici direzioni; ne sono un esempio, da un lato, gli investimenti massicci nel settore bellico da parte del governo Meloni, dall’altro la stesura di decreti sicurezza, creati ad hoc, in cui vengono categorizzati sempre più nuovi nemici interni, evocando incessantemente una supposta minaccia incombente sulla stabilità del sistema economico e sociale. Non limitandoci a osservare il fenomeno della guerra, come mera espressione dei/delle governanti di turno o di contingenti necessità geopolitiche, ci preme piuttosto leggere il presente bellico come parte integrante del capitalismo, e nella fattispecie di quello neoliberale, grimaldello della paura e della retorica massmediatica: base discorsiva per l’assestarsi o l’accelerare di alcune modificazioni del presente. Fondamentale, in merito ai discorsi oggetto di questa chiamata, l’intensificarsi di una retorica potente sul nemico interno delineato, non solo in chi lotta o dissente, ma soprattutto in colui che si trova ai margini del privilegio di classe e razza. A tal proposito, il razzismo sistemico e sistematico, l’islamofobia, la clandestinizzazione forzata delle persone in viaggio senza documenti europei, la brutalità delle frontiere e le morti in galere e CPR, sono parte del complesso set di strumenti torturatori che il potere si dà per tenere sotto scacco una vasta quantità di popolazione. Ne consegue un’architettura lineare che oggi sfrutta sul lavoro, domani capitalizza nei centri di detenzione e – magari – in un futuro guerreggiato neanche troppo lontano, ricatta per comporre le fila di una possibile legione straniera. Delineare la geografia del razzismo sistemico e sistematico diventa lo strumento analitico fondamentale per trovarsi, tra complici e solidali, riconoscersi e identificare i punti di attacco. A seguito dell’importante chiamata promossa dalla Rete Campagne in Lotta (https://campagneinlotta.org/violenze-e-morte-alle-frontiere-razzismo-quotidiano-segregazione-rispondiamo-a-tutto-questo/) ad Aprile a Roma, proponiamo un seguito di quel momento di confronto a Torino, per l’1/2/3 Novembre 2024. Occasione preziosa per lanciare anche un’iniziativa pubblica contro la riapertura del CPR di Torino, chiuso per la prima volta nel Marzo 2023 grazie a tre settimane di coraggiose rivolte, che han permesso al fuoco di distruggere, totalmente, una galera per persone senza documenti europei attiva da 25 anni. Un anno e mezzo fa, all’incirca, il CPR di Corso Brunelleschi veniva distrutto dalla rabbia dei reclusi, rendendo materialmente più fragile un tassello della macchina delle espulsioni nostrane. Da quelle calde giornate invernali di fuoco, numerose sono state le rivolte, le evasioni e gli scontri contro la polizia, che hanno caratterizzato la quotidianità all’interno dei lager di Stato italiani. La violenza agita dalla detenzione amministrativa va inserita in un quadro ampio e complesso che conduce a uno sguardo sulla macchina delle espulsioni e ai CPR, come la punta visibile di un iceberg, in cui si annodano più strati e substrati di violenza e razzismo sistemico. Se, infatti, il razzismo è un concetto solido – tangibile nella sua produzione di conseguenze materiali – urge produrre un discorso intellegibile che, con puntualità, renda esplicita la geografia dell’oppressione, lungo la linea del colore e della classe. Estrapolare la lotta contro i CPR, da un discorso unicamente antidetentivo, ci consente di rendere esplicito il ruolo che queste prigioni hanno nel fungere anche, e non solo, da monito ai liberi e rafforzare così il ricatto del permesso di soggiorno. Lottare contro le galere amministrative, assume così, un significato nel porsi a fianco dei migranti, lavoratori e non, che chiedono documenti, casa e tutele per tuttx. In questo panorama, attaccare la forma tangibile di una frontiera vuol dire porsi al fianco di chi è rimbalzato, tramite dispositivi e leggi europee, tra l’essere l’oggetto di scambio tra Stati, merce di profitto per privati, strumento di pressione mediatica per fini nazionalistici e/o manodopera a basso costo. Sentiamo sempre più urgente, prioritario e impellente incontrarci e organizzarci per analizzare il reale mortifero in cui viviamo, trovarci tra complici e tessere le reti di alleanze possibili con il fine di trovare i punti di attacco all’impianto razzista che scandisce la quotidianità nel capitalismo di oggi. Il coraggio dirompente del reclusi del CPR di Torino nel Febbraio 2023 non può rimanere silente, dimenticato e rifagocitato dalla macchina razzista. A tal proposito invitiamo compagnx, complici, solidali a venire a Torino nei primi giorni di Novembre per tre giorni di discussione e mobilitazione nazionale. /////////////////////////////////////////////////////////////   PROGRAMMA GIORNATE VENERDI 1 NOVEMBRE ORE 16 CORTEO NEL QUARTIERE DI SAN PAOLO CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI SABATO 2 NOVEMBRE DALLE ORE 1O ASSEMBLEA PRESSO IL CSOA GABRIO, via Millio Torino DOMENICA 3 NOVEMBRE DALLE ORE 10 ASSEMBLEA (solo la mattina)     Per info e ospitalità scrivere a: antirazzistxpiemonte[at]autistici.org
September 22, 2024 / C.S.O.A. GABRIO
[2024-10-06] 2 GIORNI IN PIAZZA CRISPI: PROIEZIONE DELLA MINISERIE "TENDOPOLY" - Con Campagne In Lotta @ Piazza Crispi, Torino
2 GIORNI IN PIAZZA CRISPI: PROIEZIONE DELLA MINISERIE "TENDOPOLY" - CON CAMPAGNE IN LOTTA Piazza Crispi, Torino - - (domenica, 6 ottobre 19:00) 2 GIORNI IN PIAZZA CRISPI DOMENICA 6 OTTOBRE ALLE 19 PROIEZIONE DI "TENDOPOLY" - Con alcunx compagnx di Campagne in Lotta Una miniserie di 7 episodi su 10 anni di lotte nelle campagne per ribaltare la narrazione mainstream sull'immigrazione, lo sfruttamento in agricoltura, i ghetti e molto altro.
September 21, 2024 / Gancio