Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Prima parte(disegno di ottoeffe)
Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione
delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per
il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla
festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a
pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra.
Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia
metalmeccanica e sindacalista meridionale.
Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda.
Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre,
durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per
partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria
automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato
costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La
conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte
e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus.
Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato
delle città.
LA FAMIGLIA, L’INFANZIA, LA GIOVINEZZA
«Io sono nata a San Mango sul Calore, in provincia di Avellino. Sono l’ultima di
cinque figli. Mia mamma era contadina e mio padre faceva il manovale nelle ditte
edili. Mia mamma si occupava della campagna, che non era la nostra perché allora
c’era la mezzadria: una buona parte di quello che raccoglievi andava al padrone
e quel poco che rimaneva andava a te. Poi negli anni questa cosa è cambiata e
mia mamma ha continuato a coltivare i terreni degli altri, però la maggior parte
del raccolto lo teneva per noi. Nonostante la povertà di allora, non ho sofferto
la fame. Avevamo i prodotti della campagna: grano, mais, ortaggi, alberi di
ulivo, nocciole, noci; e poi polli, galline, conigli, pecore… Mio padre era
trasfertista, ha lavorato con varie ditte. Aveva un fratello che pascolava le
pecore al paese, poi a sedici anni se ne andò a Prato, dove iniziò a lavorare
come manovale e pian piano creò una ditta sua. Negli anni ha guadagnato
benissimo, è diventato miliardario. Mio padre è andato a lavorare con lui per un
certo periodo. Poi, siccome mia mamma anche di salute non stava bene, è tornato
di nuovo in paese. Mia sorella, primogenita, ha vissuto a Battipaglia, mentre i
miei fratelli sono tutti emigrati: chi in Germania, chi a Firenze con mio zio…
Adesso sono tutti qua, un paio sono già in pensione, uno purtroppo è deceduto.
«Conservo un bel ricordo della mia infanzia. Ero una bambina vivace, ribelle fin
da piccola, forse perché avevo tre fratelli che mi volevano sempre imporre le
cose. Anche non avendo le conoscenze, quando c’è stato il referendum per il
divorzio ho detto a mia mamma che doveva votare per il divorzio, e poi per
l’aborto. A quei tempi le famiglie duravano in eterno, anche se non andavano
d’accordo. I miei genitori sono stati sposati fino alla morte di mia madre, che
era più grande di mio padre di cinque anni. Sono stati insieme sessantadue anni
e mezzo. Mio padre è stato un esempio, non l’abbiamo mai visto urlare nei
confronti di mia mamma, non ha mai alzato le mani. Mia mamma aveva la seconda
elementare, ma era molto avanti coi tempi.
«Quando ho votato per la prima volta avevo diciotto anni e ho votato il Partito
Comunista. La Democrazia Cristiana era sovrana qui in Irpinia, votare il Pci era
una forma di ribellione nei confronti di chi aveva amministrato e, per quel che
potevo capire, non mi pareva che amministrassero così bene. Io ho la terza
media. Dopo la licenzia media mi volevo iscrivere all’istituto d’arte perché mi
piaceva disegnare. Mio padre, siccome mia cugina andava all’istituto
commerciale, ha assegnato anche me a quella scuola. A quell’epoca ti imponevano
queste scelte. Dopo sei mesi mi sono ritirata. Mio padre disse: “Ah, non sei
voluta andare? Allora non andrai da nessun’altra parte”.
«Dopo un po’, verso settembre, passano per il paese alcune insegnanti che
tenevano dei corsi professionali ad Avellino, all’Istituto Guido Dorso. Erano
corsi di cucitura industriale, di confezionista in serie e di confezionista in
pelle. Con un anno di scuola avevi già un attestato di qualifica e potevi
cercare lavoro. La scuola prevedeva dei laboratori, non era solo teoria. C’era
la pratica, come in una piccola industria. Mio padre non voleva che andassi, poi
mia madre lo convinse. Era tutto gratis, anche l’abbonamento dell’autobus ci
pagavano. Non dovevamo comprare nemmeno la penna e la matita, ci forniva tutto
l’Istituto. In questa scuola ho scoperto di avere la passione per la cucitura
industriale. A fine anno davano un premio di 15 mila lire alla più brava. Io lo
prendevo sempre perché avevo questa qualità nascosta di cui non sapevo. Le
macchine erano quelle industriali, non la solita macchina per cucire della
Singer che tenevamo tutti in casa. Dopo il primo anno conseguivi un attestato,
dopo il secondo il diploma di perfezionamento come confezionista in serie. Io ho
fatto due anni di perfezionamento. Dopo c’era anche il corso di perfezionamento
per cucire la pelle, perché la pelle ha un procedimento diverso dalla stoffa, e
ho fatto anche quello. Dopo questo corso mi iscrissi anche a quello di maglieria
industriale, però venne il terremoto del 1980 e non ho potuto frequentarlo.
«Il ricordo che ho di quegli anni è di tanta spensieratezza. Non si temeva il
futuro perché non lo si conosceva. Non avevi i mezzi che si hanno oggi per
capire tutto quello che accade intorno a te. Il paese distava venti chilometri
da Avellino, ma era come se fosse oltreoceano. In città si andava solo per
necessità. La città l’ho frequentata poi durante gli anni della scuola. I miei
fratelli, invece, hanno deciso di non studiare e sono emigrati: Germania,
Svizzera, Firenze. Non c’erano soldi, però non si moriva di fame. Allora era
quella la priorità: non morire di fame.
«Dopo il terremoto siamo stati un anno nella roulotte. Ho perso tante amiche a
causa del terremoto. Il mio paese, che non era grande, ha avuto ottantaquattro
morti. In rapporto alla popolazione residente è stato uno dei primi per numero
di morti. Nel paese c’era il campo sportivo e lì avevano allestito un campo di
sfollati. Noi invece, con altre due o tre famiglie, stavamo presso un cugino che
aveva uno spazio davanti casa dove ci faceva appoggiare le roulotte.
«Dopo la roulotte siamo andati nei prefabbricati. Hanno fatto una task force per
trovare l’area e hanno creato duecentottanta prefabbricati in un anno. Tutti
quelli che abitavano in campagna e che avevano la casa inagibile a fianco dei
terreni si sono fatti fare la piazzola e ci hanno messo sopra questo
prefabbricato. Erano in legno, abbastanza confortevoli. Io mi ero fidanzata con
un ragazzo di un paese vicino al nostro e, considerando tutto quello che era
successo, abbiamo pensato di andarcene in Svizzera perché lì c’era mio fratello.
Poi però non siamo più partiti.
IL LAVORO NERO
«In quel periodo mi iscrivo all’ufficio di collocamento e inizio a lavorare in
una sartoria dove facevano i jeans. Dentro di me avevo già l’animo da
sindacalista perché creavo sempre problemi alla direzione, in modo coerente
ovviamente. Per esempio, la mattina arrivavo e dicevano: “Voi avete fatto un
minuto di ritardo”. Io dicevo: “Ok, allora metti un orologio in modo che tutti
quanti ci atteniamo a quell’orologio, perché tu mi puoi dire che ho fatto un
minuto, ma secondo me sono arrivata in orario ed è il tuo orologio che va
avanti”. Era un lavoro precario. Il proprietario diceva: “Portatemi il tesserino
– allora c’era il tesserino che si andava a timbrare –, che poi vi assicuro. Un
giorno mi venne da pensare, e quella fu la fortuna, che quello non ci aveva
assicurato. Allora non c’erano gli strumenti per verificare se era vero o no.
Quindi gli dissi: “Senti, tu mi devi dare il mio tesserino”. Lui rispose:
“Silvia, io ti ho assicurato”. Io dico: “Dammi il mio tesserino”. Lui a un certo
punto apre il cassetto e i tesserini stavano tutti là dentro. Non aveva
assicurato nessuno. Io mi prendo il tesserino e me ne vado. Non mi voleva pagare
nemmeno i quindici giorni che avevo lavorato. Eravamo tutti a nero. Non sono più
andata. Dopo di me molte ragazze fecero la stessa scelta e alla fine chiusero.
Erano venuti da Alessandria a impiantare la fabbrichetta lì in paese. In un ex
frantoio, che non aveva nemmeno il pavimento. C’era fame di lavoro e loro
potevano sfruttare la situazione. Eravamo diciassette operai, tutti a nero. I
padroni erano una madre con il figlio. Se ne tornarono ad Alessandria.
«Dopo questa esperienza, dall’ufficio di collocamento ci mandarono a Solofra, la
città dove fanno le pelli. Eravamo in quattro, tutte persone che avevano fatto
il corso con me. Sul nostro diploma c’era scritto che eravamo confezioniste in
pelle. Dovevamo raggiungere Atripalda e lì salire in un furgone completamente
chiuso e senza finestre. Non sapevamo la strada che faceva l’autista, e ci
portavano a Solofra. Questo ti fa capire quello che succede col caporalato oggi.
Il primo giorno ci fanno scendere all’uscita della galleria di Solofra, dove
c’era una fabbrichetta ben attrezzata per quei tempi. Dopo un po’ si avvicinano
e ci dicono: “Voi però adesso venite con noi da un’altra parte”. E così ci
portano in una campagna sperduta. Eravamo cinque ragazze, tutte dello stesso
paese. In questa campagna c’era una casa vecchissima e disabitata. In una stanza
c’erano dei telai di ferro dove sopra si mettevano le pelli, si stendevano, si
fissavano con delle pinze di ferro ed entravano in un forno dove venivano cotte
e diventavano bollenti. Quando uscivano dal forno i capi-operai non ti davano
nemmeno il tempo che le pelli si raffreddassero, dovevi prenderle a mani nude.
Io vedevo le ragazze e i ragazzi che lavoravano là che avevano le mani tutte
callose, piene di piaghe, lesionate dalle ustioni. I telai erano bollenti e non
ti potevi nemmeno avvicinare. Le pinze diventavano incandescenti, quando le
andavi a togliere dovevi essere veloce altrimenti ti scottavi. Prendevi la
pelle, la mettevi sopra le altre, ne mettevi un’altra, la stendevi e poi entrava
di nuovo nel forno. Questa era l’operazione che dovevi fare tutta la giornata.
Al terzo giorno me ne andai. Beccai il collocatore del paese e dissi: “Lì ci
mandi a tua moglie e tua figlia perché tu hai detto che noi saremmo andate a
cucire le pelli ma facciamo tutt’altro. Poi ci mettono come bestie in un furgone
la mattina per farci arrivare là”. Alla fine non ci pagarono nemmeno i tre
giorni di lavoro che avevamo fatto. Non c’era nessuna norma di sicurezza,
diciamo che allora non si parlava nemmeno di sicurezza…
OPERAIA A PRATOLA SERRA
«Insomma, lascio questo lavoro e resto comunque iscritta all’ufficio di
collocamento. Nel settembre del 1982 sposo il mio attuale marito perché la
nostra intenzione era quella di emigrare in Svizzera. Io però nel frattempo
facevo la sarta in casa: cucivo i vestiti per le amiche del paese, facevo gli
orli ai pantaloni, ecc. Stavamo preparando i documenti per andarcene, nel
frattempo ero rimasta incinta. A febbraio arriva una raccomandata in cui mi
chiedono di recarmi a Pratola Serra. Io non sapevo manco dove si trovasse
Pratola Serra. Il mio orizzonte finiva a San Mango sul Calore o al massimo ad
Avellino. Nella raccomandata c’era scritto di recarsi presso l’Arna (Alfa Romeo
Nissan Auto) come sarta. Io pensai che era un’altra di quelle jeanserie dove ero
stata. Ero al quinto mese di gravidanza, ma decisi di andare lo stesso. Quando
entrai nella fabbrica la persona che ci faceva il colloquio mi chiese a che mese
di gravidanza fossi e io risposi al quinto. Dopo abbiamo scoperto che quando
l’azienda aveva fatto richiesta di personale specializzato all’ufficio di
collocamento e avevano scoperto che erano tutte donne ci rimasero male perché
non volevano assumere le donne. Ecco perché lì il sindacato ha fatto
un’operazione giusta a quell’epoca, perché era una discriminazione non far
entrare le donne. Quindi loro ci hanno chiamato, però si aspettavano che non
superassimo il colloquio, in modo da poterci mandare a casa senza problemi. La
prova era di dodici giorni. Faccio questo colloquio e non arriva più nessuna
notizia. Passano quasi due mesi, poi all’improvviso, era il venerdì santo, mi
arriva il telegramma. Era il primo aprile 1983. Il telegramma diceva che mi
dovevo presentare il 5 aprile allo stabilimento di Pratola Serra. Pensavo fosse
un pesce d’aprile. Il 5 aprile vado e faccio la prova. Per non creare intralcio
alla produzione ci facevano fare il turno di prova dalle quindici alle ventitré.
Mio marito mi accompagnava e mi veniva a prendere. Avevano creato un indotto
dell’Alfa Romeo di Pomigliano qui a Pratola Serra dove avremmo dovuto cucire i
rivestimenti dei sedili delle auto. C’era un gruppo di sellatori che
confezionava il sedile. Noi cucivamo i sedili, che venivano poi tappezzati da
questi lavoratori. Poi c’era un altro macchinario che tagliava i pannelli,
quelli che vanno dentro lo sportello, e un capannone a fianco che era di
saldatura perché lì facevano anche il telaio dell’Arna Alfa Romeo. C’erano già i
robot, due robot per essere precisa. Ci ritrovammo a fare questi colloqui tutti
noi ragazzi che eravamo usciti da quella scuola finanziata dalla Regione, perché
all’ufficio di collocamento risultavamo come sarti-cucitori.
«Il secondo giorno andiamo in aula dove ci viene fatta una specie di formazione.
Dopo le diciassette ci portano in reparto per andare a provare la cucitura.
C’erano alcuni che erano venuti come formatori da Pomigliano perché quelle
lavorazioni, prima di esternalizzarle a Pratola Serra, le facevano lì. Io avevo
un pancione enorme e stavo seduta alla macchina per cucire. Il pedale era
elettrico. I formatori erano tutti premurosi e venivano vicino a dirmi “non ti
devi preoccupare, devi stare tranquilla, pensa che devi partorire, deve nascere
un bambino, non devi avere ansia”. Era una sorta di strategia per prepararmi al
fatto che non mi avrebbero assunta, perché sarei andata in maternità poco dopo
la prova. Nel frattempo iniziamo queste prove. La macchina era formata dagli
schienali, poi il sedile, i poggiatesta e il sedile posteriore. Tu dovevi cucire
tutti questi pezzi, assemblarli e inserire il cordoncino delle cuciture. Io sono
stata l’unica a terminare la produzione. Questo creava un problema all’azienda.
In pratica erano costretti ad assumermi perché se non l’avessero fatto avrei
potuto rivalermi sul fatto che la prova l’avevo superata. Dopo l’assunzione i
formatori mi dissero: “Lei signora è stato il più grande problema che ci è mai
capitato perché era brava però allo stesso tempo non avrebbe potuto lavorare
perché prossima alla maternità. Però ci siamo assunti la responsabilità di
assumerla”. Infatti, finiamo i dodici giorni di prova e alle sette di sera ci
portano in una saletta. Eravamo ventuno persone. Iniziano a chiamare tre ragazze
e dicono loro di andare all’ufficio retribuzioni per riscuotere l’assegno perché
la prova non l’avevano superata. Io avevo il cuore in gola, pensavo “chiameranno
anche me”. Alla fine non mi chiamano e così vengo assunta. Dopo l’assunzione
dovevamo fare cinque mesi di formazione in un altro capannone vicino al casello
dell’autostrada di Avellino Est. Andai solo per i primi due giorni perché poi
cominciò la maternità.
«Appena rientrata dai cinque mesi di maternità sono riuscita subito a fare la
produzione che facevano gli altri operai perché avevo l’esperienza. Infatti il
terzo livello me l’hanno dato dopo otto mesi, una delle poche che l’ha preso
velocemente, e poi l’ho tenuto per tutta la vita. Noi siamo state assunte come
operaie specializzate perché la cucitura era un’attività ad alta
specializzazione. Il primo impatto con la fabbrica non è stato traumatico perché
l’Alfa Romeo Nissan era parastatale e avevamo tutti i diritti. Diritti che
nessuno di noi aveva mai avuto prima. Io ho trovato tutto già fatto perché
qualcuno ha fatto le battaglie prima di me. Avevo molta flessibilità, facevo due
ore di allattamento e solo sei di lavoro. Poi avevamo la mensa, lo spogliatoio,
i camici. Avere tutti i diritti quarantadue anni fa per noi rappresentava un
privilegio. Il lavoro non era pesante. All’inizio dovevi imparare a fare il
rivestimento completo della macchina. Ognuno di noi doveva rivestire quattro
vetture al giorno. Successivamente il lavoro è diventato a catena: c’era chi
assemblava, chi inseriva il cordoncino, ecc. Le macchine per cucire avevano
duemilacinquecento giri al minuto.
«Lo stabilimento dell’Arna nasce nel 1982 per esternalizzare alcune attività
svolte all’Alfa Romeo di Pomigliano. Prima della chiusura contava 680
dipendenti. Dopo tre anni l’Arna fallisce perché la macchina non ha mercato e
quindi inizia il periodo di cassa integrazione. Allora presidente dell’Iri era
Romano Prodi. Dopo il fallimento ci fu una manifestazione di interesse per
l’Alfa Romeo da parte della Ford, ma le venne preferita la Fiat, che subentrò
nella proprietà nel 1986. Nel 1987, durante la cassa integrazione, nacque il mio
secondo figlio. Con l’acquisizione dello stabilimento da parte di Fiat la nostra
azienda prese il nome di Somepra. Continuavamo a fare le stesse produzioni, però
anche per altri marchi del gruppo: non solo vetture Alfa Romeo, ma anche Lancia,
Fiat, ecc. Dopo due anni, nel 1990, hanno aperto un altro periodo di cassa
integrazione perché l’azienda aveva intenzione di ristrutturare lo stabilimento
per avviare lì la produzione di motori. Più tardi lì nascerà la Fiat di Pratola
Serra. Promettevano duemila posti di lavoro. Durante la ristrutturazione
iniziarono a chiamare ognuno di noi ad Avellino dicendo che il lavoro alla
Somepra non c’era, che l’azienda stava per chiudere e dovevamo andare a
Pomigliano. Avrebbero potuto assumerci tutti nella fabbrica per la produzione di
motori a Pratola Serra, ma nessun operaio dell’ex Arna è stato assunto in quella
fabbrica. La verità è che non volevano lavoratori già sindacalizzati che
avrebbero potuto coinvolgere i nuovi assunti. Hanno preferito licenziare noi e
fare nuove assunzioni. Ancora oggi quella fabbrica fa fatica se deve fare uno
sciopero, gli operai non partecipano.
«Nel 1988, quando io sono in cassa integrazione, chiude anche l’Isochimica di
Avellino dove lavorava mio marito. Per fortuna, a oggi ha solo le fibre nel
liquido dei polmoni, non ci sono placche. Mentre ci sono duecentocinquanta
operai ammalati e una trentina sono già morti per mesotelioma pleurico. Dopo una
lunga battaglia a mio marito non gli hanno riconosciuto nulla. Il
prepensionamento non gli è stato riconosciuto perché non ha le placche, non è
malato per loro. A gennaio compirà sessantasei anni.
«Insomma, alla fine degli anni Ottanta ci troviamo in una situazione di grande
difficoltà perché l’Isochimica chiude e gli operai non vengono pagati. Io, a
differenza di mio marito, riesco almeno a percepire la cassa integrazione.
Quando mi propongono il trasferimento a Pomigliano cerco di temporeggiare per
altri due anni. Dopo un po’ mi propongono di andare alla Denso di Pianodardine,
ma non accetto perché pensavo che la nostra fabbrica ripartisse in qualche modo.
Nel 1992 mi mandano a chiamare e mi dicono che mi devo presentare a Pomigliano
per andare a firmare il contratto. Io non ci vado. Loro che fanno? Mandano un
addetto di Pomigliano all’ufficio postale del mio paese a consegnare una
raccomandata. Quello dell’ufficio postale mi chiama. Era il 3 febbraio. Il 5
terminava la cassa integrazione e io sarei stata licenziata. Allora penso “ma se
questi sanno che mi possono licenziare, perché si sono preoccupati di mandarmi
questo signore all’ufficio postale facendomi chiamare a casa per firmare la
raccomandata?”. Quando arrivo all’ufficio postale noto un’Alfa 33 targata Napoli
e una persona appoggiata alla porta. Era quasi l’una e in un paese piccolo come
il mio a quell’ora non c’è più nessuno in giro. Poi conoscevo tutti e sapevo che
questa persona ferma lì non era del posto. In pratica, quest’uomo aspettava che
io andassi dentro a firmare per poi prendere la ricevuta e portarla in Fiat a
Pomigliano. Io entro e leggo la lettera. Vado al sindacato, ma non mi sanno dare
risposte. Mi dicono che mi conviene accettare il trasferimento a Pomigliano
altrimenti mi avrebbero licenziata. Non era vero, perché i cinque che non
accettarono furono poi mandati alla Denso, vicino casa. Il 4 febbraio, di
mattina, dopo una notte passata al pronto soccorso perché mio figlio si era
fatto male, io e mio marito andiamo a Pomigliano con la mia 126 e consegno la
lettera. Loro mi fanno firmare e mi dicono che il 5 febbraio, giorno del mio
compleanno, avrei dovuto prendere servizio dalle otto alle diciassette per fare
la formazione. Da quel giorno ho iniziato a lavorare come operaia allo
stabilimento Fiat di Pomiglianod’Arco». (intervista di giuseppe d’onofrio –
continua…)