(disegno di otarebill)
È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in
provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti
sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente
della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e
infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in
Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli
di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o
niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh
a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a
incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si
recavano o tornavano dal lavoro.
Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in
provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa
un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è
impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e
nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di
origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni
di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure
semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state
lasciate sole, senza alcun supporto.
Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal
quotidiano La Città di Salerno:
“Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto
da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia
in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre,
guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo
Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di
effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano
presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della
ditta che non è indagato”.
Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la
mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per
svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che
raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a
Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della
vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già
in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato
ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare
se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista
per evitare incidenti.
Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato
senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono
informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una
moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato
nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato
e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno.
Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio
dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un
tecnico di parte, o se ne siano stati informati.
In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto
colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si
conosce il nome della vittima né altri dettagli.
Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina
(paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza
vita in circostanze “misteriose”:
“Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si
infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore,
a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di
Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire
cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti:
omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo
mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli
amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”.
A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei
risultati dell’autopsia e delle indagini.
Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini
indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea.
I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene
riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale
televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno
Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di
Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di
dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in
Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno
nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo
qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in
Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano
pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da
nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un
lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in
provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a
causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”.
L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder,
quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi
della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso
la pala meccanica del mezzo agricolo.
Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da
testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei
campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e
stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e
qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari
sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni
dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La
famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede
un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è
avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I
parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”.
“Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto
Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il
lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un
po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato
di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha
inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma
di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore
punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha
riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo
datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”.
Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne
scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene
proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie
delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e
periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana.
I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze
dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i
racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è
possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali
organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di
queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare
superficiale.
Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano,
nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare
dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in
appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel
salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è
necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui
territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo
sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
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(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di dalila amendola)
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto
della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e
quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più
approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti
a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo
contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha
conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti,
la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che
tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in
virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo
– gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi
provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si
chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e
desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha
minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un
questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno
concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali,
dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le
loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato
il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono
dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai
metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce
avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa
una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno
identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via
Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o
no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero
accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero
lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno
passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani
accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di
pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono
invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via
crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo
indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi
un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e
scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto
alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si
standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili
basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i
gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro
imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si
stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il
prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al
di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse
le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi,
non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di
qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole
rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non
conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano
negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un
protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai
clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in
gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato,
saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare
in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta
proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa
generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura
dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente
integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità
operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere
Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella
storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo
testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della
mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e
soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E
quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere
rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono
proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e
si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito,
ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il
plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza
dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un
rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno
violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno
violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è
una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e
ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non
uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali
sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o
crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il
più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una
psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al
centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo
importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per
l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro
il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi
pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena
dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che
del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali
di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti,
negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché
abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che
qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione
del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e
concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti
della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o
ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale
attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i
sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle
contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la
dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il
Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando
cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro,
sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che
agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo,
perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie,
brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come
qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse.
Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento
produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici –
quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi
mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i
metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso
ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la
procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in
mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un
qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno
cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia”
si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da
mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine
di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e
ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato.
A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha
reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei
binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità
e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di
cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che
si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta
paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile,
non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo
stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno,
specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana
costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36
della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un
tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza
privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e
degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la
maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di
cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato
neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni
cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente
collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e
incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i
benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non
regge più? (giovanni iozzoli)
DUE GIORNI DI SCIOPERO CONTRO IL LAVORO POVERO - LAVORATOR3 BOA SENZA DIMORA
Torino -
(lunedì, 26 maggio 09:30)
BASTA LAVORO POVERO NEL SOCIALE: 2 GIORNI DI SCIOPERO
LAVORATOR3 VALDOCCO SERVIZIO BOA PER SENZA DIMORA
Siamo un gruppo di lavoratorə della Cooperativa Valdocco del servizio Boa per
persone senza dimora. Il mandato della BOA è agganciare le persone che vivono in
strada ai servizi comunali e privati della città e offrire loro supporto
materiale ed emotivo. Ciò è possibile grazie alla costruzione di relazioni
significative che vanno ad evolversi nel corso di mesi/anni. Nonostante il
nostro sia considerato un servizio di bassa soglia, nei fatti ci troviamo ad
affrontare questioni e relazioni riguardanti la progettualità di vita della
persona in diversi ambiti.
Vogliamo il riconoscimento del nostro operato che va oltre il mero
assistenzialismo materiale. Le nostre condizioni contrattuali e lavorative sono
inaccettabili, i nostri inquadramenti contrattuali non corrispondono affatto
alle mansioni richieste e alle competenze messe in campo da tuttə noi
quotidianamente; inoltre siamo costantemente espostə, senza tutele, a rischi di
ogni tipo (biologico, violenza verbale e/o fisica) spesso sottostimati. I nostri
stessi stipendi rientrano nella bassa soglia.
Per questo motivo abbiamo deciso di sindacalizzarci e mobilitarci. Con il
sindacato “CUB sanità” abbiamo aperto una vertenza con la cooperativa, da cui
ancora non abbiamo ricevuto risposte.
Le nostre rivendicazioni:
1. Aumenti salariali, adeguamento del livello contrattuale: vogliamo essere
pagatə per il lavoro che effettivamente svolgiamo, il nostro salario è sotto la
soglia di povertà. Siamo lavoratorə poverə, chiediamo quindi il livello D1.
2. Pagamento ore supplementari: chiediamo che le ore in più svolte vengano
retribuite con le maggiorazioni previste dal CCNL.
3. Permessi studio: chiediamo che vengano pagate a tuttə le ore di permesso
studio retribuite, molte di noi sono infatti studentesse lavoratrici con estreme
difficoltà a conciliare studio e lavoro.
4. Diritti sindacali: riconoscimento del sindacato CUB, in quanto maggiormente
rappresentativo, e delle sue RSA elette dalle lavoratrici e relativi diritti
sindacali.
Molte di questi problemi inoltre non riguardano solo il nostro servizio o solo
la cooperativa Valdocco ma tantissimə altrə lavoratorə del sociale. La crescente
esternalizzazione dei servizi ha fatto sì che la qualità dei servizi e le
condizioni di lavoro siano sempre più basse, con conseguenze sia per chi lavora
nel sociale sia per chi dovrebbe usufruire dei servizi, che sono sempre meno
accessibili.
Per questo il 26 e 27 maggio scioperiamo!
26/5 h. 15 Presidio all’assessorato alle politiche sociali, via Carlo Ignazio
Giulio 22
27/5 h. 9.30 ritrovo per lo sciopero indetto dalla CUB Sanità in Piazza Bengasi
27/5 h. 18.30 Assemblea pubblica sul lavoro sociale al Cecchi point.
A seguire apericena up to you per costruire una cassa di resistenza.
Per contribuire alla cassa mutua dell3 lavorator3:
* post IG: https://www.instagram.com/p/DJ_2g52soPn/?igsh=MW9hejlyNmY0eWZlbw==
* raccolta fondi Satispay:
https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN--F7C14417-0E2A-48FC-9F97-BEF728635086?locale=it_IT
* crowdfunding su produzioni dal basso: sostieni.link/38202
* puntata in radio:
https://radioblackout.org/podcast/frittura-mistaradio-fabbrica-20-05-2025/
(disegno di blu)
«Tanti tra noi sono nati e vivono in questo quartiere. Ne conosciamo bene le
problematiche». A parlare è Antonio Silione, del movimento Disoccupati 7
Novembre e del Comitato San Gennaro. «Abbiamo voluto che il corteo del primo
maggio partisse dal rione Sanità per dei motivi concreti: qui di fronte si trova
l’ospedale San Gennaro, un presidio che offriva servizi sanitari essenziali a
decine di migliaia di abitanti della zona, chiuso nel 2017. A pochi passi c’è
anche il parco San Gennaro: circa sei ettari di foresta mediterranea,
inaccessibile da anni. Tutto questo in un quartiere storicamente popolare, oggi
invaso da turisti e b&b, l’unico modello di “lavoro” su cui si punta».
Numerosi anche quest’anno sono stati gli appuntamenti promossi da collettivi,
movimenti e sindacati in occasione del primo maggio a Napoli. Il primo è stato
il corteo partito intorno alle dieci dall’ospedale del popolare quartiere del
centro. La scelta di far partire il corteo dalla Sanità è legata alla necessità
di attraversare luoghi dove l’impatto della mancanza di lavoro e di servizi si
sente maggiormente, elemento che lega tra loro la moltitudine di istanze
differenti che hanno caratterizzato questo corteo. La composizione infatti era
piuttosto eterogenea: disoccupate e disoccupati del Movimento 7 Novembre,
lavoratrici e lavoratori di diversi settori – dalla logistica ai servizi – per
lo più aderenti al sindacato Si Cobas, insieme a numerosi collettivi
studenteschi. Presenti anche gruppi solidali con la resistenza del popolo
palestinese, la rete Liberi/e di lottare contro guerra e decreto sicurezza, i
comitati per l’ospedale e il parco San Gennaro, i lavoratori precari della
ricerca accademica, che hanno promosso una giornata di sciopero nazionale
prevista per il 12 maggio.
Il corteo ha raccolto circa cinquecento persone, mettendo in connessione le
differenti questioni: dalle istanze legate al mondo del lavoro – disoccupazione,
sfruttamento, precarietà, lavoro nero, morti bianche – a quelle contro riarmo,
guerra e repressione, fino alla riappropriazione dello spazio urbano e la
necessità di interventi decisi contro caro-vita e caro-affitti.
Per alcune ore ha sfilato tra le strade del quartiere, tra interventi al
megafono e cori. La manifestazione si è conclusa in vico Arena alla Sanità, dove
all’interno di un edificio utilizzato fino a qualche anno fa dall’azienda
cittadina per la raccolta dei rifiuti vi è oggi la sede del movimento dei
disoccupati organizzati. Al corteo non hanno potuto partecipare alcuni attivisti
del centro culturale Handala Ali, che fin dalle prime ore del mattino si erano
recati al Vomero, per esporre uno striscione sulla terrazza di Castel Sant’Elmo
con la scritta “Libertà per Anan”, in riferimento alla detenzione nel carcere di
Terni di Anan Yaeesh, cittadino palestinese residente da anni in Italia, e
arrestato su esplicita richiesta del governo israeliano. Le forze dell’ordine
hanno fatto a lungo pressione su attiviste e attivisti, i quali solo dopo alcune
ore sono riusciti a compiere l’azione.
Un secondo corteo è partito nel pomeriggio, alle quattro, da piazza San Domenico
Maggiore, dietro uno striscione contro sfruttamento e precarietà lavorativa. Il
corteo era organizzato da Potere al Popolo, dagli attivisti dell’ex Opg e del
Movimento migranti e rifugiati, dal sindacato di base Usb e dalla Rete dei
comunisti. La “passeggiata rumorosa” rivendicava esplicitamente come obiettivo
un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, una maggiore sicurezza sul
lavoro e la riduzione del numero di ore quotidiane, tutele e investimenti nel
welfare anziché nella guerra.
Il corteo ha attraversato Spaccanapoli, via San Sebastiano, i Tribunali, San
Gregorio Armeno, arrestandosi in più punti per permettere ai partecipanti di
ribattezzare le strade con fogli che portano i nomi di chi è morto sul lavoro:
Yassin Boussena, per esempio, ragazzo di soli diciassette anni che ha perso la
vita mentre lavorava in un’azienda di smaltimento del legno; Patrizio Spasiano,
diciannovenne, tirocinante morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è
riuscito a mettersi in salvo, perché si trovava sopra un’impalcatura; Nicolò
Giacolone, trentaduenne travolto da un autogru; Luana D’Orazio, operaia tessile
di ventidue anni, stritolata da un macchinario a Montemurlo. I loro nomi sono
stati affissi proprio nei tratti più affollati dal passeggio turistico, tra
pizzerie, trattorie e insegne colorate, sottolineando che in molti casi i
procedimenti giudiziari nei confronti degli imprenditori e delle aziende
responsabili per questo genere di decessi, non trovano seguito adeguato.
In momenti come questi, fa effetto guardare la città che osserva. Dai bar ancora
aperti i lavoratori spesso si affacciavano verso il corteo: qualcuno in
silenzio, altri facendo un cenno d’intesa. Alcuni turisti scattavano foto,
incuriositi, mentre i manifestanti gridavano che “il turismo non ci piace se ci
toglie via le case”. Parecchi tra gli ambulanti, applaudivano intanto dalle loro
bancarelle.
Il corteo si è ricomposto dopo qualche ora a piazza San Domenico, dove la
protesta si è chiusa con la lettura di alcune testimonianze scritte: lavoratori
e lavoratrici impiegati per “giorni di prova” mai retribuiti, altre licenziate
dopo anni di servizio perché incinte… Sono queste voci a chiudere una giornata
che, in una città trasformata in vetrina, ha voluto ridare visibilità a chi
lavora troppo, guadagna poco e muore dimenticato. (serena bruno e flora
molettieri)
(disegno di sam3)
Con tutti i suoi difetti, il tobleronico edificio della Fondazione Feltrinelli a
Milano è un posto perfetto dove far partire un corteo. L’algida piazza davanti
all’ingresso sembra fatta apposta per essere invasa da scarpe da ginnastica,
bandiere, striscioni, fumogeni e da una playlist, dai Lunapop ai Depeche Mode,
che esce da una cassa tirata da una bicicletta. Sulle vetrate della Fondazione,
pulitissime come sempre, si riflettono le figure dei manifestanti che arrivano
alla spicciolata, mentre la citazione di Ferruccio Parri a lettere cubitali
sulla facciata – È IN GIOCO L’AVVENIRE – si presta ad automatici détournement. I
sindacati di librai e libraie Feltrinelli (Filcams Cgil, Fisascat Cisl e
Uiltucs) hanno convocato il concentramento per il corteo qui il 17 marzo perché
contemporaneamente era prevista una convention di due giorni per i settant’anni
dell’editore. Convention poi ridotta a un giorno solo, il 18. La mattina di sole
dopo tanti giorni di pioggia sembra confermare che è comunque il giorno giusto
per scioperare.
Nelle centoventi librerie del gruppo sparse per l’Italia si sciopera per il
rinnovo del contratto integrativo aziendale, le questioni in ballo sono:
abolizione del salario d’ingresso per i neoassunti, chiarezza sui premi di
risultato e aumento di 1,5 euro dei buoni pasto, oggi fermi a 6 euro. A quanto
pare l’azienda ha abbandonato la trattativa proprio su quest’ultima questione,
vorrebbe spalmare l’aumento su tre anni, mentre per i sindacati deve avvenire
entro un anno. Dalle interviste raccolte da Radio Onda d’Urto è chiaro che
librai e libraie non scioperano solo per anticipare l’arrivo di un buono da 7
euro e cinquanta con cui, non solo a Milano, serve una certa creatività per
mettere insieme un pasto degno di questo nome. Il conflitto ha a che fare con il
progressivo svilimento del lavoro, con i tanti anni di contratti di solidarietà
e cassa integrazione e con la speculare narrazione trionfalistica con cui
vengono raccontati i successi aziendali – uno stile sopra le righe anche per gli
standard del settore culturale che, si vocifera da qualche anno, potrebbe essere
il preludio di un corposo riassetto della proprietà.
Al di là della retorica, il gruppo Feltrinelli appare in buona salute – nel 2023
i ricavi hanno raggiunto i 510 milioni e il margine operativo lordo è aumentato
del dieci per cento –, un momento ideale per ottenere miglioramenti del
contratto, ma l’adesione allo sciopero non è scontata: sia nelle interviste in
radio che nelle chiacchiere in piazza è chiaro che per molti lo sciopero è una
novità e, soprattutto, che buona parte di chi lavora in Feltrinelli ha scelto di
farlo per un’adesione al progetto culturale, oggi brand, che da settant’anni è
schierato “a sinistra”. Una componente vocazionale – che si traduce in una
maggiore capacità di sopportare condizioni di lavoro peggiori, a parità di
salario, per un lavoro che “piace” – che riguarda molti altri che lavorano in
ambiti culturali e creativi. Forse è per questo che quando ho letto per la prima
volta la frase che chiude il volantino distribuito nei giorni prima del corteo
ho pensato che non si rivolgesse solo a librai e libraie Feltrinelli: “Leggere
insegna a leggere. Scioperare insegna a scioperare”. Si rivolgeva anche a noi.
Faccio parte del contingente di freelance editoriali di Redacta che accompagna
il corteo, in solidarietà con chi sciopera. Negli anni abbiamo organizzato
eventi e firmato petizioni per i lavoratori della stampa, in particolare Grafica
Veneta, e per quelli della logistica, sia quelli del gigantesco magazzino
editoriale di Stradella (Pavia) – dove la joint venture Feltrinelli-Messaggerie
stocca e distribuisce la maggior parte dei libri italiani –, sia quelli della
Gls di Napoli. La solidarietà non è mai scontata, ma può essere anche facile, un
post sui social e poco più. Per questo preferiamo gli incontri. Tre anni fa
abbiamo organizzato un confronto in uno storico spazio anarchico milanese con
alcuni di quelli che oggi scioperano. Alcuni di loro tre anni fa non lavoravano
in libreria, erano freelance. Aspettando la partenza del corteo ci facciamo due
chiacchiere: qualcuno ha fatto per anni da
“consulente” con scrivania, con orario di lavoro, ma senza contratto per una
casa editrice indipendente, qualcun altro ha migliaia di euro di crediti da una
scuola di editoria che, mentre i founder riempiono il proprio feed Instragram di
viaggi ai tropici, ha smesso di pagare i fornitori. C’è il ragazzo con il record
di stage e la ragazza che ci racconta la volta che, da collaboratrice esterna di
un’altra casa editrice con brand progressista, ha contrattato il proprio indegno
compenso e si è vista proporre un magnanimo aumento di venti centesimi a pagina.
Tutte persone con lauree e master che hanno abbandonato il lavoro freelance e
sono finite a vendere libri in Feltrinelli. Alcune hanno ottenuto il tempo
indeterminato, altre no: partecipano allo sciopero da clandestine, nel giorno di
riposo. Le riconosci perché si sfilano opportunamente dalle foto. È la prima
volta che hanno occasione di scioperare nella loro carriera editoriale e non se
la sono fatta sfuggire.
Alle 11 abbiamo assorbito abbastanza radiazioni solari e partiamo per il breve
percorso che prevede una tappa a Casa Feltrinelli, nuova sede della casa
editrice e di altri uffici del gruppo, per concludersi sul cavalcavia Bussa,
tozzo e grigio asfalto, da cui si vede buona parte dei grattacieli spuntati
negli ultimi quindici anni a Milano. Feltrinelli ha anche un prestigioso
patrimonio immobiliare, non solo tobleroni.
Alla partenza del corteo, con le bandiere che sventolano e i fumogeni che ci
avvolgono, ci scambiamo un’occhiata perplessa: il fatto che dopo sei anni di
Redacta non abbiamo ancora uno striscione, o almeno una bandierina, può essere
spiegato con le particolarità sociologiche e organizzative del lavoro freelance,
sì, ma rimane un peccato. La nostra borsina di tela con lo slogan “Belli i
libri, ma la vita di più” fa comunque la sua discreta figura.
L’impasse viene superata grazie a una signora che distribuisce bandiere della
Cgil, ci vede con le mani libere e ce ne porge una, la afferriamo con una certa
convinzione e ci mettiamo a sventolare verso la sede della casa editrice. Dalle
finestre dell’ultimo piano alcuni impiegati si sbracciano per salutare, non sono
coinvolti direttamente nello sciopero perché sono inquadrati con un altro
contratto integrativo. Altri aspettano in strada e si uniscono ai cori che
partono dal corteo. Passano diversi minuti così, con canti, fumogeni, bandiere e
gruppetti che chiacchierano da una parte, un palazzo tirato a lucido che si
svuota pian piano di persone dall’altra.
Alla fine le adesioni allo sciopero in tutta Italia hanno avuto percentuali
molto alte, secondo i sindacati tra l’ottanta e il novanta per cento, un
successo. Lo scopriremo solo qualche ora dopo. Tra i parcheggi del cavalcavia
Bussa ascoltiamo una delegata che legge una lettera di solidarietà dei
lavoratori dell’Ikea, molto bella, e poi invita tutti a pranzare insieme nei
dintorni. Noi abbiamo già ricominciato a guardare la mail, rispondiamo a
caporedattrici e autori scombussolati dalla nostra assenza di risposte dalle 10
alle 12 di lunedì mattina: il file deve andare in stampa oggi pomeriggio, puoi
ricontrollare le testatine? E queste ultime correzioni alla bibliografia, le
puoi inserire? E questo titolo, ti convince?
Eravamo così concentrati sullo sciopero che non ci siamo accorti di aver smesso
di lavorare. (mattia cavani)
Dalla Germania a Torino, capitale dell’automotive italiano, sta diventando
realtà la massiccia riconversione al militare delle fabbriche che producevano
auto, carrozzeria, componentistica – e insieme a loro dell’enorme galassia
dell’indotto. Le grandi fabbriche dell’automotive tedesche sono già entrate da
anni in una irreversibile crisi di produzione, con effetti sociali “collaterali”
devastanti (come gli oltre 30 […]
(disegno di elena mistrello)
L’offensiva antisindacale di Montblanc fa un buco nell’acqua. La società voleva
ottenere dal tribunale l’ordine per il sindacato Sudd Cobas di “astenersi
dall’organizzare, promuovere e/o svolgere manifestazioni nei confronti di
Montblanc Italia S.r.l. a distanza inferiore a 500 metri dalle vetrine della
boutique sita in via Tornabuoni”. Una proposta senza precedenti, che minaccia le
fondamenta della libertà sindacale e di manifestazione, nel solco della
direzione tracciata dal ddl 1660. Sebbene ritirato, il ricorso costituisce un
pericoloso precedente e un interessante spunto di riflessione. Il sindacato e
un’ampia comunità solidale non hanno mancato di rispondere pubblicamente, con
una assemblea pubblica molto partecipata domenica 2 febbraio a Firenze e la
diffusione di un appello di solidarietà internazionale.
COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO
Facciamo un passo indietro e proviamo a riepilogare i fatti che hanno portato
alla situazione attuale. Prima di tutto occorre chiarire cosa vuol dire parlare
di “operai Montblanc”: secondo un meccanismo rodato e ampiamente diffuso, i
grandi marchi non producono direttamente le proprie merci, o lo fanno solamente
in minima parte, commissionando ad altri il grosso della produzione e
alimentando filiere lunghe e torbide. Nel caso di Montblanc, il brand
commissiona le proprie borse alla Pelletteria Richemont Firenze, una società
detenuta dal Gruppo Richemont, l’holding finanziaria cui appartiene anche
Montblanc stessa. La distinzione tra le due aziende è quindi formale, tanto che
la stella simbolo del marchio è ben visibile sull’edificio di Pelletteria
Richemont. La produzione vera e propria, tuttavia, veniva sub-commissionata a
un’altra azienda, la Z Production, la quale aveva a sua volta un sub-fornitore,
Eurotaglio (azienda in realtà solo formalmente distinta da Z Production,
operante nello stesso stabile e con lo stesso capo). Erano gli operai di queste
ultime due aziende a lavorare le borse di Montblanc, costretti a turni di dodici
ore al giorno, sei giorni a settimana, per pochi euro l’ora.
Fin qui, per quanto si intuisca la ricerca del massimo profitto da parte di
Montblanc attraverso un sistema di appalti che massimizza il plusvalore assoluto
prodotto dai lavoratori, qualcuno potrebbe ancora sostenere che l’azienda non
possa essere ritenuta responsabile per le condizioni di lavoro in queste
aziende. Occorre quindi far presente che (1) appare chiaro a chiunque che una
borsa pagata settanta euro, ma lavorata secondo alti standard qualitativi, deve
necessariamente implicare del lavoro sottopagato e che (2) un supervisore della
pelletteria Richemont visitava regolarmente Z Production ed Eurotaglio per
assicurare gli standard di produzione. Non si deve quindi immaginare, tra queste
aziende, il classico rapporto tra cliente e fornitore, ma una distorsione di
questo a favore del cliente che, grazie alle sue dimensioni spropositate, impone
a ditte in mono-committenza tempi, modi e prezzi di produzione.
Dopo quattro mesi dall’inizio del percorso di lotta, a febbraio 2023, gli operai
di Z Production ed Eurotaglio sono riusciti a ottenere il rispetto dei propri
diritti (quelli garantiti dalla legge italiana) e l’applicazione del contratto
nazionale. Il costo del prodotto per Montblanc è così passato da settanta a
cento euro al pezzo (il prezzo al pubblico di questi prodotti supera i mille
euro per borsa). Poche settimane dopo, la committenza comunica a Z Production
che, alla scadenza del contratto, non lo avrebbe rinnovato, condannando di fatto
i lavoratori alla perdita del proprio impiego. Gli operai però non mollano e
cambiano la propria strategia: anche l’idra ha un punto debole, se si ha
l’intelligenza e il coraggio di trovarlo.
Al grido di “Montblanc sfrutta, Montblanc scappa”, la lotta riprende,
dirigendosi direttamente contro il brand. La strategia diventa quella di colpire
ciò che veramente viene venduto dall’azienda: il marchio, l’immagine, l’aura del
lusso. I picchetti davanti al sontuoso negozio si susseguono e a settembre 2024
il Sudd Cobas lancia la campagna “Shame in Italy”, con l’obiettivo di fare luce
sulle ombre che si nascondono dietro le scintillanti vetrine del marchio. Il
coraggioso gruppo di operai arriva perfino a Ginevra per protestare sotto la
sede di Richemont, mentre in varie città d’Europa si attiva una giornata di
convergenza sotto i negozi Montblanc e in via Tornabuoni, nel cuore della
Firenze bene, gli operai montano le tende in mezzo alle vetrine di gioiellerie,
boutique e alberghi a cinque stelle. La stampa internazionale inizia a
interessarsi e Al Jazeera produce un documentario che conferma quanto sostenuto
dagli operai fin dall’inizio: Montblanc sa tutto.
IL PRIVILEGIO È UN DIRITTO, I DIRITTI UN PRIVILEGIO
Messo alle strette, il gruppo Richemont decide di reagire con forza e mostrare
ciò di cui è capace un colosso finanziario da venti miliardi di euro di
fatturato. Facendo appello al tribunale civile di Firenze, Montblanc costruisce
un ricorso con cui chiede che sia impedito al sindacato di manifestare a meno di
cinquecento metri dal proprio negozio in via Tornabuoni, di fatto volendo
imporre le proprie prerogative su un’area che copre un terzo del centro storico
cittadino.
Se chi legge potrebbe essere stupito da una tale arroganza, forse non lo sarà
chi vive nel capoluogo toscano, ormai abituato alla gestione privatistica dello
spazio pubblico, vedasi piazza della Signoria affittata a Ferragamo per una
sfilata o Ponte Vecchio a Ferrari per una cena, solo per citare i due eventi più
eclatanti. Si aggiunga a questo che via Tornabuoni, insieme a diverse altre
decine di strade del centro storico, è “tutelata” da una norma che limita
l’apertura di nuove attività unicamente a quelle “di pregio”, come negozi di
antiquariato, design e gallerie d’arte. Se infine si considera la messa in
vendita di gran parte degli immobili di maggiore pregio in possesso del Comune,
il quadro che ne emerge è quello di una città che da anni, marcatamente
dall’amministrazione Renzi in poi, è espressione dell’organizzazione pubblica di
interessi privati.
L’estrazione di valore operata da privati che si appropriano di porzioni via via
crescenti della città, mostra però continuamente le sue contraddizioni. È così
che le folle di turisti devono essere disciplinate da ordinanze “anti-panino”
che impediscano loro di ungere le preziose pavimentazioni degli edifici storici,
e i fruitori della movida notturna devono essere controllati da guardie private
che li guidino nel consumo attraverso selve di ristoranti, bar e locali. E
sempre così si rende necessaria la smart control room che coordina le circa
1.700 telecamere cittadine, una ogni 230 abitanti (primato nazionale) e la
continua richiesta di nuovi agenti di polizia al governo.
La trasformazione dei quartieri, da espressione dei bisogni, dei conflitti e
degli espedienti di una comunità a luogo di produzione di valore, non è
indolore. Per produrre diventa necessario controllare tutte le espressioni non
coerenti con la ricerca costante di profitto, siano esse modalità di fruizione
dello spazio incentivate proprio dalla sua commercializzazione o l’espressione
di soggettività incompatibili con questo modello. Strumenti come il “daspo
urbano” e le “zone rosse” (sperimentate in modo fallimentare a Firenze a partire
dal 2019 e ora incentivate dal governo in tutte le maggiori città italiane) si
rendono così necessari a silenziare con la forza tutte le forme che non seguono
la strada prevista.
In questo contesto, dove il negozio in via Tornabuoni è parte fondamentale della
costruzione dell’immagine per la valorizzazione delle merci e, perciò, nodo in
cui può esprimersi la conflittualità operaia, non appare così incredibile che
Montblanc pretenda di difendersi ampliando la portata degli strumenti già
esistenti, per usarli contro il sindacato. Degna di nota risulta però la
modalità con cui avviene il tentativo da parte del brand: ricorrendo al
tribunale civile, infatti, esso non solo derubrica la questione a gestione
dell’ordine pubblico, anziché a conflitto tra parte datoriale e sindacale, ma
scavalca anche l’amministrazione cittadina. Quest’ultima, trasformata col
processo neoliberista in strumento dei privati, viene ritenuta evidentemente
obsoleta da chi si sente ormai in grado di governare da sé.
Fortunatamente, la mobilitazione attivata dal sindacato, a cui hanno fatto eco
le numerose realtà che lottano per un diverso futuro della città, stavolta è
stata in grado di bloccare sul nascere questo tentativo, evitando un pericoloso
precedente per tutto il territorio. Resta però la necessità di analizzare il
bivio di fronte a cui la comunità democratica si trova di fronte: il declivio
verso città amministrate direttamente dai privati, ormai liberi dalla maschera
della politica rappresentativa, o l’accidentato sentiero da percorrere per
portare in centro, al centro, le necessità di tutte quelle operaie e operai che
i padroni vorrebbero chini a lavorare. Che possa essere la convergenza tra lotte
sindacali e realtà territoriali a riaprire una strada che sembrava ormai
impraticabile? (cosimo barbagli, marco ravasio)
Mercoledì 19 gennaio alle 19 allo Spazio popolare Neruda ci sarà una riunione
del tavolo lavoro e reddito verso lo sciopero dell’8 marzo. Il tavolo lavoro e
reddito di Non Una di Meno è uno spazio per discutere di tutte le forme di
lavoro, anche quelle non riconosciute come il lavoro domestico e di cura, […]
(disegno di ottoeffe)
Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione
delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per
il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla
festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a
pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra.
Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia
metalmeccanica e sindacalista meridionale.
Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda.
Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre,
durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per
partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria
automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato
costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La
conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte
e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus.
Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato
delle città. Qui la prima parte dell’intervista.
NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO
«A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista
quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre
e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman
che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un
pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi
operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire
una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente
davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da
Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a
carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse
sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il
costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di
straordinario al giorno per il viaggio.
«I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per
strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo
rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia
nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della
mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti
a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci
fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa
mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus.
Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un
cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia.
«Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì
alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006.
Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato
un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi
accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi
dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti
passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per
andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto
tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si
muovesse. Per un periodo è stato sempre così.
«Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro
e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini
piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché
altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie
perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una
recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di
dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare.
Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché
ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento
e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno
imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro
già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché,
come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.
«In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei
diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando
siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non
ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio
Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di
Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi
informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non
partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più
di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il
lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero
capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la
busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus,
ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi
candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo.
«A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino
partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci.
Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che
si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo
fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea
di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo
sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo
uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho
subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto
un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare
i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più
pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui
e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre
eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo,
non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di
olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di
respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo
ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di
inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro.
La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio
quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un
lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano
pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul
banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi
portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena
andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di
resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per
farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli
scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove
leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia
determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove
stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare
una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine
pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle
cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo,
sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove
c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino
alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di
catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come
stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e
subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha
sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava.
«In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della
Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine
furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva
l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a
preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la
stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro
era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo
scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo
l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo
recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello
stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo
stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli
uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e
mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei
tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti
uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano,
sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante…
«L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel
colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori
avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel
colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo
usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi
vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e
gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono
costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto
e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a
Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva
la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in
pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della
mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero
di operai si è ridotto sempre di più.
«Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto
sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo
sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di
Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche
viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo.
Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano
pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di
responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che
stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la
sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.
L’ARRIVO ALLA IRISBUS
«Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a
trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci
erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas.
Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è
nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni.
In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea
e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole,
gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006
viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo
stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a
trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non
si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di
Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e
appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del
1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata
per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età
pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono
aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché
lavoro da una vita come metalmeccanica.
«All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era
trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine.
Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli
laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti
del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì
l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei
lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano.
Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il
Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando
stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi
perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto
e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici.
Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non
accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si
arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo
un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con
queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai.
Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla
fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno
arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre
operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi
trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro
l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione
lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la
facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel
ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano
dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma
a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno
un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi
dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro
pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega
e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un
giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto
contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non
riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo
solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi
potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei
così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal
capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice
“signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta
in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto
un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla
da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati
positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo
officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua
e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un
cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non
mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello
preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il
caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono
una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti
che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto
della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io.
“Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì
c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di
lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva
il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le
chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado…
«Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la
scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li
mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il
2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a
Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto
1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni,
dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando
arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai
senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la
tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di
fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata
nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io
non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo
dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per
farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur
non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno
sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata
sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò
in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)