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Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Seconda parte
(disegno di ottoeffe) Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra. Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia metalmeccanica e sindacalista meridionale. Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda. Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre, durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus. Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato delle città. Qui la prima parte dell’intervista.  NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO «A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di straordinario al giorno per il viaggio. «I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus. Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia. «Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006. Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si muovesse. Per un periodo è stato sempre così. «Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare. Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché, come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.  «In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus, ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo. «A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci. Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo, non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro. La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo, sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava. «In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano, sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante… «L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero di operai si è ridotto sempre di più. «Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo. Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.  L’ARRIVO ALLA IRISBUS «Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas. Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni. In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole, gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006 viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del 1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché lavoro da una vita come metalmeccanica. «All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine. Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano. Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici. Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai. Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice “signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io. “Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado… «Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il 2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto 1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni, dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)
January 10, 2025 / NapoliMONiTOR
Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Prima parte
(disegno di ottoeffe) Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra. Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia metalmeccanica e sindacalista meridionale. Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda. Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre, durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus. Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato delle città. LA FAMIGLIA, L’INFANZIA, LA GIOVINEZZA «Io sono nata a San Mango sul Calore, in provincia di Avellino. Sono l’ultima di cinque figli. Mia mamma era contadina e mio padre faceva il manovale nelle ditte edili. Mia mamma si occupava della campagna, che non era la nostra perché allora c’era la mezzadria: una buona parte di quello che raccoglievi andava al padrone e quel poco che rimaneva andava a te. Poi negli anni questa cosa è cambiata e mia mamma ha continuato a coltivare i terreni degli altri, però la maggior parte del raccolto lo teneva per noi. Nonostante la povertà di allora, non ho sofferto la fame. Avevamo i prodotti della campagna: grano, mais, ortaggi, alberi di ulivo, nocciole, noci; e poi polli, galline, conigli, pecore… Mio padre era trasfertista, ha lavorato con varie ditte. Aveva un fratello che pascolava le pecore al paese, poi a sedici anni se ne andò a Prato, dove iniziò a lavorare come manovale e pian piano creò una ditta sua. Negli anni ha guadagnato benissimo, è diventato miliardario. Mio padre è andato a lavorare con lui per un certo periodo. Poi, siccome mia mamma anche di salute non stava bene, è tornato di nuovo in paese. Mia sorella, primogenita, ha vissuto a Battipaglia, mentre i miei fratelli sono tutti emigrati: chi in Germania, chi a Firenze con mio zio… Adesso sono tutti qua, un paio sono già in pensione, uno purtroppo è deceduto. «Conservo un bel ricordo della mia infanzia. Ero una bambina vivace, ribelle fin da piccola, forse perché avevo tre fratelli che mi volevano sempre imporre le cose. Anche non avendo le conoscenze, quando c’è stato il referendum per il divorzio ho detto a mia mamma che doveva votare per il divorzio, e poi per l’aborto. A quei tempi le famiglie duravano in eterno, anche se non andavano d’accordo. I miei genitori sono stati sposati fino alla morte di mia madre, che era più grande di mio padre di cinque anni. Sono stati insieme sessantadue anni e mezzo. Mio padre è stato un esempio, non l’abbiamo mai visto urlare nei confronti di mia mamma, non ha mai alzato le mani. Mia mamma aveva la seconda elementare, ma era molto avanti coi tempi. «Quando ho votato per la prima volta avevo diciotto anni e ho votato il Partito Comunista. La Democrazia Cristiana era sovrana qui in Irpinia, votare il Pci era una forma di ribellione nei confronti di chi aveva amministrato e, per quel che potevo capire, non mi pareva che amministrassero così bene. Io ho la terza media. Dopo la licenzia media mi volevo iscrivere all’istituto d’arte perché mi piaceva disegnare. Mio padre, siccome mia cugina andava all’istituto commerciale, ha assegnato anche me a quella scuola. A quell’epoca ti imponevano queste scelte. Dopo sei mesi mi sono ritirata. Mio padre disse: “Ah, non sei voluta andare? Allora non andrai da nessun’altra parte”. «Dopo un po’, verso settembre, passano per il paese alcune insegnanti che tenevano dei corsi professionali ad Avellino, all’Istituto Guido Dorso. Erano corsi di cucitura industriale, di confezionista in serie e di confezionista in pelle. Con un anno di scuola avevi già un attestato di qualifica e potevi cercare lavoro. La scuola prevedeva dei laboratori, non era solo teoria. C’era la pratica, come in una piccola industria. Mio padre non voleva che andassi, poi mia madre lo convinse. Era tutto gratis, anche l’abbonamento dell’autobus ci pagavano. Non dovevamo comprare nemmeno la penna e la matita, ci forniva tutto l’Istituto. In questa scuola ho scoperto di avere la passione per la cucitura industriale. A fine anno davano un premio di 15 mila lire alla più brava. Io lo prendevo sempre perché avevo questa qualità nascosta di cui non sapevo. Le macchine erano quelle industriali, non la solita macchina per cucire della Singer che tenevamo tutti in casa. Dopo il primo anno conseguivi un attestato, dopo il secondo il diploma di perfezionamento come confezionista in serie. Io ho fatto due anni di perfezionamento. Dopo c’era anche il corso di perfezionamento per cucire la pelle, perché la pelle ha un procedimento diverso dalla stoffa, e ho fatto anche quello. Dopo questo corso mi iscrissi anche a quello di maglieria industriale, però venne il terremoto del 1980 e non ho potuto frequentarlo. «Il ricordo che ho di quegli anni è di tanta spensieratezza. Non si temeva il futuro perché non lo si conosceva. Non avevi i mezzi che si hanno oggi per capire tutto quello che accade intorno a te. Il paese distava venti chilometri da Avellino, ma era come se fosse oltreoceano. In città si andava solo per necessità. La città l’ho frequentata poi durante gli anni della scuola. I miei fratelli, invece, hanno deciso di non studiare e sono emigrati: Germania, Svizzera, Firenze. Non c’erano soldi, però non si moriva di fame. Allora era quella la priorità: non morire di fame. «Dopo il terremoto siamo stati un anno nella roulotte. Ho perso tante amiche a causa del terremoto. Il mio paese, che non era grande, ha avuto ottantaquattro morti. In rapporto alla popolazione residente è stato uno dei primi per numero di morti. Nel paese c’era il campo sportivo e lì avevano allestito un campo di sfollati. Noi invece, con altre due o tre famiglie, stavamo presso un cugino che aveva uno spazio davanti casa dove ci faceva appoggiare le roulotte. «Dopo la roulotte siamo andati nei prefabbricati. Hanno fatto una task force per trovare l’area e hanno creato duecentottanta prefabbricati in un anno. Tutti quelli che abitavano in campagna e che avevano la casa inagibile a fianco dei terreni si sono fatti fare la piazzola e ci hanno messo sopra questo prefabbricato. Erano in legno, abbastanza confortevoli. Io mi ero fidanzata con un ragazzo di un paese vicino al nostro e, considerando tutto quello che era successo, abbiamo pensato di andarcene in Svizzera perché lì c’era mio fratello. Poi però non siamo più partiti. IL LAVORO NERO «In quel periodo mi iscrivo all’ufficio di collocamento e inizio a lavorare in una sartoria dove facevano i jeans. Dentro di me avevo già l’animo da sindacalista perché creavo sempre problemi alla direzione, in modo coerente ovviamente. Per esempio, la mattina arrivavo e dicevano: “Voi avete fatto un minuto di ritardo”. Io dicevo: “Ok, allora metti un orologio in modo che tutti quanti ci atteniamo a quell’orologio, perché tu mi puoi dire che ho fatto un minuto, ma secondo me sono arrivata in orario ed è il tuo orologio che va avanti”. Era un lavoro precario. Il proprietario diceva: “Portatemi il tesserino – allora c’era il tesserino che si andava a timbrare –, che poi vi assicuro. Un giorno mi venne da pensare, e quella fu la fortuna, che quello non ci aveva assicurato. Allora non c’erano gli strumenti per verificare se era vero o no. Quindi gli dissi: “Senti, tu mi devi dare il mio tesserino”. Lui rispose: “Silvia, io ti ho assicurato”. Io dico: “Dammi il mio tesserino”. Lui a un certo punto apre il cassetto e i tesserini stavano tutti là dentro. Non aveva assicurato nessuno. Io mi prendo il tesserino e me ne vado. Non mi voleva pagare nemmeno i quindici giorni che avevo lavorato. Eravamo tutti a nero. Non sono più andata. Dopo di me molte ragazze fecero la stessa scelta e alla fine chiusero. Erano venuti da Alessandria a impiantare la fabbrichetta lì in paese. In un ex frantoio, che non aveva nemmeno il pavimento. C’era fame di lavoro e loro potevano sfruttare la situazione. Eravamo diciassette operai, tutti a nero. I padroni erano una madre con il figlio. Se ne tornarono ad Alessandria. «Dopo questa esperienza, dall’ufficio di collocamento ci mandarono a Solofra, la città dove fanno le pelli. Eravamo in quattro, tutte persone che avevano fatto il corso con me. Sul nostro diploma c’era scritto che eravamo confezioniste in pelle. Dovevamo raggiungere Atripalda e lì salire in un furgone completamente chiuso e senza finestre. Non sapevamo la strada che faceva l’autista, e ci portavano a Solofra. Questo ti fa capire quello che succede col caporalato oggi. Il primo giorno ci fanno scendere all’uscita della galleria di Solofra, dove c’era una fabbrichetta ben attrezzata per quei tempi. Dopo un po’ si avvicinano e ci dicono: “Voi però adesso venite con noi da un’altra parte”. E così ci portano in una campagna sperduta. Eravamo cinque ragazze, tutte dello stesso paese. In questa campagna c’era una casa vecchissima e disabitata. In una stanza c’erano dei telai di ferro dove sopra si mettevano le pelli, si stendevano, si fissavano con delle pinze di ferro ed entravano in un forno dove venivano cotte e diventavano bollenti. Quando uscivano dal forno i capi-operai non ti davano nemmeno il tempo che le pelli si raffreddassero, dovevi prenderle a mani nude. Io vedevo le ragazze e i ragazzi che lavoravano là che avevano le mani tutte callose, piene di piaghe, lesionate dalle ustioni. I telai erano bollenti e non ti potevi nemmeno avvicinare. Le pinze diventavano incandescenti, quando le andavi a togliere dovevi essere veloce altrimenti ti scottavi. Prendevi la pelle, la mettevi sopra le altre, ne mettevi un’altra, la stendevi e poi entrava di nuovo nel forno. Questa era l’operazione che dovevi fare tutta la giornata. Al terzo giorno me ne andai. Beccai il collocatore del paese e dissi: “Lì ci mandi a tua moglie e tua figlia perché tu hai detto che noi saremmo andate a cucire le pelli ma facciamo tutt’altro. Poi ci mettono come bestie in un furgone la mattina per farci arrivare là”. Alla fine non ci pagarono nemmeno i tre giorni di lavoro che avevamo fatto. Non c’era nessuna norma di sicurezza, diciamo che allora non si parlava nemmeno di sicurezza… OPERAIA A PRATOLA SERRA «Insomma, lascio questo lavoro e resto comunque iscritta all’ufficio di collocamento. Nel settembre del 1982 sposo il mio attuale marito perché la nostra intenzione era quella di emigrare in Svizzera. Io però nel frattempo facevo la sarta in casa: cucivo i vestiti per le amiche del paese, facevo gli orli ai pantaloni, ecc. Stavamo preparando i documenti per andarcene, nel frattempo ero rimasta incinta. A febbraio arriva una raccomandata in cui mi chiedono di recarmi a Pratola Serra. Io non sapevo manco dove si trovasse Pratola Serra. Il mio orizzonte finiva a San Mango sul Calore o al massimo ad Avellino. Nella raccomandata c’era scritto di recarsi presso l’Arna (Alfa Romeo Nissan Auto) come sarta. Io pensai che era un’altra di quelle jeanserie dove ero stata. Ero al quinto mese di gravidanza, ma decisi di andare lo stesso. Quando entrai nella fabbrica la persona che ci faceva il colloquio mi chiese a che mese di gravidanza fossi e io risposi al quinto. Dopo abbiamo scoperto che quando l’azienda aveva fatto richiesta di personale specializzato all’ufficio di collocamento e avevano scoperto che erano tutte donne ci rimasero male perché non volevano assumere le donne. Ecco perché lì il sindacato ha fatto un’operazione giusta a quell’epoca, perché era una discriminazione non far entrare le donne. Quindi loro ci hanno chiamato, però si aspettavano che non superassimo il colloquio, in modo da poterci mandare a casa senza problemi. La prova era di dodici giorni. Faccio questo colloquio e non arriva più nessuna notizia. Passano quasi due mesi, poi all’improvviso, era il venerdì santo, mi arriva il telegramma. Era il primo aprile 1983. Il telegramma diceva che mi dovevo presentare il 5 aprile allo stabilimento di Pratola Serra. Pensavo fosse un pesce d’aprile. Il 5 aprile vado e faccio la prova. Per non creare intralcio alla produzione ci facevano fare il turno di prova dalle quindici alle ventitré. Mio marito mi accompagnava e mi veniva a prendere. Avevano creato un indotto dell’Alfa Romeo di Pomigliano qui a Pratola Serra dove avremmo dovuto cucire i rivestimenti dei sedili delle auto. C’era un gruppo di sellatori che confezionava il sedile. Noi cucivamo i sedili, che venivano poi tappezzati da questi lavoratori. Poi c’era un altro macchinario che tagliava i pannelli, quelli che vanno dentro lo sportello, e un capannone a fianco che era di saldatura perché lì facevano anche il telaio dell’Arna Alfa Romeo. C’erano già i robot, due robot per essere precisa. Ci ritrovammo a fare questi colloqui tutti noi ragazzi che eravamo usciti da quella scuola finanziata dalla Regione, perché all’ufficio di collocamento risultavamo come sarti-cucitori. «Il secondo giorno andiamo in aula dove ci viene fatta una specie di formazione. Dopo le diciassette ci portano in reparto per andare a provare la cucitura. C’erano alcuni che erano venuti come formatori da Pomigliano perché quelle lavorazioni, prima di esternalizzarle a Pratola Serra, le facevano lì. Io avevo un pancione enorme e stavo seduta alla macchina per cucire. Il pedale era elettrico. I formatori erano tutti premurosi e venivano vicino a dirmi “non ti devi preoccupare, devi stare tranquilla, pensa che devi partorire, deve nascere un bambino, non devi avere ansia”. Era una sorta di strategia per prepararmi al fatto che non mi avrebbero assunta, perché sarei andata in maternità poco dopo la prova. Nel frattempo iniziamo queste prove. La macchina era formata dagli schienali, poi il sedile, i poggiatesta e il sedile posteriore. Tu dovevi cucire tutti questi pezzi, assemblarli e inserire il cordoncino delle cuciture. Io sono stata l’unica a terminare la produzione. Questo creava un problema all’azienda. In pratica erano costretti ad assumermi perché se non l’avessero fatto avrei potuto rivalermi sul fatto che la prova l’avevo superata. Dopo l’assunzione i formatori mi dissero: “Lei signora è stato il più grande problema che ci è mai capitato perché era brava però allo stesso tempo non avrebbe potuto lavorare perché prossima alla maternità. Però ci siamo assunti la responsabilità di assumerla”. Infatti, finiamo i dodici giorni di prova e alle sette di sera ci portano in una saletta. Eravamo ventuno persone. Iniziano a chiamare tre ragazze e dicono loro di andare all’ufficio retribuzioni per riscuotere l’assegno perché la prova non l’avevano superata. Io avevo il cuore in gola, pensavo “chiameranno anche me”. Alla fine non mi chiamano e così vengo assunta. Dopo l’assunzione dovevamo fare cinque mesi di formazione in un altro capannone vicino al casello dell’autostrada di Avellino Est. Andai solo per i primi due giorni perché poi cominciò la maternità. «Appena rientrata dai cinque mesi di maternità sono riuscita subito a fare la produzione che facevano gli altri operai perché avevo l’esperienza. Infatti il terzo livello me l’hanno dato dopo otto mesi, una delle poche che l’ha preso velocemente, e poi l’ho tenuto per tutta la vita. Noi siamo state assunte come operaie specializzate perché la cucitura era un’attività ad alta specializzazione. Il primo impatto con la fabbrica non è stato traumatico perché l’Alfa Romeo Nissan era parastatale e avevamo tutti i diritti. Diritti che nessuno di noi aveva mai avuto prima. Io ho trovato tutto già fatto perché qualcuno ha fatto le battaglie prima di me. Avevo molta flessibilità, facevo due ore di allattamento e solo sei di lavoro. Poi avevamo la mensa, lo spogliatoio, i camici. Avere tutti i diritti quarantadue anni fa per noi rappresentava un privilegio. Il lavoro non era pesante. All’inizio dovevi imparare a fare il rivestimento completo della macchina. Ognuno di noi doveva rivestire quattro vetture al giorno. Successivamente il lavoro è diventato a catena: c’era chi assemblava, chi inseriva il cordoncino, ecc. Le macchine per cucire avevano duemilacinquecento giri al minuto. «Lo stabilimento dell’Arna nasce nel 1982 per esternalizzare alcune attività svolte all’Alfa Romeo di Pomigliano. Prima della chiusura contava 680 dipendenti. Dopo tre anni l’Arna fallisce perché la macchina non ha mercato e quindi inizia il periodo di cassa integrazione. Allora presidente dell’Iri era Romano Prodi. Dopo il fallimento ci fu una manifestazione di interesse per l’Alfa Romeo da parte della Ford, ma le venne preferita la Fiat, che subentrò nella proprietà nel 1986. Nel 1987, durante la cassa integrazione, nacque il mio secondo figlio. Con l’acquisizione dello stabilimento da parte di Fiat la nostra azienda prese il nome di Somepra. Continuavamo a fare le stesse produzioni, però anche per altri marchi del gruppo: non solo vetture Alfa Romeo, ma anche Lancia, Fiat, ecc. Dopo due anni, nel 1990, hanno aperto un altro periodo di cassa integrazione perché l’azienda aveva intenzione di ristrutturare lo stabilimento per avviare lì la produzione di motori. Più tardi lì nascerà la Fiat di Pratola Serra. Promettevano duemila posti di lavoro. Durante la ristrutturazione iniziarono a chiamare ognuno di noi ad Avellino dicendo che il lavoro alla Somepra non c’era, che l’azienda stava per chiudere e dovevamo andare a Pomigliano. Avrebbero potuto assumerci tutti nella fabbrica per la produzione di motori a Pratola Serra, ma nessun operaio dell’ex Arna è stato assunto in quella fabbrica. La verità è che non volevano lavoratori già sindacalizzati che avrebbero potuto coinvolgere i nuovi assunti. Hanno preferito licenziare noi e fare nuove assunzioni. Ancora oggi quella fabbrica fa fatica se deve fare uno sciopero, gli operai non partecipano. «Nel 1988, quando io sono in cassa integrazione, chiude anche l’Isochimica di Avellino dove lavorava mio marito. Per fortuna, a oggi ha solo le fibre nel liquido dei polmoni, non ci sono placche. Mentre ci sono duecentocinquanta operai ammalati e una trentina sono già morti per mesotelioma pleurico. Dopo una lunga battaglia a mio marito non gli hanno riconosciuto nulla. Il prepensionamento non gli è stato riconosciuto perché non ha le placche, non è malato per loro. A gennaio compirà sessantasei anni. «Insomma, alla fine degli anni Ottanta ci troviamo in una situazione di grande difficoltà perché l’Isochimica chiude e gli operai non vengono pagati. Io, a differenza di mio marito, riesco almeno a percepire la cassa integrazione. Quando mi propongono il trasferimento a Pomigliano cerco di temporeggiare per altri due anni. Dopo un po’ mi propongono di andare alla Denso di Pianodardine, ma non accetto perché pensavo che la nostra fabbrica ripartisse in qualche modo. Nel 1992 mi mandano a chiamare e mi dicono che mi devo presentare a Pomigliano per andare a firmare il contratto. Io non ci vado. Loro che fanno? Mandano un addetto di Pomigliano all’ufficio postale del mio paese a consegnare una raccomandata. Quello dell’ufficio postale mi chiama. Era il 3 febbraio. Il 5 terminava la cassa integrazione e io sarei stata licenziata. Allora penso “ma se questi sanno che mi possono licenziare, perché si sono preoccupati di mandarmi questo signore all’ufficio postale facendomi chiamare a casa per firmare la raccomandata?”. Quando arrivo all’ufficio postale noto un’Alfa 33 targata Napoli e una persona appoggiata alla porta. Era quasi l’una e in un paese piccolo come il mio a quell’ora non c’è più nessuno in giro. Poi conoscevo tutti e sapevo che questa persona ferma lì non era del posto. In pratica, quest’uomo aspettava che io andassi dentro a firmare per poi prendere la ricevuta e portarla in Fiat a Pomigliano. Io entro e leggo la lettera. Vado al sindacato, ma non mi sanno dare risposte. Mi dicono che mi conviene accettare il trasferimento a Pomigliano altrimenti mi avrebbero licenziata. Non era vero, perché i cinque che non accettarono furono poi mandati alla Denso, vicino casa. Il 4 febbraio, di mattina, dopo una notte passata al pronto soccorso perché mio figlio si era fatto male, io e mio marito andiamo a Pomigliano con la mia 126 e consegno la lettera. Loro mi fanno firmare e mi dicono che il 5 febbraio, giorno del mio compleanno, avrei dovuto prendere servizio dalle otto alle diciassette per fare la formazione. Da quel giorno ho iniziato a lavorare come operaia allo stabilimento Fiat di Pomiglianod’Arco». (intervista di giuseppe d’onofrio – continua…)
January 9, 2025 / NapoliMONiTOR
La lotta per tenere aperta la fabbrica di Statte non è ancora finita
(disegno di sam3) La lotta per tenere aperta la Hiab di Statte, in provincia di Taranto, non è ancora finita ma gli operai intanto sono tornati a lavoro e le vertenze sono fatte anche di attese e fatica. La storia della Hiab, ramo d’azienda del gruppo finlandese Cargotec, è una storia come altre. Uno stabilimento tra i tanti, di proprietà di una multinazionale, a un certo punto finisce fuori dalle strategie aziendali di massimizzazione dei dividendi per i propri azionisti. La storia è, però, allo stesso tempo complessa. Con l’aiuto degli operai in occupazione a Statte, abbiamo provato a raccontarla. Dopo aver scorporato e quotato in borsa il ramo Kalmar la scorsa primavera, il gruppo Cargotec, di cui Hiab fa parte, ha venduto l’altro ramo d’azienda, MacGregor, proprio lo scorso novembre. La MacGregor è stata venduta per 480 milioni di euro al fondo d’investimenti londinese Triton. La transazione sarà ultimata entro luglio 2025, mentre entro aprile il gruppo Cargotec verrà rinominato Hiab e sarà quotato in borsa come società a sé stante. Per coincidenza, Hiab festeggia il suo ottantesimo anniversario proprio quest’anno. Nel video che celebra l’evento sul sito dell’azienda, mentre scorrono le immagini di lavoratori impegnati a guidare camion attrezzati e manovrare bracci meccanici in giro per il mondo, la voce narrante dice: “Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto solleviamo e consegniamo beni essenziali per la vita di milioni di persone. All’occhio poco allenato può sembrare che tutto si muova senza sforzo, come se fosse guidato da una mano invisibile. Quella mano invisibile siamo noi”. Nei suoi ottant’anni di storia, Hiab ha acquisito imprese e marchi in giro per il mondo. Tra questi c’è anche l’italiana Effer, con i suoi stabilimenti a Minerbio e a Statte. L’estate scorsa l’azienda ha comunicato agli operai di Statte che a fine anno ci sarebbero stati esuberi. Gli operai hanno occupato la fabbrica e hanno costretto l’azienda a fare chiarezza sui suoi programmi in una serie di tavoli al ministero delle imprese e del made in Italy. A novembre l’azienda ha chiarito di voler chiudere lo stabilimento di Statte e concentrare la produzione italiana a Minerbio. I componenti, snodi e tubolari, prodotti a Statte per l’assemblaggio fatto a Minerbio verranno esternalizzati a fornitori terzi. Lo stabilimento tarantino verrà chiuso, venticinque lavoratori con competenze specifiche potranno essere trasferiti a Minerbio e gli altri andranno in mobilità. L’azienda, nei numerosi tavoli di contrattazione, si è impegnata a seguire la procedura di delocalizzazione prevista dalla legge 234 del 2021 che impone di trovare un accordo con i sindacati per la tutela dei lavoratori e fornisce dodici mesi di cassa integrazione per la ricollocazione dei lavoratori. A metà novembre, i lavoratori di Statte hanno smobilitato l’occupazione durata un mese e hanno ripreso la produzione. Da quel momento, delegati e organizzazioni sindacali sono alle prese con la stesura di un accordo che sarà propedeutico alla procedura di chiusura e delocalizzazione e all’erogazione della cassa integrazione. L’opinione diffusa tra chi siede al tavolo del negoziato è che l’occupazione della fabbrica abbia pagato perché ha costretto l’azienda a rendere trasparenti le sue intenzioni e a impegnarsi a intraprendere una procedura concordata di delocalizzazione. Il 5 novembre la Hiab, infatti, chiarisce che vuole andare via da Statte. Il 12 novembre si impegna con i sindacati a pagare gli stipendi dei lavoratori in occupazione e a intavolare una trattativa secondo la legge 234 a patto che questi riprendano a lavorare. A Statte sono ferme le gru di piccola taglia da consegnare ai clienti e gli snodi necessari alle produzioni delle gru di taglia più grossa che vanno consegnati a Minerbio dove i lavoratori sono in cassa integrazione in attesa dei componenti di Statte. Ricomincia la produzione e iniziano delle consultazioni tra azienda e sindacati per redigere un piano di delocalizzazione e ammortizzatori sociali. Nell’incontro del 19 novembre si palesano i primi punti di discussione dell’accordo. Il 4 dicembre e poi di nuovo il 10 dicembre le posizioni si avvicinano pur restando distinte su alcuni punti fondamentali. L’azienda vuole creare un polo di eccellenza a Minerbio per la produzione di gru di grossa portata. Per farlo vuole usare alcune delle professionalità operaie di Statte. Propone quindi un incentivo, per chi vorrà trasferirsi, pari a diecimila euro lordi e novanta giorni di albergo che aiutino gli operai a trovare una sistemazione duratura. La proposta non ha trovato per ora l’interessamento degli operai. Mi spiega Leonardo, uno degli operai: “Qua nessuno valuta davvero l’ipotesi di andare sopra. Secondo loro uno si sradica di qua, porta la famiglia lì e trova una soluzione in novanta giorni. Tu mi devi dire quanto prendo, non che mi dai ottomila euro netti e poi me la devo vedere io con uno stipendio da fame a Bologna”.  Il secondo punto è quello degli incentivi all’esodo. Per chi decidesse di interrompere il proprio rapporto di lavoro prima del tempo ci sarebbe una buona uscita di circa dieci-quindici mila euro. Bisognerà poi negoziare i dettagli sugli scivoli che potranno accompagnare una manciata di lavoratori con sufficiente anzianità lavorativa al pensionamento anticipato. Mi spiega Gregorio, delegato di fabbrica della Fiom, che nella trattativa l’azienda si è mostrata ricettiva ma le somme messe a disposizione non cambiano: “Hanno un budget per chiudere questa partita. Se mettono risorse da una parte le tolgono dall’altra”. Il punto che però rimane al centro della negoziazione riguarda la conclusione delle attività produttive e l’inizio dei dodici mesi di cassa integrazione. Mi spiega Mimmo, rappresentante provinciale della Uilm che segue la vertenza, che l’azienda si è impegnata a integrare la cassa fino a raggiungere lo stipendio intero dei lavoratori. Questo ammortizzatore, però, una volta avviato non è prorogabile e l’azienda si è preclusa l’utilizzo di altre forme di cassa integrazione perché ha già comunicato l’intenzione di chiudere lo stabilimento. L’azienda vorrebbe far partire la procedura dal primo gennaio mentre gli operai vorrebbero guadagnare tempo. Secondo quanto comunicato ufficialmente dall’azienda, mi spiega Giuseppe, adesso lo stabilimento ha ordini per una novantina di snodi e una ventina di macchine da consegnare. Questo monte lavoro porterebbe la produzione a prolungarsi almeno fino alla fine di marzo 2025. La richiesta dei sindacati è quindi di far partire la cassa integrazione nel momento in cui la produzione sarà esaurita e comunque non prima di aprile. L’azienda si è opposta, confermando la volontà di far partire la procedura a gennaio. Proprio il primo di aprile il gruppo Cargotec verrà rinominato Hiab ed è probabile che il management abbia necessità di mostrare agli azionisti di aver chiuso definitivamente la partita di Statte per quella data. I lavoratori però sono convinti che la produzione possa protarsi anche oltre il primo trimestre del 2025. C’è poi il rischio che il piano di Hiab di esternalizzare la produzione tarantina a fornitori terzi richieda più tempo di quanto previsto. Mi spiega sempre Giuseppe della Fim che i saperi collettivi sviluppati a Statte in anni di produzione hanno creato una conoscenza informale, difficilmente replicabile altrove ma comunque cruciale alla produzione. “Qua non ci sono schemi di montaggio. La gente va avanti per l’esperienza che ha acquisito nel tempo. Da noi, se non ci sono gli operai che insegnano a montare gli snodi ai nuovi arrivati, quegli snodi non li monta nessuno. Un terzista che volesse montare gli snodi per Hiab dovrebbe prendere parte dell’organico di Taranto per qualche mese e formare gli altri. Ma i nostri non sono disposti perché il modo in cui l’azienda ci sta ripagando non è stato visto di buon occhio. Dopo ventiquattro anni, essere trattati come carta straccia, lascia l’amaro in bocca”. Il timore è quindi che l’azienda usi gli ammortizzatori sociali previsti dalla legge 234, che devono servire alla ricollocazione dei lavoratori, per sistemare le proprie strategie produttive. “Cosi ci mangiamo la cassa integrazione per la produzione loro”, dice Leonardo. Incontro Pietro, il rappresentante provinciale della Fim, in piazza Bettolo, dove si riuniscono gli uffici delle federazioni metalmeccaniche di Taranto. Mi dice che buona parte della trattativa può considerarsi chiusa. I sindacati hanno ottenuto migliorie sulle proposte dell’azienda per quanto riguarda gli incentivi all’esodo e i trasferimenti. I punti che restano aperti sono la data di inizio della cassa e la procedura di scouting che l’azienda si è impegnata a intraprendere per un potenziale acquirente. L’interessamento di un’azienda brasiliana, che si era manifestato quando ancora gli operai occupavano la fabbrica, pare non abbia avuto seguito. La regione Puglia ha poi convocato l’azienda per discutere di un secondo potenziale investitore per il sito, non si conosce però il nome del gruppo interessato né l’esito dell’incontro in Regione. La procedura di cessione a un terzo è la questione più importante di tutte per gli operai, eppure la meno trasparente al momento. Non è chiaro come Hiab si stia muovendo per lo scouting né quanto le interessi che questo processo vada in porto. Giuseppe mi spiega che Hiab deve riconsegnare lo stabilimento senza i macchinari e ripristinare le opere murarie fatte per l’installazione delle linee di produzione: “Loro per riportare alla norma quel sito dovrebbero portarsi via tutto, smontare i carroponti, le gru a bandiera, colmare buchi e buchini… sono costi. Cipriani pure, che è il padrone dello stabilimento, sta a Rovereto e avrebbe tutto l’interesse a trovare un acquirente perché altrimenti quel capannone senza i macchinari rimarrebbe un’altra cattedrale nel deserto”. Per la Hiab non avrebbe senso mantenere macchinari per una produzione che verrà esternalizzata in futuro o linee che sono comunque già presenti nei siti bolognesi: “Loro i macchinari di Statte li hanno già ammortati. Sono manutenuti sì, ma per loro non hanno un costo rilevante come produzione. Dovrebbero spendere soldi su qualcosa che poi dovrebbero rottamare”. Se si passa dai cancelli della Hiab in questi giorni, non c’è più il presidio dei lavoratori in occupazione e la produzione procede normale. Non c’è il capannello di operai che discutono, che accolgono gli interessati, che mettono insieme le loro conoscenze per ribaltare la storia che l’azienda aveva deciso di raccontare. Se non fosse stato per l’occupazione, la fabbrica sarebbe un deserto e l’azienda sarebbe già andata via, eppure per adesso il conflitto è solo un ricordo. Bisogna produrre, evadere gli ultimi ordini. Certo, non si lavora a pieno ritmo, mi spiega Gregorio: “Con che spirito vuoi che si possa lavorare adesso? Non c’è più fiducia”. I lavoratori mi raccontano che molti quadri dell’azienda sono andati via negli ultimi mesi e che ai tavoli Hiab continua a mandare rappresentanti legali che capiscono poco di produzione e hanno deleghe limitate per negoziare. I lavoratori tarantini sono stanchi ma i colleghi di Bologna non possono stare tranquilli. L’azienda si è mostrata inaffidabile e pochi credono al piano di fare di Minerbio un centro d’eccellenza. È sempre Giuseppe che racconta: “Li hai un sito diviso a metà da una strada, che era già vecchio nel 2000 quando sono salito io; non hai le figure necessarie alla produzione perché le vuoi prendere da Taranto, e hai comunicato che per l’anno prossimo prevedi una produzione di un terzo inferiore a quella di quest’anno senza però prevedere cassa integrazione. I conti non tornano”. Adesso la palla è nella metà campo dell’azienda che deve redigere un verbale dell’incontro e una bozza di accordo e deve mettere nero su bianco gli impegni presi. I sindacati dovranno firmare il preaccordo per dare inizio alla procedura di delocalizzazione. La data di inizio della cassa integrazione è il punto su cui si deciderà il negoziato.   Leonardo mi dice che serve coraggio e conflitto in queste trattative. Che senza coraggio sarebbero già tutti a casa. Far saltare il tavolo però significa licenziamenti collettivi. Per ora si attende. Quel che è certo è che Hiab non intende rinnovare il contratto d’affitto dei capannoni che scade a novembre 2025. Per loro, pare sia quella la data di scadenza di tutta la storia. (francesco bagnardi)
December 24, 2024 / NapoliMONiTOR
Una tragedia che ha delle responsabilità: due ragazzi morti di freddo ad Alba
Issa Loum, originario del Senegal, e Mamadou Saliou Diallo, della Guinea, entrambi sotto i 30 anni, hanno perso tragicamente la vita mercoledì in un casolare abbandonato ad Alba, soffocati dal monossido di carbonio di un braciere acceso per combattere il gelo. Così scrive il Collettivo Mononoke di Alba, che ha organizzato per domenica 15 dicembre […]
December 17, 2024 / Radio Blackout 105.25FM
Sei giorni di picchetti alla fabbrica Stellantis di Pomigliano. La lotta degli operai della Trasnova
(foto di -gd) “Lavoratrici e lavoratori, a seguito della mancanza materiale per il blocco degli ingressi, domani 6 dicembre 2024, primo turno, secondo turno e terzo turno di tutti i reparti dello Stabilimento non lavora. Per tale giornata verrà richiesta la CIGO”. Sabato 7 dicembre 2024. È da poco passata la mezzanotte quando Felice, con una certa soddisfazione, mi mostra dal suo cellulare il messaggio inviato dalle RSA (Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Aqcfr) nel pomeriggio di giovedì 5 dicembre agli operai e alle operaie della fabbrica Stellantis di Pomigliano d’Arco. Il blocco della produzione di automobili in uno dei più grandi stabilimenti italiani del gruppo è la conseguenza diretta dei picchetti degli operai della Trasnova cominciati lunedì 2 dicembre dopo la decisione del colosso francese Stellantis di non rinnovare la commessa all’impresa di logistica automotive Trasnova e di re-internalizzare le attività utilizzando la forza lavoro interna in eccesso. «Lunedì abbiamo iniziato il picchetto, il giorno dopo hanno finito già il materiale. L’azienda ha chiamato la cassa integrazione. Abbiamo bloccato la produzione. Era l’unico modo per farci sentire e iniziare la trattativa. Da mesi chiedevamo il rinnovo del contratto e ogni volta che si faceva una call ci dicevano “non vi preoccupate” e rimandavano l’incontro. Quando abbiamo capito che stavano solo prendendo tempo abbiamo cominciato scioperare. Non avevamo mai fatto sciopero prima d’ora. Lo stiamo facendo perché non possiamo accettare il licenziamento. Con il blocco abbiamo fermato anche lo stabilimento Sevel di Atessa. Qui c’è un reparto che stampa i portelloni dei furgoni assemblati alla Sevel. I camion non possono entrare a caricare, quindi Stellantis è costretta a fermare la produzione anche lì». Siamo all’Ingresso Merci n.1 bis dello stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano. Molti autoarticolati sono fermi, in fila lungo lo stradone che collega Acerra a Pomigliano, nella speranza di poter entrare e caricare la merce. Le lettere di licenziamento sono arrivate venerdì 6 dicembre. Tutti i partiti politici hanno espresso solidarietà, gli stessi partiti che in questi anni hanno sostenuto i processi di deregolamentazione del mercato del lavoro, accelerato l’erosione della base manifatturiera del paese, favorito la crescente degradazione del lavoro e delle relazioni di impiego, dichiarato guerra alla classe operaia e criminalizzato le lotte per il lavoro. La solidarietà politica e sindacale ricevuta da questi lavoratori non è stata di certo la stessa riservata agli operai di un’altra azienda della logistica, quelli della GLS di Napoli e provincia, in lotta da marzo per il miglioramento delle condizioni di lavoro e raggiunti poche settimane fa da sessantaquattro lettere di licenziamento. A picchettare ci sono una decina di operai. Lo striscione a sinistra del presidio recita: “Stellantis. Il colosso francese chiude le imprese”. È stato proprio Felice a scriverlo con la bomboletta blu su un lenzuolo bianco. I varchi per l’ingresso delle merci nello stabilimento sono quattro. Per impedire l’accesso ai tir, i cinquanta operai in lotta si sono distribuiti a gruppi di dieci sui diversi ingressi. Con il ricorso al picchetto i lavoratori della Trasnova bloccano l’ingresso delle merci prodotte dalle aziende della filiera automotive (sedili, motori, cruscotti, portelloni, marmitte, sospensioni, pneumatici, traverse, martinetti, verricelli, ecc.), in modo da impedire alla multinazionale Stellantis – il gruppo nato dalla fusione nel gennaio 2021 dei gruppi Fiat Chrysler Automobile e PSA – di immagazzinare i componenti da assemblare nella fabbrica napoletana del gruppo, rallentando così la produzione e determinando dei ritardi nella consegna delle vetture. «Ho cominciato a lavorare nel 2002, nel reparto carrozzeria di un’azienda della componentistica – racconta Mario –. L’impresa si chiamava Stola Sud e si occupava della lavorazione delle lamiere. Era una delle tante aziende della componentistica che lavorava per Fiat, produceva i longheroni posteriori (destro e sinistro) della Stilo che venivano poi consegnati allo stabilimento di Cassino per l’assemblaggio. Dopo due anni in carrozzeria sono passato in logistica. In questi venti anni ci sono stati diversi cambi di società, ma a lavorare siamo sempre gli stessi. Si firma un nuovo contratto e si ricomincia con una nuova casacca. Con l’arrivo di Stellantis non si è capito più niente. Noi siamo solo la punta dell’iceberg. Tutte le ditte esterne faranno la nostra stessa fine. Qui c’è un’altra ditta esterna che si chiama Fenice. Ci siamo confrontati anche con gli operai di questa azienda e abbiamo capito che stanno cominciando da noi semplicemente perché la nostra commessa scade il 31 dicembre, ma nel 2025 la stessa sorte toccherà anche a loro. Stellantis si è messa in testa di buttare fuori le ditte esterne. Vogliono cacciare anche la Sirio, l’azienda che si occupa di sicurezza industriale. Vogliono mettere una società di vigilanza privata e automatizzare tutto con le telecamere pur di non pagare i lavoratori. Questo per dire che il problema qua è di tutti, non è solo il nostro. Ma il problema vero è che in questo stabilimento non ci sono più investimenti. Attualmente a Pomigliano sono in produzione solo la Panda, l’Alfa Romeo Tonale e la Dodge Hornet, destinata esclusivamente al mercato americano. Non c’è un modello nuovo in questo sito. Tieni conto che solo per allestire una linea ci vogliono minimo due anni. Questo significa che se lo dicono nel 2025 la produzione partirà, se tutto va bene, nel 2027». L’Italia è l’unico paese industrializzato in cui è presente un solo produttore di automobili. Il paese è passato da una produzione di circa due milioni di autovetture e veicoli commerciali nel 1990 a 750 mila vetture e veicoli commerciali nel 2023, perdendo più del venti per cento degli occupati negli ultimi venti anni. Sugli operai della Trasnova si sta abbattendo la crisi che attraversa l’industria automobilistica italiana e il suo indotto. Una crisi attribuita furbescamente da Stellantis – alimentando la storica contrapposizione salute-lavoro – alla regolamentazione europea che mette fine alla produzione di motori endotermici entro il 2035, ma in realtà determinata da fattori di ordine produttivo, tecnologico e di mercato: i cambiamenti nella domanda di consumo; la riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo e nella produzione di nuovi modelli; il ridimensionamento dell’attività produttiva nei siti di assemblaggio italiani a seguito di precise scelte manageriali in termini di allocazione geografica delle produzioni e la ristrutturazione della catena di approvvigionamento del gruppo. Trasnova è un’azienda di logistica del frusinate alla quale Stellantis commissiona la movimentazione delle vetture all’interno degli stabilimenti di Pomigliano, Cassino, Melfi e Mirafiori. È Antonio a descrivere il funzionamento di un piccolo segmento della logistica dell’automotive, quello relativo all’organizzazione delle attività che regolano lo spostamento di una vettura dalla catena di montaggio al concessionario finale: «Noi ci occupiamo della movimentazione delle vetture, dello stoccaggio e della manutenzione. La macchina quando sta ferma per un periodo lungo all’interno dello stabilimento necessita di manutenzione. Inoltre, all’interno del parcheggio arrivano anche vetture usate, a cui bisogna fare il controllo pneumatici, il conteggio chilometri, l’analisi dei danni, verificare il kit di accessori all’interno del cofano… A queste attività si aggiunge poi la spedizione delle vetture. Nel piazzale, a bordo di furgoni, gli operai selezionano le vetture che devono andare in Italia e quelle destinate all’estero. A ogni vettura prodotta è associato un codice a barre, un certificato che ti dice dove è destinata: Milano, Venezia, Austria, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Sudafrica, Giappone, ecc. Quando arrivano le bisarche gli autisti, dopo aver compilato le bolle di accompagnamento, si rivolgono a noi “piazzalisti” per il carico della merce sulla bisarca. Anche per lo scarico delle auto che arrivano da fuori hanno bisogno della bolla. Sono le vetture prodotte negli altri stabilimenti del gruppo: Cassino, Mirafiori, Melfi, Atessa, Polonia, Serbia, ecc. In pratica, non movimentiamo solo le vetture prodotte qui a Pomigliano ma anche quelle prodotte negli altri stabilimenti Stellantis e destinate al mercato dell’Italia meridionale e ai mercati esteri. Il piazzale di Pomigliano è un punto strategico sia per il porto di Napoli che per quello di Salerno. È uno dei piazzali più grandi d’Italia e d’Europa, abbiamo una capienza di oltre ventimila macchine». A fare da sottofondo al racconto di Antonio è lo scricchiolio della legna che brucia nel bidone di ferro posto al centro del presidio. I lavoratori sono disposti in cerchio e discutono del più e del meno. Ci sono sette gradi e l’umidità è al novanta per cento. Intorno a noi solo terre e capannoni. G., amico d’infanzia da cui è partita l’idea di passare al presidio e portare la solidarietà ai lavoratori con un paio di bottiglie di vino, mi presenta Gennaro. Ha una sessantina d’anni ed è uno dei più anziani del gruppo. Dopo avermi domandato vita, morte e miracoli si lascia finalmente andare a un breve racconto del proprio lavoro e dei continui cambi di appalto delle aziende di logistica che operano da decenni nel sito produttivo napoletano per conto della casa automobilistica. «Trasnova è stata costituita all’inizio del Duemila, ma io sto sul piazzale da più di trent’anni. All’inizio le attività erano gestite da Fiat Auto, poi sono passato alla Logint, che mi ha ceduto alla Novafero e da questa alla Trasnova. Noi siamo rimasti sempre gli stessi sul piazzale, l’unica cosa che è cambiata, per noi, è stata la divisa, anzi la casacca, perché spesso manco le divise ci danno». Alle dipendenze dirette della Trasnova qui a Pomigliano ci sono cinquantatré lavoratori. Poi c’è un’altra società, costituita da trentasette lavoratori, a cui la Trasnova subappalta alcune lavorazioni. Sono i lavoratori della Logitech e provengono da Cassino. «Con il passare degli anni molti nostri colleghi sono andati in pensione e non sono stati più rimpiazzati – continua Gennaro –. Trasnova non ha fatto assunzioni ed è subentrata questa società che opera in supporto a Trasnova. Ovviamente i lavoratori della Logitech non hanno lo stesso livello contrattuale che abbiamo noi. La società lavora sia sul piazzale di Pomigliano che su quelli di Melfi, Cassino e Torino. È chiaro che se Trasnova perde le commesse su tutti questi piazzali, in automatico li perderà anche la Logitech. Stellantis ha deciso di non rinnovare più la commessa e di internalizzare queste attività, cioè di farle fare ai suoi dipendenti diretti. Noi abbiamo iniziato lo sciopero perché abbiamo visto che le vetture in uscita dal reparto finizione non andavano più nel piazzale ma in pista, cioè venivano messe come in un parcheggio, e le bisarche non venivano a caricare nel piazzale ma nei corridoi dello stabilimento. Così, senza sicurezza e senza il rispetto della procedura: arrivavano e prendevano le macchine senza alcun criterio. Questo è illegale e l’abbiamo detto anche al prefetto di Napoli. Abbiamo denunciato questa cosa con i sindacati perché noi abbiamo un contratto e loro lo devono rispettare fino al giorno della scadenza. A causa dello sciopero, stanno portando le macchine a Pontecagnano dove c’è un piazzale dell’Automar e da lì le distribuiscono nei concessionari. Stanno pagando un’altra società per fare quello che facciamo noi, stanno pagando le penali più il costo della gestione di questo piazzale fittato a Pontecagnano. Abbiamo denunciato tutto al prefetto, non lo possono fare. Adesso abbiamo un tavolo di trattativa il 10 dicembre al ministero delle imprese, perché Stellantis non vuole tavoli provinciali ma solo tavoli nazionali». «Ti spremono e poi ti buttano via – sbotta Felice –. Noi abbiamo un contratto a tempo indeterminato, però Trasnova si occupa solo di spedizione. Dato che perderà le commesse in tutti gli stabilimenti in cui opera, per noi non ci sarà possibilità di essere collocati altrove. Dal primo gennaio siamo a casa. Siamo incazzati perché è una vita che lavoriamo per loro. Se ci chiedevano di lavorare il sabato, la domenica o di notte noi ci andavamo. Ad agosto, quando tutto lo stabilimento va in ferie, per garantire le spedizioni facevamo la rotazione. Il piazzale è sempre aperto, non si ferma mai. Solo il 15 agosto. Quante volte è capitato che pure la vigilia di Natale e di Capodanno siamo stati qua dentro a lavorare, perché quando le macchine escono dalla fabbrica c’è l’urgenza di consegnare. Non sapevamo manco cosa fosse un picchetto. Lo stiamo imparando adesso perché ci vogliono togliere il posto di lavoro». Sono quasi le due quando si intravedono delle luci in lontananza. Sono i fari di una bisarca. Si avvicina all’Ingresso Merci n.2. Gli operai capiscono che l’autista ha intenzione di forzare il picchetto. Immediatamente, arrivano le telefonate dall’altro presidio. Un operaio sale in macchina, ingrana la prima e sfreccia verso l’ingresso 2. Lo seguiamo con la macchina di Felice. Tre minuti e siamo all’altro presidio. L’autoarticolato è fermo. Quattro macchine messe di traverso gli sbarrano l’accesso. Sono tutte Fiat. (giuseppe d’onofrio)
December 9, 2024 / NapoliMONiTOR
Vertenza Gls e lotte nella logistica in Campania. Un’assemblea operaia all’ex Asilo Filangieri
(foto di redazione) Dopo sette mesi di battaglie contro l’assenza di ogni regola contrattuale, il lavoro nero e carichi di lavoro disumani, i lavoratori della logistica in Campania, sulla strada tracciata nel decennio precedente al centro-nord, hanno cominciato a cambiare la propria condizione. Partita dai lavoratori della Gls, tale battaglia sta contagiando operai di altre aziende per arrestare le pratiche di super-sfruttamento imposte finora dai padroni. Una situazione inaccettabile per chi controlla la Gls in Campania (la TEMI di Francesco Tavassi) che ha scatenato un’offensiva contro i protagonisti di questa lotta: provvedimenti disciplinari pretestuosi, sospensioni dei lavoratori sindacalizzati, infine, meno di una settimana fa, i licenziamenti di più di sessanta facchini, con l’obiettivo di distruggere la rappresentanza sindacale e tornare a imporre un dominio incontrastato. Gli operai hanno risposto a muso duro, senza farsi intimorire. Tra la notte del 14 e la giornata del 15 novembre vi è stato prima il blocco del centro di smistamento regionale in Campania gestito direttamente dalla Gls Enterprise e poi lo sciopero nazionale che ha riguardato tutti i magazzini da nord a sud; mercoledì 20 il blocco dell’hub Gls di Marcianise, e altre iniziative sono in cantiere sul piano locale e nazionale, fino al ritiro di licenziamenti, sospensioni e provvedimenti disciplinari. “A nessuno dovrebbe sfuggire la rilevanza dello scontro in atto per il futuro dei rapporti tra capitale e lavoro in Campania e per tutto il meridione – scrive in un comunicato il Sol Cobas che organizza i lavoratori in Gls -. Se la lotta degli operai della logistica riuscirà a respingere le provocazioni padronali può trasformarsi in uno stimolo e incoraggiamento per i tanti lavoratori sottoposti a trattamenti salariali e normativi anche peggiori e che non trovano la forza per organizzarsi e lottare a loro volta. […] È decisivo che intorno a questa vertenza si crei un clima di solidarietà e di consenso da parte degli altri lavoratori e degli attivisti anticapitalisti”. Per un confronto sul significato di questa esperienza e la possibilità di contribuire a un suo rafforzamento è convocata oggi alle ore 18 una assemblea nei locali dell’ex Asilo Filangieri, in vico Maffei 4, Napoli.
November 22, 2024 / NapoliMONiTOR
Mo’ basta! La protesta dei lavoratori Gls a Napoli
Fotografie di Mario Spada Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.  I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane. In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.  
November 17, 2024 / NapoliMONiTOR
“Ti spremono e buttano via”. Quattro anni di consegne per Amazon nella testimonianza di un lavoratore
(disegno di -rc) Il 15 ottobre scorso c’è stato, alla biblioteca Ramondino-Neiwiller di via Sedile di Porto a Napoli, il primo incontro di scuola popolare. Sono intervenuti Marco Veruggio, autore del libro Conflitto di classe e sindacato in Amazon (Edizioni PuntoCritico) e un driver di Amazon, che ha raccontato la sua esperienza professionale e di lotta. Riportiamo qui un estratto del suo intervento. Io faccio il corriere presso un magazzino di Amazon che si chiama  in gergo “delivery station”, perché Amazon ha un linguaggio tutto suo. Le chiamano così, le stazioni di consegna. Nel 2020, al tempo della pandemia, io lavoravo ancora in Bartolini. Siamo entrati in Amazon quando ha inaugurato questo magazzino nel settembre 2020. All’inizio ti sembra di essere contento, perché rispetto a chi lavora in Bartolini, GLS, SDA, il lavoro è più semplice, diciamo che la rotta te la fanno loro, non ci sono le bolle, è tutto preciso, studiato, è tutto apparecchiato; solo che subito capisci il trucco: cioè che ti fanno uscire fuori di testa, la loro politica è questa, metterti un livello di stress e di tensione e di fatica tale per cui ti spremono e ti buttano via. Noi su quattrocento corrieri che siamo, trecento sono a scadenza e solo in cento siamo fissi; e anche tra questi c’è un ricambio fortissimo; nel 2020 eravamo entrati in sessanta sotto la mia ditta, perché poi Amazon per i magazzinieri usa l’agenzia interinale, per i corrieri usa le cooperative o le aziende; di quelli, in quattro anni siamo rimasti in dieci; ce lo dissero chiaramente nell’incontro sindacale dopo che facemmo questi blocchi e scioperi in maniera molto spontanea nel 2021, ce lo disse il loro capo delle ditte in appalto che un lavoratore di Amazon più di tre anni non ci può stare lì. Noi siamo come le merci a scadenza, dopo quella data non puoi più andare. Ecco, bisogna capire il perché. Io sono già quattro anni e mezzo che sono lì e non ho intenzione di andare via, perché è quello che vorrebbero loro. Però è dura e come mai è dura? Non si tratta di fare le vittime, ma di capire cos’è che questi studiano per fare in modo che ogni secondo del tuo tempo e ogni tua energia sia spremuta in modo che a fine giornata tu abbia fatto il 99,5% dei pacchi consegnati. Nel mio magazzino ci sono quarantamila pacchi che vengono lavorati la notte, e noi il giorno si deve portare il 99,5% di questi pacchi. Uno pensa che è impossibile, invece è possibile. Come è possibile? Cos’è che gli permette questa cosa? Primo, il ricatto. Il ricatto è dato dal fatto che la maggior parte dei lavoratori sono a scadenza e quando uno entra a scadenza è contento di entrare in Amazon perché lo stipendio, siccome c’è la trasferta, è un po’ sopra la media degli altri corrieri. Quindi uno per tenersi quel lavoro fa quello che vogliono loro. E cosa vogliono loro? Vogliono che tu finisca la rotta. La rotta: non hai sempre la solita zona, non hai sempre i soliti clienti, non hai sempre il solito furgone. Ogni giorno ti danno un’applicazione, te entri e ti dicono questo giorno c’hai 140 stop, 160 posizioni, 185 pacchi. E se sei a scadenza le devi fare veloce, le devi fare bene e se non lo fai loro lo vedono in diretta, non è che aspettano il giorno dopo che qualche crumiro o qualche rompicoglioni ti va a segnalare, no, loro vedono in diretta come stai lavorando. Come fanno? Con questi telefonini qui che ti danno, entrano nella tua pagina mentre lavori e sono lì seduti nel magazzino mentre te schiatti sotto il sole o sotto la pioggia e te sei un puntino, loro vedono questo puntino… queste cose le abbiamo scoperte dopo tre anni che eravamo lì, a suon di parlare con i capetti che hanno fatto carriera, sono loro che ce le raccontano, poi ora c’è stata anche l’inchiesta della procura a Torino che gli ha fatto il solletico ad Amazon, gli ha sequestrato centoventi milioni di euro, li fanno in mezza giornata loro centoventi milioni, però la cosa interessante che è venuta fuori è come fanno a farti lavorare in quella maniera, loro utilizzano questo telefonino, ti vedono sullo schermo, e non è tramite il GPS ma tramite il telefonino che lo fanno, in diretta vedono se hai chiamato il cliente, se gli hai mandato il messaggio, se gli hai lasciato il pacco nel giardino, se l’ha mangiato il cane, se l’ha rubato l’altro vicino, vedono tutto e soprattutto vedono la media che è calcolata dall’algoritmo perché il punto fondamentale di lotta per noi è stata questa cosa qua, che noi praticamente si lavora a cottimo, ma noi non saremmo a cottimo, noi si dovrebbe fare otto ore di lavoro al giorno; ne facciamo nove e mezzo, ma in realtà te lavori fino a che non finisci la tua rotta, che tu abbia cento pacchi o duecento. Loro dicono: l’algoritmo è scientifico, se l’algoritmo dice che puoi farne centoquaranta tu devi farne centoquaranta e invece non è vero assolutamente, lo fanno per convincerti che se non li fai è perché sei sfaticato, perché sei distratto, perché non ti impegni abbastanza. Quelli come me o altri che siamo lì da più anni, che si è lottato e non ci facciamo mettere troppo piedi in testa, se ti chiamano e ti dicono vai più veloce, oppure perché a quel cliente non gliel’hai consegnato? perché non l’hai lasciato al vicino? io butto giù e faccio la mia giornata, ma lo posso fare io; quelli a scadenza cosa fanno? li chiamano e gli dicono vai a prenderti i pacchi degli altri… e questo lo chiamano “l’aiuto”. Ma non è l’aiuto a me, è l’aiuto a loro. Perché l’aiuto a loro? Perché le ditte hanno i bonus, cioè se fanno il 95% di consegnato Amazon gli dà dei soldi in più e ai capetti uguale. Ma a me, che io porto cento pacchi o ne porto cinquanta, lo stipendio è quello, a me non mi cambia niente. Noi abbiamo una tabella, una classifica che viene fatta ogni settimana, tramite questa applicazione che registra se io sono stato gentile col cliente, se ho trasgredito la sua proprietà, se gliel’ho messo male il pacco, se gliel’ho messo bene… io non la guardo nemmeno perché a me non mi cambia niente, ma loro la usano per dare questi bonus all’azienda e soprattutto per fare pressione sui lavoratori per arrivare al cento per cento di consegne. Il punto è questo. Perché loro stressano così tanto? Perché loro non vogliono resi, non vogliono nulla a magazzino e vogliono continuare a inebetire, a rendere come degli automi tutte le persone che consumano. Perché se te ordini il martedì, loro ti dicono: il pacco è previsto per giovedì. Ma se ti arriva il giorno prima, te subito rifai un altro acquisto. Se io invece vado piano e tutti andassimo alla velocità normale, il pacco arriverebbe venerdì. E allora il consumatore è più difficile che nel frattempo acquisti altro. Quindi c’è un meccanismo infernale che loro fanno tramite questo controllo e tramite il ricatto. Un’altra cosa che mi sono scordato di dire è che la maggior parte di noi siamo assunti a tre giorni o a quattro giorni, in modo tale che per lavorare sei giorni e avere uno stipendio dignitoso devi fare come dicono loro. Se non lavori come vogliono loro, cioè se non finisci la rotta, ti fanno fare solo quei tre giorni lì e con 1.100 euro non ce la fai. Questo è il ricatto che loro usano, ma ce ne sono tantissime di strategie che utilizzano per cercare di evitare l’unione dei lavoratori. Negli Stati Uniti, durante la pandemia, Amazon non era riuscita a controllare il fatto che la gente rallentava il lavoro, si sentiva male, ecc. Allora è lì che ci sono stati i primi scioperi, che la gente ha iniziato a contestare il ritmo, ma contestare il ritmo è anche contestare il modo in cui sei trattato. E negli Stati Uniti si sono creati degli scioperi, dei picchetti, dei movimenti sindacali, e cosa ha fatto Amazon? Quando siamo entrati noi in magazzino hanno messo questi rilevatori di distanza che all’inizio loro dicevano che erano per non infettarsi e invece hanno usato questa cosa che se io mi avvicino a te più di un metro e mezzo suona tutto, tipo allarme, e anche ora che la pandemia non c’è più c’è sempre questa cosa che te non devi stare vicino a quell’altro, non solo nel magazzino ma nemmeno vicino col furgone; se io mi metto insieme ad altri due colleghi perché magari finisco prima sul viale prima di rientrare al magazzino, dopo un minuto lo chiamano, a me no perché sono fisso ma quell’altro che è precario lo chiamano perché lo vedono da questi telefonini, quindi diciamo che questo elemento del controllo a distanza che loro dicono che è per la sicurezza, in realtà è un controllo utile per la produttività e per tenere separati i lavoratori. Questa è l’ideologia loro, che te devi essere il primo e ti fanno proprio la classifica. E poi c’è qualche rintronato, scusate il termine, che fa la gara: io ne ho fatti 170, io ne ho fatti 190, io ne ho fatti 210 e questo è il sistema che loro vogliono, la competizione. Tanto i soldi che becchi sono sempre gli stessi e soprattutto levi il lavoro all’altro. Noi abbiamo fatto scioperi e blocchi nel 2021, il magazzino era appena aperto, loro non erano tanto preparati e fecero questa cosa assurda che dopo il periodo del picco, che ora li chiamano picchi di produzione, prima era il Black Friday, ora ogni settimana c’è un picco, ogni settimana c’hai una mole di lavoro maggiore, e loro dopo il picco di Natale dissero che c’era un calo, che però non era vero, semplicemente stava andando giù il picco e questi geni, d’accordo col sindacato confederale, provarono a farci mettere un giorno in cassa integrazione per continuare a guadagnare come guadagnavano prima. Questa cosa non è riuscita, noi gliel’abbiamo impedita, però ti fa capire proprio il tipo di sistema di queste multinazionali, basato sul controllo, sull’oppressione, sul fatto che noi siamo stressati e diamo retta a loro quindi questo è il punto sul quale sicuramente Amazon è avanti; anche se all’apparenza ti sembra più agevole, è agevole solo per loro per farti portare più pacchi e per costringere la gente a comprare sempre di più. (un driver di amazon)
November 14, 2024 / NapoliMONiTOR
“Lottiamo per sessant’anni di storia”. Voci dalla fabbrica occupata di Statte, Taranto
(archivio disegni napolimonitor) “La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”. C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti, dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze operaie. Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre. «Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte, inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche altro pezzo di mondo. *     *    * La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore, mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a cambiare davvero. La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar (movimentazione di container) e la stessa Hiab. A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una S.p.a. autonoma. In mezzo a queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio. La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi, ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del made in Italy. Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del Made in Italy. Gli operai ci hanno creduto. Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione, Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori, carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è lavoro solo per poche settimane ancora. Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda. Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione dello stabilimento che scade a novembre del 2025. I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale, credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite, fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti. «I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci spiega uno degli operai che si occupa del magazzino. A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio perché non sanno cosa produrre». Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita. *     *    * È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri, quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone. I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del 5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti: «Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini». Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento, lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita. Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre. Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio altoforno 1 dell’acciaieria.  «Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione, di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani. È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte. Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede.
November 12, 2024 / NapoliMONiTOR