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Poste, Leonardo e Med-Or. L’inchiesta dei lavoratori che svela l’economia del genocidio
(disegno di francesca ferrara) A luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia accoglieva il ricorso avanzato dal Sud Africa che deliberava che in Palestina fosse in corso un genocidio. Nonostante questa sentenza, il nostro paese ha continuato a fornire assistenza materiale a Israele come previsto dall’accordo di cooperazione militare e di difesa, il Memorandum Italia-Israele, ratificato nel 2005. Allo stesso modo, come conferma il più recente rapporto della relatrice speciale Onu Francesca Albanese, si è andata a configurare l’esistenza di un’economia del genocidio che non si è fermata in questi due anni. Da qui parte l’indagine di un gruppo di lavoratori di Poste italiane di Roma, sindacalizzati Cobas – portalettere, sportellisti, lavoratori della logistica – che dopo l’ingresso dell’azienda italiana tra i soci di Med-Or, a gennaio 2024, decidono di scavare a fondo su questa partnership provando a ricostruire le complicità tra Poste e la Leonardo Spa. Il collettivo – da sempre impegnato contro lo sfruttamento e l’aumento del lavoro straordinario – considera l’indagine come uno strumento comunicativo imprescindibile per accendere i fari sul ruolo della loro azienda nel genocidio. I lavoratori scelgono di formare una redazione e dare vita a un piccolo giornale aziendale: Il postaccio. L’inchiesta individua una serie di peculiarità che caratterizzano i rapporti tra Poste e la Leonardo. Innanzitutto la “doppia morale” dell’azienda: il collettivo denuncia la sospensione del servizio di spedizione internazionale Poste Air Cargo verso la Russia all’indomani dell’offensiva in Ucraina, mentre continua lo scambio commerciale verso Israele; rimarca le complicità dei sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) che detengono quote del Fondo Poste che fa affari con società vicine a Israele, e riscontrano elementi di green washing delle aziende socie con Med-Or, come la Snam, vicina a Israele, che opera per ripulire l’immagine della Leonardo, come accaduto a Foggia fuori dallo stabilimento della fabbrica di armi italiana. Lì la società realizza un boschetto privato, non accessibile alla popolazione, per ridurre l’impatto di Co2 e mostrare il lato green dell’azienda. L’indagine, presentata a Roma in un locale del Pigneto, “Zazie nel Metro”, da uno dei lavoratori del collettivo, diventa motivo di approfondimento della mia intervista. Quando e perché avete deciso di fare un’indagine su Poste italiane? «L’indagine risale all’inizio del 2025, in concomitanza con le mobilitazioni universitarie contro l’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele, promosso dal ministero degli esteri. Ma una spinta viene anche dall’interno, vista la partecipazione di alcuni nostri compagni al gruppo del Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Così quando è emerso che Poste italiane aveva aderito a Med-Or, a gennaio 2024, decidiamo di andare fino in fondo perché rintracciavamo un elemento di complicità. Parliamo di una fondazione voluta da Leonardo che ha rapporti consolidati con Israele e l’area mediorientale. Sapevamo che non c’era solo Poste ma tutte le grandi società partecipate italiane – da Telecom a Fincantieri fino a Snam, la società dei gasdotti italiani, che ha acquistato quote della compagnia East mediterranean gas company, proprietaria del gasdotto che collega Israele con l’Egitto – e visto che come sindacato siamo attenti alle questioni sociali, abbiamo deciso di attivarci». Che cosa avete scoperto nella vostra indagine? «Dal 2021 Poste Air Cargo viene adibita al trasporto merci, nello stesso anno viene previsto uno scalo a Tel Aviv. Abbiamo notizie ufficiali che Poste Air Cargo dispone di una flotta adibita al trasporto di materiali “dual use”, a uso civile e militare. Il suo ruolo è quello di supporto logistico alla causa israeliana fornendo componenti di natura aerospaziale e elettronica. Il trasporto è al centro di forti critiche da parte delle Nazioni Unite che hanno richiesto più volte un embargo completo contro Israele. Dopo l’inizio delle operazioni militari israeliane e l’attentato di Hamas, i voli non solo non sono stati sospesi ma le tratte e la flotte sono cresciute. A maggio 2024 sono raddoppiate le rotte verso Tel Aviv. E tra il novembre 2024 e febbraio 2025, Poste Air Cargo ha aumentato le sue flotte aeree, passate da cinque a otto. Dal nostro paese partono almeno due voli a settimana, come riporta l’ex l’amministratore delegato di Poste, Rosario Fava, che ha confermato che Poste Air Cargo trasporta materiale aerospaziale verso Israele. Insomma, ci sono tante coincidenze che fanno pensare che esiste una complicità diretta con Israele». Cosa pensate del Fondo Poste? «È un fondo privato soggetto a meccanismi finanziari e scelte di investimento non sempre trasparenti. Il fondo non è solo uno strumento previdenziale, ma affida miliardi a società che finanziano direttamente la macchina bellica israeliana: come Allianz, Axa, Amundi, Generali, Ubs, Eurizon. Nel fondo compaiono anche le grandi società Big Tech del progetto Nimbus – Microsoft, Amazon, Google – che forniscono sistemi di intelligenza artificiale e cloud che consentono al governo israeliano di schedare e sterminare la popolazione palestinese. La questione del fondo l’abbiamo sollevata più volte. All’epoca come Cobas avevamo consigliato ai lavoratori di lasciare il Tfr in azienda ma la maggioranza decise – spinta dai sindacati confederali – di acquistare quote del Fondo Poste. Sapevamo i rischi a cui andavamo incontro: il fondo privato è soggetto a speculazioni finanziarie, a rialzi, in una logica basata sull’inflazione. Recentemente hanno introdotto delle misure di welfare aziendali che spingono i lavoratori ad acquistare quote aggiuntive del fondo. Ti danno una quota in più, ma se non la vuoi non prendi i soldi. Parliamo di investimenti pianificati da consigli di amministrazione in cui troviamo i sindacati confederali. C’è quindi una responsabilità diretta: quando si investe in società coinvolte in conflitti o in progetti come Med-Or, non si può dire “non lo sapevamo”. Non parliamo di una responsabilità equiparabile a quella di un cittadino: costretto a fare un’assicurazione sulla propria auto perché meno costosa, ma poco consapevole di quello che c’è dietro». Come nasce il giornale? «L’idea c’era da anni, ma mancavano le forze. E nei primi mesi del 2025 decidiamo di formare una redazione: chi impagina, chi scrive, chi disegna. Un compagno di Poste, autodidatta, ci regala vignette straordinarie. Il primo numero esce, come prova, ad aprile. Dopo l’estate decidiamo di farlo diventare mensile. Lo distribuiamo a mano negli uffici. E piace: i lavoratori lo leggono, ci parlano. In poco tempo si trasforma in un piccolo spazio critico all’interno di un’azienda in cui la sindacalizzazione “conflittuale” è molto bassa. La nascita del giornalino ha influito sulla mobilitazione degli ultimi scioperi. In alcuni uffici abbiamo avuto una partecipazione più alta del solito: quasi venti persone su cento hanno preso parte alle ultime mobilitazioni. Non è una rivoluzione, ma è un cambiamento. Alcuni lavoratori ci hanno  chiesto come uscire dal Fondo Poste, dopo aver scoperto dove finiscono i soldi. Certo, parliamo di una categoria in cui il sindacalismo conflittuale ha difficoltà a fare breccia. Altrettanto difficile è scardinare i meccanismi di marketing aziendale. Poste si vuole presentare dalla parte dei cittadini, vicina alle loro esigenze. Conosciamo bene queste immagini: il postino sorridente, il pensionato che esce felice dall’ufficio postale… Una maschera che cela gli scenari inquietanti che ci stanno dietro. Come quello sulla Palestina». Cosa si può fare per bloccare l’economia del genocidio? «Come sigla sindacale proviamo ad aprire le procedure di raffreddamento, e lo facciamo sempre ogni tre mesi contro l’incremento del lavoro straordinario. Un incremento che alimenta lo sfruttamento dentro la categoria. E in questo contesto si inserisce la complicità di Poste con il governo israeliano, visto che quei soldi non vanno ad arricchire solo gli investitori privati, ma anche l’economia di guerra. Ma visto che siamo in minoranza – la maggioranza dei lavoratori è sindacalizzata Cisl – Poste Italiane si rifiuta di trattare. Il che rende tutto complicato. Il 3 giugno 2025 abbiamo fatto uno sciopero per l’intera giornata, e ne volevamo fare altri. Ma alla fine abbiamo preferito confluire negli scioperi generali di settembre e ottobre. Bisogna fare tutto il possibile: sia il boicottaggio, dove si può fare, sia la partecipazione agli scioperi, come è stato fatto ultimamente; e intanto sedimentare una consapevolezza tra le persone, continuando a fare tanta informazione. Bisogna costruire una convergenza tenendo unite tutte le questioni: dal decreto sicurezza, al ddl Gasparri, all’allungamento dell’età pensionabile, all’abuso del lavoro precario fino alla questione dei salari. Tutto questo è legato al riarmo e al genocidio. Cerchiamo di promuovere una visione complessiva della società; d’altronde, se vivi meglio lavori meglio, non possiamo separare le cose». (giuseppe mammana)
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Mille e duecento posti per i disoccupati napoletani. “Finisce qua” la lotta per il lavoro?
(foto del movimento disoccupati 7 novembre) Chissà se quando il dirigente della Digos saluta i manifestanti con il canonico: «Finisce qua?», si rende conto dell’allegoria prodotta. È martedì mattina, siamo all’esterno della sede Rai di Napoli, dove il Movimento disoccupati 7 Novembre ha organizzato una conferenza stampa per rivendicare il recente avvio di un percorso di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo, ottenuto dopo oltre dieci anni di lotte. Sono le dieci e trenta, la conferenza è finita da poco e il gruppo si sta lentamente sciogliendo. La domanda del poliziotto è quella che fanno di solito gli agenti al termine di una manifestazione, per assicurarsi che questa non continui altrove o che non vi siano altre azioni in continuità con quella conclusa. In quel contesto, mentre il movimento celebra quella che è una innegabile vittoria, e in un certo senso la conclusione di un percorso politico decennale, la sua domanda potrebbe risuonare come una sorta di invito a darsi una calmata: “Il posto l’avete avuto: ora avete finito?”. In realtà, le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai delegati del movimento, vanno nella direzione opposta. Per prima cosa, dicono, bisogna continuare a vigilare, e se necessario a fare pressione, affinché tutti i mille e duecento tirocini comincino; secondo, è importante che gli impegni presi riguardo alla trasformazione in un lavoro stabile e dignitoso di questi tirocini vengano rispettati; terzo, nel movimento c’è già chi pensa che la lotta per il lavoro debba mutarsi ora in lotta sindacale, per un mantenimento e miglioramento delle condizioni e dei diritti. Il Movimento disoccupati 7 novembre nasce undici anni fa, dopo che un gruppo di abitanti delle periferie a ovest della città partecipa alla grande manifestazione di Bagnoli contro lo Sblocca Italia e il commissariamento dell’ex area industriale. Col tempo il gruppo cresce, arriva a raccogliere circa quattrocento iscritti da diversi quartieri e si “federa” con un’altra grossa lista di lotta per il lavoro, il Cantiere 167 di Scampia. Centinaia di persone sono in strada quotidianamente, pretendono la garanzia di un diritto costituzionale, e manifestano, presidiano, occupano, arrivano a forme di scontro radicale per ottenerla. Gli anni passano, si creano opportunità, ci sono inganni e tradimenti istituzionali, ogni volta si ricomincia daccapo. Le inchieste giudiziarie si moltiplicano, le accuse sono spesso assurde, arrivano anche condanne, pesantissime. Eppure oggi il prefetto, che evidentemente ha la memoria corta, parla di “proteste garbate”, e nelle prime righe del recente accordo firmato da comune e governo ammette che il movimento ha rappresentato un problema di ordine pubblico, perché queste centinaia di persone non facevano altro che rivendicare per un proprio diritto. Alla fine, dopo undici anni di lotta, l’accordo arriva. Mille e duecento disoccupati napoletani verranno impiegati per la cura e la manutenzione del verde pubblico e scolastico, la sorveglianza delle strutture museali, altri interventi di pubblica utilità. I primi cominceranno a breve, gli ultimi saranno chiamati entro febbraio. Dopo un anno si comincerà a pianificare la loro assunzione in cooperative comunali che si occupano di questo stesso genere di interventi. L’investimento complessivo è di circa tredici milioni di euro. «La nostra intenzione – ha spiegato il sindaco Manfredi – è quella di far progressivamente transitare queste persone all’interno delle cooperative che operano al Comune e Città metropolitana, che noi utilizziamo per la gestione del verde pubblico. Queste cooperative oggi vivono una riduzione dei partecipanti per i pensionamenti, ma l’obiettivo è quello di mantenere immutata la loro dimensione numerica». Questo scenario fino a qualche anno fa non sembrava nemmeno lontanamente ipotizzabile, considerando le resistenze delle stesse istituzioni che oggi rivendicano il risultato, che si è invece delineato soprattutto grazie agli sforzi del movimento.  Al termine della conferenza abbiamo fatto alcune domande a Eduardo Sorge, uno dei portavoce dei 7 Novembre, chiedendogli se davvero, come sottintendeva forse l’ispettore della Digos, la loro lotta è finita qua. (riccardo rosa) *     *     * «Al netto della forza della lotta, dell’incessante lavoro di mobilitazione e di piazza, negli ultimi due anni c’è stata un’attenzione trasversale su questa vertenza, perché si potesse concretizzare un risultato in questa direzione. Dal punto di vista prefettizio c’è stato e c’è l’interesse a pacificare una delle poche aree che rompeva e speriamo rompa l’immagine della Napoli città-vetrina, per cui in un momento in cui Napoli sta diventando un parco giochi, una delle loro valutazioni è stata che forse non era il caso di continuare ad alzare muri verso una lotta che coinvolgeva un migliaio di persone, le quali tra l’altro andranno a svolgere un’attività che va a colmare un vuoto di servizi. Dal canto nostro, sappiamo che anche questo intervento sui servizi è finalizzato a supportare una città che si prepara ad accogliere flussi turistici ancora più imponenti di quelli attuali, e insomma il ragionamento istituzionale è stato che conviene anche a loro che una serie di persone piuttosto che stare a bloccare le strade vadano a garantire quello che considerano “decoro urbano”, a potenziare l’accoglienza museale o migliorare i servizi scolastici. «Le cooperative dove si andranno a svolgere questi tirocini sono le stesse dove i disoccupati hanno svolto gli stage in una fase precedente, con il piano Gol, sono cooperative attualmente finanziate da un investimento nazionale di decine di milioni di euro, soldi che vanno nelle casse del comune che li gestisce. Quindi l’amministrazione per questo servizio non investe risorse, seppure per l’allargamento della platea ha contribuito con una quota. Di questa platea di mille e duecento persone noi possiamo dire di rappresentarne circa la metà, ma ci sono state spinte, per esempio durante la campagna elettorale delle regionali, con interessi di parte molto lontani da noi, per frammentarla; il vantaggio di essere riusciti a mantenere compatto il movimento, sta nel fatto che questo risultato non potrà essere merce di scambio, non saremo disponibili a essere strumentalizzati. Negli ultimi mesi, soprattutto i partiti di governo, hanno provato a candidarsi come “rappresentanti” di questa vertenza. Da questo punto di vista, riuscire a garantire risultati per tutta la platea, e non soltanto per i nostri iscritti, è stato decisivo. Anche il fatto che ventiquattr’ore prima di questo risultato siano arrivate condanne di due anni e due mesi per otto esponenti del Movimento è un modo per dire “ok, vi siete presi quello che volevate, ora però non rompete le scatole su tutto il resto”. Ma se è vero che il movimento è nato per il lavoro, è anche vero che è sempre stato nelle battaglie politiche generali – contro il riarmo, contro la guerra, per l’unità dei lavoratori; e rispetto alla città, nella denuncia della privatizzazione del verde cittadino e di tutte le operazioni che si stanno svolgendo sulla costa, da San Giovanni a Bagnoli, e quindi continuerà ad alimentare le lotte territoriali. «Quando si fa un bilancio politico, tutto va inquadrato nel momento storico. Da un certo punto di vista è una vittoria gigantesca, non tanto per il risultato, ma per la rete che si è costruita tra la gente, i quartieri popolari, l’unità anche con chi, come il Cantiere 167, politicamente non era vicinissimo a noi. Forse se trent’anni fa avessimo raccontato questa vertenza non avremmo parlato di vittoria, avremmo parlato di un’elemosina di Stato fatta per risolvere un problema di ordine pubblico, ma io credo che tutto vada inquadrato in un contesto, e in quello attuale gli operai e i lavoratori prendono sempre meno salario, sono sempre più sfruttati, hanno sempre meno diritti sindacali. Siamo in un momento di arretramento a oltranza, e il fatto che si ottenga un risultato per mille e duecento persone, che non è solo il tirocinio, ma è qualcosa che darà la possibilità dopo dodici mesi di entrare nelle cooperative, significa non solo dare a chi ha cinquanta o sessant’anni una dignità personale, ma anche per diverse centinaia di ragazzi di venticinque-trent’anni di avere un’alternativa a fare il rider sotto la pioggia, oppure a fare i servizi nei b&b di cui Napoli è piena. Questo io credo sia il grande valore politico: la lotta ha pagato, e questo, in un momento in cui c’è una disillusione totale verso le pratiche collettive di organizzazione, è la cosa più importante. Molti di quelli che ieri erano bassa manovalanza della criminalità o erano nella totale marginalità sociale, adesso fanno i corsi nelle loro sedi, nei quartieri popolari, con i bambini di comunità srilankesi, fanno battaglie contro le chiusure degli ospedali pubblici. In una fase, tra l’altro, in cui siamo bombardati da giornali che ci dicono che non è possibile garantire la spiaggia e il parco urbano a Bagnoli, ora noi abbiamo un esercito di manutentori del verde, per cui sarebbe anche divertente andare a dire al comune di Napoli: perché queste persone che già pagate non le spostate tutte quante per garantire il parco urbano e la spiaggia? Stimolarli quindi sul fatto che se il danaro pubblico si vuole tirar fuori per il lavoro pubblico, dignitoso e stabile, si può tirare fuori.
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Le priorità della lotta. Un mese di scioperi nella logistica
(archivio disegni napolimonitor) Genova, 21 ottobre. Le mobilitazioni che hanno attraversato il paese nelle ultime settimane, portando in piazza centinaia di migliaia di studenti e lavoratori, preparano il terreno a un grande sciopero contro la legge finanziaria del governo. Negli ambienti del sindacalismo di base si discute delle prossime iniziative, e a Genova, città portuale che ha contribuito significativamente a polarizzare durante l’inizio dell’autunno il fenomeno dei blocchi della produzione e delle arterie metropolitane, c’è agitazione nei magazzini della logistica. In arrivo ci sono il “black friday” e il picco natalizio. Un gruppo di lavoratori iscritti al Si Cobas si riunisce in assemblea. Nel magazzino di Cornigliano della Bartolini, periferia ovest del capoluogo ligure, lavorano circa duecento facchini assunti dalla Alba Srl, la metà dei quali sono attivi a livello sindacale. Nei periodi di incremento del lavoro, come quelli compresi tra novembre a gennaio, si registra un continuo ricambio della manodopera, con il via vai di lavoratori delle agenzie interinali. I diritti conquistati negli anni dagli operai attraverso gli accordi sindacali, a loro sembrano non spettare. Così, dopo lo sciopero, i lavoratori di Cornigliano chiedono che al tavolo di trattativa per il rinnovo del Premio di risultato annuale si discuta anche della stabilizzazione dei precari. Lo stato di agitazione sentenzia che qualsiasi accordo sul premio dovrà essere garantito “anche ai nuovi”. L’astensione dal lavoro inizia la notte tra il 4 e il 5 novembre, ma i lavoratori presidiano i cancelli di via Fratelli di Coronata fino al primo pomeriggio. All’alba dell’11 inizia un presidio che si protrarrà per venti ore. «In quel magazzino – spiegano i delegati sindacali – c’è un accordo firmato, che va rispettato. Chi si spacca la schiena scaricando camion per diciotto mesi ha diritto alla priorità di assunzione». Bartolini e la società in appalto però, in risposta al blocco, riorganizzano i volumi e firmano in gran segreto un accordo con Cgil, Cisl e Uil per il taglio al premio di duemila euro che era stato ottenuto proprio dal Si Cobas negli anni addietro. La merce viene intanto spostata verso altri hub nel milanese e nel torinese e così, a pochi giorni dalle festività natalizie, per i lavoratori interinali nella filiale “002” non c’è più lavoro. Per loro, e per altri quaranta operai del sindacato, viene stabilito un piano di ferie forzate. La serrata è alle porte. La lotta dei lavoratori per le nuove assunzioni, per l’aumento del premio natalizio correlato all’aumento del lavoro (e alla possibilità di fronteggiare le spese di fine anno con un aumento minimo in proporzione alla perdita del potere di acquisto delle famiglie), si appresta a trasformarsi in lotta per la difesa del posto di lavoro. La minaccia esplicita è quella della cassa integrazione. Milano, 28 novembre. Sono le sette del mattino. Al bancone del bar che chiude via Dante Alghieri, a Pioltello, si affollano decine di lavoratori dell’hinterland milanese per consumare la colazione al caldo, prima di immergersi nella nebbia fittissima che coprirà per tutta la mattina la visuale sull’arteria logistica più trafficata dell’area. A pochi passi ci sono gli uffici doganali e i terminal di DSV, a sinistra il magazzino di stoccaggio e scarico merci di Logtainer. Due grossi cancelli, a poche centinaia di metri di distanza uno dall’altro, segnalano l’entrata e l’uscita dei mezzi pesanti su gomma delle due società specializzate nel trasporto merci intermodale. Le bandiere in spalla agli operai del Si Cobas, e un grande vessillo che recita “Embargo, ora!”, sostenuto da un’attivista dei Giovani Palestinesi d’Italia, riempiono improvvisamente lo stradone. Mentre gli operai legano le bandiere, già posizionati al primo cancello, un addetto alla sicurezza, dal vetro del suo gabbiotto, fa un cenno all’agente della guardia di finanza addetto al controllo doganale. Prima che gli operai abbiano avuto il tempo di spegnere la sigaretta che segue al caffè, i due cancelli si chiudono. Inizia lo sciopero generale proclamato dai sindacati di base contro la Finanziaria 2026, contro il riarmo europeo e il cosiddetto “piano di pace” nella Striscia di Gaza. Il picchetto a Pioltello ha l’obiettivo di bloccare la logistica di guerra in uno snodo strategico della pianura padana: dai terminal dell’interporto milanese, la società DSV, tra le tre compagnie di spedizione più influenti al mondo, e la Logtainer, che nel 2025 ha puntato i suoi investimenti sul trasporto merci ferroviario, fanno partire ogni giorno centinaia di container targati Maersk verso i porti di Genova, La Spezia, Livorno, per gli interporti di Rubiera e Padova, e l’aeroporto di Milano Malpensa. Dalla fila di camion che si allunga fino allo svincolo dell’autostrada si nota che molti carichi su gomma arrivano dall’estero. Per gli organizzatori del picchetto, “sotto l’apparente routine della movimentazione ordinaria di merci, si nascondono i flussi di materiale bellico destinati all’industria militare”. A denunciare l’opposizione alla guerra ci sono decine di lavoratori dei magazzini di Sda e Poste italiane. Sono stati proprio loro, nell’ultima settimana, a siglare un accordo-quadro provinciale che in parte sopperisce alle problematiche legate ai picchi di lavoro intensivi. «A Milano ci sarà qualche piccolo nuovo impianto dove gestire il surplus della merce. Grazie a questo accordo qualcuno potrà decidere di lavorare lì, con un’indennità di dieci euro al giorno, anche se la distanza dal magazzino attuale è minima», spiega un driver. L’accordo prevede anche altri aumenti salariali che verranno effettuati con gradualità entro il febbraio 2026. I lavoratori rivendicano il risultato della loro lotta, soprattutto perché le nuove introduzioni salariali non saranno legate a maggiori e più dure prestazioni di lavoro. In contrasto con le rivendicazioni operaie, e con il tema della riduzione dell’orario di lavoro, si configura però la bozza di proposta di Legge di bilancio 2026, che assoggetta le agevolazioni fiscali per i lavoratori dipendenti a modelli di produttività più flessibili e intensi. In riferimento ai premi di risultato, la bozza di legge presume una riduzione delle tasse tra il cinque e l’uno per cento su un premio massimale di cinquemila euro annui. In cambio di prestazioni usuranti come lavoro notturno, festivo e straordinario, la tassazione verrà ridotta al quindici per cento sul massimale di mille e cinquecento euro annui, con un recupero del potere di acquisto di appena centoventi euro. Sono le tre del pomeriggio quando la nebbia lascia spazio a qualche raggio di sole che batte sull’asfalto. Qualcuno tra i camionisti in coda ha spento il motore, altri giurano di non stare trasportando “neanche un proiettile” e vengono invitati dai manifestanti a bere un caffè e a partecipare a un’assemblea sul posto. I lavoratori prendono la parola, si rivolgono a colleghi che non conoscono, provano a spiegare che lo sfruttamento nella logistica non è un ricordo del passato, ma uno spettro sempre in agguato, come testimoniano i fatti di Genova: «Quelli che fanno gli scioperi continuano a rischiare i licenziamenti, perché le condizioni stanno peggiorando e il tema della guerra c’entra molto con questo peggioramento. È con le nostre tasse che si possono comprare le armi, ma non è con qualche sconto che possono comprarsi il nostro sudore». Passano più o meno ventiquattr’ore e nel pomeriggio di domenica, sempre a Milano, sfila una grande manifestazione indetta dalle realtà palestinesi. I lavoratori della logistica sono presenti al concentramento di piazza 24 Maggio. Il corteo avanza verso piazza Fontana, dove prendono parola gli operai di Bartolini “002”, spiegando ai colleghi delle altre regioni e di altre filiere la propria preoccupazione. Dopo un’iniziativa al comune di Genova, le istituzioni e la dirigenza della Fedit, la Federazione italiana trasportatori, hanno promesso un incontro per risolvere la vertenza. «Rischiamo la cassa integrazione per aver scioperato, rivendicando l’assunzione dei nostri colleghi, ma in questo fine settimana abbiamo voluto comunque presidiare i cancelli della fabbrica. Siamo pronti a mettere le tende!», urla uno di loro tra gli applausi. La difficile lotta, tutta in salita, dei facchini del genovese, è in connessione non solo con le complicate vertenze in atto da Torino a Napoli, ma anche con le vittorie, come quella ottenuta dai lavoratori di Sda a Milano. Le radici dei conflitti, certo, sono diverse, ma a emergere è un obiettivo comune: superare le dinamiche di una stantia contrattazione sindacale, quella sui bonus di Natale, per mettere al centro i temi delle condizioni di lavoro, la necessità di nuove assunzioni, gli aumenti salariali per tutti. (alessandra mincone)
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Macerie su Macerie – PODCAST 20/10/25 – Grecia, se tredici ore vi sembran poche
Il parlamento greco, guidato dal secondo governo di Mitsotakis, cioè la destra di Nuova Democrazia, ha approvato una legge che prevede la possibilità di arrivare a lavorare 13 h al giorno. il tutto coperto dall’ideologia di portare il “lavoro giusto e flessibile per tutti”. Con un compagno di Atene facciamo il punto sull’ultima legislazione e […]
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Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
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Le interviste di Frittura mista alias radio fabbrica al festival alta felicità 2025
Nella giornata di domenica 28, come redazione di Frittura Mista alias Radio Fabbrica, abbiamo realizzato due approfondimenti all’interno del Festival Alta Felicità 2025, essendo stata Radio Blackout parte integrante di questa edizione del festival. La seconda intervista la abbiamo realizzata in compagnia di Dario Salvetti, del collettivo di fabbrica ex GKN, presente all’assemblea tenutasi venerdì […]
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Satnam e i suoi fratelli. Cinque lavoratori indiani morti in provincia di Salerno in nove mesi
(disegno di otarebill) È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.  In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si recavano o tornavano dal lavoro. Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state lasciate sole, senza alcun supporto. Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal quotidiano La Città di Salerno: “Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre, guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della ditta che non è indagato”. Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista per evitare incidenti.  Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno. Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un tecnico di parte, o se ne siano stati informati.  In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si conosce il nome della vittima né altri dettagli.  Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina (paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza vita in circostanze “misteriose”: “Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore, a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti: omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”. A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei risultati dell’autopsia e delle indagini.  Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea. I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”. L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder, quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso la pala meccanica del mezzo agricolo. Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”. “Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”. Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana. I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare superficiale. Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano, nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
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I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
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Via Stalingrado. Il corteo dei metalmeccanici emiliani sulla tangenziale di Bologna
(disegno di dalila amendola) Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti, la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in virtù del nuovo decreto sicurezza. Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo – gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un questore zelante, che ha agitato un polverone  per un azione, più o meno concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata. E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali, dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero lì solo per il contratto? Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga. Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare. Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi, non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi. Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato, saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca. La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito, ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è una gioiosa novità. Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una psicologia di massa da sconfitti dignitosi. Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti, negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale. Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro, sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo, perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie, brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe. Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse. Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici – quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso ai fatti di via Stalingrado. Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia” si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da mettere sul piatto.    Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato. A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile, non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno, specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36 della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di cantiere o dietro le casse di un supermercato. In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non regge più? (giovanni iozzoli)
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[2025-05-26] DUE GIORNI DI SCIOPERO CONTRO IL LAVORO POVERO - LAVORATOR3 BOA SENZA DIMORA @ Torino
DUE GIORNI DI SCIOPERO CONTRO IL LAVORO POVERO - LAVORATOR3 BOA SENZA DIMORA Torino - (lunedì, 26 maggio 09:30) BASTA LAVORO POVERO NEL SOCIALE: 2 GIORNI DI SCIOPERO LAVORATOR3 VALDOCCO SERVIZIO BOA PER SENZA DIMORA Siamo un gruppo di lavoratorə della Cooperativa Valdocco del servizio Boa per persone senza dimora. Il mandato della BOA è agganciare le persone che vivono in strada ai servizi comunali e privati della città e offrire loro supporto materiale ed emotivo. Ciò è possibile grazie alla costruzione di relazioni significative che vanno ad evolversi nel corso di mesi/anni. Nonostante il nostro sia considerato un servizio di bassa soglia, nei fatti ci troviamo ad affrontare questioni e relazioni riguardanti la progettualità di vita della persona in diversi ambiti.  Vogliamo il riconoscimento del nostro operato che va oltre il mero assistenzialismo materiale. Le nostre condizioni contrattuali e lavorative sono inaccettabili, i nostri inquadramenti contrattuali non corrispondono affatto alle mansioni richieste e alle competenze messe in campo da tuttə noi quotidianamente; inoltre siamo costantemente espostə, senza tutele, a rischi di ogni tipo (biologico, violenza verbale e/o fisica) spesso sottostimati. I nostri stessi stipendi rientrano nella bassa soglia. Per questo motivo abbiamo deciso di sindacalizzarci e mobilitarci. Con il sindacato “CUB sanità” abbiamo aperto una vertenza con la cooperativa, da cui ancora non abbiamo ricevuto risposte. Le nostre rivendicazioni: 1. Aumenti salariali, adeguamento del livello contrattuale: vogliamo essere pagatə per il lavoro che effettivamente svolgiamo, il nostro salario è sotto la soglia di povertà. Siamo lavoratorə poverə, chiediamo quindi il livello D1. 2. Pagamento ore supplementari: chiediamo che le ore in più svolte vengano retribuite con le maggiorazioni previste dal CCNL. 3. Permessi studio: chiediamo che vengano pagate a tuttə le ore di permesso studio retribuite, molte di noi sono infatti studentesse lavoratrici con estreme difficoltà a conciliare studio e lavoro.  4. Diritti sindacali: riconoscimento del sindacato CUB, in quanto maggiormente rappresentativo, e delle sue RSA elette dalle lavoratrici e relativi diritti sindacali. Molte di questi problemi inoltre non riguardano solo il nostro servizio o solo la cooperativa Valdocco ma tantissimə altrə lavoratorə del sociale. La crescente esternalizzazione dei servizi ha fatto sì che la qualità dei servizi e le condizioni di lavoro siano sempre più basse, con conseguenze sia per chi lavora nel sociale sia per chi dovrebbe usufruire dei servizi, che sono sempre meno accessibili. Per questo il 26 e 27 maggio scioperiamo! 26/5 h. 15 Presidio all’assessorato alle politiche sociali, via Carlo Ignazio Giulio 22 27/5 h. 9.30 ritrovo per lo sciopero indetto dalla CUB Sanità in Piazza Bengasi 27/5 h. 18.30 Assemblea pubblica sul lavoro sociale al Cecchi point. A seguire apericena up to you per costruire una cassa di resistenza. Per contribuire alla cassa mutua dell3 lavorator3: * post IG: https://www.instagram.com/p/DJ_2g52soPn/?igsh=MW9hejlyNmY0eWZlbw== * ⁠raccolta fondi Satispay: https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN--F7C14417-0E2A-48FC-9F97-BEF728635086?locale=it_IT * ⁠crowdfunding su produzioni dal basso: sostieni.link/38202 * ⁠puntata in radio: https://radioblackout.org/podcast/frittura-mistaradio-fabbrica-20-05-2025/
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