«Entrambi i Paesi sono pronti per la pace e per continuare il commercio con gli
Stati Uniti d’America», rivela Trump con la consueta retorica entusiasta
destinata a venire sbugiardata entro poche settimane dai due contendenti della
regione del Mekong, perché i motivi della disputa non sono ancora disinnescati,
come ci ha spiegato Emanuele Giordana, e la telefonata a Bangkok fatta dal
presidente degli Usa è avvenuta con Anutin Charnvirakul, un premier
dimissionario; e soprattutto perché proprio Trump sa bene che il business delle
Scam City, dei Bitcoin, delle truffe è un affare troppo grosso, perché la
Cambogia possa rinunciarvi, e coinvolge un’area che è feudo cinese ed è
attraversata in ogni stato da quel fenomeno di confine.
Contemporanea a una guerra ignorata a lungo finché il numero degli evacuati dal
confine tra Thailandia e Cambogia non ha raggiunto il mezzo milione di persone,
la nostra attenzione torna a essere attirata da una situazione drammatica, che
ancora fatica a trovare spazio tra le breaking news dei network mediatici
mondiali (probabilmente perché Trump non ha il numero di Samia Suluhu Hassan), è
quella che ci ha raccontato una giovane trovatasi per lavoro a essere testimone
ocularedi un massacro, raccogliendo a Dar es Salaam le notizie dalle strade
della Tanzania insanguinate da innumerevoli cadaveri di giovani rivoltosi: la
conta è ancora imprecisata dopo 2 settimane dalla mattanza ma si vocifera di più
di 2000 morti, alcuni sepolti in fosse comuni, altri desaparecidos; una madre
anonima ha raccontato di aver ottenuto le spoglie del figlio solo firmando un
foglio in cui attesta che non è stato ucciso da proiettili. Dal suo racconto è
palese il distacco tra classe dirigente del partito al potere da più di 60 anni
e la popolazione giovane – il paese ha un’età media di 19 anni – che accumulava
una rabbia sorda da tempo nel paese esempio di sviluppo per l’Africa, al centro
di corridoi commerciali e affacciato strategicamente sull’Oceano Indiano con i
suoi porti e le sue infrastrutture.
Come nei due precedenti casi, anche la terza corrispondenza in qualche modo vede
contrapposti i rapporti commerciali cinesi alla rapacità americana.
Il terzo quadrante vede il trumpismo protagonista nel suo patio tracero:
stavolta ci viene illustrato con sensibilità politica, analisi sofisticata e
passione antimperialista da Simon, un compagno che da Medellin ha tracciato un
quadro della crisi venezuelana – e dei motivi di saccheggio di risorse e
rieditazione della Dottrina Monroe dopo due secoli che muovono il neoliberismo
alla aggressione del regime bolivariano –, ma anche della situazione colombiana
a seguito della prima presidenza di una sinistra mai stata istituzionale e delle
possibilità di contrastare le mire dei gringos.
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MINE OFFENSIVE E F16 DIFENSIVI. I CONFINI ALLA ROVESCIA DELLE SCAM CITY
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La Thailandia investe in armi, la Scambodia in truffe
Improvvisamente il mondo si è accorto che da mesi attorno al triangolo dei
confini tra Tailandia, Cambogia, Myanmar la tensione sale. Emanuele Giordana è
tra i pochi ad aver segnalato da tempo quel che stava preparandosi e, grazie
alla lunghissima frequentazione della regione, è in grado di ricostruire fatti e
strategie che spiegano lo scoppio della guerra che da alcuni mesi divide i due
regni asiatici
L’attenzione per l’escalation bellica tra Bangkok e Phnom Penh nasce
dall’evacuazione forzata di mezzo milione di persone dalle zone limitrofe al
confine, ma le motivazioni risalgono a luglio e avevano già visto un’operazione
propagandistica di Trump per un finto accordo di “pace” (derubricato dal premier
tailandese – oggi dimissionario – a “strada verso la pace”) che già era
palesemente traballante a ottobre.
F-16 tailandesi hanno attaccato obiettivi in territorio cambogiano dopo vittime
tailandesi. Artiglieria e lanciarazzi interessano soprattutto Preah Vihear e
Oddar Meanchey, con morti civili e la maggior parte di sfollati. Secondo fonti
tailandesi, carri T-55 e sistemi RM-70 e BM-21 si muovono verso Krong Samraong.
La Royal Thai Air Force ha annunciato la disponibilità a colpire obiettivi
militari in profondità in Cambogia, incluse basi militari e depositi di armi e
droni. Finora i raid aerei thailandesi sono stati condotti solo nelle aree di
confine tra i due paesi. La sproporzione tra le forze in campo aggiunge
instabilità. La Thailandia è militarmente più attrezzata: aviazione, mezzi
corazzati, artiglieria; alla Cambogia non rimane che una posizione difensiva e
droni che possono condurre a un conflitto più ampio nel tempo, se Pechino non
decide che non può consentire una guerra in un’area dove fa buoni affari con
entrambi i contendenti da quando Bangkok ha capito che può essere conveniente
non avere timori di imperialismo peggiore di quello americano, e dunque la Cina
può scongiurare l’incancrenirsi ulteriore tra i due regni, minacciando di
ritirare investimenti.
Le operazioni dei due eserciti sono riprese per la denuncia tailandese di nuove
pose di mine al confine, già costellato di ordigni risalenti al regime di Pol
Pot, ma un’ipotesi che gode di maggiore fondamento va ricercata nel business
delle scam city a cui Phnom Penh non intende rinunciare, perché rappresenta il
25% del suo pil. Lo scontro con Bangkok è già costato il posto alla figlia di
Shanawatri e ora tocca ad Anutin Charnvirakul, che ha dovuto indire nuove
elezioni, rassegnnado le dimissioni del suo debole governo sostenuto
dall’opposizione del Partito popolare inviso alla monarchia e ai militari. Il
che fa temere qualche colpo di mano.
IRREVERSIBILE FINE DI OGNI RAPPORTO TRA TANZANESI E PARTITO DELLA RIVOLUZIONE
Il 9 dicembre è stato il 64esimo anniversario dell’indipendenza del paese
dall’Inghilterra, ma il governo di Samia Suluhu Hassan ha cancellato tutte le
cerimonie ufficiali e imposto il divieto assoluto di qualunque tipo di
manifestazione pacifica. In strada non ci sono state bandiere nè manifestanti ,
ma l’esercito armato. Non solo, attraverso avvisi sms di massa inviati alla
popolazione la polizia ha chiesto a chiunque di segnalare eventuali possibili
attivisti sospetti .Il 29 ottobre scorso, è stato il giorno delle elezioni in
cui Samia Hassan ha ottenuto il 98% dei voti; un risultato non attendibile anche
perchè sono stati esclusi in anticipo i principali candidati dell’opposizione,
tra cui Tundu Lissu di Chadema, arrestato ad aprile. Di fronte alle proteste
seguite alla proclamazione dei risultati si è scatenata una repressione
sanguinosa un vero e prorio massacro: si parla di oltre 2.000 morti, mentre il
governo non ha ancora fornito cifre ufficiali. Sebbene le autorità tanzaniane
abbiano bloccato internet per cinque giorni per tentare di impedire la
pubblicazione di foto e video delle vittime, queste immagini hanno iniziato ad
apparire sui social media pubblicate da attivisti che si trovano all’estero.
Arrivano in misura crescente anche segnalazioni di passanti o civili uccisi
nelle loro case, quando non rappresentavano alcuna minaccia.
Il movimento Jumuiya Ni Yetu (La comunità è nostra, in kiswahili) ha accusato
il governo di una campagna deliberata per cancellare le prove delle uccisioni.
Ha affermato che gli ospedali sono stati sottoposti a misure di sicurezza
rigorose, con le famiglie delle vittime e degli scomparsi “molestate, intimidite
e arrestate” per aver cercato informazioni. “Medici e infermieri hanno ricevuto
l’ordine di ‘malizare’ (finire ) coloro che erano in terapia intensiva a causa
di ferite da arma da fuoco. Gli attivisti ritengono che almeno 2.000 corpi
scomparsi segnalati dalle famiglie siano tra quelli sepolti in fosse comuni.
Il silenzio della cosiddetta comunità internazionale di fronte al massacro è
stato assordante ,si vuole salvaguardare il flusso di denaro che arriva dai vari
progetti infrastrutturali che sono in corso in Tanzania ,dal porto di Daar es
Salam controllato dagli emiratini alla ferrovia Tazara costruita dai cinesi
alle intersezioni con il corridoio di Lobito.
Ne parliamo con una ragazza italiana di cui preserviamo l’anonimato , rientrata
da poco dalla Tanzania dopo un soggiorno di lavoro, testimone degli avvenimenti.
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POSSIBILI SCENARI LATINAMERICANI A FRONTE DELLA NUOVA DOTTRINA MONROE: VENEZUELA
E COLOMBIA
Abbiamo colto l’occasione della presenza di due militanti colombiani a radio
Blackout per rivolgergli una serie di domande sulla situazione colombiana e la
minaccia di aggressione nordamericana contro il Venezuela. E’ emersa una visione
realistica della situazione che individua i limiti del progressismo di Petro pur
apprezzando certe posizioni sul genocidio in Palestina. Il “pacto historico ”
(il partito di Petro) è in buona sostanza un partito ombrello in cui trovano
spazio sia posizioni moderate che radicali con un programma riformista che
sicuramente garantisce dei miglioramenti anche nell’agibilità politica sul
territorio, ma che non mette in discussione la struttura oligarchica del potere
colombiano.
La minaccia d’invasione nordamericana contro la rivoluzione bolivariana rischia
di rivelarsi una pericolosa avventura per gli Stati Uniti ,considerando la
reazione che scuoterebbe il continente e le csapacità di mobilitazione del
popolo venezuelano.Gli americani non avrebbero difficoltà ad invadere il paese
ma potrebbero non essere in grado di garantire i loro obiettivi ,cioè il
controllo delle risorse petrolifere e il cambio di regime a Caracas. La
rivendicazione di una nuova dottrina Monroe da parte dell’amministrazionde Trump
rappresenta la crisi di egemonia degli Stati Uniti che non sono più in grado di
sostenere la loro proiezione globale e cercano di recuperare il terreno perduto
rispetto alla presenza cinese nella loro sfera d’influenza piu’ prossima ,
l’America Latina .
Ecco il resoconto dell’intervista con i due attivisti colombiani.
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