
Un attacco senza precedenti al diritto di protesta e al dissenso in Europa e in Italia
Osservatorio Repressione - Tuesday, April 8, 2025Dall’ottobre del 2023 i governi di vari paesi europei hanno applicato un livello allarmante di repressione contro le proteste e il dissenso a sostegno della causa palestinese, prendendo di mira persone attiviste, artiste, manifestanti, organizzazioni politiche e civili attraverso l’uso di divieti generalizzati, intimidazioni, molestie e arresti.
di Debora Del Pistoia da pressenza
La potenza espressiva delle storie di attiviste e di attivismo che emerge dal libro CARCERE AI RIBELL3. STORIE DI ATTIVIST3 (Multimage, 2025) riflette le grandi personalità femminili che vi stanno dietro, le donne ribelli del comitato “Mamme in piazza per la libertà del dissenso”, tutte figlie, a loro volta, del territorio più rivoltoso d’Italia e anche per questo, forse, più brutalmente oggetto di repressione.
Questo libro ci aiuta ad osservare quello che accade sempre più diffusamente nel nostro paese in chiave di chiusura degli spazi di agibilità democratica attraverso un taglio nuovo, emotivamente toccante, ma che non perde mai il punto centrale della volontà di cambiamento.
La tempestività con cui questo importante contributo editoriale vede la luce è particolarmente simbolica, considerato il momento storico eccezionale che stiamo vivendo nel mondo e in Europa. Un genocidio in corso alle porte dell’Europa, quello ai danni del popolo palestinese, e allo stesso tempo la peggiore deriva autoritaria in tutto il continente mai vista dalla Seconda guerra mondiale.
Ma che cosa lega a stretto giro la regressione dello stato di diritto in Europa con il genocidio in corso? Oltre alla complicità delle potenze occidentali negli eventi di Gaza e della Palestina tutta, viviamo oggi un gravissimo giro di vite e di criminalizzazione del dissenso pacifico in Europa che sta colpendo proprio il movimento in solidarietà con la Palestina, accompagnato da una profonda discriminazione ai danni delle persone razzializzate, al punto di diventare una sorta di test dello stato di salute della democrazia nel continente, così come lo sono state e continuano ad esserlo, in parte, le proteste per la giustizia climatica e le grandi opere.
Dall’ottobre del 2023, infatti, i governi di vari paesi europei, in primis Regno Unito, Francia e Germania hanno applicato un livello allarmante di repressione contro le proteste e il dissenso a sostegno della causa palestinese, prendendo di mira persone attiviste, artiste, manifestanti, organizzazioni politiche e civili attraverso l’uso di divieti generalizzati, intimidazioni, molestie e arresti. Si tratta di un attacco diretto alla libertà al dissenso e alla libertà di espressione, inclusa accademica e di ricerca (ne è esempio lampante l’ultima direttiva approvata in Germania sulla definizione di antisemitismo.
Recentemente, la stessa relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione ha espresso preoccupazione per la tendenza di diversi paesi a reprimere le proteste e le espressioni critiche “in modo sproporzionato e discriminatorio nei confronti dei gruppi palestinesi”, definendo la situazione come un “giro di vite” sulle libertà civili e citando l’Italia come uno dei contesti in questione.
La relatrice speciale dell’ONU ha anche definito i divieti generalizzati o preventivi sulle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese introdotti da diversi governi europei come “… arbitrari, che equiparano ingiustamente la difesa della Palestina ad attività antisemite o a sostegno del terrorismo, e discriminatori, in quanto nessuna manifestazione a sostegno di Israele sembra aver subito restrizioni specifiche”.
Ma cosa c’entra tutto questo con le storie raccontate in questo libro?
La criminalizzazione mirata di determinati gruppi di attiviste e attivisti, come nel caso del movimento in solidarietà con la Palestina, è uno degli aspetti cruciali che emergono come elemento comune dal rapporto che Amnesty International ha lanciato nel luglio di quest’anno sullo stato di salute del diritto di protesta in 21 paesi europei. La ricerca mette in evidenza l’attacco senza precedenti al diritto di protesta pacifica in Europa, descrivendo un modello europeo di repressione, con similitudini regionali nell’apparato utilizzato per soffocare il dissenso. Un diritto cruciale come quello alla protesta pacifica e al dissenso, considerato acquisito in Europa, è oggi sempre più a rischio in un contesto di generale crescente criminalizzazione da parte delle autorità dei principali paesi europei analizzati.
Una delle tendenze europee più preoccupanti riguarda proprio, come sopra menzionato, la crescente stigmatizzazione da parte di autorità e media mirata a delegittimare chi manifesta pacificamente, attraverso una retorica tossica, che in molti casi è solo la premessa per giustificare l’introduzione di leggi ancora più restrittive per il diritto di riunione pacifica. Prima di aver come obiettivo le proteste in solidarietà con il popolo palestinese, questa dinamica in Europa aveva colpito brutalmente le proteste per la giustizia climatica che dilagavano in tutta la regione anche attraverso atti di disobbedienza civile, mirati a denunciare le ingiustizie infrangendo intenzionalmente la legge in modo non violento.
Il modello è chiaro, dopo aver identificato individui o gruppi specifici come minacce all’ordine pubblico, definendoli come criminali o “terroristi”, questi stessi diventano poi destinatari di misure normative e amministrative ad hoc e oggetto di restrizioni generalizzate, illegali per gli standard internazionali dei diritti umani.
Il quadro europeo evidenzia poi un uso sempre più diffuso, eccessivo e/o non necessario della forza da parte delle forze di polizia per disperdere manifestazioni pacifiche, compreso attraverso l’uso di armi meno letali, che in molti casi hanno causato feriti con lesioni gravi e talvolta permanenti in più della metà dei paesi analizzati. Con sempre maggiore frequenza anche in Europa le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un uso eccessivo e non necessario della forza, anche attraverso l’impiego di militari, come avvenuto recentemente in Olanda in occasione di azioni dirette non violente da parte di attiviste e attivisti di Extinction Rebellion. Questo si accompagna poi a una tendenza generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le violazioni delle forze dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la mancanza di meccanismi di inchiesta indipendenti.
Questo insieme di misure e strumenti repressivi stanno creando un progressivo “effetto intimidatorio” che inibisce la partecipazione alle proteste e l’espressione pubblica del dissenso, pilastro della democrazia, contribuendo velocemente ad una regressione importante dello stato di diritto nei principali paesi europei.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca, lo stato di salute del diritto di protesta e al dissenso versa in condizioni estremamente precarie. A fronte di una regressione nell’esercizio del dissenso pacifico che ormai data di almeno di tre decenni, gli ultimi due anni hanno visto un accelerarsi di prassi e provvedimenti legislativi repressivi mirati a smantellare progressivamente un diritto fondamentale che veniva considerato scontato.
Il comitato delle “Mamme”, così come le altre persone attiviste del contesto torinese raccontate in questa pubblicazione, nascono in un territorio che ha conosciuto la repressione direttamente e prima che questa dilagasse a macchia d’olio molto velocemente nel resto del paese. Fino a qualche anno fa, in ambito attivista, si soleva dire che Torino e la Valsusa fossero un territorio d’eccezione, o come meglio lo ha definito l’ex magistrato Livio Pepino, “un laboratorio di repressione anticipatorio di pratiche di repressione lì sperimentate che si sarebbero poi replicate a macchia d’olio su altri territori” nell’intero stivale. In particolare, un modello di repressione che metteva insieme un apparato mediatico, politico e giudiziario, abbinato alla militarizzazione del territorio attraverso provvedimenti di emergenza, come la creazione delle “zone rosse”, poi prolungati in maniera illegittima nel tempo senza valutazioni di necessità e proporzionalità.
Duole costatare che è arrivato molto velocemente il momento in cui le pratiche torinesi sono ormai diventate routine in tutta Italia.
Tra gli aspetti certamente più preoccupanti di questa tendenza autoritaria riscontriamo il grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di applicazione delle misure amministrative di prevenzione, in particolare il “DASPO urbano” e il “foglio di via”, ai danni di (ma non solo) attiviste e attivisti pacifici e sindacalisti. Basati su motivazioni vaghe e spesso imposti dalle autorità amministrative senza una preventiva autorizzazione giudiziaria, questi violano i principi di legalità e di presunzione di innocenza, sono in contrasto con le garanzie del giusto processo e possono violare diritti umani fondamentali.
Come meglio specificato nella postfazione curata dall’avvocato torinese Claudio Novaro, la gravità di queste misure cautelari si fonda proprio sul fatto che vengano emesse sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di “pericolosità sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia (talvolta definiti anche “pregiudizi” di polizia) non fondati su un esame individuale delle circostanze specifiche, né su procedimenti penali o condanne di alcun tipo.
Lo abbiamo riscontrato chiaramente durante la giornata del 5 ottobre 2024 in occasione della manifestazione nazionale per la Palestina a Roma. In quella circostanza le autorità hanno effettuato controlli di identità e perquisizioni a tappeto su un altissimo numero di persone manifestanti o percepite tali durante il loro percorso in direzione del luogo di assembramento della manifestazione. Molte di loro sono state trattenute per diverse ore in varie stazioni di polizia della capitale, senza ricevere alcuna informazione sulle ragioni specifiche della loro detenzione, per essere infine notificate di essere oggetto di “fogli di via obbligatori”, che prevedevano l’obbligo di lasciare Roma entro un’ora e di non farvi ritorno per un periodo compreso tra i sei mesi e i quattro anni. In alcuni di questi provvedimenti si esplicita che la “condotta di vita” suggeriva alla polizia che la stessa persona avrebbe commesso attività illegali nella città di Roma. Una presunzione di colpevolezza quindi e un salto importante verso un sistema di eccessiva discrezionalità nell’emissione di determinate misure estremamente limitative della libertà personale e di vari diritti, tra cui il diritto alla libera circolazione, allo studio, al lavoro e alla vita privata.
Come in altri paesi europei, anche in Italia la criminalizzazione dell’attivismo pacifico passa anche attraverso la narrazione mediatica tossica, poi strumentalizzata per approvare leggi che restringono in maniera progressiva il diritto di protesta. Per quanto con un approccio in continuità con le legislature precedenti, con il governo attuale abbiamo riscontrato questa strategia applicarsi in maniera più chiara, con un aumento importante di provvedimenti che prevedono incrementi e norme specifiche che vanno a criminalizzare direttamente il dissenso pacifico.
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