Recensione al libro “La trappola” di John Wainwright, edizioni Paginauno, 2024
di Edoardo Todaro da Carmilla
Qualche mese fa avevo scritto, proprio qui, a proposito di Stato di fermo del
medesimo autore. In continuità con le righe di allora, scrivo, avendolo letto,
di La trappola, come ebbi modo di scrivere allora, quanto Wainwright scrive lo
deve, in particolare, al suo essere stato in polizia per ben 19 anni.
Conosce avendo sperimentato direttamente: “vita, morte e miracoli” di metodi,
usi ed abusi delle forze dell’ordine. Nelle pagine che ho letto, abbiamo a che
fare con il capro espiatorio di turno, perché un colpevole ci deve essere, ma
soprattutto ci vuole: stando alle modalità previste dai tutori dell’ordine e per
far questo viene predisposta una “sala omicidi” apposita, perché non avverrà un
normale interrogatorio, ma una vera e propria intimidazione, unica arma a
disposizione degli investigatori.
Interrogatorio che si svolge, prima, nella macchina di servizio, con tutte le
pressioni del caso e psicologicamente sfavorevole per il presunto colpevole, che
attorno a sé non può che sentirsi in trappola essendo circondato da dei veri e
propri nemici. Interrogatorio nei confronti di un indiziato che avendo
precedenti, diviene in automatico un assassino.
Oltre al volere a tutti i costi un colpevole, “creare il vestito”, visto che i
poliziotti quando arrestano qualcuno lo terrorizzano, Wainwright evidenzia anche
i pregiudizi esistenti, tra le forze dell’ordine, verso gli omosessuali, la cui
comunità, e le rimostranze del presidente della comunità non servono a niente,
un presidente che dà una lezione di vita spiegando non solo, cos’è l’amore ma
le difficoltà nel dichiarare il proprio orientamento sessuale, è messa sotto
pressione.
Visto che c’è un omicidio di mezzo, è legittima la domanda: l’omicidio di uno
sconosciuto omosessuale a chi può interessare, visto che la comunità del luogo
costruisce una falsa unità su luoghi comuni, sull’asserzione che l’omosessuale,
Richardson è stato ucciso da qualcuno della sua specie. Omosessualità che sarà
elemento importante nel contesto di queste 209 pagine.
Quindi pregiudizi ed arroganza che danno vita ad un sistema di sopraffazione. La
montatura che predispone la trappola: avere un colpevole comunque in fin dei
conti non è niente di illegale, solo un po’ insolito. Si parlava di arroganza
verso i presunti colpevoli, ma l’arroganza, la sopraffazione è un qualcosa che
si rivolge anche verso i propri colleghi, un detective deve incutere timore
anche tra loro.
Wainwright mette in evidenza anche il ruolo positivo , in quel contesto, del
poliziotto di zona che mantiene rapporti cordiali con gli abitanti della zona a
cui deve soprintendere (il poliziotto buono). Ciò che unisce il poliziotto buono
e quello cattivo è l’usare il trucco più vecchio del mondo nel campo
investigativo: non solo lasciare tutto il tempo necessario affinché
nell’indagato subentri un senso di preoccupazione rispetto a ciò che potrebbe
accadere, condurre un interrogatorio con ampi spazi di silenzio nei quali far
logorare il presunto colpevole, ma soprattutto l’assillo di un quesito che gira
nella testa degli uomini in divisa, lasciare un assassino a piede libero o
arrestarlo con prove insufficienti?
Perché l’essere sicuri al 99% della colpevolezza dell’indiziato non è
sufficiente: basta l’1% ed un omicida si ritrova libero. Ma tanto, chi è
colpevole alla fine crolla.
Nel manuale del bravo poliziotto ma soprattutto esperto trovi sicuramente che è
sufficiente ottenere reazioni alle proprie domande visto che ad esse le risposte
non sono necessarie. Questi metodi sono parte del mestiere, dell’arte
dell’essere detective, la cui abilità risiede nel mettere l’interrogato, di
turno, in condizioni sfavorevoli, perché i detective non costruiscono, bensì
demoliscono, distruggono.
In questo caso ci troviamo di fronte a un indagato che ostinatamente continua a
negare per dirigersi piano piano verso una quasi ammissione. Il punto di domanda
si riferisce esclusivamente al quando questo momento arriverà. L’ammissione
arriverà, chissà, ma solo grazie ad una vera propria tortura, certamente non
fisica, ma mentale e psicologica, nascosta, metodica, al di là di ogni strategia
e tecnica pervasiva di polizia.
Il risultato deve essere uno ed uno soltanto: la trappola ha funzionato ed il
caso è risolto. Quante volte abbiamo assistito, anche in Italia, a situazioni di
questo tipo: montature, “teoremi”, colpevolezze definite in base a prove
costruite a tavolino. In Italia è ancora in vigore il Codice Rocco, per non
parlare della Legge Reale, che trasforma il conflitto sociale in problema di
“ordine pubblico”, e le “leggi speciali” tutt’ora in vigore. E se come pare il
decreto legge in discussione (1236) (1) alla camera dovesse passare, non oso
immaginare il concretizzarsi dell’attuazione del sorvegliare e punire. (ndr:
venerdi 4 aprile il governo ha approvato il decreto legge sicurezza)
Note:
1.
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Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia Edizione italiana
a cura di Italo di Sabato. Postfazione di Italo di Sabato e Turi Palidda.
Illustrazioni di Noah Jodice. Momo Edizioni
Police Abolition è un piccolo libro, una ripubblicazione di Momo Edizioni di una
fanzine americana divulgativa che racconta come negli Usa l’utopia
dell’abolizione della Polizia sia diventato un tema sempre più concreto e
attuale.
Definanziare, smantellare e abolire la polizia sono state alcune tra le
rivendicazioni più forti e concrete delle mobilitazioni che hanno attraversato
gli Stati Uniti negli ultimi anni. L’illusione di poter riformare i corpi di
polizia ha lasciato il passo alla consapevolezza delle radici storiche e
strutturali della violenza poliziesca.
Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio repressione che ha curato
l’edizione italiana ha cercato, nella postfazione insieme a Salvatore Palidda,
di contestualizzare la proposta americana e tentare un parallelo con la
situazione in Italia e in Europa.
Partendo dall’interrogarsi la polizia a cosa serve? A chi serve? A che serve
tutta questa meticolosa militarizzazione del territorio, tutta questa
sorveglianza dei comportamenti, tutta questa brutalità istituzionalizzata?
Perché la polizia è così violenta nell’approccio con le classi subalterne?
Per il curatore la polizia difende con tutti i mezzi a sua disposizione un certo
tipo di ordine e di società che esercita il suo ricatto di paura e sicurezza
sugli individui soli, diseredati e quindi deboli prodotti dal mondo
dell’economia. Lungi dal creare sicurezza, la polizia è sempre stata un mezzo
per affermare il controllo. Oggi, la polizia rimane la forza in prima linea che
reprime le manifestazioni per la pace, il clima, la giustizia sociale, e
l’imperativo del pericolo rimane uno strumento potente per spiegare le loro
azioni. Ma la polizia non è solo il braccio armato dello stato e del governo, è
la garanzia che ognuno rimanga al posto che gli spetta. I regimi democratici, in
evidente crisi di legittimazione, tendono a incrementare l’uso delle forze di
polizia come risposta ai movimenti sociali e di protesta, perciò i governi
esitano quando si parla di riformare i corpi e cambiare le regole di ingaggio.
Che la funzione sociale della polizia sia mantenere un certo ordine mondiale è
un dato di fatto. Ciò che continua ad essere meno compreso, tuttavia, è
l’affermazione da cui dipende la loro esistenza, la più grande menzogna
antropologica: che senza il loro esercizio di violenza “legittima” non saremmo
in grado di darci regole di vita comuni e ci uccideremmo a vicenda alla prima
opportunità.
Secondo Italo Di Sabato l’unico modo per affrontare il problema della polizia
oppressiva è abolirla. Poter togliere i finanziamenti alla polizia, e investire
nei servizi sociali e di cura, può significare anche rinunciare ai modelli
produttivi che ci danneggiano e che sono basati sulla difesa dei privilegi e
investire invece nel benessere delle comunità. Certo, non sono trasformazioni
praticabili dall’oggi al domani ma, se quel che conosciamo non funziona e meno
ancora ci piace, potrebbe essere arrivato il momento di ragionarci un po’ su.
Tutte le info sul sito di Momo
https://momoedizioni.it/catalogo/police-abolition/
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Dall’ottobre del 2023 i governi di vari paesi europei hanno applicato un livello
allarmante di repressione contro le proteste e il dissenso a sostegno della
causa palestinese, prendendo di mira persone attiviste, artiste, manifestanti,
organizzazioni politiche e civili attraverso l’uso di divieti generalizzati,
intimidazioni, molestie e arresti.
di Debora Del Pistoia da pressenza
La potenza espressiva delle storie di attiviste e di attivismo che emerge dal
libro CARCERE AI RIBELL3. STORIE DI ATTIVIST3 (Multimage, 2025) riflette le
grandi personalità femminili che vi stanno dietro, le donne ribelli del comitato
“Mamme in piazza per la libertà del dissenso”, tutte figlie, a loro volta, del
territorio più rivoltoso d’Italia e anche per questo, forse, più brutalmente
oggetto di repressione.
Questo libro ci aiuta ad osservare quello che accade sempre più diffusamente nel
nostro paese in chiave di chiusura degli spazi di agibilità democratica
attraverso un taglio nuovo, emotivamente toccante, ma che non perde mai il punto
centrale della volontà di cambiamento.
La tempestività con cui questo importante contributo editoriale vede la luce è
particolarmente simbolica, considerato il momento storico eccezionale che stiamo
vivendo nel mondo e in Europa. Un genocidio in corso alle porte dell’Europa,
quello ai danni del popolo palestinese, e allo stesso tempo la peggiore deriva
autoritaria in tutto il continente mai vista dalla Seconda guerra mondiale.
Ma che cosa lega a stretto giro la regressione dello stato di diritto in Europa
con il genocidio in corso? Oltre alla complicità delle potenze occidentali negli
eventi di Gaza e della Palestina tutta, viviamo oggi un gravissimo giro di vite
e di criminalizzazione del dissenso pacifico in Europa che sta colpendo proprio
il movimento in solidarietà con la Palestina, accompagnato da una profonda
discriminazione ai danni delle persone razzializzate, al punto di diventare una
sorta di test dello stato di salute della democrazia nel continente, così come
lo sono state e continuano ad esserlo, in parte, le proteste per la giustizia
climatica e le grandi opere.
Dall’ottobre del 2023, infatti, i governi di vari paesi europei, in primis Regno
Unito, Francia e Germania hanno applicato un livello allarmante di repressione
contro le proteste e il dissenso a sostegno della causa palestinese, prendendo
di mira persone attiviste, artiste, manifestanti, organizzazioni politiche e
civili attraverso l’uso di divieti generalizzati, intimidazioni, molestie e
arresti. Si tratta di un attacco diretto alla libertà al dissenso e alla libertà
di espressione, inclusa accademica e di ricerca (ne è esempio lampante l’ultima
direttiva approvata in Germania sulla definizione di antisemitismo.
Recentemente, la stessa relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di
opinione e di espressione ha espresso preoccupazione per la tendenza di diversi
paesi a reprimere le proteste e le espressioni critiche “in modo sproporzionato
e discriminatorio nei confronti dei gruppi palestinesi”, definendo la situazione
come un “giro di vite” sulle libertà civili e citando l’Italia come uno dei
contesti in questione.
La relatrice speciale dell’ONU ha anche definito i divieti generalizzati o
preventivi sulle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese introdotti da
diversi governi europei come “… arbitrari, che equiparano ingiustamente la
difesa della Palestina ad attività antisemite o a sostegno del terrorismo, e
discriminatori, in quanto nessuna manifestazione a sostegno di Israele sembra
aver subito restrizioni specifiche”.
Ma cosa c’entra tutto questo con le storie raccontate in questo libro?
La criminalizzazione mirata di determinati gruppi di attiviste e attivisti, come
nel caso del movimento in solidarietà con la Palestina, è uno degli aspetti
cruciali che emergono come elemento comune dal rapporto che Amnesty
International ha lanciato nel luglio di quest’anno sullo stato di salute del
diritto di protesta in 21 paesi europei. La ricerca mette in evidenza l’attacco
senza precedenti al diritto di protesta pacifica in Europa, descrivendo un
modello europeo di repressione, con similitudini regionali nell’apparato
utilizzato per soffocare il dissenso. Un diritto cruciale come quello alla
protesta pacifica e al dissenso, considerato acquisito in Europa, è oggi sempre
più a rischio in un contesto di generale crescente criminalizzazione da parte
delle autorità dei principali paesi europei analizzati.
Una delle tendenze europee più preoccupanti riguarda proprio, come sopra
menzionato, la crescente stigmatizzazione da parte di autorità e media mirata a
delegittimare chi manifesta pacificamente, attraverso una retorica tossica, che
in molti casi è solo la premessa per giustificare l’introduzione di leggi ancora
più restrittive per il diritto di riunione pacifica. Prima di aver come
obiettivo le proteste in solidarietà con il popolo palestinese, questa dinamica
in Europa aveva colpito brutalmente le proteste per la giustizia climatica che
dilagavano in tutta la regione anche attraverso atti di disobbedienza civile,
mirati a denunciare le ingiustizie infrangendo intenzionalmente la legge in modo
non violento.
Il modello è chiaro, dopo aver identificato individui o gruppi specifici come
minacce all’ordine pubblico, definendoli come criminali o “terroristi”, questi
stessi diventano poi destinatari di misure normative e amministrative ad hoc e
oggetto di restrizioni generalizzate, illegali per gli standard internazionali
dei diritti umani.
Il quadro europeo evidenzia poi un uso sempre più diffuso, eccessivo e/o non
necessario della forza da parte delle forze di polizia per disperdere
manifestazioni pacifiche, compreso attraverso l’uso di armi meno letali, che in
molti casi hanno causato feriti con lesioni gravi e talvolta permanenti in più
della metà dei paesi analizzati. Con sempre maggiore frequenza anche in Europa
le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un uso eccessivo e
non necessario della forza, anche attraverso l’impiego di militari, come
avvenuto recentemente in Olanda in occasione di azioni dirette non violente da
parte di attiviste e attivisti di Extinction Rebellion. Questo si accompagna poi
a una tendenza generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le
violazioni delle forze dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la
mancanza di meccanismi di inchiesta indipendenti.
Questo insieme di misure e strumenti repressivi stanno creando un progressivo
“effetto intimidatorio” che inibisce la partecipazione alle proteste e
l’espressione pubblica del dissenso, pilastro della democrazia, contribuendo
velocemente ad una regressione importante dello stato di diritto nei principali
paesi europei.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca, lo
stato di salute del diritto di protesta e al dissenso versa in condizioni
estremamente precarie. A fronte di una regressione nell’esercizio del dissenso
pacifico che ormai data di almeno di tre decenni, gli ultimi due anni hanno
visto un accelerarsi di prassi e provvedimenti legislativi repressivi mirati a
smantellare progressivamente un diritto fondamentale che veniva considerato
scontato.
Il comitato delle “Mamme”, così come le altre persone attiviste del contesto
torinese raccontate in questa pubblicazione, nascono in un territorio che ha
conosciuto la repressione direttamente e prima che questa dilagasse a macchia
d’olio molto velocemente nel resto del paese. Fino a qualche anno fa, in ambito
attivista, si soleva dire che Torino e la Valsusa fossero un territorio
d’eccezione, o come meglio lo ha definito l’ex magistrato Livio Pepino, “un
laboratorio di repressione anticipatorio di pratiche di repressione lì
sperimentate che si sarebbero poi replicate a macchia d’olio su altri territori”
nell’intero stivale. In particolare, un modello di repressione che metteva
insieme un apparato mediatico, politico e giudiziario, abbinato alla
militarizzazione del territorio attraverso provvedimenti di emergenza, come la
creazione delle “zone rosse”, poi prolungati in maniera illegittima nel tempo
senza valutazioni di necessità e proporzionalità.
Duole costatare che è arrivato molto velocemente il momento in cui le pratiche
torinesi sono ormai diventate routine in tutta Italia.
Tra gli aspetti certamente più preoccupanti di questa tendenza autoritaria
riscontriamo il grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di
applicazione delle misure amministrative di prevenzione, in particolare il
“DASPO urbano” e il “foglio di via”, ai danni di (ma non solo) attiviste e
attivisti pacifici e sindacalisti. Basati su motivazioni vaghe e spesso imposti
dalle autorità amministrative senza una preventiva autorizzazione giudiziaria,
questi violano i principi di legalità e di presunzione di innocenza, sono in
contrasto con le garanzie del giusto processo e possono violare diritti umani
fondamentali.
Come meglio specificato nella postfazione curata dall’avvocato torinese Claudio
Novaro, la gravità di queste misure cautelari si fonda proprio sul fatto che
vengano emesse sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di
“pericolosità sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia
(talvolta definiti anche “pregiudizi” di polizia) non fondati su un esame
individuale delle circostanze specifiche, né su procedimenti penali o condanne
di alcun tipo.
Lo abbiamo riscontrato chiaramente durante la giornata del 5 ottobre 2024 in
occasione della manifestazione nazionale per la Palestina a Roma. In quella
circostanza le autorità hanno effettuato controlli di identità e perquisizioni a
tappeto su un altissimo numero di persone manifestanti o percepite tali durante
il loro percorso in direzione del luogo di assembramento della manifestazione.
Molte di loro sono state trattenute per diverse ore in varie stazioni di polizia
della capitale, senza ricevere alcuna informazione sulle ragioni specifiche
della loro detenzione, per essere infine notificate di essere oggetto di “fogli
di via obbligatori”, che prevedevano l’obbligo di lasciare Roma entro un’ora e
di non farvi ritorno per un periodo compreso tra i sei mesi e i quattro anni. In
alcuni di questi provvedimenti si esplicita che la “condotta di vita” suggeriva
alla polizia che la stessa persona avrebbe commesso attività illegali nella
città di Roma. Una presunzione di colpevolezza quindi e un salto importante
verso un sistema di eccessiva discrezionalità nell’emissione di determinate
misure estremamente limitative della libertà personale e di vari diritti, tra
cui il diritto alla libera circolazione, allo studio, al lavoro e alla vita
privata.
Come in altri paesi europei, anche in Italia la criminalizzazione dell’attivismo
pacifico passa anche attraverso la narrazione mediatica tossica, poi
strumentalizzata per approvare leggi che restringono in maniera progressiva il
diritto di protesta. Per quanto con un approccio in continuità con le
legislature precedenti, con il governo attuale abbiamo riscontrato questa
strategia applicarsi in maniera più chiara, con un aumento importante di
provvedimenti che prevedono incrementi e norme specifiche che vanno a
criminalizzare direttamente il dissenso pacifico.
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(disegno di escif)
Quando nel 1988 Umberto Eco pubblicò il suo Pendolo di Foucault, Severino Cesari
scrisse sul Manifesto: “È il grande libro sul vuoto di questi anni e lo
dichiara, se appena uno sa leggere. Ed è il duro, metallico libro che insegna a
vivere con questo vuoto, a diventare adulti nell’unico tempo concesso…”.
Qualcuno, rileggendo queste parole, potrebbe chiedersi: ma che c’entra il vuoto
degli anni Ottanta con quella storia di complotti secolari e confraternite
arcaiche? Eppure, quella chiave di lettura del romanzo di Eco era pertinente: il
libro parlava obliquamente anche del presente, se solo si sapeva leggere in
controluce attraverso il suo disegno tortuoso e immaginifico. Questo perché
l’autore aveva afferrato il “genere” e l’aveva strizzato con una tale intensità
da esondare oltre il suo perimetro “naturale”, trasformandolo in altro, in
letteratura tout court, alta, polisemica, universale.
Con lo stesso approccio, Franco Pezzini, riconosciuto come massimo esperto
italiano di letteratura gotico-horror vittoriana, ha dato alle stampe il
suo Morte Astrale (Polidoro editore, 2025, pag. 432, 18 euro), un libro
labirintico e avvincente che solo superficialmente potrebbe rimandare al canone
stilistico e tematico del Pendolo. In realtà, i parallelismi che si possono
cogliere rimandano essenzialmente al metodo – la sfida continua al lettore,
l’esortazione a perdersi nei meandri della trama. E anche nella tracimazione,
più o meno voluta, dal proprio dichiarato alveo “fantasy” (detestabile
definizione che mortifica il genere) verso approdi diversi e più ampi.
Franco Pezzini è stato amico del compianto Valerio Evangelisti – con il quale ha
condiviso l’avventura di Carmilla –, figura chiave della letteratura italiana
contemporanea, innovatore e fonte di ispirazione per molti. Evangelisti intuì
fin dai primi anni Novanta che il romanzo di genere poteva essere usato come un
ponte da attraversare e far saltare – in una tensione continua verso la
costruzione di un immaginario luminoso, di apertura ai mondi possibili
dell’esperienza e della praxis umana. E questi criteri Evangelisti li applicava
sia quando raccontava di Nostradamus che del sindacalismo americano. Scriveva
Evangelisti che, quello che orgogliosamente la letteratura “alta” si permetteva
di ignorare, nel fantasy e nella fantascienza trovava posto perché “il genere è
intrinsecamente massimalista e incline a gestire grandi temi: trasformazioni di
larga scala, sistemi nascosti di dominio, società alternative, effetti tragici o
bizzarrie della tecnologia… quello che il genere non tollererà mai è il
minimalismo, perché incompatibile con il suo codice genetico. Solo nella
fantascienza troviamo descrizioni realistiche (si, realistiche!) del mondo in
cui viviamo…”.
Pezzini raccoglie il testimone e costruisce la sua storia su un intreccio di
suggestioni e rimandi cronologici e letterari, che poi riesce a padroneggiare
(con fatica) e condurre fino in fondo, facendo quadrare in qualche modo i conti
della ricca narrazione. Sotto le sue mani di puparo scrupoloso, moderni
esoteristi e antichissime sette si contendono i segreti delle forze della natura
e del potere a cui esse consentono di accedere. Personaggi e contesti reali e
immaginari attraversano il tempo e lo spazio inseguendo il filo del Segreto –
che rappresenta la distopia, la minaccia incombente, l’incubo del male, ma che
può anche rovesciarsi nel suo opposto, nella luce dell’utopia. Il Segreto come
bussola dell’esistenza e della storia in tempi in cui il nichilismo troneggia
vittorioso.
Viene da riflettere sui miti occultistici – a lungo alimentati e inseguiti
dall’uomo –, oggi che siamo giunti nell’epoca della loro sostanziale inutilità:
le forze naturali sono state soggiogate non da ritualità arcane ma dalla
tecnologia; e la vera magia operativa è oggi nelle mani di ristrette oligarchie
che creano tempeste materiali e finanziarie, con più facilità di quanto un
romanziere possa immaginare. E allora bisogna raccontare in qualche modo “il
duro metallico” mondo in cui ci tocca vivere, ricreandolo nella dimensione
parallela del fantastico. Un mondo in cui la “morte astrale” non arriva da una
dimensione parallela più o meno immaginaria, ma dalla cybersfera, i cui incubi
entrano ed escono dalla nostra realtà materiale a ogni istante, nei tempi della
iperconnessione globale.
Serve la letteratura di genere oggi? E può essere considerata evasione o
trastullo immaginativo? Chiediamoci cos’è una rivoluzione – politica o
letteraria – se non innanzitutto un grandioso sforzo creativo di immaginazione.
Col pragmatismo non si fa altro che contemplare il miserabile presente. Così
come il pragmatismo in politica è la scienza triste dell’amministrazione, in
letteratura corrisponde al minimalismo intimista, così diffuso oggi per stile e
contenuti. E Pezzini non vuole saperne di volare basso raccontando il mondo così
com’è. I suoi personaggi sono incalliti idealisti – del bene o del male, cambia
poco. La loro missione è sconvolgere la storia o salvarla. E anche qui un
rimando al tempo presente: continuiamo a tenere in vita la medesima
meta-narrazione, il racconto teosofico della Loggia Bianca e Nera che si
affrontano da secoli e che viene rivitalizzato e declinato, epoca dopo epoca,
fino ai giorni nostri – con i “progressisti” asserragliati nei salotti della
Gruber pensando di difendere il paradiso perduto dell’occidente dall’orco Trump;
e i dementi di Qannon che sperano di usare il messia Trump per rifondarlo.
Insomma, gli esoteristi di Pezzini, che attraversano i secoli dal Medioevo alla
Belle Epoque, sono altrettanto plausibili delle maschere irritanti del reale. E
davanti alla malattia del mondo contemporaneo fanno anche tenerezza le citazioni
di figure iconiche del milieu magico esoterico che abbondano nel testo: come
quell’Aleister Crowley, che nelle sue megalomani velleità di Mago Nero non
avrebbe mai pensato di diventare inoffensiva icona pop finito su una copertina
dei Beatles.
Franco Pezzini sceglie l’esordio narrativo – dopo anni di scrittura intensa e
piena di riconoscimenti come critico e saggista. E lo fa con una storia scritta
più di un ventennio fa. È un esordio ricco di adrenalina e malinconia, che
stupisce e interroga in più di uno snodo. Ma alla fine ti costringe a chiederti:
ci sarà mai un seguito? (giovanni iozzoli)
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata
di Marco Sommariva*
In un articolo di Stefania Garassini pubblicato qualche giorno fa su Avvenire,
leggo che Adolescence – la miniserie tv britannica che affronta il tema della
violenza tra i teenager, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma
Netflix – conta “quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di
durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature
continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di
immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun
giudizio su quanto accade”.
Adolescence è la storia dello sconvolgimento di una famiglia quando il figlio
tredicenne, Jamie, viene arrestato per l’omicidio di una sua coetanea, compagna
di scuola.
Stefania Garassini prosegue spiegandoci che “sono diversi e tutti cruciali i
temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno
dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore
che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare
con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. […] Adolescence invita
ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli
strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri
figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la
derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji
apparentemente più innocue”.
Su un altro articolo pubblicato da Avvenire, questa volta a firma di Marco
Pappalardo, vengono riportate le parole di una studentessa alla quale il
giornalista ha chiesto un parere su Adolescence: “Non ero pronta a vedere una
storia così violenta eppure così normale oggi. La necessità di sentirsi
accettati non si nega e non è solo della mia generazione. Avere le proprie idee,
diverse dagli altri, è difficile. Devi essere brava a scuola, educata,
obbediente a casa, tra i compagni furba e vestita in un certo modo; devi piacere
e condividere storie nel posto giusto. Senza uno di questi requisiti, la vita
potrebbe diventare un inferno e per colpa dei social non c’è un posto dove
nascondersi. Mi ha sconvolta l’incapacità del protagonista di capire che aveva
un’altra scelta. Mi ha spaventato che nessuno abbia chiesto aiuto agli adulti e
che essi siano così ciechi e sordi. Questa serie non dà speranze!”
Nell’articolo di Pappalardo, quello sopra non è l’unico commento per bocca dei
giovani; altri dicono la loro, come per esempio un certo Marco: “Il contrasto a
casa riesce ad isolarci, facendoci sentire soli, impotenti uditori di liti tra
adulti. Così giungono delle “consolazioni” che ci distruggono: droga, bullismo,
alcool, azzardo, atti criminali. Mi fa riflettere la fragilità umana e la
delicatezza dei rapporti”.
Da giorni, sono tantissimi a occuparsi di questa miniserie tv di Netflix: il
Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Il Mattino, Il
Fatto Quotidiano, Il Foglio, Libero, Internazionale, L’Espresso, eccetera.
Oltre ai due articoli già citati, Avvenire ne ha pubblicati altri su
Adolescence, tra cui quello di Massimo Calvi, il quale ci fa notare che “Il vero
motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence […] non
risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e
nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne
stanno decretando uno straordinario successo. La ragione più profonda che tiene
sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver
visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché
è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio
condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo
scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato –
o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è
soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore
da richiedere di essere elaborato il prima possibile”.
Ora, anche giustamente, qualcuno di voi s’aspetterà una mia disamina su
Adolescence così che anch’io possa liberarmi di qualcosa, trovare il modo di
espellere un disagio, superare un trauma attraverso la scrittura di un articolo.
No. La mia disamina sarà leggermente diversa, verterà sull’adolescenza di altre
epoche cui fanno cenno alcuni scrittori e scrittrici a me cari, anche per capire
se, in passato, tutto filava liscio o meno; quindi, tranquilli, non si parlerà
della mia adolescenza o di quella “dei miei tempi”.
Intanto, inizierei col dire che sono d’accordo con Laura Pariani quando nella
sua raccolta di racconti Il pettine, scrive che “L’adolescenza è una brutta età.
[…] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare
di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo
che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci
e di coloro che sono destinati a riceverti…”
In Autunno tedesco, Stig Dagerman scrive della Germania dell’immediato
dopoguerra, quella del 1946, e dei giovani ci racconta questo: “I ventenni
gironzolano per le stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza
avere un treno o qualcosa d’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli,
disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano
fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si
vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne
stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto in compagnia di negri
ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino […]. Hanno
conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto”.
Mi verrebbe da dire che gli adolescenti d’oggi hanno perso tutto senza, prima,
aver mai conquistato nulla, ma forse la faccio troppo semplice, e allora mi
limito a scrivere che questi disperati tentativi di furto da parte di
adolescenti e queste ragazzine brille che si attaccano al collo di qualcuno, mi
ricordano un po’ troppo da vicino i nostri figli; fosse così, significherebbe
che siamo riusciti a devastarli come fossero usciti da una guerra mondiale.
Nel libro Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa, si racconta la storia di
quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la
nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza
patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo
profughi di Jenin: “[…] il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che
l’avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli
appetiti sessuali delle SS. Quell’incubo le aveva salvato la vita ma l’aveva
resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di
sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della
Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi,
seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra
di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi
sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di
depravazione. Voleva fuggire dalle urla di morte che popolavano i suoi sogni,
dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle
sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti”.
Non sarà che i nostri figli vorrebbero “semplicemente” scappare dalle urla di
morte che popolano i loro sogni, dalle grida di chi agonizza in questi nostri
tempi in cui la ricchezza dei miliardari è cresciuta nel 2024 di duemila
miliardi di dollari, tre volte più velocemente del 2023, mentre tre miliardi e
mezzo di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno? Non solo, non è che
i nostri figli vengono devastati sempre più spesso dagli appetiti sessuali degli
adulti o si devastano vicendevolmente pensandosi protagonisti di quei video
pornografici da cui si fatica a star distanti e che nessuno ha insegnato loro a
studiare, analizzare, verificare, decifrare?
Tra il 1963 e il 1966, Jim Carroll – poeta e musicista – racconta in un diario
gli anni della sua adolescenza, scritti che poi diventeranno il libro culto Jim
entra nel campo di basket. Quando uscì negli Stati Uniti, rappresentò un caso
letterario, suscitando l’entusiasmo di Jack Kerouac; racconta la vita on the
road di un ragazzino straordinariamente intelligente, un libro autobiografico,
un racconto fedele della sua adolescenza segnata da una precoce dipendenza
dall’eroina e dall’esperienza della prostituzione: “Poi ci siamo noialtri
ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e
crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine.
Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di
controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che
passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene
tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui
correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che
svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o
mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono
cazzi”.
Non so dalle vostre parti cosa stia succedendo, ma qui, dalle mie – a Genova –
lo spaccio di stupefacenti è così diffuso che il più conosciuto quotidiano
locale, ha dedicato ultimamente numerosi articoli “all’inferno del crack nel
Centro città” e, credetemi, sono tantissimi i ragazzi che si alzano da letto
decisi a qualsiasi cosa, anche a farsi “spaccare” pur di avere la propria dose
giornaliera; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a bucarli,
intossicarli, stordirli e mortificarli come certi ragazzi eroinomani newyorkesi
dei primi anni Sessanta, e senza neppure aver la consolazione di ritrovarli
ostili alle mode e alle comparsate televisive come lo era Jim Carroll, appunto.
Nel 1967 viene pubblicato Ora d’aria, la storia di un gruppo di detenuti in un
carcere statunitense dove la vita scorre senza tempo: qualcuno è arrivato da
poco, qualcuno è dietro le sbarre da anni, qualcuno ci resterà per sempre. Il
carcere descritto da Malcolm Braly, l’autore, è un mondo straordinariamente
simile a ciò che sta fuori, capace di farci comprendere che tutti, sotto certi
aspetti, siamo prigionieri delle nostre esistenze. Braly, abbandonato dai
genitori ancora bambino, si dedicherà fin dall’adolescenza a piccole attività
criminali, perlopiù rapine, che lo porteranno presto in riformatorio; dei suoi
primi quarant’anni, diciassette li trascorrerà nelle più dure prigioni
americane: “Si svegliò. Mentre la sensazione del sogno scivolava via, lui ne
riconobbe i contorni adolescenziali e gli venne un desiderio nostalgico per quel
mondo perduto, le cui aspettative troppo alte avevano avvelenato la sua vita di
adulto quando ne aveva scoperto il grigiore”.
E forse qui troviamo un altro aspetto su cui bisognerebbe fermarsi a ragionare
un bel po’: le aspettative troppo alte di quel mondo adolescenziale che
avvelenano la vita adulta quando se ne scopre il grigiore. Chi genera queste
aspettative troppo alte? I genitori? Magari per provare a rifarsi dei propri
fallimenti? Magari nel tentativo di “perfezionare” i figli senza rendersi conto
che, invece, questa loro deleteria ricerca di perfezione distruggerà i ragazzi?
O certe ideologie? Magari quelle che ti promettono ricchezza e benessere se
competi contro tutto e tutti e in continuazione? O forse è lo stato? Magari con
le sue promesse di sconfiggere nemici, conquistare terre, anche fosse “solo”
occupandole culturalmente?
Riprendo la frase di Laura Pariani – “L’adolescenza è una brutta età. […] come
un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di
afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che
mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di
coloro che sono destinati a riceverti…” – e mi domando se, noi che di questi
adolescenti siamo genitori zii nonni e insegnanti, siamo attendibili o se siamo
soltanto corpi che attraversano i giorni con modalità talmente anonima e passiva
da garantire agli altri un minimo di credibilità unicamente quando viene
pubblicato il nostro necrologio, o se magari la nostra affidabilità l’abbiamo
esaurita perché interamente impegnata nel soddisfare il nostro bisogno di far
sapere al mondo intero ogni cosa noi si pensi e si faccia postando tutti i
nostri palpiti, o se siamo così presi a dispiacerci per i figli adolescenti e
per chiunque altro esclusivamente per ignorare noi stessi, la nostra
inattendibilità.
L’adolescenza è l’unico periodo della vita in cui non si è sopraffatti dalla
nostra adolescenza, è un santuario dove alcuni trascorrono tutto il loro tempo
anche mentre i capelli s’ingrigiscono. Forse perché è quel periodo della vita
tanto bello quanto tormentato, in cui l’innocenza dell’infanzia non è ancora
stata contaminata dall’età adulta e si riesce ancora a immaginare un futuro a
colori.
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Uno spaccato sulla lotta politica del C.A.L.P., Collettivo Autonomo Lavoratori
Portuali di Genova, tra il 2019 e il 2023. Gli scioperi contro la “nave delle
armi” e la ricerca di un sindacato più attento alle istanze del presente. La
sicurezza sul posto di lavoro, l’antimilitarismo, il dialogo con gli altri
portuali del Mediterraneo. Il sogno di dare forma a un mondo diverso, e il
prezzo che comporta. Nelle burrascose settimane in cui la parola “” viene
pronunciata con inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non
sottrarci alle nostre responsabilità, riproponendo un modello di resistenza dal
basso di cui abbiamo tremendamente bisogno.
di Ossydiana Speri da OndaCinema.
“La chiamata”: così, con enfasi quasi biblica, era ribattezzata la convocazione
degli aspiranti camalli che ogni mattina affollavano il porto di Genova. Una
massa sgomitante a cui, caso più unico che raro, veniva comunque corrisposto un
obolo qualora non avessero ottenuto il lavoro. Lavoro che non era certo un bagno
di salute (basti pensare alle vittime da bollettino di guerra mietute dalla
silicosi), ma che quantomeno vedeva in campo un sindacato battagliero e un
padronato meno spietato che altrove. Quest’ultimo lato della barricata ha da
tempo cambiato faccia: “Il porto è una macchina inesorabile, una miniera
infernale. È l’immagine stessa del capitalismo globale nel ventunesimo secolo”,
apprendiamo dal libro-inchiesta “Le frontiere del mondo” di Andrea Bottalico,
dedicato all’oscuro universo geometrico dei container. Ancora intatta è invece
la pelle dura dei nuovi lavoratori del porto, mirabilmente ritratti nel primo
lungometraggio della marchigiana Perla Sardella, autrice anche della fotografia
e del montaggio.
Ad aprirlo e chiuderlo, sulle note strozzate del sax di Alabaster DePlume, sono
materiali d’archivio che documentano quel mondo di fatica e orgoglio. Tirare in
ballo la pellicola qui non è certo un vezzo hipsteroide, semmai la prova del
filo diretto tra le lotte di ieri e di oggi. Ulteriore nota di merito, il
proemio e il congedo sono le uniche occasioni in cui si ricorre sia al found
footage sia al commento musicale, senza negarsi qualche straniante manipolazione
(i movimenti in reverse dei primi cinque minuti).
Lo stesso rigore formale permea tutte le scelte della regista, pienamente
consapevole dei suoi obiettivi e dei suoi strumenti: niente interviste, niente
voice over, niente didascalie se non concentrate nei tableux che di tanto in
tanto intervallano il montato, peraltro di pregevole confezione (i testi si
materializzano dal basso verso l’alto con un incisivo font rosso, unica
concessione al background arty dell’autrice). A contenuti coerenti, forme
coerenti, sembra chiosare Sardella.
Mosca sul muro di ammirevole discrezione, la camera plana tra assemblee fluviali
e impavide manifestazioni che chiariscono la natura sui generis dei soggetti in
esame: i portuali genovesi non si limitano a perorare la loro causa, ma portano
avanti una crociata senza quartiere contro il traffico di armi di cui la Superba
è ben noto scalo, per nulla intimoriti dalle innumerevoli denunce e minacce di
cui son fatti bersaglio. Ben consci che non c’è rivoluzione senza condivisione,
nelle loro arringhe auspicano una saldatura tra tutti i dissidenti del
Mediterraneo, in un afflato internazionalista che sempre più di rado attraversa
gli slogan di categoria.
Se nei documentari d’osservazione fa spesso gioco pedinare un protagonista, la
regista ne trova uno maiuscolo in Josè Nivoi, sindacalista USB e portavoce del
CALP, il portentoso Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali autore
dell’imperdibile “Fino all’ultimo di noi”, edito l’anno scorso da Red Star
Press. Un personaggio d’altri tempi e fuori dal comune, tabagista incallito e
impetuoso oratore, a suo agio (più o meno) sulle banchine del molo quanto al
Parlamento Europeo. Cicerone affabile e grintoso, è lui a farci strada tra
un’umanità dai modi spicci ma dal cuore grande, in cui le vecchie generazioni
vegliano sulle nuove senza pretese indottrinanti. Ed è così che conosciamo anche
Bruno Rossi, tenero vegliardo che negli anni si è fatto simbolo vivente della
causa portuale.
Rivendicazioni sindacali, ma non solo: c’è spazio anche per la straziante
vicenda della figlia di Bruno, Martina, precipitata nel 2011 da un hotel di
Palma di Maiorca per sottrarsi a uno stupro. È stata la tenacia investigativa
del padre a incastrare i due autori, non predatori dei bassifondi ma “bravi
ragazzi” di buona famiglia, rivoltante categoria umana messa alla berlina,
proprio nella Genova degli scorsi mesi, dall’impietoso j’accuse dalla
consigliera comunale Francesca Ghio, rimbalzato sulle cronache nazionali tra gli
sfottò maschilisti.
Alla barbara vigliaccheria di chi confida nell’impunità risponde per le rime la
solidarietà dei compagni di Bruno, compatti e sul pezzo anche all’asciutto,
sempre e comunque dalla parte delle vittime. Una sberla a mano piena contro chi
vorrebbe le battaglie compartimentate come la stiva di una nave.
Nelle burrascose settimane in cui la parola “riarmo” viene pronunciata con
inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non sottrarci ai nostri
doveri civici, riproponendo un modello di resistenza dal basso di cui abbiamo
tremendamente bisogno.
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La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni
sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici,
da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a
fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione
al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni
di Roberta Cospito da Carmilla
Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un
docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di
liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla
sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora
qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura
militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a
differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza.
La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver
rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno
Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza
londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata
prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film
di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene
(de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie
e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni,
formalità e rispetto per i più elementari diritti umani.
Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal
lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta
la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere
stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una
prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le
torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una
realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo
ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in
quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky.
Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato
che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori.
Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della
finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante
comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della
tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore –
sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i
primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte
in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte
nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo
scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di
occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da
un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre
chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di
quel periodo.
Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore
viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali
sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le
ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le
cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un
forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in
fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare
addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela
davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una
sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri.
Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale,
perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo,
è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della
nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le
mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi,
con le mani pulite.
Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche
di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci –
le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere
riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di
atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità.
Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi
ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si
può prospettare a chi ha vissuto “al limite”?
Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la
violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa
fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni.
In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono
stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati,
emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un
giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di
“carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare
il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti
neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero.
Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò
coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”.
Il silenzio di Sabina invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua
capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a
volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane:
“Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue
parole”.
Barilli riporta un’osservazione di Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della
tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai
ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le
polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al
diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la
tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente
uno sconfinato arbitrio”.
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Eroina e Spice sono due libri di Mauro Pusceddu pubblicati rispettivamente nel
2022 e nel 2024 dalla casa editrice nuorese il Maestrale. I temi trattati sono
così importanti che non ci si può limitare a un riassunto del contenuto, ma è
necessario aggiungere qualche riflessione critica, soprattutto sul rapporto fra
realtà e finzione letteraria.
di Marco Gabbas da Inkroci
È opportuno parlare di entrambi i libri perché sono due puntate di una stessa
serie (benché l’autore, nato nel 1969, abbia scritto altri tre libri). Infatti,
sia Eroina, sia Spice hanno per protagonista la poliziotta nera Nada Senes, per
l’esattezza non solo la prima vicecommissaria, ma anche prima commissaria nera
italiana. Non si può fare a meno di notare la vistosa copertina dell’ultimo
libro: il primo piano di una donna di colore, la pelle molto lucida e gli
occhiali a specchio, le labbra colorate di un rosso acceso.
Non c’è dubbio che entrambi i libri siano scritti con abilità e sapienza
narrative, soprattutto il secondo. Anzi, qualcuno definisce addirittura Pusceddu
il Connelly nuorese. Come tutti i gialli o noir, le trame sono complesse e
avvincenti, e quando tutto sembra chiaro c’è sempre un colpo di scena che
sconvolge le carte in tavola. Un particolare importante è che l’autore svolge la
professione di magistrato, ed è anzi attualmente presidente del tribunale
nuorese. Del resto, Pusceddu non è l’unico magistrato italiano che si cimenta
coi romanzi gialli e noir.
Benché il genere possa sembrare popolare e quasi banale, è impossibile parlare
di questi libri senza parlare di razzismo, tema che di fatto fa da sottofondo a
tutta la saga. Nada Senes è nata in Sardegna da genitori africani, abbandonata
da piccola e adottata da una coppia del posto: madre insegnante, padre
poliziotto. Nonostante il padre non la spinga a seguire le proprie orme, Nada
sceglie comunque di entrare in polizia; anzi, all’inizio fa addirittura parte
dei corpi speciali.
Entrambi i romanzi mostrano una conoscenza piuttosto precisa e dettagliata del
razzismo non solo nella società italiana (un razzismo popolare), ma anche
all’interno delle istituzioni (la polizia). È evidente che l’autore è molto
documentato in materia, assai di più dell’italiano medio, al quale per la verità
questi temi non interessano minimamente. Entrambi i romanzi mostrano come essere
diversi, e neri nello specifico, sia una stimmate costante che ci si porta
addosso dappertutto: per strada, a scuola, nei rapporti con gli altri, nel luogo
di lavoro. Infatti, oltre ai numerosi episodi di quotidiano razzismo che Nada
deve subire, c’è anche il problema dei colleghi che non la accettano. Oppure dei
pregiudizi, ancora più sottili, secondo i quali, proprio perché diversa, Nada
Senes dovrebbe essere meglio degli altri per essere trattata come gli altri.
Alcuni dei suoi superiori le ripetono in continuazione che lei è un simbolo,
idea che Senes rifiuta sdegnosamente, considerandola ipocrita.
Detto questo, che differenza c’è fra il mondo narrativo di questi romanzi e la
realtà? La polizia italiana è davvero com’è presentata in questi gialli?
Potrebbero sembrare domande oziose, dato che i romanzi dovrebbero essere opere
di fantasia per definizione. Eppure alcune riflessioni si impongono, e non solo
perché in questo caso la distanza è per certi versi eccessiva.
Certamente, un buon narratore si distingue anche per la maestria nel mescolare
il vero al verosimile e al completamente inventato. Pusceddu si mostra maestro
in questo, probabilmente anche grazie alla sua lunga esperienza di magistrato e
alla conoscenza diretta del territorio in cui vive, quella Sardegna dell’interno
talvolta definita società del malessere. A differenza del commissario
Montalbano, che vive nell’immaginaria Vigàta, Pusceddu ha deciso di far agire la
sua Senes nella vera Nuoro, con una geografia piuttosto precisa, sostanzialmente
ancorata alla realtà, pur con qualche licenza alla fantasia. Non solo, ma sembra
che l’autore abbia voluto sottolineare il legame di questi romanzi con
l’oggettività inserendo in uno di essi un documento ufficiale firmato da lui
stesso in qualità di giudice.
Nonostante i meriti che abbiamo sottolineato, però, per una persona
razzializzata è difficile leggere i due romanzi senza una certa perplessità e un
certo disagio. Il primo motivo è che nei romanzi si parla solo di razzismo nella
società, e non di razzismo di Stato o razzismo istituzionale (vedi l’ottimo e
coraggioso libro curato da Pietro Basso Razzismo di Stato, non a caso ampiamente
ignorato da una comunità accademica che preferisce la carriera veloce alla
ricerca spregiudicata della verità). Soprattutto, non vi è alcun accenno al
fatto che in Italia è proprio la polizia una delle principali istituzioni a
discriminare sistematicamente gli immigrati. Ciò avviene in una serie di modi,
innanzitutto sottoponendo le persone diverse a continui controlli razziali per
strada, delle vere e proprie retate che solo ipocritamente possono essere
chiamate “normali controlli” (e questo avviene anche a Nuoro). Se fossero così
normali, gli immigrati non ne sarebbero soggetti 14 volte di più degli italiani,
e la cifra sale a 50 in alcuni Paesi europei. Concretamente, ciò può voler dire
che una persona nera non può letteralmente uscire di casa senza essere fermata
arbitrariamente e maltrattata da polizia e carabinieri, anche se è cittadina
italiana (ed è meglio non protestare, perché le conseguenze potrebbero essere
assai spiacevoli).
Ma il razzismo di Stato italiano utilizza la polizia in modo ancora più
sistematico, per gestire il rilascio arbitrario dei permessi di soggiorno
all’interno delle questure. A un italiano ciò non risulterà per niente strano:
questi stranieri potrebbero essere pericolosi, non è giusto controllarli, anche
quando sono regolarmente sposati con cittadini italiani? Primo, chissà perché
altri Paesi europei fanno a meno di questa criminalizzazione e hanno degli
uffici gestiti da normali impiegati e non da poliziotti in divisa, anche se sono
comunque gestiti dal Ministero degli Interni. Secondo, non si capisce perché una
persona debba essere considerata delinquente, o quantomeno delinquente
potenziale, per il solo fatto di non essere europea. Terzo, i delinquenti veri,
quelli che davvero cercano di vivere di espedienti, si guardano bene dal fare la
fila come fessi davanti alle questure, e cercano anzi di starci il più lontano
possibile (oppure si procurano facilmente documenti falsi, da che mondo è
mondo).
La realtà è un’altra: gli uffici immigrazione delle questure sono vere e proprie
camere di tortura psicologica, macchine razzializzanti che servono per far
capire a tutti gli immigrati che sono degli esseri inferiori, degli schiavi, dei
potenziali delinquenti, che devono avere sempre e comunque da temere, che non
possono mai ribellarsi, e che può essergli al massimo concesso di stare in
Italia sinché c’è il bisogno di spremerli (dopodiché, ci sono sempre il CPR o
l’espulsione).
Questa sistematica discriminazione poliziesca è necessaria per tenere gli
immigrati in una condizione di colonia interna di sfruttamento. Non c’è bisogno
di essere accreditati economisti: l’economia italiana è basata sullo
sfruttamento feroce di questa colonia interna. Se questa venisse a mancare,
crollerebbe tutta l’economia italiana. E se anche il cappio al collo degli
immigrati fosse appena un po’ meno stretto, la cosa creerebbe comunque problemi:
si rischierebbe di avere nei migranti degli esseri umani magari un po’
maltrattati, ma comunque coscienti dei propri diritti, che potrebbero rompere
troppo le scatole per migliorare la propria condizione. È proprio ciò che si
bada bene di evitare in tutti i modi: non a caso, nessuno fra i principali
partiti politici, neanche la cosiddetta sinistra, osa mettere nel proprio
programma il cambiamento di questo sistema, preferendo ciance inutili e ipocrite
dirette sempre contro qualcun altro.
Tutti gli immigrati imparano a temere e/o a odiare (il confine è labile) la
polizia praticamente da subito, perché, non essendo affatto stupidi, capiscono
benissimo a che cosa serve, e sanno altrettanto bene di non aver fatto nulla per
meritarsi questo trattamento. Per chi conosce questa realtà perché l’ha subita
sulla propria pelle, il personaggio della commissaria Senes non può che lasciare
un po’ perplessi. Non si tratta solo del fatto che i poliziotti neri in Italia
sono quasi inesistenti, perché il punto non è questo. Per esempio, in alcune
questure del Nord Italia i poliziotti non bianchi vengono usati per “accogliere”
i migranti davanti all’ufficio immigrazione. La cosa potrebbe essere
interpretata come l’intenzione di “accogliere” gli stranieri con qualcuno “come
loro”, ma ciò risulta paradossale se uno pensa alla discriminazione vergognosa
che noi tutti soffriamo una volta varcata la soglia. A ben vedere, queste
persone non possono che ricordare le triste figure degli ascari e dei rinnegati,
servi di un potere che opprime i propri simili.
Questo ci deve ricordare che il colore non è tutto, perché l’altro elemento che
i più ignorano è la cittadinanza: per entrare in polizia bisogna essere
cittadini italiani, e il colore non è formalmente un discrimine: un ottimo
esempio di come non vada considerato in modo deterministico è presente proprio
in Spice. In questo romanzo, la nostra commissaria accusa una donna africana di
un crimine che non ha commesso. L’africana rigetta l’accusa definendo Nada Senes
una “stronza di bianca con la pelle nera”. Un epiteto che dei migranti africani
potrebbero tranquillamente usare contro dei poliziotti neri, qualora questi
ultimi li opprimessero (al di là del colore).
Del resto, Nada Senes non è l’unico personaggio “diverso” nella storia, dato che
troviamo anche un capitano dei carabinieri nero, un altro carabiniere di origine
slava, una poliziotta di origini cinesi e una piemme lesbica. Ancora, il punto
non è tanto se nella realtà le forze dell’ordine e la magistratura siano davvero
così variegate (anche se sembra probabile che non sia così). Il punto è un
altro: se anche fossero davvero così variegate, ciò ne cambierebbe il carattere
sostanzialmente razzista? La risposta è certamente negativa, anche se ci
riserviamo il dubbio per quanto riguarda il futuro remoto. Bisogna aggiungere,
infatti, che anche la magistratura italiana è assai prevenuta nei confronti
degli immigrati, e forse non potrebbe essere altrimenti. Qui non si tratta di
casi individuali, com’è ampiamente dimostrato da studi approfonditi come quello
di Salvatore Palidda, Migranti. Devianza e vittimizzazione. Ciò spiega anche
perché molte carceri italiane, soprattutto al Nord, sono piene di immigrati, con
grande sproporzione rispetto al totale. Lo studio di Palidda è del 2001, ma non
vi è motivo di pensare che da allora le cose siano migliorate.
Detto questo, i due libri non presentano la polizia come il bene assoluto, come
un’istituzione perfetta nella quale tutti sono onesti e rispettano le regole. I
corrotti esistono anche nella polizia, però fortunatamente i colleghi buoni
riescono a sventarne i piani. Insomma, si tratta soltanto di qualche mela
marcia. Purtroppo, come abbiamo detto, nella realtà certe istituzioni sono marce
in quanto tali, e continueranno a esserlo sinché non si capirà che,
semplicemente, non devono essere usate per discriminare in maniera sistematica
una minoranza. Il suddetto Palidda denuncia da tempo il comportamento arbitrario
delle questure, gli insulti regolarmente proferiti contro i migranti (se
rispondono posso essere denunciati per ingiurie ed espulsi), la corruzione
sistematica che, con l’aiuto di avvocati ammanicati, può dare il permesso di
soggiorno in cambio di soldi a qualcuno che non ha mai messo piede in questura
(oppure, i suddetti avvocati possono prendere i soldi dall’immigrato e poi
sparire).
Comportamenti presenti in qualche grande città del “continente”? Peccato che
poco tempo fa un giornalista cattolico nuorese abbia denunciato pubblicamente
questi comportamenti proprio dove lavora l’immaginaria Nada Senes. Franco Colomo
ha parlato di “episodi corruttivi per velocizzare pratiche per legge piuttosto
lunghe e farraginose”, nonché di “offese gratuite”, donne straniere in preda al
“terrore per le vessazioni” subite, “dalle prese in giro per il nome e la
provenienza ai veri e propri insulti” (ovviamente non può mancare quello di
“puttana”). Ma anche gli uomini nuoresi che accompagnano una donna immigrata
possono essere vittime “di un becero umorismo, quasi che un fidanzamento ‘misto’
fosse degradante”. “Si tratta di veri e propri abusi di potere – dice uno di
loro – ma a chi puoi rivolgerti per denunciare?”. Colomo aggiunge: “Tutti,
effettivamente, hanno paura di esporsi per non subire danni come pratiche
bloccate o ulteriori discriminazioni, perché di questo si tratta”. Un’altra
donna si è limitata a confidare al coraggioso giornalista: “Non ho voglia di
raccontare perché non voglio rivivere quel dolore, so solo che sopra di noi c’è
un Giudice che darà a ciascuno secondo le sue azioni”.[1]
Purtroppo le cose non si fermano a queste “storie di ordinaria discriminazione”,
raccolte da un settimanale diocesano (non proprio un foglio sovversivo), dato
che altri sedicenti giornalisti sono evidentemente troppo vigliacchi per fare il
proprio lavoro. Non possiamo dimenticare infatti che proprio nella provincia di
Nuoro c’è il CPR di Macomer, per certi versi il peggiore e il più terribile
d’Italia (anzi, la Nuova Sardegna, il principale quotidiano dell’isola, l’ha
semplicemente definito un “lager nazista”).[2] Gli esposti in materia
recentemente presentati alle procure di Nuoro e di Oristano dalle associazioni
Naga e LasciateCIEentrare assieme alla parlamentare Ghirra sembrano il copione
di un film dell’orrore: muri e pavimenti cosparsi di sangue, un uomo gasato col
peperoncino, nordafricani usati come ascari, pestaggi sistematici durati ore e
vere e proprie torture.[3] Le notizie più recenti parlano di due tentati suicidi
il 13 febbraio, con una successiva protesta collettiva; e di un grave atto di
autolesionismo il 28 febbraio. Un uomo senegalese, convivente con una cittadina
italiana, ha ingerito delle batterie e un anello proprio davanti alle guardie,
per non essere deportato nel suo Paese, dove sostiene di correre gravi pericoli.
Sin qui questa recensione si è occupata del rapporto e della differenza fra
realtà e finzione letteraria. Nella realtà, dubito che i succitati esposti
avranno alcun seguito, per il semplice fatto che nessun sistema condanna se
stesso (anzi, solitamente non indaga neanche). Fortunatamente, però, la
letteratura esiste anche per evadere dalla realtà e per presentarci un mondo
diverso. Nella prossima inchiesta di Nada Senes, mi farebbe piacere vedere
l’integerrima commissaria indagare sui suoi colleghi corrotti e sui torturatori
di Macomer, portandoli finalmente alla giustizia. Fortunatamente, sognare non è
reato.
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[1] Vedasi i due articoli di Franco Colomo «Invisibili» e «Storie di ordinaria
discriminazione», L’Ortobene, 13 maggio 2021 e 13 gennaio 2022, v.
https://www.ortobene.net/invisibili/ e
https://www.ortobene.net/storie-di-ordinaria-discriminazione/
[2] Claudio Zoccheddu, «Nell’inferno del Cpr di Macomer. “Migranti trattati come
in un lager”», La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2024, p. 7.
[3] Vedasi il report di Naga «A porte chiuse», liberamente consultabile online:
https://naga.it/2024/10/15/report-a-porte-chiuse/
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Le trame dei due romanzi (dalle quarte di copertina):
Eroina – Nada Senes è la prima vicecommissaria nera italiana. Dopo i trascorsi
nei NOCS e un incidente in elicottero in cui ha perso la sua squadra, viene
prosciolta da ogni responsabilità e assegnata alla questura di Nùoro, la città
della Sardegna interna dove aveva vissuto alcuni anni d’infanzia. È la prima
settimana del nuovo incarico di Nada, nel novembre 2019, quando viene trovato in
campagna un cadavere non identificabile di un nero, due minorenni muoiono per
overdose e un orso fugge dallo zoo privato di un ex sequestratore che gestisce
il traffico di cocaina. Nada con la sua nuova squadra avvia le indagini per la
identificazione del cadavere e le cose si complicheranno per l’entrata in scena
di un gruppo di spacciatori nigeriani che controllano il mercato dell’eroina nel
Nord Sardegna. Fra boss dello spaccio o aspiranti tali, prostitute-schiave,
investigatori corrotti, pubblici ministeri che dalla vicecommissaria Senes si
attendono un riscatto da lei invece respinto, Nada dovrà fare i conti con una
vicenda ingarbugliata che la metterà ogni giorno di più di fronte ai fantasmi
della propria esistenza e rinnoverà i traumi causati da una società incapace di
comprendere la diversità.
Spice – L’estate 2024 vede tornare in azione Nada Senes, prima commissaria nera
italiana, dopo le azioni poliziesche narrate in Eroina. Durante un servizio di
perlustrazione in elicottero sopra le campagne della Sardegna centrale, Nada
vede due persone in fuga. Dopo averle inutilmente inseguite a terra, scopre un
campo di marijuana e il cadavere di un prete indiano, torturato e ucciso dentro
una chiesa diroccata. Scatta l’indagine sul passato del sacerdote, appena
nominato parroco di un villaggio senza parrocchiani per sottrarlo alle
chiacchiere circolanti sul suo conto nel paese del precedente incarico. Il
clamore della vicenda attira i mezzi d’informazione, e l’interesse di una
intraprendente giornalista. Intanto le piantagioni di cannabis legale vanno a
fuoco e una nuova droga sintetica – spice – addizionata alla marijuana provoca
un’ondata di suicidi. Nada vive un rapporto sempre più complesso con la piemme
Letizia Ruju; è bloccata in un dialogo immaginario con Macellari, il collega
corrotto in coma dopo la sparatoria avvenuta cinque anni prima. Nada: alla
ricerca di verità vecchie e nuove e di sé stessa, ma forse solo incapace di
capire se davvero vuole essere la poliziotta che è.
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Recensione di Edoardo Todaro al libro ” Sabun” di Alae Al Said
E’ il 2018 quando esce nelle librerie Sabun. Sono passati 7 anni e la situazione
in Palestina è decisamente peggiorata, in tutta la Palestina sia a Gaza che in
Cisgiordania. La vita quotidiana sotto occupazione è l’ elemento unificante che
l’occupazione israeliana vuole debellare. Il destino dei palestinesi è nelle
mani dei soldati occupanti. Quanto ci racconta Alae Al Said ci porta a tu per tu
non solo con un’economia strozzata dall’occupazione, ma con la realtà
contraddistinta da un vero e proprio genocidio.
La distruzione di villaggi, di moschee, di siti storici, la cultura palestinese
sotto attacco: un vero e proprio culturicidio, e lo fa attraverso la descrizione
del saponificio, del “sabun” il sapone all’olio d’oliva, di Nablus viva ed
animata con i suoi vicoli stretti della città vecchia, e di cosa significa che
Israele è uno stato per soli ebrei. In questa descrizione non poteva mancare il
riferimento ai soprusi dei coloni, di coloro che non sono altro che la parte più
retriva e spietata degli ebrei sionisti, quei coloni, visibili dalla collina,
che un giorno saranno cacciati via nonostante che la loro presenza metta i
palestinesi nella condizione, obbligata, di non lasciare mai, nemmeno
temporaneamente, la propria casa vuota che altrimenti diverrà, immediatamente,
di proprietà degli occupanti.
Altro aspetto, assolutamente non secondario, che ci descrive Alae è quanto
avviene in occasione degli interrogatori che i palestinesi subiscono. La cella
d’isolamento per far perdere interesse nei confronti della vita; l’uso dei cani
come arma per far parlare; le molestie sessuali compiute dagli aguzzini; il
partorire in cella. In questo contesto, cacciare l’occupante senza scendere ad
alcun compromesso, liberare la Palestina a costo di morire, è il riferimento che
hanno tutti i palestinesi; non potrebbe essere altrimenti quando si è
controllati continuamente, si è trattati da inferiori. Ogni giorno ragazzi
rapiti ed uccisi, e poi essere cacciati, privati di tutto, cittadini di nessuno
stato, non avere una patria a cui fare riferimento che equivale ad essere
denudati della dignità. L’intifada, gli attacchi suicidi che divengono motivo di
discussione e di conseguenti punti di vista diversi, l’intifada, qualcosa di non
governabile, una sollevazione non ragionata nel buio dell’ingiustizia, con la
presa di coscienza e l’ evoluzione nella lotta.
Vivere la contraddizione del dover lavorare per il nemico se vuoi sopravvivere.
Abbiamo ben presenti le immagini, continue, dei funerali dei martiri che
divengono manifestazioni di rabbia e di collera; avvenivano ieri ed avvengono
oggi. Israele ha accentuato il suo essere una fabbrica di omicidi di massa
riducendo le vittime palestinesi a numeri riferibili a statistiche; ai
palestinesi non viene garantito nemmeno il diritto al lutto visto che i corpi
degli assassinati non vengono restituiti; i traumi sulla salute mentale sono
largamente, e spesso irrimediabilmente, diffusi. Essere a fianco della lotta del
popolo palestinese è anche leggere e far conoscere libri come questo, non
possiamo girarci dall’altra parte, dire “non lo sapevo”. Non è una questione
umanitaria; i palestinesi hanno bisogno della nostra solidarietà e noi dobbiamo
sempre avere come riferimento il loro esempio. Un esempio per tutti coloro che
non vogliono vivere come schiavi. (da La Città Invisibile)
Alae Al Said, Sabun, Zambon editore, 2019, pp. 272, euro 19
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Dopo aver visto I shall not hate dovrebbe essere sufficiente a far deporre
qualsiasi tipo di arma in qualsiasi guerra
di Roberta Cospito da Carmilla
I shall not hate è sia il titolo di un libro di Izzeldin Abuelaish, nato a Gaza
e primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano, sia del film
realizzato dalla documentarista e produttrice franco-americana Tal Barda, nata e
cresciuta a Gerusalemme.L’associazione Find the Cure ha presentato la sedicesima
edizione di Mondovisioni, una rassegna di documentari curata da
CineAgenzia in collaborazione col settimanale Internazionale. Attraverso
docufilm selezionati dai maggiori festival internazionali, la rassegna, che ha
fatto tappa con il patrocinio del Comune al cinema Nuovofilmstudio di
Savona, porta sul grande schermo storie di attualità – in particolare sui
diritti umani – con l’intento di fornire agli spettatori un’informazione chiara,
profonda e consapevole su tematiche spesso difficilmente fruibili tramite i
media tradizionali.
Izzeldin Abuelaish – uomo straordinario, più volte candidato al Premio Nobel per
la pace – crede fermamente nella possibilità di una convivenza tra il popolo
palestinese e quello israeliano. Durante la guerra di Gaza, il 16 gennaio 2009,
tre delle sue figlie e una nipote vengono uccise dal fuoco israeliano diretto
immotivatamente contro la sua abitazione. Questo attacco viene vissuto
praticamente in diretta dal pubblico israeliano poiché il medico, appena resosi
conto dell’enormità della tragedia, chiama il giornalista televisivo di Channel
10, Shlomi Eldar, il quale risponde al telefono pur essendo in onda e,
coraggiosamente, tramite il vivavoce, dà la possibilità al suo pubblico di
ascoltare la richiesta di aiuto di Abuelaish. Le urla disperate di un padre –
tra l’altro, già vedovo da un anno – che vede i corpi delle sue figlie e della
figlia del fratello, dilaniati e sparsi per l’appartamento insieme a resti di
mura, calcinacci, giocattoli, libri, vestiti, entrano prepotentemente nelle case
di un’intera nazione.
In un momento come questo, in cui il suo credo di pace, la sua etica, vengono
messi a dura prova, il medico sorprende tutti e lancia un messaggio pubblico
fortissimo: “Non odierò” – I shall not hate, appunto. Non solo: la figlia
dodicenne costretta a quattro mesi di ricovero ospedaliero per le gravi ferite
alle dita di una mano e all’occhio destro, alla giornalista che le chiede se
prova sentimenti di odio risponde con uno spiazzante: “Odiare chi?”, lasciando
senza parole l’intervistatrice e noi in sala.
Il messaggio Abuelaish è chiaro: è possibile non odiare, anzi, considerare la
pace come unica via percorribile. La migliore alleata per uscire dai conflitti,
secondo Abuelaish è l’istruzione, e infatti, per superare il dolore delle
perdite subite e i primi momenti di vita in Canada, dove il medico decide di
rifugiarsi, le superstiti della famiglia si dedicano allo studio. che viene
considerato come un’oasi di pace. Intanto Abuelaish, coerentemente con questa
visione, ha creato una fondazione “Figlie per la Vita” in memoria delle sue
ragazze uccise, che fornisce borse di studio per aiutare le giovani donne
provenienti da Palestina, Israele, Libano, Giordania, Egitto e Siria negli studi
universitari in Canada, Stati Uniti e Belgio.
Colpisce la potenza delle immagini del documentario e resta difficile
dimenticare il viso straziato del medico che chiede aiuto per le sue figlie; le
interminabili macerie delle case sbriciolate della striscia di Gaza di fronte a
un mare di un azzurro impietoso nella sua bellezza; il lento muoversi di
un’umanità ferita e sofferente; lo sguardo commosso di una ragazza che racconta
il suo passato condiviso con chi ha poi ha perso la vita in modo brutale;
l’aspetto fiero di un viso che chiede giustizia per delle vittime innocenti; il
corpo di un uomo inginocchiato a terra schiantato dal dolore con i vestiti
imbrattati del sangue di sua figlia; l’espressione commossa di chi ricorda un
altro modo di vivere; i primi piani di chi, nel raccontare, non lascia spazio
alla rassegnazione. E rimangono impressi anche gli innesti animati che, non
interrompendo affatto la narrazione, sono capaci di aumentare l’empatia verso i
soggetti di queste storie orrende.
Tutto quanto visto I shall not hate e in altre immagini di questo genere
dovrebbe essere sufficiente a far deporre qualsiasi tipo di arma in qualsiasi
guerra.
Durante una gita al mare la famiglia Abuelaish aveva scattato delle foto e, nel
riguardarle anni dopo, si renderà conto che solo le ragazze che hanno perso la
vita nella terribile giornata del 16 gennaio 2009, avevano scritto i lori nomi
sulla sabbia, come a voler lasciare un ricordo, una traccia evidente del loro
passaggio in questo mondo, come se avessero avuto una sorta di presagio di
quanto sarebbe poi successo.
Il principio del non odiare espresso dal film trova una bellissima sintesi in
quanto scritto da Etty Hillesum – scrittrice ebrea morta nel campo di
concentramento di Auschwitz – nel libro Diario (1941-1943): “Una pace futura
potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se
stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di
qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in
qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È
l’unica soluzione possibile”.
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