(S)margini il podcast a cura di niente di meno media e Osservatorio Repressione
– Puntata n. 6 “La fortezza Europa” Con il ReArm Europe, la Fortezza Europa
compie un passo verso un nuovo scenario. Oggi, di quale Europa stiamo parlando?
Europa di pace o Europa di guerra? Europa che investe in armi tagliando il
welfare? […]
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Quando in Italia accadeva quello che accade oggi per esempio in Turchia.
Arrestavano gli avvocati o li costringevano a rifugiarsi all’estero. Con l’alibi
della “lotta al terrorismo” lo stato democratico nato dalla Resistenza
antifascista massacrava il diritto di difesa identificando i legali con la
“banda armata” di cui erano accusati di far parte i loro assistiti. Gabriele
Fuga racconta la sua vicenda giudiziaria politica e umana nel libro che ha per
titolo “La cella dell’avvocato”
di Edoardo Todaro da Carmilla
“ Anni di piombo “ è questa la definizione che va per la maggiore nel definire
un periodo importantissimo nella storia del conflitto sociale e politico, quello
che si è prodotto negli anni ‘70. In questo paese, in quel periodo si è
sviluppato un movimento che non ha avuto paragoni in altri paesi occidentali.
Tanti i motivi sul perché in Italia si sia sviluppato tale percorso, certo non è
questo l’ambito. La liberazione dal nazifascismo sta subendo, da molti anni a
questa parte, un percorso di omologazione tra vinti e vincitori. Do you remember
Violante e le ragioni dei vinti? La morte non fa distinzioni, di fronte ad essa
siamo tutti uguali.
Questo in estrema sintesi, il percorso intrapreso in questi anni per arrivare ad
una riscrittura della storia, per arrivare alla famosa memoria condivisa. Tutti
uguali nella liberazione? Equiparare liberatori ed oppressori se si parla della
lotta di liberazione avvenuta nel ’45. Rimuovere e silenziare se si parla degli
anni’70; cosa sono stati gli “ anni ’70 “ in questo paese? Un conflitto sociale
politico/sindacale/sociale si è manifestato e come è stato possibile che in
una” democrazia compiuta “ si verificasse un possibile “ assalto al cielo “ che
potesse rimettere in discussione rapporti di forza consolidati a favore del
potere capitalistico, messa in discussione concretizzatisi con “ il mettere
paura “.
I protagonisti di quell’esperienza, spesso e volentieri finiti ad espiare il
proprio essere soggetti di una rottura epocale nelle patrie galere, devono
restare in silenzio, non farsi portatori del raccontare la propria esperienza ,
del proprio vissuto. Come si diceva un tempo “ a futura memoria “, a monito per
le nuove generazioni che si affacciano nell’essere protagoniste della messa in
discussione dello stato di cose presenti. Se prendi in considerazione che il tuo
impegno politico, la tua appartenenza al conflitto sociale in atto possa
esprimersi anche in forme incompatibili con l’ordine costituito, sappi che ti
teniamo sotto controllo, anzi che se pensi di farla frana, ti raggiungeremo
anche a distanza di decenni e te la faremo pagare, perché il potere non
dimentica. . Che sia capitato una volta? Ci può stare. Ma che non si ripeta
mai! Abbandono queste considerazioni, sicuramente ci sarà occasione per
tornarci, per dire alcune cose rispetto a “ La cella dell’avvocato “.
Gabriele Fuga, l’avvocato Gabriele Fuga, ci riporta ad un qualcosa di molto
importante, un qualcosa che deve essere conosciuto. Per tantissimi anni il
conflitto sociale aveva assunto tali dimensioni di scontro e di massa, che
rispondere alla repressione rientrava nei compiti di tutti nessuno escluso.
Certo c’era anche una nutrita schiera di legali che si prestavano a sostenere
coloro che venivano colpiti dai provvedimenti repressivi, ma il farvi ricorso
era, per così dire, una modalità tutta interna alle “ dinamiche di movimento “.
Ad un certo punto, la repressione ha accentuato il suo agire ed il movimento ha
attenuato la sua forza d’urto, anche su questo ritorneremo, e l’aspetto della
difesa legale ha assunto proporzioni considerate, prima, importanti ma
secondarie. Prima, se un operaio veniva licenziato, rivolgersi ad un legale era
ovvio; impugnare il licenziamento un percorso da praticare ma sapendo che il
rientro in fabbrica poteva avvenire non tanto grazie non solo a sentenze
favorevoli ma soprattutto alla solidarietà dei propri compagni che ti
riaccompagnavano in azienda portato a spalla. Quindi riprendendo il filo
lasciato qualche riga sopra, Gabriele Fuga rappresenta una figura emblematica
all’interno di un effetto a catena: avvocato/imputato; imputato/avvocato e così
all’infinito,infatti ad esempio lui sarà difensore di Spazzali e poi dovrà
trovarsi un difensore. Numerosi i nomi che hanno segnato quel periodo da
Spazzali, arrestato, ad Arnaldi, suicidatosi per evitare l’arresto dovuto al
pentito di turno, perché il numero di chi fa dichiarazioni infamanti si
accentua.. La sua vicenda riporta alla luce, appunto, la figura del pentito, in
questo caso Paghera, un detenuto comune politicizzato in carcere, addirittura
l’assistito che diviene accusatore. Avvocati soprattutto, ma non solo, che si
ritrovano attorno a una realtà fondamentali per la solidarietà che riuscì ad
esprimere concretamente: “SOCCORSO ROSSO” ed il “Comitato Internazionale per la
Difesa dei Detenuti Politici”.
L’accusa per l’avvocato Seguso/Fuga è quella usuale per coloro che svolgevano
quell’attività: partecipazione a banda armata ed associazione sovversiva, anello
di collegamento tra il difeso ed i “ complici “ fuori; accusa che farà sì che
nessuno un domani accetterà di farsi difendere da loro, questo è quel succede ai
compagni/avvocati, le idee sotto processo. Fuga che mantiene il proprio ruolo
anche nella fase detentiva con consulenze, ovviamente gratuite, in carcere
perché la sua professione deve essere un aiuto a coloro che in vari modi si
pongono contro lo stato, ma anche per le guardie che sono al servizio dello
stato. Fuga a San Vittore che diviene un inquilino a tempo indeterminato, tra
l’incriminazione per appartenere ad Azione Rivoluzionaria e poi a Prima Linea.
Carcere a confronto ieri/oggi: la descrizione delle celle d’isolamento; del
rancio; del bugliolo; del sovraffollamento sempre presente; la sveglia; la
perquisizione della cella; la corrispondenza in entrata ed uscita sottoposta a
controllo; le domandine per qualunque cosa a cui poter accedere; l’autoerotismo;
il consumo di playgil; ma sicuramente la solidarietà su tutto, quella
solidarietà elemento importante in una comunità chiusa come il carcere, ed a
quell’epoca, le discussioni politiche. Il tutto per dire che il carcere è uno
zoo umano e l’aspettativa è riposta verso la decorrenza termini.
Un viaggio attraverso i carceri italiani da Volterra, con la rivolta,a Porto
Azzurro dove si sta quasi bene, ai carceri della Toscana come Pisa molto simile
al Sud America. Fuga sottoposto ad un processo, macchina del fango, costruito
sulla credibilità di due pentiti. Su tutta questa vicenda avrà importanza
particolar il rapporto con Mario Dalmaviva, uno dei tanti imputati/condannati
della cosiddetta operazione 7 aprile, il quale metterà al servizio di Fuga le
sue vignette, che di satirico avranno ben poco, se non il mettere in discussione
il pianeta carcere. Possiamo dire che l’esperienza di Fuga, e tanti altri, ha
lasciato il segno a tal punto che sono numerosi gli avvocati che mettono le
proprie conoscenze e capacità al servizio di chi è colpito dai provvedimenti
repressivi, anche se l’auspicio, è che finalmente potremmo assistere di nuovo ad
un movimento conflittuale che sostiene i propri compagni.
Gabriele Fuga, La cella dell’avvocato, Edizioni Colibrì; pp. 316; € 17
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Recensione di «Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia», a
cura di Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio Repressione, per Momo
edizioni
di Vincenzo Scalia da il manifesto
La recente pubblicazione Police Abolition. Corso di base sull’abolizione della
polizia (Momo, pp. 96, euro 13), curata da Italo Di Sabato e Turi Palidda nella
sua edizione italiana, con le illustrazioni di Noah Jodice, rappresenta uno
strumento utile a riflettere sulla genealogia delle forze dell’ordine, fino a
considerare la possibilità di abolirle.
L’eterogenesi dei fini costituisce una caratteristica fondante delle interazioni
sociali. I conflitti, le trasformazioni, le variabili impreviste, sortiscono a
volte l’effetto di deviare verso esiti opposti specifici costrutti sociali,
pensati per adempiere ad altre finalità. Il caso della polizia rientra
pienamente all’interno di questa dinamica. Istituita per la prima volta a Londra
nel 1829, sotto il governo Tory di Robert Peel (da cui il soprannome di bobbies
che tuttora contraddistingue i poliziotti inglesi), la polizia metropolitana
londinese, il cui modello venne in breve esteso a tutto il paese, rispondeva a
scopi specifici. Lo scopo principale era quello di sanare la frattura tra gli
strati subalterni della società inglese e lo Stato, che, dopo il massacro di
Peterloo del 1829, si era ampliata a dismisura. Inoltre, attraverso un corpo
statuale centralizzato, si voleva porre fine alla discrezionalità e all’abuso
delle polizie private.
IL MODELLO INGLESE, diffusosi rapidamente in tutta Europa e nel mondo, non tardò
ad evolversi nella direzione opposta. Il consolidarsi della polizia come
istituzione dotata di un proprio spazio, indipendente da ragioni specifiche, si
sovrappone all’acuirsi dei conflitti sociali, all’interno dei quali le forze
dell’ordine si collocano all’interno della prospettiva del mantenimento e della
riproduzione degli equilibri di potere esistenti. La polizia finisce quindi per
allontanarsi dalla funzione per la quale era stata pensata, diventando
refrattaria ai cambiamenti radicali. A meno che, come avvenne per esempio in
Italia negli anni Settanta, non viene essa stessa attraversata da conflittualità
profonde.
Gli ultimi anni ci consegnano un’istituzione poliziesca identificata e
identificatasi come avversaria diretta di migranti, minoranze etniche, lgbtqia+,
no global (si pensi a Genova 2001 e al caso di Carlo Giuliani), nonché allergica
all’eccentricità degli stili di vita. Nel caso italiano, le tragedie Aldrovandi
e Magherini, ne sono un’esemplificazione. Oltreoceano, sulla scia del tragico
caso di George Floyd, nasce il movimento «Defund Police», che si prefigge di
abolire la polizia e di dirottare le risorse destinate a mantenerla in direzione
di politiche sociali inclusive.
UN PROGETTO AMBIZIOSO, provocatorio, che, nel contesto USA, si prefigge di
invertire la tendenza già indicata da Loic Wacquant, ovvero del passaggio dallo
stato sociale a quello penale. Che fa dell’origine relativamente recente delle
forze di polizia il suo punto di forza. Un percorso da incoraggiare, anche
nell’Italia del Ddl 1660. Ma che pone un interrogativo: sono mature le
condizioni per una società senza polizia?
Prima della sua istituzione, avevamo le milizie private dei signori e delle
corporazioni. Per esempio, in Sicilia, la mafia è nata in questo contesto. Dopo
la polizia, cosa ci sarebbe? Pensiamo a un contesto dove la sorveglianza
elettronica prende sempre più piede, e il taglio dei fondi prelude, come nel
caso inglese, a una polizia predittiva, che sorveglia e reprime sempre le stesse
classi pericolose. Senza tralasciare ronde e vigilanze private. Volendo
rispondere alla domanda, perciò, potremmo dire: la polizia si può abolire. Ma se
si abolisce l’ordine sociale e politico che la sostiene.
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La repressione denunciata dal Seme del fico sacro ci riguarda. Un dramma che da
familiare diviene sociale nell’Iran delle proteste giovanili di piazza
di Roberta Cospito da Carmilla
Premiato alla scorsa edizione del Festival di Cannes con il Premio Speciale
della Giuria, Il seme del fico sacro è l’ultimo film del regista iraniano
Mohammad Rasoulof. Nel 2020 il suo film Il male non esiste, dedicato alla pena
di morte, aveva vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. lI seme del fico
sacro è stato girato senza il benestare del governo iraniano, condizione che ha
costretto il regista, già arrestato nell’estate del 2022 e poi detenuto nel
carcere di Evin, divenuto noto ai più dopo la vicenda di Cecilia Sala, a
ripiegare spesso in ambienti interni protetti e in pochi esterni lontani dai
controlli del regime. Oggi, a eccezione di Soheila Golestani che interpreta la
moglie del giudice protagonista, tutti gli attori e la troupe non si trovano più
in Iran, dove è in atto un processo in corso nei confronti di tutti coloro che
hanno preso parte al film, accusati di propaganda contro il regime, attentati
contro la sicurezza pubblica, diffusione della prostituzione e corruzione sulla
Terra.
Il seme del fico sacro è un coraggioso racconto che, descrivendo i dissidi
all’interno di una famiglia, narra della vita quotidiana nello stato teocratico
iraniano. Iman, il pater familias, ha da poco ottenuto l’ambita promozione a
giudice presso il Tribunale della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, proprio
mentre un’ondata di proteste contrarie al regime dilaga per tutta la
nazione. Quando il giudice si rende conto che la sua pistola d’ordinanza,
simbolo del potere violento, è misteriosamente scomparsa dal cassetto del
comodino della sua camera da letto, sospetta sia della moglie sia delle due
figlie. L’episodio è centrale, ma privo d’importanza per lo spettatore, è il
classico “espediente MacGuffin”, un pretesto che funge da propulsore dell’intera
vicenda. Le due giovani, con in mano i loro telefoni cellulari, che diffondono
senza filtri le immagini della protesta e la violenta repressione della polizia,
vivono una realtà molto diversa rispetto a quella della madre che subisce
l’informazione televisiva di Stato, ma soprattutto diversa da quella del padre
che, contrariamente alla donna che prova ad avere un dialogo con le figlie, non
dimostra nessun segno di apertura e comprensione. L’uomo, unico portatore di
reddito all’interno della famiglia è nella posizione di stabilire le regole di
comportamento delle figlie, condizionando il comportamento di sua moglie che
cerca, con una tenacia che man mano va attenuandosi, di mantenere unita la
famiglia. Il suo compito si rivela, però, impossibile poiché l’uomo, spaventato
dal rischio di rovinare la sua reputazione e di perdere il lavoro, diventa
sempre più paranoico e inizia, in casa propria, un’indagine in cui viene
oltrepassato ogni limite. Il giudice, infatti, diverrà sempre più violento
finendo con l’applicare alle figlie e alla moglie le pratiche riservate ai
dissidenti politici.
La maschera del padre e marito premuroso cede velocemente il posto
all’inquisitore, non appena la famiglia mette in discussione il credo e
l’operato di Iman che, altrettanto rapidamente, è riuscito a tacitare la parte
onesta della sua coscienza per condannare a morte quanti vengono considerati
nemici del sistema senza neppure una verifica delle prove a loro carico. Il film
si concentra sulla famiglia, ma non si tratta di un semplice scontro
generazionale. Mai come in questo caso il personale è politico, anzi il privato
è politico e i normali rapporti familiari e sociali vengono sostituiti con
metodi di coercizione e di controllo violenti, divenendo così il perfetto doppio
dello Stato teocratico, dove la religione si è trasformata da fede in ideologia
politica e, infine, in repressione violenta.
La pellicola mostra come la società eserciti forti pressioni sulla famiglia del
giudice – da quelle subite dall’uomo sul posto di lavoro, alle urla di protesta
della folla in rivolta che entrano in casa dalle finestre che affacciano sulla
strada – e racconta quanto sia fondamentale l’opposizione a questo stato di
cose, con particolare attenzione alla forza delle protagoniste femminili il cui
simbolo è diventato ormai Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022
dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il
velo.
Sono le giovani il motore della rivolta in famiglia, non solo perché hanno a
disposizione i video girati con i telefoni, ma soprattutto per la scelta di non
ignorare quanto accade. Quando la repressione colpisce un’amica delle ragazze,
il cui volto tumefatto riempie lo schermo, le due sorelle decidono di
accoglierla in casa e prendersene cura, coinvolgendo la madre nell’opera di
soccorso. E da quel momento che la donna non riesce più a ignorare la realtà.
Nel film è evidente lo scarto tra le immagini della propaganda ufficiale del
regime trasmesse e diffuse dalla televisione, e quelle riprese coi cellulari dai
partecipanti alle manifestazioni di protesta, diffuse grazie ai social. Alcune
di queste sequenze sono state utilizzate per il film e si riconoscono sia dal
formato verticale dell’inquadratura sia dalle scene particolarmente violente e
caotiche che culminano con un uomo in divisa che spara verso la telecamera di un
telefonino.
Il seme del fico sacro che parrebbe essere un titolo avulso dalla storia, nasce
da un’esperienza del regista che, conosciuto l’albero in una delle isole
meridionali dell’Iran, prende il fico sacro come simbolo di resistenza. Il ciclo
di vita di questa pianta ha colpito l’immaginario di Mohammad Rasoulof: i semi
della pianta cadono sui rami di altri alberi attraverso gli escrementi degli
uccelli che di questa si cibano, germogliano e crescono penetrando con le radici
il fusto della pianta ospite, spaccandola dall’interno.
Le nuove generazioni, i nuovi semi che nascono nel regime degli ayatollah si
sostituiranno a esso cancellandolo e rimpiazzandolo, pare volerci dire il
regista.
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Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile. Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia
compresa, è contributo nella direzione di una presa di coscienza, per capire da
che parte stare.
di Edoardo Todaro da La Città Invisibile
Quanto sta avvenendo in Palestina, Gaza e Cisgiordania, è qualcosa a cui mai
potevamo pensare di assistere, praticamente in diretta. Crimini di guerra e
crimini contro l’umanità vengono commessi su scala mai vista. Non c’è rifugio,
non c’è luogo sicuro. I palestinesi vengono bruciati vivi nelle tende. Vengono
attirati nei “ luoghi sicuri” e poi bombardati. Vengono lasciati morire di fame,
privati di cibo, acqua ed elettricità, condannando così a morte i pazienti degli
ospedali.
Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile, rai ed affini a parte, a chiunque abbia un minimo di interesse nel
volersi fare un proprio punto di vista sugli avvenimenti in corso, e nel vedere
le immagini che scorrono sul televisore, o meglio sul pc, i sentimenti che si
accavallano sono commozione e frustrazione. Sul primo non credo sia necessario
dire chissà cosa, ognuno fa i conti con i propri sentimenti, ma la frustrazione
è dovuta semplicemente al fatto che stiamo facendo tanto per essere solidali con
i palestinesi, ma siamo consapevoli che ancora non facciamo quanto dovremmo.
Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia compresa, lo
considero un ulteriore contributo nella direzione di una presa di coscienza, per
capire da che parte stare. Hanin Soufan ci porta all’interno di quello che è
divenuto un vero e proprio deserto, ci offre una luce nel buio del genocidio,
una vera e propria inchiesta sul campo.
Il primo contributo riportato si riferisce a coloro i quali con il proprio
incessante lavoro sono sotto attacco continuo, da parte delle forze
d’occupazione: i giornalisti, che sono odiati da Israele in quanto testimoniano
cosa significa raccontare i diritti di un popolo oppresso, una verità che è
immortale. Wael Al-Dahdouh che lavora per Al Jazeera ha già passato in carcere 7
anni in occasione della prima Intifada. Un lavoro fatto come fosse una missione,
perché il mondo ha bisogno di sapere quanto sta succedendo. Quanto descritto è
sotto gli occhi di tutti: nessuna zona definibile sicura; bombardamenti ovunque
anche le ambulanze che portano i feriti da parte di quello che in occidente
viene definito l’unica democrazia del Medio Oriente, con quello che è ritenuto
l’ esercito ritenuto “morale”.
Passando alla seconda testimonianza, che dire? Emerge il ruolo delle donne,
delle madri che fanno figli, molti figli, come atto di resistenza, delle mogli
con i mariti che lavorano nelle colonie israeliane, con le difficoltà, e già
definirle così è attenuare cosa vuol dire “difficoltà”, che Gaza subisce per il
blocco economico in corso ben prima del 7 ottobre, senza cibo, senza acqua,
senza medicine. Dal ’73 c’è uno slogan che ritengo del tutto attuale: “Potremo
morire tutti, ma se resterà una donna incinta essa darà alla luce un figlio che
libererà la Palestina”.
Leggere il terzo contributo, con Ahmad testimone dell’orrore, è come vedere
quanto quotidianamente i palestinesi subiscono: non solo i bombardamenti, ma le
urla strazianti, i pianti inconsolabili. Gaza: un assedio ininterrotto di
massacri, che porta inevitabilmente al genocidio. Gaza meglio morire che “vivere
“ nell’inferno. Gli occupanti distruggono tutto perché non è la loro terra.
Motal Azaiza, nella quarta testimonianza, ci parla di una Gaza sotto assedio,
dimenticata da tutti, dove chi vive è rinchiuso in una gabbia e ciò che è
concesso è dato dall’occupazione con il contagocce. Motal si è posto un compito,
un compito che l’essere giornalista/testimone impone: portare avanti un’opera di
sensibilizzazione, far emergere voci, le voci di chi non ha voce, far emergere
la forza e la sofferenza di un popolo.
Quindi con Khaled Nebhan, nel contributo seguente, è la speranza, quella
speranza che non si piega, ad essere valorizzata, la speranza che vive anche nel
campo profughi: un vero e proprio labirinto di sogni, una battaglia l’accesso
all’acqua, mangiare carne un lusso, con le giornate che trascorrono lentamente e
nonostante tutto questo ciò che conta è che la miseria non divide, ma unisce.
Una frase su tutte deve essere da riferimento: “ Non usciremo da qui, accada
quel che accada”.
Incontrando Nadine, nel sesto, è il ruolo di unità nella resistenza
all’oppressione delle comunità religiose; la solidarietà nella lotta che unisce
al di là dei riferimenti religiosi, nel sogno di una terra libera
dall’oppressione. Vangelo e Corano …. uniti nella lotta. A dispetto dei
bombardamenti è la solidarietà che vince.
Con Mohammad Abu Salimah, dopo aver visto il ruolo dei giornalisti e
dell’informazione, conosciamo il coraggio di un medico sotto assedio: le sfide
continue dovute all’imperativo categorico autoimposto del dover salvare vite;
l’assenza di medicinali, di carburante, di elettricità, e la lotta quotidiana
per la sopravvivenza è la normalità. L’ospedale un luogo di possibile guarigione
diviene rifugio per migliaia di sfollati e poi luogo di morte. L’assurdità
raggiunta dal governo israeliano nel dichiarare che le autoambulanze e gli
ospedali sono un rifugio di Hamas. Ma una cosa su tutto: il popolo Gaza non si
piega anche se Israele non rispetta la vita e nemmeno la morte. Avvilire,
umiliare, distruggere psicologicamente in questi comportamenti si può riassumere
il comportamento degli occupanti. Infine l’atto di accusa, dovuto, verso una
comunità internazionale, paesi arabi compresi, complice e che è brava solo ad
usare parole di circostanza.
Giungiamo all’ottavo contributo, con Israa Jaabis: è l’istinto alla
sopravvivenza più forte della disperazione che attrae la nostra attenzione,
quell’istinto che si contrappone a quei soldati, occupanti, che non hanno alcuna
sensibilità umana. Una insensibilità che si concretizza nella descrizione dei
diritti umani negati in carcere. Una parola ci fa capire il modo di porsi
rispetto alla resistenza ed al 7 ottobre: la resistenza ha dato un duro colpo
all’occupazione.
Ci avviamo alla conclusione, con il nono contributo, nel quale ci addentriamo ad
esaminare cosa significa la detenzione amministrativa, le torture di ogni tipo
alle quali associazioni come Addameer dedicano il loro impegno, cosa significa
essere la voce di chi non può parlare e quando sei fuori dal carcere non
abbandonare mai chi vi resta e l’idea di una Palestina libera deve essere con
animo più determinato che mai.
Arriviamo all’ultima parte, sempre con il carcere sotto la lente d’osservazione,
vero e proprio luogo di tortura e di sfogo per le guardie, che sono
esclusivamente capaci di essere vendicative in particolare quando si sentono
messe in difficoltà. Per finire ritengo fondamentale riportare questa frase che
dà senso a queste 124 pagine: “Gaza è libera, è il resto del mondo che è sotto
occupazione”.
Hanin A. Soufan, Le anime invincibili di Gaza. Dieci squarci di luce nell’ombra
del genocidio, Editori della luce, 2024, pp 125, euro 15
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Sulla piattaforma Netflix l’adattamento di uno dei grandi capolavori del fumetto
novecentesco: L’Eternauta.
di Marco Sommariva da Carmilla
Fu durante le feste di Natale del ’77 che mio padre, due miei zii e un loro
amico si misero d’accordo per vedersi tutti i sabati di gennaio, dopo cena, per
giocare a poker. Lo dissero e lo fecero, nonostante lo storcere leggero delle
labbra di mia madre, delle mie zie e della moglie del loro amico. Due coppie non
avevano figli; le altre sì, ma erano grandi e già uscivano di casa per conto
loro: solo io, da poco quattordicenne, ero ancora a rimorchio dei “grandi”.
E così, la sera di sabato 7 gennaio 1978 – mentre “gli uomini” bevevano fumavano
giocavano a carte e non gradivano granché la mia presenza, Se stai qui a
guardare non fare domande!, e “le donne” poco distanti sedute in cerchio
parlavano a voce bassa di cose che m’interessavano poco o nulla, Se stai qui ad
ascoltare non devi interrompere! –, iniziai ad aggirarmi per la casa della zia
che ospitava il tavolo d’azzardo, cercando qualcosa da fare.
Non vidi granché d’interessante – dalla classica gondola di Venezia posata su un
centrino fatto all’uncinetto sopra il televisore spento, a un puzzle delle
Dolomiti appeso di sghimbescio alla parete del corridoio –, finché non
m’imbattei in una manciata di fumetti abbandonata in un grosso canestro di
vimini: erano dei Lanciostory di luglio, agosto e settembre 1977 acquistati da
mio cugino, in quel momento al cinema con la fidanzata.
Chiesi il permesso di prenderli e iniziai a leggerli in cucina, da solo, seduto
a tavola, a debita distanza dagli otto adulti che rimasero di là, in sala, sotto
una cappa di fumo che andava via via inspessendosi.
Fuori era buio, c’era silenzio e faceva freddo: a quell’ora, la temperatura era
intorno ai tre gradi – i “grandi” sostenevano fosse alto il rischio nevicasse.
Intanto che gli italiani discutevano sulla strage di Acca Larenzia, cantavano
Solo tu dei Matia Bazar, approvavano la legge Basaglia, vedevano l’album
Saturday night fever dei Bee Gees raggiungere la prima posizione nella
classifica delle vendite, e non sapevano ancora che un certo Silvio Berlusconi
versava centomila lire per iscriversi alla loggia massonica P2, presi in mano un
Lanciostory a caso dalla pila che avevo davanti: la copertina riportava immagini
western e preannunciava qualcosa al suo interno destinato a cambiare decisamente
rotta alla mia visione del mondo, “IL 1° EPISODIO DELL’ETERNAUTA” – era scritto
proprio così, tutto maiuscolo.
All’epoca, non potevo sapere che, dopo l’Argentina, l’Italia era il primo paese
al mondo a pubblicare L’Eternauta, e proprio a iniziare da quel fumetto che
avevo in mano, il numero 27 (anno III) del settimanale Lanciostory dell’Eura
Editoriale.
A differenza di Hora Cero Semanal, la rivista argentina che aveva pubblicato
L’Eternauta che aveva uno sviluppo in orizzontale (27×20 cm), il settimanale
dell’Eura aveva il tipico formato “a quaderno”, e per questo motivo, con
l’approvazione del disegnatore Francisco Solano López, le tavole furono
rimontate per essere adattate allo sviluppo verticale della rivista: vignette
tagliate, allungate e manipolate, e testi ritoccati.
Iniziai a sfogliarlo e rimasi immediatamente impressionato dai disegni molto
diversi da quelli degli americani Jack Kirby e John Buscema o degli italiani
Magnus, Bonvi e Gallieno Ferri, ossia tutte le matite che avevano accompagnato
la mia crescita sino a quel momento.
E mi folgorò la storia di questo misterioso personaggio – l’Eternauta, appunto –
materializzatosi in casa di uno sceneggiatore di fumetti, in quel di Buenos
Aires; un’avventura scritta da un altro argentino, Héctor Germán Oesterheld,
divoratore di opere del connazionale Bioy Casares e di Salgari, Wells, Poe,
Melville, Stevenson, Conrad, London e Verne – di quest’ultimo, nella prima metà
degli anni Settanta adatterà a fumetti Ventimila leghe sotto i mari.
Iniziò così il mio rapporto con questa historieta, così viene chiamato il
fumetto in Argentina.
Quando l’Eternauta, “l’uomo dai cento nomi”, prende corpo davanti allo
stupefatto sceneggiatore di fumetti – che, poi, altro non è che lo stesso Germán
– per raccontargli una storia incredibile, lo sceneggiatore è seduto al suo
tavolo di lavoro in una fredda notte australe.
L’incredibile storia che racconterà l’Eternauta ha inizio una sera quando, nel
chiuso della sua casa dove abitava con la moglie Elena e la figlia Martita,
mentre stava giocando a carte con tre amici e il suo nome era ancora Juan Salvo,
assistette alla prima manifestazione di un’invasione aliena: una neve
fosforescente che in poco tempo avrebbe ucciso quasi tutti gli abitanti della
capitale argentina, chiunque fosse stato toccato dai fiocchi.
È questo l’indimenticabile inizio di un’opera che, utilizzando la metafora
dell’occupazione extraterrestre, s’apprestava a denunciare ogni potere
repressivo.
L’apparizione iniziale di fronte allo sceneggiatore di fumetti è un classico; in
questo modo, l’autore finge l’irresponsabilità della storia che narra, proprio
come si fa col luogo comune del manoscritto ritrovato, tipo il Don Chisciotte
della Mancia di Miguel de Cervantes o I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Avevo letto poche pagine quando, senza alzarmi dalla seggiola, guardai fuori
dalla portafinestra della cucina per controllare se per caso avesse iniziato a
fioccare poi, sempre restando a tavola, causa uno scricchiolio, rivolsi lo
sguardo di fronte a me – si stava forse materializzando qualcuno sulla sedia
davanti alla mia? – e, infine, aguzzai le orecchie per capire se, in sala, gli
otto adulti fossero ancora tutti vivi: mai mi era capitato prima e mai mi
successe in seguito d’essere così immerso in un fumetto.
Sceneggiato dal prolifico Héctor Germán Oesterheld, nato a Buenos Aires da una
famiglia di origini tedesche e spagnole, e disegnato dall’argentino autodidatta
Francisco Solano López, L’Eternauta venne pubblicato per la prima volta dalla
rivista Hora Cero Semanal tra il settembre 1957 e il settembre 1959, a puntate,
come fosse stato un romanzo d’appendice.
Oesterheld raccontò che L’Eternauta “nacque come un racconto di appena settanta
vignette”, un fumetto breve che diventò un lungo e straordinario viaggio capace
di raggiungere e traghettare diverse generazioni e culture di lettori.
Oesterheld, ammiratore di Robinson Crusoe – il naufrago pensato dallo scrittore
inglese Daniel Defoe nel 1719 –, scrisse negli anni Settanta: “All’inizio
L’Eternauta era la mia versione di Robinson. La solitudine dell’uomo, circondato
e prigioniero non del mare ma della morte. Non l’individuo solitario Robinson,
ma l’uomo con famiglia e amici”.
Il disegnatore Solano López ricorda, invece, che L’Eternauta “fu, oltre che una
storia di fantascienza, una specie di anticipazione del destino vissuto decenni
dopo dal paese. Credo che fu un atto quasi incosciente tanto da parte di Héctor
Oesterheld come da parte mia, in un contesto come quello degli anni ’50, si
capisce. Héctor era un deciso antiperonista, un liberale con idee socialiste, di
sinistra – come potevo esserlo anch’io, senza essere iscritto a nessun partito –
collocato più o meno sulle stesse posizioni di tutta l’intellighenzia argentina
e con un’idea di popolo e di giustizia sociale che gli facevano concepire i
fatti storici come determinati dalle pressioni dei paesi più ricchi”.
I fatti storici determinati dalle pressioni dei paesi più ricchi, li si trova
già raccontati quando, nella seconda puntata pubblicata da Hora Cero Semanal, un
giornale radio trasmette un bollettino informativo in cui si racconta di
un’eccezionale esplosione atomica nel Pacifico, che contrariamente a quanto
precedentemente annunciato gli Stati Uniti avevano continuato a effettuare test
atomici, e che questo era stato rivelato da un incidente appena accaduto:
l’esplosione di una bomba atomica di nuovo tipo che aveva prodotto una quantità
enorme di polvere radioattiva, una nube che, spinta dal vento, avanzava a gran
velocità verso sudovest, l’Argentina; era come se Oesterheld, pur non dando
ancora una lettura esplicitamente politica dei fatti come farà in seguito,
iniziasse a denunciare la minaccia incombente sull’America del Sud del governo
statunitense.
Impressiona la chiarezza di idee che permise a Oesterheld di capire con largo
anticipo il problema di fondo che affliggeva la politica argentina dell’epoca:
L’Eternauta risulterà essere la metafora perfetta dei futuri venticinque anni
del paese, “una storia che diventa profezia”, scriverà nel 2001 Juan Sasturain –
giornalista, fumettista e scrittore argentino – in una prefazione a una delle
tante edizioni del fumetto.
L’historieta pensata da Oesterheld divenne premonitrice di un concreto e
determinato scenario: la nevicata mortale rappresentava il paese distrutto, un
paese consegnato agli interessi di potenze straniere e dominato dall’invasore:
intorno alla metà degli anni Cinquanta, governo argentino e multinazionali
avevano stipulato accordi che, in pratica, consegnavano a capitali stranieri, in
primis statunitensi, la guida del processo di sviluppo del paese, soprattutto
nel settore petrolchimico e metalmeccanico.
Può una historieta diventare denuncia del vuoto etico lasciato dalle
istituzioni, in teoria democratiche, che tanti ritengono debbano essere i
garanti dei destini di una nazione? Decisamente sì, L’Eternauta simboleggerà la
lotta per un’Argentina più giusta e degna; non solo, data la capacità di questa
storia di attraversare lo spazio e il tempo mantenendo intatta la sua capacità
di meravigliare il lettore, L’Eternauta simboleggia ancora le battaglie per un
mondo più giusto e degno, compresa l’attuale lotta argentina contro quella
caricatura di Trump che risponde al nome di Milei, l’uomo che sta trascinando
l’Argentina in una profonda povertà, tentando la narrazione di una controstoria
che cancelli anche i desaparecidos.
Oesterheld era il primo a essere fortemente convinto della forza comunicativa
del fumetto come mezzo per diffondere valori socioculturali; un genere che, in
quel determinato contesto storico, era capace di un grande impatto popolare.
Quando nello studio di casa dello sceneggiatore di fumetti si materializza dal
nulla l’uomo ribattezzato Eternauta da un filosofo del XXI secolo, insieme
all’estraneo si concretizza la storia più fantastica mai ascoltata; durante il
dialogo fra i due verrà consacrata l’importanza della tradizione orale e,
quindi, la difesa della memoria come fonte di identità: la voce dell’Eternauta,
infatti, porta reminiscenze di un altro tempo, di un’altra notte, di un’altra
casa quando, attorno a un tavolo da gioco, un gruppo di amici assapora le
semplici cose offerte dalla vita.
I giocatori seduti al tavolo – Juan Salvo che diverrà l’Eternauta, e i suoi
amici Favalli, Lucas Herbert e Polsky – sono sereni e le loro menti libere,
quando la nevicata mortale comincia a coprir le strade; l’apparente evento
meteorologico risulterà essere la prima mossa degli invasori.
Questa prima sequenza del fumetto già rimanda direttamente al Robinson Crusoe
citato dallo stesso Oesterheld: la lotta per la sopravvivenza si delinea come
nucleo centrale della storia, con l’Uomo costretto ad affrontare condizioni
esterne estreme: isolamento, fame, solitudine, la fine di tutto ciò che si
conosce.
Dato che ancora oggi il concetto dell’essere umano capace di attraversare lo
spazio e il tempo ha la capacità di appassionare il lettore, pensate quale
effetto può aver avuto nel 1957, quando la corsa verso lo spazio avanzava con
forza verso orizzonti incerti: Juan Salvo parla del suo destino di marinaio del
tempo, di viaggiatore dell’eternità e della sua triste e desolata condizione di
pellegrino nei secoli, nel settembre del 1957, quando mancava un solo mese al
lancio nello spazio del primo satellite artificiale della storia, il sovietico
Sputnik I.
Un primo sostanziale cambio narrativo del fumetto avviene con la discesa di due
sfere luminose nella notte di Buenos Aires spostando, così, la storia in un
altro contesto, quello dell’invasione extraterrestre; consapevoli d’essere
attaccati da una razza aliena, proveniente dallo spazio, i personaggi vengono
catapultati nel genere fantascientifico e, a quel punto, il tema portante non
sarà più la sopravvivenza, ma la resistenza.
Vista la passione di Oesterheld per le opere di Verne, Salgari e Wells, non è da
escludere che i due temi fondanti de L’Eternauta, gli stessi di tutta la
letteratura di fantascienza, ossia l’invasione aliena e il viaggio nel tempo,
gli siano stati ispirati anche da letture quali La guerra dei mondi di H.G.
Wells per il primo tema e da La macchina del tempo sempre di Wells, Le
meraviglie del duemila di Emilio Salgari e Parigi nel XX secolo di Jules Verne
per il secondo.
La historieta ci racconterà di una resistenza contro l’invasore extraterrestre
ma, vista da un’altra prospettiva, potrà essere letta come la resistenza dei
meno abbienti contro il potere costituito: non a caso comparirà la figura
dell’operaio Alberto Franco che, nei momenti più critici, s’assumerà la
responsabilità di diverse iniziative, decisioni.
Nella sua ultima intervista, Oesterheld ricorderà che “pochi l’hanno notato ma è
così, l’eroe principale è Franco, un operaio”.
Attaccare il nemico e batterlo provvisoriamente come succede nella storia,
significa vincere una battaglia ma non la guerra, e questo è qualcosa che
Oesterheld ha ben chiaro; non a caso, la risposta data dagli invasori a un gran
colpo inferto loro da Franco sarà una nuova nevicata, più mortale della
precedente.
In linea con la sua filosofia di mutuo soccorso, Oesterheld assegnerà la
resistenza all’invasore a piccoli imprenditori, gente della classe media,
lavoratori, professionisti, sottufficiali e qualche ufficiale dell’esercito, e
spesso la responsabilità delle decisioni verrà fatta ricadere sull’elemento più
umile del gruppo; il messaggio dello sceneggiatore parrebbe chiaro: per
risolvere i problemi nazionali, occorre un’alleanza fra i ceti medi, la classe
operaia, i militari e gli intellettuali – solo così si potrà evitare la
sconfitta di fronte a un nemico fornito di tecnologie e armamenti superiori.
A causa di questa resistenza, la historieta raffigura scontri che, pagina dopo
pagina, salgono di tono; tra questi, il combattimento nello stadio del River
Plate, la fuga tra i tunnel della metropolitana D e il bombardamento atomico su
Buenos Aires.
Così come ciò che accade allo stadio del River Plate e nella linea D della
metropolitana, tutti gli avvenimenti si svolgono in luoghi e zone ben note ai
lettori argentini; Solano López ricorderà che ne L’Eternauta “tutto è
riconoscibile, la Plaza Italia, lo Zoo che tanto amavo da piccolo, le Barrancas
di Belgrano e il suo mercato. Non ho usato foto, né mi sono recato nei luoghi
per prendere appunti, ma ho disegnato la città così come la ricordavo. Se la
ricordavo così, la gente l’avrebbe riconosciuta, pensai”.
Oesterheld, che conosceva bene l’assurda compulsione a ripetersi delle
dittature, sapeva che i nazisti avevano usato gli stadi come aree di smistamento
degli ebrei, ma non poteva sapere che lo stadio di Buenos Aires del River Plate
che nel fumetto descrive assediato dagli invasori e dove gli umani sostengono e
respingono i ripetuti attacchi nemici, sarà usato dai militari durante la loro
dittatura che durò dal ‘76 all’83 per rinchiudere, torturare e poi far sparire i
corpi degli oppositori.
Per una mostra sull’opera del marito tenutasi a Torino nel 2002, la moglie di
Oesterheld ha scritto: “Nell’opera di Héctor si anticipò quella lotta nella
quale tutti senza eccezione dobbiamo impegnarci: il rispetto della vita al di là
dei condizionamenti, delle idee politiche, delle classi sociali”.
L’Eternauta si presta a una lettura umanista: lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo da parte di un sistema politico e sociale che non dà alcuna importanza
alle possibili conseguenze, è incarnato nella figura degli Ellos [i “Loro”] i
quali, intenzionati a conquistare l’Universo, invadono la Terra per mano dei
Manos, una razza pacifica che sono riusciti a dominare dopo aver loro impiantato
una “ghiandola del terrore” che li uccide nel caso tentassero di ribellarsi –
forse esagero, ma a me sembra si stia già parlando di transumanesimo.
Molto probabilmente, una delle scene più celebri de L’Eternauta è quella dove
uno degli schiavi degli Ellos muore e si lascia andare a una malinconica
meditazione sull’universo a partire da una caffettiera, dalla bellezza di questo
manufatto, e qui è difficile che la memoria non corra alla malinconia
dell’androide del film Blade runner di Ridley Scott, trasposizione
cinematografica de Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, e al suo famoso
monologo: “Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere
uno schiavo. Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da
combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione…”.
Così come la trasposizione cinematografica del romanzo di Dick, anche la
historieta sceneggiata da Oesterheld è un’opera capace di trovare un giusto
equilibrio tra gli schemi classici del genere e domande profonde sul senso della
Vita e dell’essere umano.
Il finale de L’Eternauta si concentra sull’incontro di Juan Salvo con la moglie
Elena e la figlia Martita e, sempre a proposito di transumanesimo, col
sacrificio di Favalli, Franco e altri trasformati in uomini robot al servizio
degli invasori, con le loro volontà annullate da un telecomando impiantato nella
nuca.
Il fine ultimo dei militari al potere, così come quello del Potere in generale,
era quello di produrre uomini-robot senza volontà, senza autodeterminazione: non
c’era posto per chi non si allineava. Non a caso, nel 1977, vent’anni dopo
l’uscita del suo capolavoro, Oesterheld farà una brutta fine.
“Deve essere chiaro che i fatti del 24 marzo 1976 non stanno a indicare solo la
caduta di un governo. Significano, invece, la fine di un ciclo storico e
l’inizio di uno nuovo”, sentenziò Videla in un messaggio all’Argentina,
trasmesso dal canale nazionale il 30 marzo; la Giunta dei Generali formata dai
comandanti a capo delle tre forze armate – Jorge Rafael Videla per l’esercito,
Emilio Eduardo Massera per la Marina e Orlando Ramón Agosti per l’Aeronautica –
s’impossessò del Governo il 24 marzo 1976, appunto, e nominò presidente di fatto
Jorge Rafael Videla.
Fra le prime misure prese, il nuovo Governo sciolse il parlamento e i partiti
politici.
Chiunque avesse creduto possibile, realizzabile un modello di paese più giusto,
militasse o no in una qualsiasi organizzazione di sinistra, finì con l’essere
accusato di “delinquenza sovversiva”; contro questi “delinquenti sovversivi” lo
Stato adottò il sistema della “desaparición de personas”, che non era altro che
l’incarcerazione illegale, eseguita dalle stesse Forze armate, in centri segreti
dove i sequestrati venivano torturati e, nella maggior parte dei casi, uccisi.
Nel giro di diciotto mesi, tra il 1976 e il 1977, le quattro figlie di
Oesterheld – come il padre, tutte militanti nelle file dei Montoneros, l’ala
sinistra del Peronismo – vennero assassinate dalla dittatura, così come i loro
compagni. Delle quattro ragazze uccise, due erano incinte.
Oesterheld si nascose e continuò a pubblicare nuove opere clandestine, ma
nell’aprile del 1977 fu catturato e portato nel centro clandestino di detenzione
e sterminio “El Vesubio” dove tortura, omicidio e stupro erano la norma. Fu
visto vivo l’ultima volta da un altro prigioniero intorno al gennaio del 1978;
si ritiene sia stato ucciso a Mercedes, in provincia di Buenos Aires, con un
colpo d’arma da fuoco – i suoi resti risultano ancora dispersi.
Se tante opere della fantascienza degli anni Cinquanta ci hanno messo in guardia
dai futuri possibili, visto quanto accaduto al suo creatore, L’Eternauta lo ha
fatto a ragion veduta.
Quella degli Oesterheld è la storia di una famiglia distrutta da un regime
criminale, che ha abbracciato la lotta politica fino alle sue estreme
conseguenze: l’umanità professata dalle storie di Héctor Germán non era e non è
di questo mondo; ha detto Martín Mórtola Oesterheld, figlio di Estela, la figlia
maggiore di Oesterheld uccisa a colpi d’arma da fuoco fuori casa sua da uno
squadrone della morte nel dicembre 1977: “I racconti di mio nonno avevano come
asse centrale i legami umani, le relazioni umane”.
Prima di finire tra i desaparecidos, Oesterheld troverà il tempo e il modo per
produrre qualcos’altro: invogliato dal successo ottenuto nel 1976 da una
ristampa de L’Eternauta, Oesterheld creerà una seconda parte della saga –
L’Eternauta II, sempre disegnata da Solano López – che in Italia verrà
pubblicata col titolo L’Eternauta, il ritorno.
La sceneggiatura di questo sequel scritta in clandestinità prima d’esser
sequestrato, mostra la famiglia di Juan Salvo e lo stesso Oesterheld lottare a
fianco degli umani superstiti in uno scenario post-apocalittico; la storia che
vede l’Eternauta leader di un popolo oppresso guidare la ribellione contro un
governo dittatoriale, riflette ancora una volta l’impegno politico dell’autore.
Ha detto Solano López: “Se la prima parte era un discorso antimperialista, la
seconda era decisamente propaganda politica. Ero molto preoccupato poiché in
quel periodo lottavo per tirar fuori dal carcere mio figlio minore [Gabriel],
imprigionato per la sua militanza. Inoltre, vivendo a Belgrano ero molto esposto
e temevo, in quanto coautore dell’Eternauta, che venissero a prendermi”.
Fortunatamente Gabriel López fu liberato e l’intera famiglia si trasferì a
Madrid, dove il disegnatore concluse le tavole dell’Eternauta II.
Riguardo la scena finale – dove Germán (Oesterheld) e Juan Salvo stanno
camminando uno fianco all’altro, di spalle, verso l’orizzonte – Lopez ha
commentato così: “Disegnare la scena finale […] è stata per me un’esperienza
molto toccante. Ha significato la chiusura di una storia che, emotivamente e
personalmente, mi aveva colpito tanto e causato molto dolore. Mi trovavo
esiliato a Madrid con mio figlio, in un appartamento in Calle de la Princesa. In
questo stesso appartamento, da alcuni amici profughi di mio figlio, avevo saputo
che Héctor era stato sequestrato. E un anno dopo mi arrivò la notizia, priva di
conferma, che era stato ucciso. Per questo motivo completare L’Eternauta, il
ritorno mi ha provocato una sensazione di vuoto, di dolore. Sia per quello che
era successo sia per il fatto di non sapere cosa sarebbe successo in futuro. Per
la tristezza che provavano mio figlio e gli amici di mio figlio. Perché noi
tutti stavamo andando da qualche parte, senza saper bene dove né fino a quando”.
Grazie ai miei quattordici anni, anch’io stavo andando da qualche parte senza
sapere dove; di certo, sapevo che non avrei mai dimenticato la figura
dell’Eternauta, la sua storia, il suo insegnamento, l’aiuto a diventare “grande”
simile a quello che mi avrebbe dato, a partire dal mese seguente, la rivista
satirica Il Male che iniziai ad acquistare regolarmente appena veniva consegnata
nelle edicole così da non rischiare di restare senza, sia perché contava
centinaia di migliaia di lettori sia perché veniva sequestrata ogni tre per due.
Ormai, era domenica 8 gennaio 1978 quando uscimmo da casa di mia zia e andammo a
casa; come all’andata, il viaggio lo feci seduto sul sedile posteriore della
nostra vecchia FIAT Seicento comprata a rate, guidata da mio padre che, al
tavolo da poker, aveva limitato le perdite entro limiti accettabili dal bilancio
famigliare, con mia madre accomodata sul sedile del passeggero che si lamentava
del freddo.
Seduto sul sedile posteriore, solo e angosciato come Juan Salvo, guardavo le
strade deserte e speravo s’arrivasse a casa il prima possibile: temevo
fortemente iniziasse a nevicare da un momento all’altro.
Mai mi era capitato prima e mai mi successe in seguito d’essere così immerso in
un fumetto; a dirla tutta, ci sono ancora dentro fino al collo.
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Recensione al libro “Elettroshock” di Giulio Di Luzio, un romanzo che si rivela
una chiave attuale di interpretazione, analisi e discussione sullo stato di
“attuazione” della Legge Basaglia, contrastata oggi più che mai dal mondo medico
e politico
Dopo il riuscito saggio “Le foche ammaestrate” controstoria dell’informazione
sulla guerra ucraina, Giulio Di Luzio torna alla narrativa di impegno civile e
politico col suo tipico taglio irriverente e senza concessioni con
“Elettroshock”, un romanzo che nasce nel clima generale di una stagione animata
da una tensione intellettuale innegabile, da un contesto conflittuale e da
esperienze di opposizione alle istituzioni totalitarie.
L’Autore ripercorre nell’opera esperienze giovanili, che in quella temperie
storica trovarono forme, tempi e modi di rappresentarsi, in ciò associandosi
agli scrittori, che hanno attinto al proprio passato giovanile tematiche nate da
esigenze esistenziali, etiche e collettive, per raccontare una fase storica.
Di Luzio lo fa con rigore e passione letteraria con una trama costruita intorno
alla istituzione totale per antonomasia, il manicomio, che proprio negli anni
Settanta verrà investito da una severa opposizione di massa, che ne minerà la
credibilità fino allo sbocco della Legge 180 del 1978 grazie all’opera titanica
dello psichiatra veneto Franco Basaglia.
Ma lo scrittore pugliese osa di più, ponendo in essere un’opera letteraria di
stampo neorealista, che si fa carico di rappresentare con fedeltà la radicalità
di quella opposizione sociale e politica alla feroce realtà della reclusione
manicomiale, più volte minimizzata dai media dominanti e dalla élite
psichiatrica, che tentano -ieri come oggi- di ridurne la portata, la profondità,
la estensione in un processo di revisionismo e restaurazione implacabili, che
strizzano l’occhio al ritorno dei grigi padiglioni manicomiali e al
rafforzamento della managerialità delle residenze psichiatriche, come unico
modello per affrontare il delicato segmento della salute mentale.
In ciò il romanzo si rivela una chiave attuale di interpretazione, analisi e
discussione sullo stato di “attuazione” della Legge Basaglia, contrastata oggi
più che mai dal mondo medico e politico.
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800 MILIARDI DI MOTIVI PER DIRE NO ALLA FORTEZZA EUROPA
A cura di Ludovico Basili, Italo Di Sabato e Giovanni Russo Spena – Osservatorio
Repressione
Left edizioni – Editorialenovanta S.r.l – Prezzo di copertina 14,80
Introduzione di Italo Di Sabato
Interventi di:
Livio Pepino, Giovanni Russo Spena, Antonio Mazzeo, Angela Cianfagna Bracone,
Andrea Ventura, Franco Russo, Saverio Ferrari, Gianfranco Schiavone, Emilio
Drudi, Dana Lauriola, Ilaria Salis, Salvatore Palidda, Victor Serri, Nicola
Carella, Comitato free Gino, Marco Sommariva, Roberta Cospito, Paola Bevere,
Patrizio Gonnella
> Da tempo i più avveduti ci avevano avvertiti che l’Utopia di Ventotene e le
> democrazie occidentali volgevano al termine. L’Europa che nasce perché non ci
> siano più guerre, trova oggi ragione per esistere nel tempo della guerra che
> non finisce mai. E dunque via al riarmo, come identità dell’Europa, con il
> ReArm Europe, con 800 miliardi per le lobbies delle armi che da sempre non
> sopportano la democrazia, il conflitto sociale, che ne è l’essenza, e i
> diritti universali.
>
> Sicurezza e paura le parole più usate, c’è bisogno di un nemico interno ed
> esterno, si innalzano muri, si erigono fortezze, non dobbiamo disturbare, non
> c’è spazio per nessuna visione di mondi futuri in giro per il mondo. E dunque
> non abbiamo forse 800 miliardi di motivi per dire no alla guerra, no alla
> fortezza Europa?
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Recensione al libro “La trappola” di John Wainwright, edizioni Paginauno, 2024
di Edoardo Todaro da Carmilla
Qualche mese fa avevo scritto, proprio qui, a proposito di Stato di fermo del
medesimo autore. In continuità con le righe di allora, scrivo, avendolo letto,
di La trappola, come ebbi modo di scrivere allora, quanto Wainwright scrive lo
deve, in particolare, al suo essere stato in polizia per ben 19 anni.
Conosce avendo sperimentato direttamente: “vita, morte e miracoli” di metodi,
usi ed abusi delle forze dell’ordine. Nelle pagine che ho letto, abbiamo a che
fare con il capro espiatorio di turno, perché un colpevole ci deve essere, ma
soprattutto ci vuole: stando alle modalità previste dai tutori dell’ordine e per
far questo viene predisposta una “sala omicidi” apposita, perché non avverrà un
normale interrogatorio, ma una vera e propria intimidazione, unica arma a
disposizione degli investigatori.
Interrogatorio che si svolge, prima, nella macchina di servizio, con tutte le
pressioni del caso e psicologicamente sfavorevole per il presunto colpevole, che
attorno a sé non può che sentirsi in trappola essendo circondato da dei veri e
propri nemici. Interrogatorio nei confronti di un indiziato che avendo
precedenti, diviene in automatico un assassino.
Oltre al volere a tutti i costi un colpevole, “creare il vestito”, visto che i
poliziotti quando arrestano qualcuno lo terrorizzano, Wainwright evidenzia anche
i pregiudizi esistenti, tra le forze dell’ordine, verso gli omosessuali, la cui
comunità, e le rimostranze del presidente della comunità non servono a niente,
un presidente che dà una lezione di vita spiegando non solo, cos’è l’amore ma
le difficoltà nel dichiarare il proprio orientamento sessuale, è messa sotto
pressione.
Visto che c’è un omicidio di mezzo, è legittima la domanda: l’omicidio di uno
sconosciuto omosessuale a chi può interessare, visto che la comunità del luogo
costruisce una falsa unità su luoghi comuni, sull’asserzione che l’omosessuale,
Richardson è stato ucciso da qualcuno della sua specie. Omosessualità che sarà
elemento importante nel contesto di queste 209 pagine.
Quindi pregiudizi ed arroganza che danno vita ad un sistema di sopraffazione. La
montatura che predispone la trappola: avere un colpevole comunque in fin dei
conti non è niente di illegale, solo un po’ insolito. Si parlava di arroganza
verso i presunti colpevoli, ma l’arroganza, la sopraffazione è un qualcosa che
si rivolge anche verso i propri colleghi, un detective deve incutere timore
anche tra loro.
Wainwright mette in evidenza anche il ruolo positivo , in quel contesto, del
poliziotto di zona che mantiene rapporti cordiali con gli abitanti della zona a
cui deve soprintendere (il poliziotto buono). Ciò che unisce il poliziotto buono
e quello cattivo è l’usare il trucco più vecchio del mondo nel campo
investigativo: non solo lasciare tutto il tempo necessario affinché
nell’indagato subentri un senso di preoccupazione rispetto a ciò che potrebbe
accadere, condurre un interrogatorio con ampi spazi di silenzio nei quali far
logorare il presunto colpevole, ma soprattutto l’assillo di un quesito che gira
nella testa degli uomini in divisa, lasciare un assassino a piede libero o
arrestarlo con prove insufficienti?
Perché l’essere sicuri al 99% della colpevolezza dell’indiziato non è
sufficiente: basta l’1% ed un omicida si ritrova libero. Ma tanto, chi è
colpevole alla fine crolla.
Nel manuale del bravo poliziotto ma soprattutto esperto trovi sicuramente che è
sufficiente ottenere reazioni alle proprie domande visto che ad esse le risposte
non sono necessarie. Questi metodi sono parte del mestiere, dell’arte
dell’essere detective, la cui abilità risiede nel mettere l’interrogato, di
turno, in condizioni sfavorevoli, perché i detective non costruiscono, bensì
demoliscono, distruggono.
In questo caso ci troviamo di fronte a un indagato che ostinatamente continua a
negare per dirigersi piano piano verso una quasi ammissione. Il punto di domanda
si riferisce esclusivamente al quando questo momento arriverà. L’ammissione
arriverà, chissà, ma solo grazie ad una vera propria tortura, certamente non
fisica, ma mentale e psicologica, nascosta, metodica, al di là di ogni strategia
e tecnica pervasiva di polizia.
Il risultato deve essere uno ed uno soltanto: la trappola ha funzionato ed il
caso è risolto. Quante volte abbiamo assistito, anche in Italia, a situazioni di
questo tipo: montature, “teoremi”, colpevolezze definite in base a prove
costruite a tavolino. In Italia è ancora in vigore il Codice Rocco, per non
parlare della Legge Reale, che trasforma il conflitto sociale in problema di
“ordine pubblico”, e le “leggi speciali” tutt’ora in vigore. E se come pare il
decreto legge in discussione (1236) (1) alla camera dovesse passare, non oso
immaginare il concretizzarsi dell’attuazione del sorvegliare e punire. (ndr:
venerdi 4 aprile il governo ha approvato il decreto legge sicurezza)
Note:
1.
https://www.osservatoriorepressione.info/sicurezza-il-governo-forza-la-mano-un-decreto-al-posto-del-disegno-di-legge/
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Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia Edizione italiana
a cura di Italo di Sabato. Postfazione di Italo di Sabato e Turi Palidda.
Illustrazioni di Noah Jodice. Momo Edizioni
Police Abolition è un piccolo libro, una ripubblicazione di Momo Edizioni di una
fanzine americana divulgativa che racconta come negli Usa l’utopia
dell’abolizione della Polizia sia diventato un tema sempre più concreto e
attuale.
Definanziare, smantellare e abolire la polizia sono state alcune tra le
rivendicazioni più forti e concrete delle mobilitazioni che hanno attraversato
gli Stati Uniti negli ultimi anni. L’illusione di poter riformare i corpi di
polizia ha lasciato il passo alla consapevolezza delle radici storiche e
strutturali della violenza poliziesca.
Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio repressione che ha curato
l’edizione italiana ha cercato, nella postfazione insieme a Salvatore Palidda,
di contestualizzare la proposta americana e tentare un parallelo con la
situazione in Italia e in Europa.
Partendo dall’interrogarsi la polizia a cosa serve? A chi serve? A che serve
tutta questa meticolosa militarizzazione del territorio, tutta questa
sorveglianza dei comportamenti, tutta questa brutalità istituzionalizzata?
Perché la polizia è così violenta nell’approccio con le classi subalterne?
Per il curatore la polizia difende con tutti i mezzi a sua disposizione un certo
tipo di ordine e di società che esercita il suo ricatto di paura e sicurezza
sugli individui soli, diseredati e quindi deboli prodotti dal mondo
dell’economia. Lungi dal creare sicurezza, la polizia è sempre stata un mezzo
per affermare il controllo. Oggi, la polizia rimane la forza in prima linea che
reprime le manifestazioni per la pace, il clima, la giustizia sociale, e
l’imperativo del pericolo rimane uno strumento potente per spiegare le loro
azioni. Ma la polizia non è solo il braccio armato dello stato e del governo, è
la garanzia che ognuno rimanga al posto che gli spetta. I regimi democratici, in
evidente crisi di legittimazione, tendono a incrementare l’uso delle forze di
polizia come risposta ai movimenti sociali e di protesta, perciò i governi
esitano quando si parla di riformare i corpi e cambiare le regole di ingaggio.
Che la funzione sociale della polizia sia mantenere un certo ordine mondiale è
un dato di fatto. Ciò che continua ad essere meno compreso, tuttavia, è
l’affermazione da cui dipende la loro esistenza, la più grande menzogna
antropologica: che senza il loro esercizio di violenza “legittima” non saremmo
in grado di darci regole di vita comuni e ci uccideremmo a vicenda alla prima
opportunità.
Secondo Italo Di Sabato l’unico modo per affrontare il problema della polizia
oppressiva è abolirla. Poter togliere i finanziamenti alla polizia, e investire
nei servizi sociali e di cura, può significare anche rinunciare ai modelli
produttivi che ci danneggiano e che sono basati sulla difesa dei privilegi e
investire invece nel benessere delle comunità. Certo, non sono trasformazioni
praticabili dall’oggi al domani ma, se quel che conosciamo non funziona e meno
ancora ci piace, potrebbe essere arrivato il momento di ragionarci un po’ su.
Tutte le info sul sito di Momo
https://momoedizioni.it/catalogo/police-abolition/
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