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Il silenzio di Sabina
La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici, da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni di Roberta Cospito da Carmilla Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza. La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene (de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni, formalità e rispetto per i più elementari diritti umani. Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky. Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori. Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore – sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di quel periodo. Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri. Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale, perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo, è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi, con le mani pulite. Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci – le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità. Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si può prospettare a chi ha vissuto “al limite”? Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni. In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati, emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di “carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero. Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”. Il silenzio di Sabina  invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane: “Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue parole”. Barilli riporta un’osservazione di  Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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misure repressive
recensioni
anni '70
“Eroina” e “Spice”
Eroina e Spice sono due libri di Mauro Pusceddu pubblicati rispettivamente nel 2022 e nel 2024 dalla casa editrice nuorese il Maestrale. I temi trattati sono così importanti che non ci si può limitare a un riassunto del contenuto, ma è necessario aggiungere qualche riflessione critica, soprattutto sul rapporto fra realtà e finzione letteraria. di Marco Gabbas da Inkroci È opportuno parlare di entrambi i libri perché sono due puntate di una stessa serie (benché l’autore, nato nel 1969, abbia scritto altri tre libri). Infatti, sia Eroina, sia Spice hanno per protagonista la poliziotta nera Nada Senes, per l’esattezza non solo la prima vicecommissaria, ma anche prima commissaria nera italiana. Non si può fare a meno di notare la vistosa copertina dell’ultimo libro: il primo piano di una donna di colore, la pelle molto lucida e gli occhiali a specchio, le labbra colorate di un rosso acceso. Non c’è dubbio che entrambi i libri siano scritti con abilità e sapienza narrative, soprattutto il secondo. Anzi, qualcuno definisce addirittura Pusceddu il Connelly nuorese. Come tutti i gialli o noir, le trame sono complesse e avvincenti, e quando tutto sembra chiaro c’è sempre un colpo di scena che sconvolge le carte in tavola. Un particolare importante è che l’autore svolge la professione di magistrato, ed è anzi attualmente presidente del tribunale nuorese. Del resto, Pusceddu non è l’unico magistrato italiano che si cimenta coi romanzi gialli e noir. Benché il genere possa sembrare popolare e quasi banale, è impossibile parlare di questi libri senza parlare di razzismo, tema che di fatto fa da sottofondo a tutta la saga. Nada Senes è nata in Sardegna da genitori africani, abbandonata da piccola e adottata da una coppia del posto: madre insegnante, padre poliziotto. Nonostante il padre non la spinga a seguire le proprie orme, Nada sceglie comunque di entrare in polizia; anzi, all’inizio fa addirittura parte dei corpi speciali. Entrambi i romanzi mostrano una conoscenza piuttosto precisa e dettagliata del razzismo non solo nella società italiana (un razzismo popolare), ma anche all’interno delle istituzioni (la polizia). È evidente che l’autore è molto documentato in materia, assai di più dell’italiano medio, al quale per la verità questi temi non interessano minimamente. Entrambi i romanzi mostrano come essere diversi, e neri nello specifico, sia una stimmate costante che ci si porta addosso dappertutto: per strada, a scuola, nei rapporti con gli altri, nel luogo di lavoro. Infatti, oltre ai numerosi episodi di quotidiano razzismo che Nada deve subire, c’è anche il problema dei colleghi che non la accettano. Oppure dei pregiudizi, ancora più sottili, secondo i quali, proprio perché diversa, Nada Senes dovrebbe essere meglio degli altri per essere trattata come gli altri. Alcuni dei suoi superiori le ripetono in continuazione che lei è un simbolo, idea che Senes rifiuta sdegnosamente, considerandola ipocrita. Detto questo, che differenza c’è fra il mondo narrativo di questi romanzi e la realtà? La polizia italiana è davvero com’è presentata in questi gialli? Potrebbero sembrare domande oziose, dato che i romanzi dovrebbero essere opere di fantasia per definizione. Eppure alcune riflessioni si impongono, e non solo perché in questo caso la distanza è per certi versi eccessiva. Certamente, un buon narratore si distingue anche per la maestria nel mescolare il vero al verosimile e al completamente inventato. Pusceddu si mostra maestro in questo, probabilmente anche grazie alla sua lunga esperienza di magistrato e alla conoscenza diretta del territorio in cui vive, quella Sardegna dell’interno talvolta definita società del malessere. A differenza del commissario Montalbano, che vive nell’immaginaria Vigàta, Pusceddu ha deciso di far agire la sua Senes nella vera Nuoro, con una geografia piuttosto precisa, sostanzialmente ancorata alla realtà, pur con qualche licenza alla fantasia. Non solo, ma sembra che l’autore abbia voluto sottolineare il legame di questi romanzi con l’oggettività inserendo in uno di essi un documento ufficiale firmato da lui stesso in qualità di giudice. Nonostante i meriti che abbiamo sottolineato, però, per una persona razzializzata è difficile leggere i due romanzi senza una certa perplessità e un certo disagio. Il primo motivo è che nei romanzi si parla solo di razzismo nella società, e non di razzismo di Stato o razzismo istituzionale (vedi l’ottimo e coraggioso libro curato da Pietro Basso Razzismo di Stato, non a caso ampiamente ignorato da una comunità accademica che preferisce la carriera veloce alla ricerca spregiudicata della verità). Soprattutto, non vi è alcun accenno al fatto che in Italia è proprio la polizia una delle principali istituzioni a discriminare sistematicamente gli immigrati. Ciò avviene in una serie di modi, innanzitutto sottoponendo le persone diverse a continui controlli razziali per strada, delle vere e proprie retate che solo ipocritamente possono essere chiamate “normali controlli” (e questo avviene anche a Nuoro). Se fossero così normali, gli immigrati non ne sarebbero soggetti 14 volte di più degli italiani, e la cifra sale a 50 in alcuni Paesi europei. Concretamente, ciò può voler dire che una persona nera non può letteralmente uscire di casa senza essere fermata arbitrariamente e maltrattata da polizia e carabinieri, anche se è cittadina italiana (ed è meglio non protestare, perché le conseguenze potrebbero essere assai spiacevoli). Ma il razzismo di Stato italiano utilizza la polizia in modo ancora più sistematico, per gestire il rilascio arbitrario dei permessi di soggiorno all’interno delle questure. A un italiano ciò non risulterà per niente strano: questi stranieri potrebbero essere pericolosi, non è giusto controllarli, anche quando sono regolarmente sposati con cittadini italiani? Primo, chissà perché altri Paesi europei fanno a meno di questa criminalizzazione e hanno degli uffici gestiti da normali impiegati e non da poliziotti in divisa, anche se sono comunque gestiti dal Ministero degli Interni. Secondo, non si capisce perché una persona debba essere considerata delinquente, o quantomeno delinquente potenziale, per il solo fatto di non essere europea. Terzo, i delinquenti veri, quelli che davvero cercano di vivere di espedienti, si guardano bene dal fare la fila come fessi davanti alle questure, e cercano anzi di starci il più lontano possibile (oppure si procurano facilmente documenti falsi, da che mondo è mondo). La realtà è un’altra: gli uffici immigrazione delle questure sono vere e proprie camere di tortura psicologica, macchine razzializzanti che servono per far capire a tutti gli immigrati che sono degli esseri inferiori, degli schiavi, dei potenziali delinquenti, che devono avere sempre e comunque da temere, che non possono mai ribellarsi, e che può essergli al massimo concesso di stare in Italia sinché c’è il bisogno di spremerli (dopodiché, ci sono sempre il CPR o l’espulsione). Questa sistematica discriminazione poliziesca è necessaria per tenere gli immigrati in una condizione di colonia interna di sfruttamento. Non c’è bisogno di essere accreditati economisti: l’economia italiana è basata sullo sfruttamento feroce di questa colonia interna. Se questa venisse a mancare, crollerebbe tutta l’economia italiana. E se anche il cappio al collo degli immigrati fosse appena un po’ meno stretto, la cosa creerebbe comunque problemi: si rischierebbe di avere nei migranti degli esseri umani magari un po’ maltrattati, ma comunque coscienti dei propri diritti, che potrebbero rompere troppo le scatole per migliorare la propria condizione. È proprio ciò che si bada bene di evitare in tutti i modi: non a caso, nessuno fra i principali partiti politici, neanche la cosiddetta sinistra, osa mettere nel proprio programma il cambiamento di questo sistema, preferendo ciance inutili e ipocrite dirette sempre contro qualcun altro. Tutti gli immigrati imparano a temere e/o a odiare (il confine è labile) la polizia praticamente da subito, perché, non essendo affatto stupidi, capiscono benissimo a che cosa serve, e sanno altrettanto bene di non aver fatto nulla per meritarsi questo trattamento. Per chi conosce questa realtà perché l’ha subita sulla propria pelle, il personaggio della commissaria Senes non può che lasciare un po’ perplessi. Non si tratta solo del fatto che i poliziotti neri in Italia sono quasi inesistenti, perché il punto non è questo. Per esempio, in alcune questure del Nord Italia i poliziotti non bianchi vengono usati per “accogliere” i migranti davanti all’ufficio immigrazione. La cosa potrebbe essere interpretata come l’intenzione di “accogliere” gli stranieri con qualcuno “come loro”, ma ciò risulta paradossale se uno pensa alla discriminazione vergognosa che noi tutti soffriamo una volta varcata la soglia. A ben vedere, queste persone non possono che ricordare le triste figure degli ascari e dei rinnegati, servi di un potere che opprime i propri simili. Questo ci deve ricordare che il colore non è tutto, perché l’altro elemento che i più ignorano è la cittadinanza: per entrare in polizia bisogna essere cittadini italiani, e il colore non è formalmente un discrimine: un ottimo esempio di come non vada considerato in modo deterministico è presente proprio in Spice. In questo romanzo, la nostra commissaria accusa una donna africana di un crimine che non ha commesso. L’africana rigetta l’accusa definendo Nada Senes una “stronza di bianca con la pelle nera”. Un epiteto che dei migranti africani potrebbero tranquillamente usare contro dei poliziotti neri, qualora questi ultimi li opprimessero (al di là del colore). Del resto, Nada Senes non è l’unico personaggio “diverso” nella storia, dato che troviamo anche un capitano dei carabinieri nero, un altro carabiniere di origine slava, una poliziotta di origini cinesi e una piemme lesbica. Ancora, il punto non è tanto se nella realtà le forze dell’ordine e la magistratura siano davvero così variegate (anche se sembra probabile che non sia così). Il punto è un altro: se anche fossero davvero così variegate, ciò ne cambierebbe il carattere sostanzialmente razzista? La risposta è certamente negativa, anche se ci riserviamo il dubbio per quanto riguarda il futuro remoto. Bisogna aggiungere, infatti, che anche la magistratura italiana è assai prevenuta nei confronti degli immigrati, e forse non potrebbe essere altrimenti. Qui non si tratta di casi individuali, com’è ampiamente dimostrato da studi approfonditi come quello di Salvatore Palidda, Migranti. Devianza e vittimizzazione. Ciò spiega anche perché molte carceri italiane, soprattutto al Nord, sono piene di immigrati, con grande sproporzione rispetto al totale. Lo studio di Palidda è del 2001, ma non vi è motivo di pensare che da allora le cose siano migliorate. Detto questo, i due libri non presentano la polizia come il bene assoluto, come un’istituzione perfetta nella quale tutti sono onesti e rispettano le regole. I corrotti esistono anche nella polizia, però fortunatamente i colleghi buoni riescono a sventarne i piani. Insomma, si tratta soltanto di qualche mela marcia. Purtroppo, come abbiamo detto, nella realtà certe istituzioni sono marce in quanto tali, e continueranno a esserlo sinché non si capirà che, semplicemente, non devono essere usate per discriminare in maniera sistematica una minoranza. Il suddetto Palidda denuncia da tempo il comportamento arbitrario delle questure, gli insulti regolarmente proferiti contro i migranti (se rispondono posso essere denunciati per ingiurie ed espulsi), la corruzione sistematica che, con l’aiuto di avvocati ammanicati, può dare il permesso di soggiorno in cambio di soldi a qualcuno che non ha mai messo piede in questura (oppure, i suddetti avvocati possono prendere i soldi dall’immigrato e poi sparire). Comportamenti presenti in qualche grande città del “continente”? Peccato che poco tempo fa un giornalista cattolico nuorese abbia denunciato pubblicamente questi comportamenti proprio dove lavora l’immaginaria Nada Senes. Franco Colomo ha parlato di “episodi corruttivi per velocizzare pratiche per legge piuttosto lunghe e farraginose”, nonché di “offese gratuite”, donne straniere in preda al “terrore per le vessazioni” subite, “dalle prese in giro per il nome e la provenienza ai veri e propri insulti” (ovviamente non può mancare quello di “puttana”). Ma anche gli uomini nuoresi che accompagnano una donna immigrata possono essere vittime “di un becero umorismo, quasi che un fidanzamento ‘misto’ fosse degradante”. “Si tratta di veri e propri abusi di potere – dice uno di loro – ma a chi puoi rivolgerti per denunciare?”. Colomo aggiunge: “Tutti, effettivamente, hanno paura di esporsi per non subire danni come pratiche bloccate o ulteriori discriminazioni, perché di questo si tratta”. Un’altra donna si è limitata a confidare al coraggioso giornalista: “Non ho voglia di raccontare perché non voglio rivivere quel dolore, so solo che sopra di noi c’è un Giudice che darà a ciascuno secondo le sue azioni”.[1] Purtroppo le cose non si fermano a queste “storie di ordinaria discriminazione”, raccolte da un settimanale diocesano (non proprio un foglio sovversivo), dato che altri sedicenti giornalisti sono evidentemente troppo vigliacchi per fare il proprio lavoro. Non possiamo dimenticare infatti che proprio nella provincia di Nuoro c’è il CPR di Macomer, per certi versi il peggiore e il più terribile d’Italia (anzi, la Nuova Sardegna, il principale quotidiano dell’isola, l’ha semplicemente definito un “lager nazista”).[2] Gli esposti in materia recentemente presentati alle procure di Nuoro e di Oristano dalle associazioni Naga e LasciateCIEentrare assieme alla parlamentare Ghirra sembrano il copione di un film dell’orrore: muri e pavimenti cosparsi di sangue, un uomo gasato col peperoncino, nordafricani usati come ascari, pestaggi sistematici durati ore e vere e proprie torture.[3] Le notizie più recenti parlano di due tentati suicidi il 13 febbraio, con una successiva protesta collettiva; e di un grave atto di autolesionismo il 28 febbraio. Un uomo senegalese, convivente con una cittadina italiana, ha ingerito delle batterie e un anello proprio davanti alle guardie, per non essere deportato nel suo Paese, dove sostiene di correre gravi pericoli. Sin qui questa recensione si è occupata del rapporto e della differenza fra realtà e finzione letteraria. Nella realtà, dubito che i succitati esposti avranno alcun seguito, per il semplice fatto che nessun sistema condanna se stesso (anzi, solitamente non indaga neanche). Fortunatamente, però, la letteratura esiste anche per evadere dalla realtà e per presentarci un mondo diverso. Nella prossima inchiesta di Nada Senes, mi farebbe piacere vedere l’integerrima commissaria indagare sui suoi colleghi corrotti e sui torturatori di Macomer, portandoli finalmente alla giustizia. Fortunatamente, sognare non è reato. -------------------------------------------------------------------------------- [1] Vedasi i due articoli di Franco Colomo «Invisibili» e «Storie di ordinaria discriminazione», L’Ortobene, 13 maggio 2021 e 13 gennaio 2022, v. https://www.ortobene.net/invisibili/ e https://www.ortobene.net/storie-di-ordinaria-discriminazione/ [2] Claudio Zoccheddu, «Nell’inferno del Cpr di Macomer. “Migranti trattati come in un lager”», La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2024, p. 7. [3] Vedasi il report di Naga «A porte chiuse», liberamente consultabile online: https://naga.it/2024/10/15/report-a-porte-chiuse/  -------------------------------------------------------------------------------- Le trame dei due romanzi (dalle quarte di copertina): Eroina – Nada Senes è la prima vicecommissaria nera italiana. Dopo i trascorsi nei NOCS e un incidente in elicottero in cui ha perso la sua squadra, viene prosciolta da ogni responsabilità e assegnata alla questura di Nùoro, la città della Sardegna interna dove aveva vissuto alcuni anni d’infanzia. È la prima settimana del nuovo incarico di Nada, nel novembre 2019, quando viene trovato in campagna un cadavere non identificabile di un nero, due minorenni muoiono per overdose e un orso fugge dallo zoo privato di un ex sequestratore che gestisce il traffico di cocaina. Nada con la sua nuova squadra avvia le indagini per la identificazione del cadavere e le cose si complicheranno per l’entrata in scena di un gruppo di spacciatori nigeriani che controllano il mercato dell’eroina nel Nord Sardegna. Fra boss dello spaccio o aspiranti tali, prostitute-schiave, investigatori corrotti, pubblici ministeri che dalla vicecommissaria Senes si attendono un riscatto da lei invece respinto, Nada dovrà fare i conti con una vicenda ingarbugliata che la metterà ogni giorno di più di fronte ai fantasmi della propria esistenza e rinnoverà i traumi causati da una società incapace di comprendere la diversità. Spice – L’estate 2024 vede tornare in azione Nada Senes, prima commissaria nera italiana, dopo le azioni poliziesche narrate in Eroina. Durante un servizio di perlustrazione in elicottero sopra le campagne della Sardegna centrale, Nada vede due persone in fuga. Dopo averle inutilmente inseguite a terra, scopre un campo di marijuana e il cadavere di un prete indiano, torturato e ucciso dentro una chiesa diroccata. Scatta l’indagine sul passato del sacerdote, appena nominato parroco di un villaggio senza parrocchiani per sottrarlo alle chiacchiere circolanti sul suo conto nel paese del precedente incarico. Il clamore della vicenda attira i mezzi d’informazione, e l’interesse di una intraprendente giornalista. Intanto le piantagioni di cannabis legale vanno a fuoco e una nuova droga sintetica – spice – addizionata alla marijuana provoca un’ondata di suicidi. Nada vive un rapporto sempre più complesso con la piemme Letizia Ruju; è bloccata in un dialogo immaginario con Macellari, il collega corrotto in coma dopo la sparatoria avvenuta cinque anni prima. Nada: alla ricerca di verità vecchie e nuove e di sé stessa, ma forse solo incapace di capire se davvero vuole essere la poliziotta che è.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
recensioni
Sabun, di Alae Al Said
Recensione di Edoardo Todaro al libro ” Sabun” di  Alae Al Said E’ il 2018 quando esce nelle librerie Sabun. Sono passati 7 anni e la situazione in Palestina è decisamente peggiorata, in tutta la Palestina sia a Gaza che in Cisgiordania. La vita quotidiana sotto occupazione è l’ elemento unificante che l’occupazione israeliana vuole debellare. Il destino dei palestinesi è nelle mani dei soldati occupanti. Quanto ci racconta Alae Al Said ci porta a tu per tu non solo con un’economia strozzata dall’occupazione, ma con la realtà contraddistinta da un vero e proprio genocidio. La distruzione di villaggi, di moschee, di siti storici, la cultura palestinese sotto attacco: un vero e proprio culturicidio, e lo fa attraverso la descrizione del saponificio, del “sabun” il sapone all’olio d’oliva, di Nablus viva ed animata con i suoi vicoli stretti della città vecchia, e di cosa significa che Israele è uno stato per soli ebrei. In questa descrizione non poteva mancare il riferimento ai soprusi dei coloni, di coloro che non sono altro che la parte più retriva e spietata degli ebrei sionisti, quei coloni, visibili dalla collina, che un giorno saranno cacciati via nonostante che la loro presenza metta i palestinesi nella condizione, obbligata, di non lasciare mai, nemmeno temporaneamente, la propria casa vuota che altrimenti diverrà, immediatamente, di proprietà degli occupanti. Altro aspetto, assolutamente non secondario, che ci descrive Alae è quanto avviene in occasione degli interrogatori che i palestinesi subiscono. La cella d’isolamento per far perdere interesse nei confronti della vita; l’uso dei cani come arma per far parlare; le molestie sessuali compiute dagli aguzzini; il partorire in cella. In questo contesto, cacciare l’occupante senza scendere ad alcun compromesso, liberare la Palestina a costo di morire, è il riferimento che hanno tutti i palestinesi; non potrebbe essere altrimenti quando si è controllati continuamente, si è trattati da inferiori. Ogni giorno ragazzi rapiti ed uccisi, e poi essere cacciati, privati di tutto, cittadini di nessuno stato, non avere una patria a cui fare riferimento che equivale ad essere denudati della dignità. L’intifada, gli attacchi suicidi che divengono motivo di discussione e di conseguenti punti di vista diversi, l’intifada, qualcosa di non governabile, una sollevazione non ragionata nel buio dell’ingiustizia, con la presa di coscienza e l’ evoluzione nella lotta. Vivere la contraddizione del dover lavorare per il nemico se vuoi sopravvivere. Abbiamo ben presenti le immagini, continue, dei funerali dei martiri che divengono manifestazioni di rabbia e di collera; avvenivano ieri ed avvengono oggi. Israele ha accentuato il suo essere una fabbrica di omicidi di massa riducendo le vittime palestinesi a numeri riferibili a statistiche; ai palestinesi non viene garantito nemmeno il diritto al lutto visto che i corpi degli assassinati non vengono restituiti; i traumi sulla salute mentale sono largamente, e spesso irrimediabilmente, diffusi. Essere a fianco della lotta del popolo palestinese è anche leggere e far conoscere libri come questo, non possiamo girarci dall’altra parte, dire “non lo sapevo”. Non è una questione umanitaria; i palestinesi hanno bisogno della nostra solidarietà e noi dobbiamo sempre avere come riferimento il loro esempio. Un esempio per tutti coloro che non vogliono vivere come schiavi. (da La Città Invisibile) Alae Al Said, Sabun, Zambon editore, 2019, pp. 272, euro 19   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Non odiare in Palestina. I shall not hate
Dopo aver visto I shall not hate dovrebbe essere sufficiente a far deporre qualsiasi tipo di arma in qualsiasi guerra di Roberta Cospito da Carmilla I shall not hate è sia il titolo di un libro di Izzeldin Abuelaish, nato a Gaza e primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano, sia del film realizzato dalla documentarista e produttrice franco-americana Tal Barda, nata e cresciuta a Gerusalemme.L’associazione Find the Cure ha presentato la sedicesima edizione di Mondovisioni, una rassegna di documentari curata da CineAgenzia in collaborazione col settimanale Internazionale. Attraverso docufilm selezionati dai maggiori festival internazionali, la rassegna, che ha fatto tappa con il patrocinio del Comune  al cinema Nuovofilmstudio di Savona, porta sul grande schermo storie di attualità – in particolare sui diritti umani – con l’intento di fornire agli spettatori un’informazione chiara, profonda e consapevole su tematiche spesso difficilmente fruibili tramite i media tradizionali. Izzeldin Abuelaish – uomo straordinario, più volte candidato al Premio Nobel per la pace – crede fermamente nella possibilità di una convivenza tra il popolo palestinese e quello israeliano. Durante la guerra di Gaza, il 16 gennaio 2009, tre delle sue figlie e una nipote vengono uccise dal fuoco israeliano diretto immotivatamente contro la sua abitazione. Questo attacco viene vissuto praticamente in diretta dal pubblico israeliano poiché il medico, appena resosi conto dell’enormità della tragedia, chiama il giornalista televisivo di Channel 10, Shlomi Eldar, il quale risponde al telefono pur essendo in onda e, coraggiosamente, tramite il vivavoce, dà la possibilità al suo pubblico di ascoltare la richiesta di aiuto di Abuelaish. Le urla disperate di un padre – tra l’altro, già vedovo da un anno – che vede i corpi delle sue figlie e della figlia del fratello, dilaniati e sparsi per l’appartamento insieme a resti di mura, calcinacci, giocattoli, libri, vestiti, entrano prepotentemente nelle case di un’intera nazione. In un momento come questo, in cui il suo credo di pace, la sua etica, vengono messi a dura prova, il medico sorprende tutti e lancia un messaggio pubblico fortissimo: “Non odierò” – I shall not hate, appunto. Non solo: la figlia dodicenne costretta a quattro mesi di ricovero ospedaliero per le gravi ferite alle dita di una mano e all’occhio destro, alla giornalista che le chiede se prova sentimenti di odio risponde con uno spiazzante: “Odiare chi?”, lasciando senza parole l’intervistatrice e noi in sala. Il messaggio Abuelaish è chiaro: è possibile non odiare, anzi, considerare la pace come unica via percorribile. La migliore alleata per uscire dai conflitti, secondo Abuelaish è l’istruzione, e infatti, per superare il dolore delle perdite subite e i primi momenti di vita in Canada, dove il medico decide di rifugiarsi, le superstiti della famiglia si dedicano allo studio. che viene considerato come un’oasi di pace. Intanto Abuelaish, coerentemente con questa visione, ha creato una fondazione “Figlie per la Vita” in memoria delle sue ragazze uccise, che fornisce borse di studio per aiutare le giovani donne provenienti da Palestina, Israele, Libano, Giordania, Egitto e Siria negli studi universitari in Canada, Stati Uniti e Belgio. Colpisce la potenza delle immagini del documentario e  resta difficile dimenticare il viso straziato del medico che chiede aiuto per le sue figlie; le interminabili macerie delle case sbriciolate della striscia di Gaza di fronte a un mare di un azzurro impietoso nella sua bellezza; il lento muoversi di un’umanità ferita e sofferente; lo sguardo commosso di una ragazza che racconta il suo passato condiviso con chi ha poi ha perso la vita in modo brutale; l’aspetto fiero di un viso che chiede giustizia per delle vittime innocenti; il corpo di un uomo inginocchiato a terra schiantato dal dolore con i vestiti imbrattati del sangue di sua figlia; l’espressione commossa di chi ricorda un altro modo di vivere; i primi piani di chi, nel raccontare, non lascia spazio alla rassegnazione. E rimangono impressi anche gli innesti animati che, non interrompendo affatto la narrazione, sono capaci di aumentare l’empatia verso i soggetti di queste storie orrende. Tutto quanto visto I shall not hate e in altre immagini di questo genere dovrebbe essere sufficiente a far deporre qualsiasi tipo di arma in qualsiasi guerra. Durante una gita al mare la famiglia Abuelaish aveva scattato delle foto e, nel riguardarle anni dopo, si renderà conto che solo le ragazze che hanno perso la vita nella terribile giornata del 16 gennaio 2009, avevano scritto i lori nomi sulla sabbia, come a voler lasciare un ricordo, una traccia evidente del loro passaggio in questo mondo, come se avessero avuto una sorta di presagio di quanto sarebbe poi successo. Il principio del non odiare espresso dal film trova una bellissima sintesi in quanto scritto da Etty Hillesum – scrittrice ebrea morta nel campo di concentramento di Auschwitz – nel libro Diario (1941-1943): “Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dal mondo
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Non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue
Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo. di Haidi Gaggio Giuliani da Centro Studi Sereno Regis Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle, soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati statali, direttamente o indirettamente responsabili. Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e “Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti. La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si processa. Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo. Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso. Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla vita di tutte e tutti i giovani del mondo… Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace. Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo, per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”  (Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di dirlo a voce alta. Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro. Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci. L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro. Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere. Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può avvelenare l’anima. È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente, ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per noi”?! In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati dopo. Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo, delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti per lo più da professionisti per altri studiosi della materia). Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” – prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese (affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta, agli industriali. Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava, ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si devono vergognare ma chi li persegue! Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole, suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso. Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che, prima o poi, li spazzerà via.     “Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00. Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d). Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it – https://www.facebook.com/mammeinpiazza     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Diamo voce al dissenso
Ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in Europa, a una criminalizzazione del dissenso politico di Marco Sommariva* La curatrice del libro Carcere ai ribell3, Nicoletta Salvi Ouazzene, è un’attivista del Comitato “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, nato nel 2016. Il Comitato nasce per iniziativa delle mamme di alcuni dei ventotto giovani attivisti e attiviste torinesi, sottoposti a misure cautelari in seguito alle denunce per fatti legati alla lotta NoTav della vicina Valsusa, e alle lotte studentesche e sociali praticate in città: opposizioni agli sfratti e occupazioni di stabili per svolgere attività del protagonismo giovanile o per l’accoglienza di famiglie senza casa. Attraverso le vicende di figli e figlie è nata la presa di coscienza politica di queste madri – alcune già attiviste, altre invece che non s’erano mai interessate di politica – tutte consapevoli di vivere in una società sempre più sbilanciata, in cui il dissenso e la protesta vengono fortemente repressi nel tentativo di far tacere qualsiasi voce contraria, mentre nel paese continuano a perpetrarsi forme di ingiustizia e discriminazione. Il libro – edito recentemente da Multimage APS, un’associazione editoriale senza fini di lucro – racconta come questo collettivo ha condiviso e vissuto, per anni, le storie di attivisti e attiviste finiti in carcere a causa del loro impegno per un mondo più giusto. Sono molti gli aspetti interessanti messi in risalto da queste pagine, su cui sarebbe meglio soffermarsi a ragionare Purtroppo, ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in Europa, a una criminalizzazione del dissenso politico, a un deciso giro di vite che sta colpendo, per esempio, il movimento di solidarietà per la Palestina o le proteste per la giustizia climatica o contro le grandi opere. Non a caso, uno degli aspetti cruciali che emergono come elemento comune dal rapporto che Amnesty International ha lanciato nel luglio del 2024, sullo stato di salute del diritto di protesta in ventuno paesi europei, è l’attacco senza precedenti al diritto di manifestare pacificamente in Europa dove, con sempre maggior frequenza, le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un uso eccessivo e non necessario della forza. Ma il problema è più esteso: l’uso della forza s’accompagna a una tendenza generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le violazioni delle forze dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la mancanza di meccanismi di inchiesta indipendenti. Uno dei tanti rischi che stiamo correndo è che questo insieme di misure e strumenti repressivi stanno creando un progressivo “effetto intimidatorio” che frena la partecipazione alle proteste. Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca di Amnesty International, lo stato di salute del diritto di protesta e al dissenso versa in condizioni estremamente precarie. Tra gli aspetti più preoccupanti di questa tendenza autoritaria, riscontriamo il grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di applicazione delle misure amministrative di prevenzione – in particolare “DASPO urbano” e “foglio di via” – ai danni di attiviste e attivisti pacifici e sindacalisti, ma non solo di questi. La gravità di queste misure cautelari si fonda sul fatto che vengano emesse sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di “pericolosità sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia non fondate su un esame individuale delle circostanze specifiche né su procedimenti penali né su condanne di alcun tipo. Come racconta l’avvocato Novaro, uno dei legali della difesa delle vicende riportate su queste pagine, in tutti gli episodi esaminati in questo libro la decisione finale, sia che si tratti di provvedimenti emessi dal tribunale di sorveglianza in sede esecutiva sia che si tratti di ordinanze cautelari, muove al di là dei diversi criteri disposti dal legislatore che sovrintendono alle differenti valutazioni, perché si è partiti dal presupposto che si stava trattando di soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica. Per questo è stato possibile che si arrivasse alla carcerazione pur in presenza di fatti e condanne di lieve entità. In pratica, si è dovuto fare i conti, e ancora lo si deve fare, con una delle principali risposte giudiziarie a fronte di fatti non gravi connessi alla protesta sociale: la pena detentiva. Fra le tante cose, Carcere ai ribell3 ci racconta anche qual è il sapere che porta la polizia alle segnalazioni prima citate. È il frutto di anni di pervasivo monitoraggio delle aree politiche più radicali e impegnate nella protesta, un prodotto che diviene la fonte centrale, molto spesso l’unica, a cui la magistratura guarda per calibrare le proprie decisioni: capita sempre più di frequente che l’architrave della costruzione accusatoria sia costituito proprio da schede compilate e annotazioni trascritte dalla polizia. Si può immaginare quale sia l’approccio a questo genere di segnalazioni, funzionale alle esigenze di repressione; per cui, si sprecherà l’amplificazione a dismisura dei fatti e dell’importanza del ruolo ricoperto dai diversi protagonisti che dovranno risultare come nemici dell’ordine costituito e socialmente pericolosi. Per l’ordine costituito è un lavoro importantissimo: non si tratta solo di un’allergia alla protesta sociale, di una volontà di silenziarla e neutralizzarla, ma di una vera e propria messa in campo di strategie di tipo preventivo, dissuasivo che alimentino la disaffezione alle forme di lotta collettive. Quanto leggiamo su questo libro è, appunto, che la protesta sociale non è una risorsa ma un pericolo per l’ordine costituito, e coloro che se ne fanno portatori sono dei soggetti ostili, riprovevoli, da sanzionare. I diversi provvedimenti giudiziari attuati costituiscono un tassello importante per quel processo di costruzione sociale del nemico di cui il potere ha sempre bisogno, fungono da rassicurazione collettiva. Questo libro dà la parola ai protagonisti dei provvedimenti repressivi, attraverso la raccolta di loro testimonianze capaci d’iniziare a destrutturare la narrazione distorta ormai imperante perché, come in altri paesi europei, pure in Italia la criminalizzazione dell’attivismo pacifico passa anche attraverso una narrazione mediatica tossica, poi strumentalizzata per approvare leggi che restringono in maniera progressiva il diritto di protesta. Spesso, a essere attaccata direttamente è la disobbedienza civile, sempre più modalità d’azione di gruppi per la giustizia ambientale. Chiudo con due estratti dal libro Elogio della disobbedienza civile di Goffredo Fofi, edito da Nottetempo nel 2015. Questo il primo: “Un’ingiustizia subita o vista subire da altri è una forma di violenza che, dice Thoreau e insiste Gandhi, non va accettata e a cui è doveroso ribellarsi. La differenza tra Thoreau e Gandhi comincia con il discorso sui mezzi. Thoreau non esclude affatto […] il ricorso ai mezzi violenti; Gandhi […] si è limitato a dire che soltanto in casi davvero estremi, il ricorso alla violenza può essere giustificato (ma entrambi hanno anche affermato che peggio del violento è l’ignavo, il vigliacco)”. E questo il secondo: “Quel tanto di disobbedienza civile che ancora oggi si pratica, nonostante tutto, nel nostro paese, è visto con fastidio dall’ex sinistra, e lo spettro dei pochi facinorosi […] serve per vituperare e reprimere i giusti, coloro che hanno osato e ancora osano dire no a leggi inique, a imposizioni autoritarie. Fino al paradosso di aver visto, come nel caso dei no-Tav della Val di Susa, schierati da un lato tutti i sindaci della zona, “in borghese” e con tanto di fascia tricolore e ovviamente disarmati, e dall’altro poliziotti e celerini senza volto e dalle figure deformate da scudi e visiere, armati di fucili e manganelli e grappoli di bombe lacrimogene. Dov’era lo Stato, in quel caso? Chi era lo Stato?” Un’ultima cosa: i proventi del libro andranno alla cassa di solidarietà delle “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, per sostenere le attività a favore delle persone private della libertà, tipo l’acquisto di libri, riviste, abbonamenti a quotidiani, ventilatori, sostegno a detenuti/e indigenti, eccetera. *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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The Substance. Il massacro dello show business
Recensione del film di Coralie Fargeat  The Substance di Roberta Cospito da Carmilla Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti. In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio interessante. Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film ruota attorno all’assunzione di una “sostanza” reperita sul mercato nero da parte dell’attrice cinquantenne Elisabeth Sparkle (fisico e volto sono di Demi Moore), ormai in declino e relegata a fare lezioni di aerobica per la televisione, nonostante in passato sia stata premiata anche con un Oscar. L’imperativo dello show business è però impietoso e, così, lo spiacevole produttore del programma – Harvey, stesso nome di battesimo di Weinstein, il tristemente noto produttore cinematografico statunitense –, con le fattezze dell’attore statunitense Dennis Quaid, decide che ormai Elisabeth ha fatto il suo tempo ed è ora che lasci il campo a una sostituta più avvenente. L’essere licenziata proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno perché non ha più lo splendore della gioventù – curiosamente il suo cognome, Sparkle, in inglese significa scintillare –, fa precipitare la diva nella depressione più totale per cui, di fronte alla possibilità di ritornare ai fasti del passato, cede rapidamente alla tentazione d’inocularsi una sostanza che le darà la possibilità di creare – in pratica, partorire non dal grembo ma dalla schiena – una versione migliore di se stessa, dove per migliore in questo caso s’intende più giovane e bella. Le regole del procedimento sono poche, semplici e ben spiegate: il siero è inoculabile una sola volta e le due donne, la “diva matrice” e la “diva altra sé”, dovranno alternarsi ogni sette giorni, l’una andando in una specie di letargo mentre l’altra resterà libera di agire: Elisabeth potrà così rivivere per interposta persona un’altra giovinezza con tutti i suoi benefici, percependo nello stato “vegetativo” tutto quello che l’altra – interpretata da Margaret Qualley, battezzata Sue – vivrà direttamente. L’esperimento pare funzionare. Sue riesce a essere la protagonista dello spettacolo che prima era condotto da Elisabeth riscuotendo un successo strepitoso ed entrando rapidamente in un vortice di impegni, conoscenze, opportunità, ormai precluse all’altra che si ritroverà, invece, ad affrontare settimane di solitudine e inattività a cui non era abituata. Ben presto, a Sue il tempo a sua disposizione non basta più e – contravvenendo alla regola dell’alternanza e dimenticando l’imperativo che le viene fornito insieme al kit di (ri)generazione di tenere ben presente il fatto che l’identità è una sola, seppur in qualche modo sdoppiata – decide di non lasciare più possibilità di vita all’altra innescando, così, un meccanismo di devastazione del corpo (matrice) di Elisabeth da cui pare impossibile ritornare indietro. Ogni momento rubato alla vita dell’altra crea a questa un terribile invecchiamento del corpo, un po’ come succede ne Il ritratto di Dorian Gray per cui Dorian venderà la sua anima per garantirsi che sarà un’immagine dipinta e non il proprio corpo a invecchiare. L’aspetto più rilevante e apprezzabile del film è la denuncia che fa la regista: è evidente la critica allo show business, al mondo degli affari che alimenta quello dello spettacolo. per cui bisogna massimizzare i guadagni e buttare via ciò che viene considerato obsoleto, persone incluse; un mondo in cui bisogna vincere a ogni costo e pazienza se si lasciano dei feriti sul campo. L’altra forte critica è nei confronti di una società in cui la mercificazione del corpo delle donne è all’ordine del giorno, decisa a farci credere che l’esteriorità, la bellezza, sia l’unico obiettivo che valga la pena perseguire nella vita. La regista, con decise inquadrature sul corpo giovane e sodo di Sue, stringendo l’occhio della telecamera su glutei, cosce, seni e labbra, restituisce alla perfezione lo sguardo che alcuni uomini posano senza il minimo rispetto sui corpi femminili ignorando (o facendo finta di ignorare) quanto sia offensivo e doloroso per chi li riceve. Ma assieme si sviluppa una critica anche nei confronti di chi non riesce ad accettare i segni che il passare del tempo lascia inevitabilmente sul nostro corpo, segni che dovremmo imparare, se non proprio ad apprezzare, almeno ad accettare con serenità, lasciando che la natura segua il suo corso. A un certo punto del film Elisabeth incontra un suo vecchio compagno di scuola che, incantato dal suo aspetto – stiamo parlando di Demi Moore, una bellezza decisamente fuori del comune –, riesce a vincere la timidezza lasciandole il suo numero di cellulare; in un primo momento, lei lo liquida velocemente, ma quando i morsi della solitudine iniziano a farla sanguinare decide di telefonargli e accettare un suo invito a cena. La sera stabilita si prepara con cura e, con il suo attillato vestito rosso, si appresta a uscire, ma il suo sguardo si posa sull’immagine di Sue ritratta in un enorme poster visibile dalla finestra del suo appartamento e, a quel punto, corre in bagno ad aggiustarsi il trucco, i capelli, una, due, tre volte, finché alla fine rinuncerà a uscire non considerandosi nemmeno abbastanza bella da poter farsi vedere dal suo ex compagno di scuola, un uomo che definirlo ordinario è un complimento, o da eventuali avventori del ristorante dove i due si sarebbero incontrati. Chi come me in quel momento faceva il tifo per lei, una donna che finalmente avrebbe potuto ricevere i complimenti cui era stata abituata e di cui aveva un bisogno disperato per ricominciare a sentirsi viva, resta delusa dalla sua scelta di non uscire ma, d’altra parte, quando una persona è abituata a essere osannata, idolatrata, ammirata quotidianamente la vita “normale” è dura da gestire, l’equilibrio con se stessi difficile da raggiungere. La maturità, il vissuto da cui Elisabeth dovrebbe o potrebbe ricevere forza, non riesce a evitarle l’arenarsi in poltrona davanti alla televisione; fa riflettere il fatto che, nonostante i tanti soldi guadagnati in una vita da prima donna, le varie frequentazioni con altre celebrità, i riconoscimenti di vario tipo (addirittura la stella sulla Hollywood Walk of Fame) non resti traccia né di felicità né di rapporti umani su cui poter contare. The Substance mi ha lasciata perplessa per qualche momento eccessivamente didascalico come, per esempio, il sottolineare più volte e da subito l’unicità delle due versioni femminili – peraltro, ponendo lo spettatore in uno stato di allerta per cui si può immaginare che sarà proprio questo l’aspetto che creerà problemi nella gestione della sostanza – e qualche esagerazione di troppo; per esempio, molti hanno ritenuto eccessivo il finale in cui viene versato sangue a ettolitri – scene, in effetti, molto splatter che però possono essere giustificate dal voler farci riflettere sulla mostruosità della bellezza a ogni costo – ma, personalmente, ho trovato più fastidioso il fatto che Sue riesca a ricavare dal suo bagno una sorta di sgabuzzino non visibile all’esterno, con l’abilità di una carpentiera d’esperienza quando, invece, si sta parlando di una star della tv che nulla c’entra con fiamme ossidriche e martelli. Durante la visione del finale, mentre le immagini del corpo in disfacimento di Elisabeth riempivano il grande schermo, continuavo a pensare al saggio di Jude Ellison Sady Doyle Il mostruoso femminile edito da Tlon, un’opera che indaga – analizzando miti, letteratura e anche cinema horror – la primordiale paura che il patriarcato nutre da sempre nei confronti delle donne: “La donna è sempre stata un mostro. La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto: sirene carnivore, Furie che con artigli affilati come rasoi dilaniano uomini, leanan sídhe che incantano mortali per poi prosciugarne l’anima. Queste figure – di una bellezza letale o di una bruttezza intollerabile, subdole o traboccanti di furore animale – rappresentano tutto ciò che gli uomini trovano minaccioso nelle donne: bellezza, intelligenza, rabbia e ambizione. Nel mito cristiano, a essere donna è l’apocalisse. Nella Bibbia, infatti, si profetizza che la fine dei tempi sarà dominata da una regina lussuriosa con in mano un calice d’oro «colmo delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione”. Mi piace chiudere così, con la letteratura, a mio avviso sempre poco citata quando si scrive di cinema, benché nelle numerose recensioni a The Substance abbondino, anche giustamente, gli accostamenti con film quali The elephant man di David Lynch, Shining di Kubrick, Crash di David Cronenberg, Titane di Julia Ducournau, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, Alien di Ridley Scott, Carrie. Lo sguardo di Satana di Brian De Palma e molti altri ancora. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Ein, Zwei, Polizei
Nella serie Acab le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa finiscono per essere considerate come l’unico argine a una generica «rabbia», impolitica ed effetto di una frustrazione generalizzata di Enrico Gargiulo da Jacobin A quindici anni dalla pubblicazione di Acab. All cops are bastards, libro di Carlo Bonini che racconta le vicende di alcuni membri del Reparto mobile di Roma, e a tredici dal film che ne è stato tratto, diretto da Stefano Sollima, è disponibile sulla piattaforma Netflix l’omonima serie tv. Un «prodotto» molto pubblicizzato, lanciato sul mercato dell’intrattenimento come logica continuazione del romanzo e della sua trasposizione cinematografica. La produzione, infatti, è dello stesso Sollima e tra le cinque persone chiamate a scrivere la sceneggiatura figura Bonini. L’operazione sembra orientata a costruire un’egemonia non soltanto artistica ma anche culturale. La serie, diretta da Michele Alhaique, aggiorna in senso spazio-temporale il racconto delle vicende della celere romana, consolidando la visione politica e morale già proposta in precedenza. Al di là di una facciata cruda, cinica e iperrealistica, Acab condivide lo stesso carattere dell’opera di carta e di quella cinematografica, offrendo una lettura della società contemporanea che finisce per legittimare un certo tipo di ordine sociale. La patologizzazione del conflitto sociale La struttura delle serie, di tipo circolare, è significativa: le vicende della squadra di celerini romana iniziano e finiscono in un tunnel: nel cantiere dell’alta velocità durante le mobilitazioni No Tav in Val di Susa, nella prima scena, e in prossimità della stazione Termini a Roma durante la notte di Capodanno, nell’ultima. Ad accomunare l’alpha e l’omega di Acab è un senso di oppressione e inquietudine, che fa da contesto e preludio all’inevitabile aggressione subita dalla polizia: folle inferocite di «facinorosi» vestiti di nero attaccano i protagonisti della serie, sfogando una rabbia incontrollabile. Lo schema narrativo è ben noto a chi conosce il romanzo e il film. Il vero protagonista del racconto è l’odio: un sentimento generalizzato e non meglio definito che accompagna, o per meglio dire avvolge, l’intera vicenda, assumendo la consistenza di una malattia capace di contagiare le diverse componenti della società, inclusa la polizia. Le ragioni dell’odio, tuttavia, non sono specificate. Le cause politiche ed economiche alla base dei conflitti e delle violenze sono tenute al margine della narrazione: emergono a tratti, ma in maniera frammentata e poco credibile. Del resto, non sono rilevanti nell’economia del racconto: la macchina narrativa, per funzionare, non ha bisogno di esplicitarle, dal momento che il conflitto sociale è patologizzato, non analizzato in profondità. La società, in altre parole, è rappresentata come intrinsecamente malata in senso morale. Di questo stato patologico bisogna soltanto prendere atto, accettando ciò che ne consegue. Inclusa la celere, che è parte integrante della «cura» contro il disordine. La patologizzazione dell’odio e la rappresentazione della polizia come unico argine al caos fanno perno innanzitutto sull’isolamento. I Reparti mobili si trovano quasi sempre in radicale inferiorità numerica, in uno stato di totale abbandono: sono l’ultimo – e l’unico – baluardo di uno Stato che, per il resto, è del tutto assente. Meno nella prima scena ma in crescendo nelle successive, la squadra al centro della serie è sola contro soggetti che la odiano. La solitudine è percepita anche nei confronti degli altri apparati dello Stato, a cominciare dai funzionari – esterni al Reparto mobile – che dirigono l’ordine pubblico, per finire con i magistrati e con i politici. L’isolamento non riguarda solo la vita professionale, ma anche quella privata. Ricalcando un consumato cliché narrativo, i protagonisti di Acab, al pari di quelli di molti romanzi noir, si sentono soli e incompresi dalle famiglie. Sociopatie e traumi familiari sono la regola, non l’eccezione. Il caposquadra Ivano Valenti, detto «Mazinga», ha un figlio che non gli rivolge la parola, deluso dal comportamento del padre che, anni prima, ha abbandonato lui e la madre, poi deceduta. Salvo, uno dei celerini, ha una relazione a distanza con una donna inesistente: come si scopre, è vittima di una truffa online finalizzata a ottenere regali e soldi. Marta, la poliziotta donna, ha una figlia di tredici anni con un uomo che, prima della separazione, la picchiava, tanto da arrivare ad accoltellarla, e che, ora, vorrebbe essere sempre più presente nella vita della ragazza. Anche Michele Nobili, un poliziotto «democratico» appena trasferitosi dal Reparto mobile di Senigallia, che dalla seconda puntata guida la squadra romana protagonista del racconto,  inizialmente appare come il perfetto padre di famiglia, ma poi vede disfarsi il suo idillio familiare nel momento in cui la figlia viene violentata: non riuscendo ad affrontare la situazione, se ne va di casa. Oltre all’isolamento lavorativo e familiare, un altro elemento centrale nello schema narrativo è il contagio. La traiettoria di Nobili lo dimostra in maniera cristallina. Nella prima serata passata in caserma dopo aver lasciato la famiglia, il nuovo caposquadra incontra Salvo, il quale gli esprime il suo dispiacere per quello che è successo a sua figlia e gli propone di uscire con il resto della squadra. Nobili declina la proposta e gli fa vedere la foto del violentatore, raccontandogli che lo ha seguito e l’ha visto sorridente e felice: un figlio di papà che casca sempre in piedi. Salvo e gli altri, allora, decidono di fare un «regalo» al loro caposquadra: al rientro dalla serata, lo svegliano e lo invitano a seguirli in un capanno isolato. Lì si trova il ragazzo: lo hanno rapito, legato e bendato. Nobili può scegliere se dare sfogo o no alla sua vendetta. Lo fa, lasciandosi contagiare dal resto della squadra. Poco dopo, ubriaco, lo ammette con Mazinga mentre stanno rientrando a casa dopo la cena di Natale in caserma: > «Tu avevi il comando. Sei tu che hai dato l’ordine perché c’era… c’era l’amico > che stava a terra. Questa si chiama vendetta Mazì». > «Bravo, così si chiama». > «Non è fratellanza, questa. Questa… Questa è la fine di tutto. Ma tanto ormai > mi avete contagiato, sono diventato come voi». La de-politicizzazione Rappresentare l’odio come una patologia che infetta la società intera e si trasmette anche a chi deve tutelarla deresponsabilizza le azioni della polizia e de-politicizza le ragioni del conflitto. In altre parole, sposta il discorso dal piano politico a quello morale. Si tratta di uno schema consolidato, che segna tanto il romanzo quanto il film ma che viene riproposto ora in una forma aggiornata. Il libro di Bonini, infatti, esce in uno scenario italiano e internazionale diverso da quello attuale. Nel 2009, la crisi economica era appena esplosa e doveva ancora investire l’Italia. Una delle questioni al centro dell’agenda politica nel momento in cui il racconto è ambientato era l’entrata della Romania nell’Ue, che aveva scatenato un’ondata di panico morale a cui il governo Prodi, nella breve legislatura 2006-2008, aveva risposto con un decreto sicurezza firmato dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato. Le «cacce al rumeno» erano la regola in quel periodo. A Roma, in particolare, la campagna elettorale per le elezioni comunali, che vedeva contrapporsi Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, era stata condizionata in maniera decisiva dallo stupro e dall’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di una persona rumena che viveva in un insediamento informale. Il successo della destra nel 2008 non è avvenuto soltanto nella capitale: la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni politiche dopo una campagna elettorale in cui l’idea di sicurezza ha giocato un ruolo di primo piano. Il romanzo e il film mettono al centro della scena il presunto «degrado» dovuto alla presenza massiccia della popolazione rumena, trattandolo con toni tra l’allarmistico e il moralistico. Inoltre, evocano il G8 in modo esplicito: buona parte della squadra protagonista, infatti, ha partecipato alle giornate di Genova. L’eredità di quanto accaduto durante  il vertice del 2001 è talmente pesante che il film si chiude con una sorta di momento di nemesi. La notte della morte di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un agente della polizia stradale in un Autogrill nel 2007, la squadra protagonista del racconto si trova isolata vicino allo stadio, in Piazzale Maresciallo Diaz – a cui è intitolata la scuola genovese della «macelleria messicana» –, e sente sullo sfondo le urla dei tifosi inferociti in cerca di vendetta. Nella serie, invece, l’eredità del G8 è ormai lontana, se non del tutto assente. Anagraficamente, soltanto alcuni dei personaggi possono aver partecipato agli eventi di Genova. Tra questi Mazinga, unica presenza a garantire continuità con il film. Le giornate del luglio 2001, peraltro, non sono mai richiamate in modo esplicito. Lo scenario politico, più in generale, è cambiato. Il testa a testa tra centro-destra e centro-sinistra che aveva segnato la seconda metà degli anni Novanta del XX secolo e i primi anni Duemila si è risolto, di fatto, in uno spostamento a destra dell’intero asse parlamentare. Il fascismo nella polizia non è un più un tema oggetto di attenzione specifica. Il che non sorprende, dato che il mondo al cui interno operano i celerini protagonisti della serie sembra essere completamente spoliticizzato: un approccio morale e non politico al conflitto sociale è ormai normalizzato. Inoltre, le questioni al centro dell’agenda politica sono in parte diverse: la questione ambientale, quella abitativa e lo sciovinismo del welfare sono sempre più in primo piano, ma come dati di fatto, non come un aspetto della società su cui è possibile incidere. Infine, l’ingresso delle donne nei Reparti mobili è testimoniato dalla figura, centrale, di Marta. Legittimare la violenza delle forze dell’ordine In uno scenario del genere, i protagonisti di Acab riproducono una struttura tipica del romanzo moderno: sono eroi problematici in un mondo corrotto e degradato che cercano, in maniera confusa e disperata, un riscatto laddove un cambiamento radicale è impossibile e, forse, neanche voluto. Se è vero che ogni opera di finzione letteraria esprime in modo più o meno diretto un inconscio politico, la serie estremizza una visione della società che, dietro un presunto realismo, nasconde una difesa dell’ordine o, meglio, dei soggetti chiamati a tutelarlo. Con tutti i loro difetti e i loro tormenti interiori, i protagonisti di Acab incarnano, anche attraverso un senso di appartenenza al gruppo ripetutamente ostentato nelle varie puntate, valori positivi in un contesto politico e sociale irrimediabilmente corrotto, che non può essere cambiato. E infatti, nonostante le parole che Salvo rivolge a Nobili durante la cena di Natale – «com’è quel fatto, Michè? Quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È una stronzata, quando tocchi il fondo, là rimani» – i diversi personaggi trovano un riscatto morale. Il punto, però, è come lo trovano, dato che la loro redenzione è segnata da azioni all’insegna del machismo e della maniera forte. Al riguardo, il tema del genere, inserito esplicitamente nella serie e trattato da una prospettiva che sembra quasi volutamente antifemminista, è rivelatore di tutte le ambiguità di Acab e, più in generale, di quanto la presenza femminile nelle opere poliziesche sia ammessa se e in quanto le protagoniste si comportano come, se non peggio, dei loro colleghi maschi. Marta risolve i problemi con il suo ex quando si accorge che questi picchia anche l’attuale compagna. Decide allora di aspettare la donna fuori dal supermercato in cui lavora e, dopo averla fatta salire in macchina con una scusa, la forza in maniera molto dura a raccontare i dettagli delle percosse subite. Sua figlia, seduta sul sedile posteriore, è costretta ad ascoltare: è lei il vero oggetto della «lezione». Nobili, dal canto suo, riceve una telefonata mentre sta per prendere servizio la notte di capodanno. Sua figlia gli fa promettere che il suo violentatore pagherà per quello che ha fatto. Il celerino le risponde che sì, lo farà. La sua risposta arriva dopo che il rapimento e il pestaggio sono già avvenuti. Le modalità con cui i protagonisti della serie agiscono, cercando di dare sostanza ai valori che li orientano, esprimono dunque un orizzonte di senso piuttosto problematico. La violenza, psicologica e fisica, sembra essere l’unico strumento da opporre a un mondo degradato e corrotto. Certo, il copione prevede alcune eccezioni. Eppure, il quadro non cambia nella sua sostanza. La violenza e le maniere forti sono giustificate perché il mondo in cui i protagonisti della serie vivono è profondamente malato. E perché tutto è contro la polizia. L’irrealismo di molte delle situazioni descritte, al riguardo, è funzionale ad alimentare angoscia e paura del caos e, quindi, a legittimare le forze dell’ordine. A cominciare dall’isolamento dei celerini: la scena finale in cui, dopo che si è sparsa la notizia della morte del ragazzo entrato in coma dopo la rappresaglia a freddo della polizia successiva agli scontri con i No Tav, una sorta di influencer incappucciato diffonde un video, presto virale, in cui incita a pareggiare i conti, sembra uscita da un film di zombie: la squadra, più isolata che mai, è aggredita da due lati da folle inferocite e rigorosamente vestite di nero. Passando per la testimonianza di Nobili che, anni prima, ha denunciato due colleghi per avere picchiato una persona in stato di fermo. Per finire con l’ostilità della magistratura: chi ha un minimo di conoscenza della procura di Torino e del suo comportamento rispetto alla questione Tav/Tac si può rendere conto benissimo di quanto i personaggi descritti nella serie e i loro modi di fare siano lontani dalla realtà. A testimonianza di un approccio patologizzante al conflitto sociale, le parole di Carlo Bonini sono significative. I celerini sono rappresentati > come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. […] Sono la > faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino > nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato > offre di sé. […] I nostri poliziotti, le cosiddette «forze dell’ordine», sono > pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta > faticosamente di espungere da sé […] Sono i prescelti a fronteggiare la > minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio > della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge > l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra > legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a > farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un > confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non > è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di > azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il > proteggersi l’uno con l’altro, senza lasciare che [i] sentimenti oscuri che > provano prendano il sopravvento. I poliziotti si trovano, così, prigionieri di > esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine > sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla > prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco > rapporto. […] Il vero problema per i palombari è tornare a casa. Del resto, l’idea che una generica «rabbia», impolitica e effetto di una frustrazione generalizzata, sia la cifra esplicativa degli ultimi vent’anni della società «occidentale» è ormai proposta anche da importanti esponenti dell’accademia internazionale. La rappresentazione dei celerini come argine al caos è evidente in un passaggio della seconda puntata. Pietro, dimesso dall’ospedale e costretto su una sedia a rotelle, si rivolge così alla sua squadra durante una cena: «noi lo sapemo che ce so du polizie, la polizia di Stato e la polizia di governo. Ma noi chi semo? La polizia di Stato!». Acab la serie, dunque, gioca in modo ancora più esplicito, rispetto al romanzo e al film, con le categorie della cultura e del sapere di polizia. Nel dibattito scientifico, infatti, è richiamata di frequente la contrapposizione tra una polizia dei cittadini, democratica, e una polizia del sovrano, autoritaria. Con la sua uscita perentoria e sanguigna, Pietro va oltre questa distinzione. I celerini marcano la loro distanza dalla politica ma, allo stesso tempo, non si sentono cittadini come altri. Rivendicano piuttosto il loro essere il baluardo di uno Stato etico, non di un ordinamento giuridico neutrale. Due polizie, pertanto, di cui una sola autentica: quella a guardia di un ordine morale che deve essere tutelato, a ogni costo.   *Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Torino, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.   > Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab” > A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Editoriale
recensioni
La storia del collettivo e della rivista S-Contro. Un libro sugli anni Ottanta a Torino
(archivio disegni napolimonitor) S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta (DeriveApprodi, 2024) è un libro di Sergio Gambino e Luca Perrone e racconta la storia di S-Contro, collettivo redazionale e militante torinese legato all’omonima rivista “aperiodica con intenti bellicosamente classisti” apparsa fra il 1984 e il 1987. S-Contro nasce nei primi anni Ottanta per iniziativa di un ristretto gruppo di giovani proletari delle periferie torinesi di Lucento, Vallette e Parella, attivi politicamente all’interno del Collettivo studentesco autonomo e del Comitato disoccupati, emanazioni del gruppo marxista-leninista torinese “Proletari”. Il gruppo si distingue presto dalla matrice ortodossa per una spiccata vocazione antidogmatica e un’apertura al dialogo con le altre componenti politiche della sinistra extraparlamentare. Nel 1983, assieme ad altri compagni torinesi provenienti da diverse esperienze, fondano un Centro di Documentazione, e poco dopo, con i disoccupati dei Banchi Nuovi di Napoli e i Nuclei leninisti milanesi, danno vita a un gruppo nazionale: l’Organizzazione comunista internazionalista (Oci). Centro di documentazione e Oci condividono la medesima sede in via Po 12, dove ogni sabato ci si ritrova per discutere e confrontarsi. È qui che, nel 1984, vede la luce il primo numero della rivista S-Contro. Il libro di Gambino e Perrone dedica uno spazio all’analisi dei cinque numeri di S-Contro comparsi fra il 1984 e il 1987, mettendo anche a disposizione un link per poter consultare l’intera collezione digitalizzata. Rivista di taglio giovanile, sia nelle tematiche, sia nel linguaggio, S-Contro mescola ai temi politici fondamentali (la disoccupazione, l’antimilitarismo, la scuola) il gusto per l’arte e la controcultura, con un’attenzione particolare per il teatro (Brecht, Majakovskij) e le nuove tendenze musicali (punk e new wave). Colpisce, fin dal primo sguardo, l’aspetto grafico della rivista: dinamica, ricca di immagini e di collage neodadaisti. L’intento è quello di “raggiungere una grafica che si faccia anch’essa portatrice di determinati messaggi e non mero appoggio formale agli articoli”. Se da un lato S-Contro si richiama all’esperienza bolognese di A/traverso, la rivista rappresentativa della cosiddetta “ala creativa” del movimento del ‘77, dall’altro abbraccia un’estetica più punk. Il nome stesso della rivista porta in sé questa doppia ispirazione: il trattino (orizzontale, anziché obliquo) è una strizzata d’occhio ad A/traverso; il nome della rivista, invece, è la traduzione di quello del leggendario gruppo punk The Clash. La storia del collettivo S-Contro non si esaurisce, tuttavia, alla sola attività redazionale. Fin dal primo numero la redazione si presenta come “aperta a chiunque voglia intervenire / confrontarsi / s-contrarsi per costruire delle iniziative (che non si riducono al solo giornale) di aggregazione giovanile sul filo di un discorso politico e culturale”. Obiettivo esplicito della rivista, insomma, “non è creare opinione pubblica”, bensì “fare politica, creare lotte, creare organizzazione”. Ripercorrendo con l’aiuto degli autori le diverse fasi del collettivo vediamo S-Contro trasformarsi da semplice gruppo controculturale giovanile a vero gruppo organizzato di redattori-militanti, impegnati direttamente nei principali movimenti politici di quel periodo, dal movimento studentesco del 1985 a quello antinucleare che sarà poi protagonista degli eventi del 10 ottobre 1986 a Trino Vercellese. In seguito, intorno al 1988, S-Contro abbandona la rivista, si apre a interventi politici nel settore del lavoro, e in particolare davanti ai cancelli di Mirafiori, prendendo parte al progetto nazionale di “Politica e Classe”. Infine, con la caduta dell’Unione Sovietica e l’aprirsi di una nuova fase storica, il collettivo si dissolve naturalmente. Per alcuni anni ancora resteranno visibili, sui muri della città, le scritte “S-Contro” accompagnate dal simbolo del martello e del regolo incrociati. Il percorso del collettivo è ricostruito dagli autori del libro attraverso gli strumenti propri della storia culturale e della storia orale. Se la firma è di Gambino e Perrone, i curatori del volume, la voce che da esso emerge è collettiva. Il libro si apre con due capitoli di analisi dell’esperienza di S-Contro e di suo inquadramento storico-sociale, nella conrnice della militanza politica nella Torino post-fordista (uno a firma dello stesso Perrone, l’altro di Salvatore Cominu). Segue un doppio intermezzo musicale: un excursus sulla scena musicale torinese degli anni Ottanta (a cura del critico musicale Alberto Campo), seguita da un’intervista a due suoi esponenti (Oliver e Bruno dei CCC CNC NCN). Infine, la seconda metà del volume riporta una lunga intervista collettiva agli ex-militanti di S-Contro, dove la storia del collettivo viene narrata di nuovo, ma stavolta “dall’interno” e “dal basso”, direttamente dai suoi protagonisti e protagoniste. Questa struttura del libro, al contempo corale e orale, appare riuscita. La prima parte permette un inquadramento storico-culturale fondamentale per apprezzare la seconda parte. Qui, il discorso procede disegnando una spirale, con eventi e nomi che ritornano, ma ogni volta da uno specifico punto di vista, narrati da una voce diversa. Ne risulta una ricostruzione che mantiene vive le contraddizioni e le differenze di vedute (gli s-contri, per l’appunto), mentre la complessità dell’esperienza storica diventa “esperienza unica” contro ogni “immagine eterna del passato”, come raccomanda Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia. Osservando la Torino degli anni Ottanta attraverso la lente della “microstoria” di S-Contro, il libro permette di esplorare un aspetto ancora trascurato e sottovalutato nella narrazione di quella fase storica: quello della multiforme galassia militante e controculturale, certamente minoritaria, che, nella Torino delle sconfitte operaie, della fine della lotta armata e del riflusso, è comunque rimasta in fermento, navigando controcorrente e provando, malgrado le condizioni avverse, a organizzarsi collettivamente. Dalla lettura emerge una composita cartografia di gruppi, luoghi di incontro e riviste della militanza torinese di quel decennio, con le loro peculiarità, affinità e controversie ideologiche. È un documento di grande interesse: sia per chi ha vissuto quell’epoca in prima persona (e, tramite la lettura, può riviverla e rielaborarla); sia per chi, anagraficamente più giovane, abbia interesse a ricostruire e a comprendere la Torino di quella fase. Proprio in questo secondo senso sembra orientata la nota introduttiva degli autori che presenta il volume principalmente come un ponte verso le giovani generazioni: un passaggio di testimone verso chi prova a remare ancora contro, affinare il senso critico e organizzarsi collettivamente. (lucio serafino)
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Stato di fermo
Un libro di stringente attualità. “Stato di fermo” di John Wainwrigth, Edizioni Paginauno di Edoardo Todaro da Carmilla In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le mobilitazioni, con punti di vista ed impostazioni diverse, messe in campo per contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è bene sottolineare il rendere esplicito  l’intento di questo provvedimento dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel settore della logistica. Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto: deve essere bandito. Non è mia intenzione addentrarmi su cosa è il ddl1660 e cosa, la sua eventuale e prevedibile  approvazione possa portare. In estremissima sintesi: da una parte coloro che effettueranno un blocco stradale compiranno un reato; chi, detenuti in particolare, ricorrerà ad azioni non violente, sarà punito ecc…; dall’altra avremo privilegi ed immunità per le forze dell’ordine.  Quindi ben venga questo libro, da considerare un vero e proprio manuale di autodifesa,  che era buon uso pubblicare. Una stanza, senza “ carattere “, di supporto allo scopo per cui esiste che deve produrre un effetto claustrofobico, è il luogo dove si svolge il tutto e due uomini: uno il sospettato, criminale e noto stupratore, in attesa di interrogatorio; l’altro l’inquisitore, una relazione basata sulla dominazione e l’accettazione di essa, accusato ed accusatore uno di fronte all’altro, la sconfitta e la vittoria.  Un sospettato, che necessita di un ristabilimento della quiete mentale per salvaguardare la propria dignità che è messa in discussione,  e  che ha nel proprio curriculum la violenza e l’uccisione di tre ragazze. Un colpevole perfetto per risolvere in tempi brevi un indagine che non vede alcun senso nel protrarsi. Il colpevole perfetto che diviene il capro espiatorio. Un’indagine che è costellata di grossi sospetti ma di nessuna prova, di quelle necessarie per “convincere” una, prossima, giuria ad un verdetto di condanna, e previste dalla legge, quella legge con i suoi limiti, debolezze ed incoerenze.  Ma essendo all’interno di trame, per così dire, giudiziarie, non può mancare il cosiddetto ragionevole dubbio che invece può portare all’assoluzione e le domande su cos’è la legge, sui suoi limiti. Queste pagine si dipanano nei meandri, nelle modalità dell’interrogatorio, nelle linee di questo con l’uso accorto del livello psicologico per far capitolare, perché, lo si voglia o meno, anche l’interrogare è un’arte: “ dare un colpevole e parlerà “. Interrogare con l’abilità del saper parlare ma anche del saper ascoltare. Interrogatorio che ha insito il trucco di far ammettere al sospettato la possibilità della propria colpevolezza e cioè l’ottenere un’ammissione, nel quale è necessario essere distaccato dalla sofferenza del sospettato senza lasciarsi coinvolgere; ingarbugliare un concetto, prendere un concetto logico e farlo divenire il suo contrario; non urlare e non dare in escandescenza, provare la colpevolezza del sospettato con le sue stesse parole, ripetere la stessa domanda 10000 volte ma in 1000 modi diversi, dare al sospettato il senso di sicurezza. Compare un secondo investigatore, questo senza pietà né alcun rimorso ma solo disprezzo e fanatismo e le pressioni fisiche per ottenere la confessione voluta. Quanto descritto è dovuto ad un semplice fatto: Wainwright è stato per 20 anni agente di polizia, diciamo che possiamo considerarlo un conoscitore dei fatti descritti. Ma l’utilità del leggere “ Stato di fermo “ risiede in particolare nel fatto che la crisi organica, economica e politica, accentua sofferenze e difficoltà nel corpo sociale e produce forme, diverse tra loro, di resistenza. Proprio queste forme di resistenza sono quelle che il governo si pone di bloccare con il ddl 1660. Aspetto utile e soprattutto necessario, risiede nella solidarietà e nella capacità di resistenza  di fronte all’accentuarsi degli interventi repressivi  nei confronti di coloro che sono, e che saranno colpiti, e nel diffonderla. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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