La lotta armata, il carcere e le torture di Stato. Il racconto di quegli anni
sfrontati e disperati. Anni con cui l’Italia tutta, dalle vittime ai carnefici,
da quelli che c’erano a quelli che sono venuti dopo, non riesce ancora oggi a
fare i conti con la lucidità e la distanza che sarebbero necessarie. Recensione
al libro di Francesco Barilli, Il silenzio di Sabina, Momo Edizioni
di Roberta Cospito da Carmilla
Il romanzo di Francesco Barilli si muove nello spazio tra la visione di un
docufilm come Ithaka (2021) – regia di Gabriel Shipton – sulla campagna di
liberazione di Julian Assange, combattuta in primo luogo da suo padre e dalla
sua compagna di vita, e il film ambientato negli anni Settanta Io sono ancora
qui (2024) – regia di Walter Salles – che racconta uno spaccato della dittatura
militare subita dal Brasile dal 1964 al 1985 e dei suoi desaparecidos che, a
differenza di quelli argentini e cileni, si tende a non ricordare a sufficienza.
La tortura è l’argomento comune di queste storie: Assange, in carcere per aver
rivelato con l’agenzia Wikileaks i crimini di guerra di Stati Uniti e Regno
Unito, sconterà parte della sua detenzione nel carcere di massima sicurezza
londinese di Belmarsh, detta la Guantanamo britannica, la stessa famigerata
prigione che l’attuale presidente Trump ha promesso agli immigrati. Nel film
di Salles, mentre l’ex deputato laburista brasiliano Rubens Pavia viene
(de)portato via dalla polizia militare (non farà più ritorno a casa), sua moglie
e la figlia maggiore vengono interrogate e detenute senza troppe spiegazioni,
formalità e rispetto per i più elementari diritti umani.
Il contesto in cui la narrazione si sviluppa è quello descritto dal
lungometraggio di Stefano Pasetto intitolato Il tipografo (2022), che racconta
la storia di un militante romano delle Brigate Rosse che ha denunciato di essere
stato sottoposto a tortura, all’interno di un quadro complessivo che ebbe una
prima strutturata denuncia nel volume curato da Maria Rita Prette intitolato Le
torture affiorate (1996) e pubblicato dall’editore Sensibili alle foglie. Una
realtà che non è unicamente dibattuta all’interno degli ambienti del garantismo
ma che ha avuto una diffusione sul grande pubblico con la serie documentaria in
quattro puntate Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta programmata su Sky.
Nella serie viene ricostruito senza censure l’operato di un apparato di Stato
che utilizzava tecniche di tortura durante gli interrogatori.
Barilli si affaccia al mondo delle “torture di stato” con la prospettiva della
finzione narrativa, raccontando la storia di Sabina Terlizzi, militante
comunista in una formazione armata clandestina che subisce l’esperienza della
tortura in carcere. “I fatti narrati in questo racconto – avverte l’autore –
sono frutto di fantasia e si sviluppano tra la fine degli anni Settanta e i
primi anni Ottanta; nonostante questo, la storia può essere ambientata in parte
in un’Italia che è stata reale, in parte in una che è reale, in parte
nell’incubo di un’Italia che potrebbe tornare reale”. Bisogna riconoscere allo
scrittore, al suo secondo romanzo, la coraggiosa e impopolare scelta di
occuparsi di un tema scomodo che, anche se periodicamente pare far capolino da
un muro di omertà dov’è stato relegato da politici e cittadini, viene sempre
chiuso troppo in fretta, senza interrogarsi sul contesto storico e politico di
quel periodo.
Il libro di Barilli si articola in diciotto brevi capitoli in cui il lettore
viene coinvolto in una sorta di viaggio interiore. I cinque capitoli centrali
sono dedicati al racconto della vita di Sabina, partendo da un’infanzia che le
ha insegnato come l’umanità si divida tra chi può permettersi di acquistare le
cose e chi no, passando da un’adolescenza di inquietudine contrassegnata da un
forte anelito di libertà, e arrivando a un’età adulta segnata da un lavoro in
fabbrica, alle dipendenze di un capo reparto fascistello che si diverte a “stare
addosso a tutte, per poi rendere impossibile la vita a quelle che non gliela
davano”, oltre dalla perdita del suo compagno di vita ammazzato durante una
sparatoria dove perdono la vita anche due carabinieri.
Le rimozioni m’inquietano, confessa l’autore nella dettagliata parte finale,
perché difficilmente sono innocenti e sicuramente mai risultano utili; di certo,
è anche per questo che s’è voluto soffermare su questo terribile aspetto della
nostra società (in)civile, sottolineando come chi in passato si è sporcato le
mani per sconfiggere la lotta armata non può pretendere di presentarsi, oggi,
con le mani pulite.
Oltre alle descrizioni delle sofferenze inflitte alla ragazza – si parla anche
di waterboarding, l’annegamento simulato, metodo di tortura tra i più atroci –
le voci di Sabina e dell’io narrante Alfredo, cercano anche di condividere
riflessioni sull’amore, chiedendosi se una persona che ha subito quel tipo di
atrocità fisiche e psicologiche possa dimenticare, trovare serenità, stabilità.
Sabina è davvero condannata a una vita di fuga dal passato e dai sentimenti? Chi
ha subito tortura può fidarsi di un altro essere umano? Che tipo di futuro si
può prospettare a chi ha vissuto “al limite”?
Se la violenza in generale è da condannare, a maggior ragione è inaccettabile la
violenza di chi punisce: chi esibisce solo la superiorità della forza fa
fortemente dubitare della superiorità delle proprie ragioni.
In quegli anni, fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, non pochi sono
stati uccisi, torturati, processati, imprigionati, esiliati, perseguitati,
emarginati; di loro, Barilli tenta di mantenere vivo il ricordo, senza dare un
giudizio, ma cercando di scostarsi dalle categorie di “vittime” e di
“carnefici”, ricordando che ci sono state persone che hanno cercato di cambiare
il mondo e che in parecchi hanno pagato un prezzo molto alto. “Penso a quanti
neppure sanno che in Italia negli anni di cui parlerò, una guerra ci fu davvero.
Atipica, a bassa intensità, senza eserciti schierati, ma per chi ci restò
coinvolto fu una guerra vera, con tutto il suo corollario di atrocità”.
Il silenzio di Sabina invita a interrogarsi sul valore del silenzio e della sua
capacità di rivelare molto della natura umana, compresi segreti e tensioni a
volte difficili da verbalizzare nella complessità delle relazioni umane:
“Semplicemente il silenzio di Sabina parla della sua vita meglio delle sue
parole”.
Barilli riporta un’osservazione di Leonardo Sciascia sull’esistenza reale della
tortura e sulla sua inesistenza pubblica: “Non c’è paese al mondo che ormai
ammetta nelle proprie leggi la tortura, ma di fatto sono pochi quelli in cui le
polizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al
diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la
tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente
uno sconfinato arbitrio”.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Tag - recensioni
Eroina e Spice sono due libri di Mauro Pusceddu pubblicati rispettivamente nel
2022 e nel 2024 dalla casa editrice nuorese il Maestrale. I temi trattati sono
così importanti che non ci si può limitare a un riassunto del contenuto, ma è
necessario aggiungere qualche riflessione critica, soprattutto sul rapporto fra
realtà e finzione letteraria.
di Marco Gabbas da Inkroci
È opportuno parlare di entrambi i libri perché sono due puntate di una stessa
serie (benché l’autore, nato nel 1969, abbia scritto altri tre libri). Infatti,
sia Eroina, sia Spice hanno per protagonista la poliziotta nera Nada Senes, per
l’esattezza non solo la prima vicecommissaria, ma anche prima commissaria nera
italiana. Non si può fare a meno di notare la vistosa copertina dell’ultimo
libro: il primo piano di una donna di colore, la pelle molto lucida e gli
occhiali a specchio, le labbra colorate di un rosso acceso.
Non c’è dubbio che entrambi i libri siano scritti con abilità e sapienza
narrative, soprattutto il secondo. Anzi, qualcuno definisce addirittura Pusceddu
il Connelly nuorese. Come tutti i gialli o noir, le trame sono complesse e
avvincenti, e quando tutto sembra chiaro c’è sempre un colpo di scena che
sconvolge le carte in tavola. Un particolare importante è che l’autore svolge la
professione di magistrato, ed è anzi attualmente presidente del tribunale
nuorese. Del resto, Pusceddu non è l’unico magistrato italiano che si cimenta
coi romanzi gialli e noir.
Benché il genere possa sembrare popolare e quasi banale, è impossibile parlare
di questi libri senza parlare di razzismo, tema che di fatto fa da sottofondo a
tutta la saga. Nada Senes è nata in Sardegna da genitori africani, abbandonata
da piccola e adottata da una coppia del posto: madre insegnante, padre
poliziotto. Nonostante il padre non la spinga a seguire le proprie orme, Nada
sceglie comunque di entrare in polizia; anzi, all’inizio fa addirittura parte
dei corpi speciali.
Entrambi i romanzi mostrano una conoscenza piuttosto precisa e dettagliata del
razzismo non solo nella società italiana (un razzismo popolare), ma anche
all’interno delle istituzioni (la polizia). È evidente che l’autore è molto
documentato in materia, assai di più dell’italiano medio, al quale per la verità
questi temi non interessano minimamente. Entrambi i romanzi mostrano come essere
diversi, e neri nello specifico, sia una stimmate costante che ci si porta
addosso dappertutto: per strada, a scuola, nei rapporti con gli altri, nel luogo
di lavoro. Infatti, oltre ai numerosi episodi di quotidiano razzismo che Nada
deve subire, c’è anche il problema dei colleghi che non la accettano. Oppure dei
pregiudizi, ancora più sottili, secondo i quali, proprio perché diversa, Nada
Senes dovrebbe essere meglio degli altri per essere trattata come gli altri.
Alcuni dei suoi superiori le ripetono in continuazione che lei è un simbolo,
idea che Senes rifiuta sdegnosamente, considerandola ipocrita.
Detto questo, che differenza c’è fra il mondo narrativo di questi romanzi e la
realtà? La polizia italiana è davvero com’è presentata in questi gialli?
Potrebbero sembrare domande oziose, dato che i romanzi dovrebbero essere opere
di fantasia per definizione. Eppure alcune riflessioni si impongono, e non solo
perché in questo caso la distanza è per certi versi eccessiva.
Certamente, un buon narratore si distingue anche per la maestria nel mescolare
il vero al verosimile e al completamente inventato. Pusceddu si mostra maestro
in questo, probabilmente anche grazie alla sua lunga esperienza di magistrato e
alla conoscenza diretta del territorio in cui vive, quella Sardegna dell’interno
talvolta definita società del malessere. A differenza del commissario
Montalbano, che vive nell’immaginaria Vigàta, Pusceddu ha deciso di far agire la
sua Senes nella vera Nuoro, con una geografia piuttosto precisa, sostanzialmente
ancorata alla realtà, pur con qualche licenza alla fantasia. Non solo, ma sembra
che l’autore abbia voluto sottolineare il legame di questi romanzi con
l’oggettività inserendo in uno di essi un documento ufficiale firmato da lui
stesso in qualità di giudice.
Nonostante i meriti che abbiamo sottolineato, però, per una persona
razzializzata è difficile leggere i due romanzi senza una certa perplessità e un
certo disagio. Il primo motivo è che nei romanzi si parla solo di razzismo nella
società, e non di razzismo di Stato o razzismo istituzionale (vedi l’ottimo e
coraggioso libro curato da Pietro Basso Razzismo di Stato, non a caso ampiamente
ignorato da una comunità accademica che preferisce la carriera veloce alla
ricerca spregiudicata della verità). Soprattutto, non vi è alcun accenno al
fatto che in Italia è proprio la polizia una delle principali istituzioni a
discriminare sistematicamente gli immigrati. Ciò avviene in una serie di modi,
innanzitutto sottoponendo le persone diverse a continui controlli razziali per
strada, delle vere e proprie retate che solo ipocritamente possono essere
chiamate “normali controlli” (e questo avviene anche a Nuoro). Se fossero così
normali, gli immigrati non ne sarebbero soggetti 14 volte di più degli italiani,
e la cifra sale a 50 in alcuni Paesi europei. Concretamente, ciò può voler dire
che una persona nera non può letteralmente uscire di casa senza essere fermata
arbitrariamente e maltrattata da polizia e carabinieri, anche se è cittadina
italiana (ed è meglio non protestare, perché le conseguenze potrebbero essere
assai spiacevoli).
Ma il razzismo di Stato italiano utilizza la polizia in modo ancora più
sistematico, per gestire il rilascio arbitrario dei permessi di soggiorno
all’interno delle questure. A un italiano ciò non risulterà per niente strano:
questi stranieri potrebbero essere pericolosi, non è giusto controllarli, anche
quando sono regolarmente sposati con cittadini italiani? Primo, chissà perché
altri Paesi europei fanno a meno di questa criminalizzazione e hanno degli
uffici gestiti da normali impiegati e non da poliziotti in divisa, anche se sono
comunque gestiti dal Ministero degli Interni. Secondo, non si capisce perché una
persona debba essere considerata delinquente, o quantomeno delinquente
potenziale, per il solo fatto di non essere europea. Terzo, i delinquenti veri,
quelli che davvero cercano di vivere di espedienti, si guardano bene dal fare la
fila come fessi davanti alle questure, e cercano anzi di starci il più lontano
possibile (oppure si procurano facilmente documenti falsi, da che mondo è
mondo).
La realtà è un’altra: gli uffici immigrazione delle questure sono vere e proprie
camere di tortura psicologica, macchine razzializzanti che servono per far
capire a tutti gli immigrati che sono degli esseri inferiori, degli schiavi, dei
potenziali delinquenti, che devono avere sempre e comunque da temere, che non
possono mai ribellarsi, e che può essergli al massimo concesso di stare in
Italia sinché c’è il bisogno di spremerli (dopodiché, ci sono sempre il CPR o
l’espulsione).
Questa sistematica discriminazione poliziesca è necessaria per tenere gli
immigrati in una condizione di colonia interna di sfruttamento. Non c’è bisogno
di essere accreditati economisti: l’economia italiana è basata sullo
sfruttamento feroce di questa colonia interna. Se questa venisse a mancare,
crollerebbe tutta l’economia italiana. E se anche il cappio al collo degli
immigrati fosse appena un po’ meno stretto, la cosa creerebbe comunque problemi:
si rischierebbe di avere nei migranti degli esseri umani magari un po’
maltrattati, ma comunque coscienti dei propri diritti, che potrebbero rompere
troppo le scatole per migliorare la propria condizione. È proprio ciò che si
bada bene di evitare in tutti i modi: non a caso, nessuno fra i principali
partiti politici, neanche la cosiddetta sinistra, osa mettere nel proprio
programma il cambiamento di questo sistema, preferendo ciance inutili e ipocrite
dirette sempre contro qualcun altro.
Tutti gli immigrati imparano a temere e/o a odiare (il confine è labile) la
polizia praticamente da subito, perché, non essendo affatto stupidi, capiscono
benissimo a che cosa serve, e sanno altrettanto bene di non aver fatto nulla per
meritarsi questo trattamento. Per chi conosce questa realtà perché l’ha subita
sulla propria pelle, il personaggio della commissaria Senes non può che lasciare
un po’ perplessi. Non si tratta solo del fatto che i poliziotti neri in Italia
sono quasi inesistenti, perché il punto non è questo. Per esempio, in alcune
questure del Nord Italia i poliziotti non bianchi vengono usati per “accogliere”
i migranti davanti all’ufficio immigrazione. La cosa potrebbe essere
interpretata come l’intenzione di “accogliere” gli stranieri con qualcuno “come
loro”, ma ciò risulta paradossale se uno pensa alla discriminazione vergognosa
che noi tutti soffriamo una volta varcata la soglia. A ben vedere, queste
persone non possono che ricordare le triste figure degli ascari e dei rinnegati,
servi di un potere che opprime i propri simili.
Questo ci deve ricordare che il colore non è tutto, perché l’altro elemento che
i più ignorano è la cittadinanza: per entrare in polizia bisogna essere
cittadini italiani, e il colore non è formalmente un discrimine: un ottimo
esempio di come non vada considerato in modo deterministico è presente proprio
in Spice. In questo romanzo, la nostra commissaria accusa una donna africana di
un crimine che non ha commesso. L’africana rigetta l’accusa definendo Nada Senes
una “stronza di bianca con la pelle nera”. Un epiteto che dei migranti africani
potrebbero tranquillamente usare contro dei poliziotti neri, qualora questi
ultimi li opprimessero (al di là del colore).
Del resto, Nada Senes non è l’unico personaggio “diverso” nella storia, dato che
troviamo anche un capitano dei carabinieri nero, un altro carabiniere di origine
slava, una poliziotta di origini cinesi e una piemme lesbica. Ancora, il punto
non è tanto se nella realtà le forze dell’ordine e la magistratura siano davvero
così variegate (anche se sembra probabile che non sia così). Il punto è un
altro: se anche fossero davvero così variegate, ciò ne cambierebbe il carattere
sostanzialmente razzista? La risposta è certamente negativa, anche se ci
riserviamo il dubbio per quanto riguarda il futuro remoto. Bisogna aggiungere,
infatti, che anche la magistratura italiana è assai prevenuta nei confronti
degli immigrati, e forse non potrebbe essere altrimenti. Qui non si tratta di
casi individuali, com’è ampiamente dimostrato da studi approfonditi come quello
di Salvatore Palidda, Migranti. Devianza e vittimizzazione. Ciò spiega anche
perché molte carceri italiane, soprattutto al Nord, sono piene di immigrati, con
grande sproporzione rispetto al totale. Lo studio di Palidda è del 2001, ma non
vi è motivo di pensare che da allora le cose siano migliorate.
Detto questo, i due libri non presentano la polizia come il bene assoluto, come
un’istituzione perfetta nella quale tutti sono onesti e rispettano le regole. I
corrotti esistono anche nella polizia, però fortunatamente i colleghi buoni
riescono a sventarne i piani. Insomma, si tratta soltanto di qualche mela
marcia. Purtroppo, come abbiamo detto, nella realtà certe istituzioni sono marce
in quanto tali, e continueranno a esserlo sinché non si capirà che,
semplicemente, non devono essere usate per discriminare in maniera sistematica
una minoranza. Il suddetto Palidda denuncia da tempo il comportamento arbitrario
delle questure, gli insulti regolarmente proferiti contro i migranti (se
rispondono posso essere denunciati per ingiurie ed espulsi), la corruzione
sistematica che, con l’aiuto di avvocati ammanicati, può dare il permesso di
soggiorno in cambio di soldi a qualcuno che non ha mai messo piede in questura
(oppure, i suddetti avvocati possono prendere i soldi dall’immigrato e poi
sparire).
Comportamenti presenti in qualche grande città del “continente”? Peccato che
poco tempo fa un giornalista cattolico nuorese abbia denunciato pubblicamente
questi comportamenti proprio dove lavora l’immaginaria Nada Senes. Franco Colomo
ha parlato di “episodi corruttivi per velocizzare pratiche per legge piuttosto
lunghe e farraginose”, nonché di “offese gratuite”, donne straniere in preda al
“terrore per le vessazioni” subite, “dalle prese in giro per il nome e la
provenienza ai veri e propri insulti” (ovviamente non può mancare quello di
“puttana”). Ma anche gli uomini nuoresi che accompagnano una donna immigrata
possono essere vittime “di un becero umorismo, quasi che un fidanzamento ‘misto’
fosse degradante”. “Si tratta di veri e propri abusi di potere – dice uno di
loro – ma a chi puoi rivolgerti per denunciare?”. Colomo aggiunge: “Tutti,
effettivamente, hanno paura di esporsi per non subire danni come pratiche
bloccate o ulteriori discriminazioni, perché di questo si tratta”. Un’altra
donna si è limitata a confidare al coraggioso giornalista: “Non ho voglia di
raccontare perché non voglio rivivere quel dolore, so solo che sopra di noi c’è
un Giudice che darà a ciascuno secondo le sue azioni”.[1]
Purtroppo le cose non si fermano a queste “storie di ordinaria discriminazione”,
raccolte da un settimanale diocesano (non proprio un foglio sovversivo), dato
che altri sedicenti giornalisti sono evidentemente troppo vigliacchi per fare il
proprio lavoro. Non possiamo dimenticare infatti che proprio nella provincia di
Nuoro c’è il CPR di Macomer, per certi versi il peggiore e il più terribile
d’Italia (anzi, la Nuova Sardegna, il principale quotidiano dell’isola, l’ha
semplicemente definito un “lager nazista”).[2] Gli esposti in materia
recentemente presentati alle procure di Nuoro e di Oristano dalle associazioni
Naga e LasciateCIEentrare assieme alla parlamentare Ghirra sembrano il copione
di un film dell’orrore: muri e pavimenti cosparsi di sangue, un uomo gasato col
peperoncino, nordafricani usati come ascari, pestaggi sistematici durati ore e
vere e proprie torture.[3] Le notizie più recenti parlano di due tentati suicidi
il 13 febbraio, con una successiva protesta collettiva; e di un grave atto di
autolesionismo il 28 febbraio. Un uomo senegalese, convivente con una cittadina
italiana, ha ingerito delle batterie e un anello proprio davanti alle guardie,
per non essere deportato nel suo Paese, dove sostiene di correre gravi pericoli.
Sin qui questa recensione si è occupata del rapporto e della differenza fra
realtà e finzione letteraria. Nella realtà, dubito che i succitati esposti
avranno alcun seguito, per il semplice fatto che nessun sistema condanna se
stesso (anzi, solitamente non indaga neanche). Fortunatamente, però, la
letteratura esiste anche per evadere dalla realtà e per presentarci un mondo
diverso. Nella prossima inchiesta di Nada Senes, mi farebbe piacere vedere
l’integerrima commissaria indagare sui suoi colleghi corrotti e sui torturatori
di Macomer, portandoli finalmente alla giustizia. Fortunatamente, sognare non è
reato.
--------------------------------------------------------------------------------
[1] Vedasi i due articoli di Franco Colomo «Invisibili» e «Storie di ordinaria
discriminazione», L’Ortobene, 13 maggio 2021 e 13 gennaio 2022, v.
https://www.ortobene.net/invisibili/ e
https://www.ortobene.net/storie-di-ordinaria-discriminazione/
[2] Claudio Zoccheddu, «Nell’inferno del Cpr di Macomer. “Migranti trattati come
in un lager”», La Nuova Sardegna, 16 ottobre 2024, p. 7.
[3] Vedasi il report di Naga «A porte chiuse», liberamente consultabile online:
https://naga.it/2024/10/15/report-a-porte-chiuse/
--------------------------------------------------------------------------------
Le trame dei due romanzi (dalle quarte di copertina):
Eroina – Nada Senes è la prima vicecommissaria nera italiana. Dopo i trascorsi
nei NOCS e un incidente in elicottero in cui ha perso la sua squadra, viene
prosciolta da ogni responsabilità e assegnata alla questura di Nùoro, la città
della Sardegna interna dove aveva vissuto alcuni anni d’infanzia. È la prima
settimana del nuovo incarico di Nada, nel novembre 2019, quando viene trovato in
campagna un cadavere non identificabile di un nero, due minorenni muoiono per
overdose e un orso fugge dallo zoo privato di un ex sequestratore che gestisce
il traffico di cocaina. Nada con la sua nuova squadra avvia le indagini per la
identificazione del cadavere e le cose si complicheranno per l’entrata in scena
di un gruppo di spacciatori nigeriani che controllano il mercato dell’eroina nel
Nord Sardegna. Fra boss dello spaccio o aspiranti tali, prostitute-schiave,
investigatori corrotti, pubblici ministeri che dalla vicecommissaria Senes si
attendono un riscatto da lei invece respinto, Nada dovrà fare i conti con una
vicenda ingarbugliata che la metterà ogni giorno di più di fronte ai fantasmi
della propria esistenza e rinnoverà i traumi causati da una società incapace di
comprendere la diversità.
Spice – L’estate 2024 vede tornare in azione Nada Senes, prima commissaria nera
italiana, dopo le azioni poliziesche narrate in Eroina. Durante un servizio di
perlustrazione in elicottero sopra le campagne della Sardegna centrale, Nada
vede due persone in fuga. Dopo averle inutilmente inseguite a terra, scopre un
campo di marijuana e il cadavere di un prete indiano, torturato e ucciso dentro
una chiesa diroccata. Scatta l’indagine sul passato del sacerdote, appena
nominato parroco di un villaggio senza parrocchiani per sottrarlo alle
chiacchiere circolanti sul suo conto nel paese del precedente incarico. Il
clamore della vicenda attira i mezzi d’informazione, e l’interesse di una
intraprendente giornalista. Intanto le piantagioni di cannabis legale vanno a
fuoco e una nuova droga sintetica – spice – addizionata alla marijuana provoca
un’ondata di suicidi. Nada vive un rapporto sempre più complesso con la piemme
Letizia Ruju; è bloccata in un dialogo immaginario con Macellari, il collega
corrotto in coma dopo la sparatoria avvenuta cinque anni prima. Nada: alla
ricerca di verità vecchie e nuove e di sé stessa, ma forse solo incapace di
capire se davvero vuole essere la poliziotta che è.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Recensione di Edoardo Todaro al libro ” Sabun” di Alae Al Said
E’ il 2018 quando esce nelle librerie Sabun. Sono passati 7 anni e la situazione
in Palestina è decisamente peggiorata, in tutta la Palestina sia a Gaza che in
Cisgiordania. La vita quotidiana sotto occupazione è l’ elemento unificante che
l’occupazione israeliana vuole debellare. Il destino dei palestinesi è nelle
mani dei soldati occupanti. Quanto ci racconta Alae Al Said ci porta a tu per tu
non solo con un’economia strozzata dall’occupazione, ma con la realtà
contraddistinta da un vero e proprio genocidio.
La distruzione di villaggi, di moschee, di siti storici, la cultura palestinese
sotto attacco: un vero e proprio culturicidio, e lo fa attraverso la descrizione
del saponificio, del “sabun” il sapone all’olio d’oliva, di Nablus viva ed
animata con i suoi vicoli stretti della città vecchia, e di cosa significa che
Israele è uno stato per soli ebrei. In questa descrizione non poteva mancare il
riferimento ai soprusi dei coloni, di coloro che non sono altro che la parte più
retriva e spietata degli ebrei sionisti, quei coloni, visibili dalla collina,
che un giorno saranno cacciati via nonostante che la loro presenza metta i
palestinesi nella condizione, obbligata, di non lasciare mai, nemmeno
temporaneamente, la propria casa vuota che altrimenti diverrà, immediatamente,
di proprietà degli occupanti.
Altro aspetto, assolutamente non secondario, che ci descrive Alae è quanto
avviene in occasione degli interrogatori che i palestinesi subiscono. La cella
d’isolamento per far perdere interesse nei confronti della vita; l’uso dei cani
come arma per far parlare; le molestie sessuali compiute dagli aguzzini; il
partorire in cella. In questo contesto, cacciare l’occupante senza scendere ad
alcun compromesso, liberare la Palestina a costo di morire, è il riferimento che
hanno tutti i palestinesi; non potrebbe essere altrimenti quando si è
controllati continuamente, si è trattati da inferiori. Ogni giorno ragazzi
rapiti ed uccisi, e poi essere cacciati, privati di tutto, cittadini di nessuno
stato, non avere una patria a cui fare riferimento che equivale ad essere
denudati della dignità. L’intifada, gli attacchi suicidi che divengono motivo di
discussione e di conseguenti punti di vista diversi, l’intifada, qualcosa di non
governabile, una sollevazione non ragionata nel buio dell’ingiustizia, con la
presa di coscienza e l’ evoluzione nella lotta.
Vivere la contraddizione del dover lavorare per il nemico se vuoi sopravvivere.
Abbiamo ben presenti le immagini, continue, dei funerali dei martiri che
divengono manifestazioni di rabbia e di collera; avvenivano ieri ed avvengono
oggi. Israele ha accentuato il suo essere una fabbrica di omicidi di massa
riducendo le vittime palestinesi a numeri riferibili a statistiche; ai
palestinesi non viene garantito nemmeno il diritto al lutto visto che i corpi
degli assassinati non vengono restituiti; i traumi sulla salute mentale sono
largamente, e spesso irrimediabilmente, diffusi. Essere a fianco della lotta del
popolo palestinese è anche leggere e far conoscere libri come questo, non
possiamo girarci dall’altra parte, dire “non lo sapevo”. Non è una questione
umanitaria; i palestinesi hanno bisogno della nostra solidarietà e noi dobbiamo
sempre avere come riferimento il loro esempio. Un esempio per tutti coloro che
non vogliono vivere come schiavi. (da La Città Invisibile)
Alae Al Said, Sabun, Zambon editore, 2019, pp. 272, euro 19
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dopo aver visto I shall not hate dovrebbe essere sufficiente a far deporre
qualsiasi tipo di arma in qualsiasi guerra
di Roberta Cospito da Carmilla
I shall not hate è sia il titolo di un libro di Izzeldin Abuelaish, nato a Gaza
e primo medico palestinese a lavorare in un ospedale israeliano, sia del film
realizzato dalla documentarista e produttrice franco-americana Tal Barda, nata e
cresciuta a Gerusalemme.L’associazione Find the Cure ha presentato la sedicesima
edizione di Mondovisioni, una rassegna di documentari curata da
CineAgenzia in collaborazione col settimanale Internazionale. Attraverso
docufilm selezionati dai maggiori festival internazionali, la rassegna, che ha
fatto tappa con il patrocinio del Comune al cinema Nuovofilmstudio di
Savona, porta sul grande schermo storie di attualità – in particolare sui
diritti umani – con l’intento di fornire agli spettatori un’informazione chiara,
profonda e consapevole su tematiche spesso difficilmente fruibili tramite i
media tradizionali.
Izzeldin Abuelaish – uomo straordinario, più volte candidato al Premio Nobel per
la pace – crede fermamente nella possibilità di una convivenza tra il popolo
palestinese e quello israeliano. Durante la guerra di Gaza, il 16 gennaio 2009,
tre delle sue figlie e una nipote vengono uccise dal fuoco israeliano diretto
immotivatamente contro la sua abitazione. Questo attacco viene vissuto
praticamente in diretta dal pubblico israeliano poiché il medico, appena resosi
conto dell’enormità della tragedia, chiama il giornalista televisivo di Channel
10, Shlomi Eldar, il quale risponde al telefono pur essendo in onda e,
coraggiosamente, tramite il vivavoce, dà la possibilità al suo pubblico di
ascoltare la richiesta di aiuto di Abuelaish. Le urla disperate di un padre –
tra l’altro, già vedovo da un anno – che vede i corpi delle sue figlie e della
figlia del fratello, dilaniati e sparsi per l’appartamento insieme a resti di
mura, calcinacci, giocattoli, libri, vestiti, entrano prepotentemente nelle case
di un’intera nazione.
In un momento come questo, in cui il suo credo di pace, la sua etica, vengono
messi a dura prova, il medico sorprende tutti e lancia un messaggio pubblico
fortissimo: “Non odierò” – I shall not hate, appunto. Non solo: la figlia
dodicenne costretta a quattro mesi di ricovero ospedaliero per le gravi ferite
alle dita di una mano e all’occhio destro, alla giornalista che le chiede se
prova sentimenti di odio risponde con uno spiazzante: “Odiare chi?”, lasciando
senza parole l’intervistatrice e noi in sala.
Il messaggio Abuelaish è chiaro: è possibile non odiare, anzi, considerare la
pace come unica via percorribile. La migliore alleata per uscire dai conflitti,
secondo Abuelaish è l’istruzione, e infatti, per superare il dolore delle
perdite subite e i primi momenti di vita in Canada, dove il medico decide di
rifugiarsi, le superstiti della famiglia si dedicano allo studio. che viene
considerato come un’oasi di pace. Intanto Abuelaish, coerentemente con questa
visione, ha creato una fondazione “Figlie per la Vita” in memoria delle sue
ragazze uccise, che fornisce borse di studio per aiutare le giovani donne
provenienti da Palestina, Israele, Libano, Giordania, Egitto e Siria negli studi
universitari in Canada, Stati Uniti e Belgio.
Colpisce la potenza delle immagini del documentario e resta difficile
dimenticare il viso straziato del medico che chiede aiuto per le sue figlie; le
interminabili macerie delle case sbriciolate della striscia di Gaza di fronte a
un mare di un azzurro impietoso nella sua bellezza; il lento muoversi di
un’umanità ferita e sofferente; lo sguardo commosso di una ragazza che racconta
il suo passato condiviso con chi ha poi ha perso la vita in modo brutale;
l’aspetto fiero di un viso che chiede giustizia per delle vittime innocenti; il
corpo di un uomo inginocchiato a terra schiantato dal dolore con i vestiti
imbrattati del sangue di sua figlia; l’espressione commossa di chi ricorda un
altro modo di vivere; i primi piani di chi, nel raccontare, non lascia spazio
alla rassegnazione. E rimangono impressi anche gli innesti animati che, non
interrompendo affatto la narrazione, sono capaci di aumentare l’empatia verso i
soggetti di queste storie orrende.
Tutto quanto visto I shall not hate e in altre immagini di questo genere
dovrebbe essere sufficiente a far deporre qualsiasi tipo di arma in qualsiasi
guerra.
Durante una gita al mare la famiglia Abuelaish aveva scattato delle foto e, nel
riguardarle anni dopo, si renderà conto che solo le ragazze che hanno perso la
vita nella terribile giornata del 16 gennaio 2009, avevano scritto i lori nomi
sulla sabbia, come a voler lasciare un ricordo, una traccia evidente del loro
passaggio in questo mondo, come se avessero avuto una sorta di presagio di
quanto sarebbe poi successo.
Il principio del non odiare espresso dal film trova una bellissima sintesi in
quanto scritto da Etty Hillesum – scrittrice ebrea morta nel campo di
concentramento di Auschwitz – nel libro Diario (1941-1943): “Una pace futura
potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se
stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di
qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in
qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È
l’unica soluzione possibile”.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le
reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono
diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile
ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la
contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
di Haidi Gaggio Giuliani da Centro Studi Sereno Regis
Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al
mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle,
soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati
statali, direttamente o indirettamente responsabili.
Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e
“Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli,
Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della
stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque
assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti
compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario
Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.
La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si
processa.
Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore
insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.
Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi
assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato
alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George
Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma
la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i
suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.
Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua
lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a
Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata
processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo
fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e
Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla
vita di tutte e tutti i giovani del mondo…
Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia
Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente
delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da
molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di
essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si
uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.
Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme
di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme
torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo,
per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di
dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche
se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel
libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”
(Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non
essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di
dirlo a voce alta.
Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che
differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche
allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a
Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam
dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di
Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.
Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse
della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai
regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura
ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli
penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci.
L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente
da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la
fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.
Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di
quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato
raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho
imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano
sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua
individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere.
Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della
decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può
avvelenare l’anima.
È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a
Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti
a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo
deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente,
ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una
poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per
noi”?!
In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua
umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando
le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza,
e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava
la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo,
delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché
spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché
contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e
volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il
suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti
per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).
Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” –
prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in
un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese
(affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le
manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una
legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta,
agli industriali.
Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto
elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino
alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava,
ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si
devono vergognare ma chi li persegue!
Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole,
suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti
ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di
devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene
comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le
carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici
interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della
cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la
propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.
Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le
persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che,
prima o poi, li spazzerà via.
“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di
repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza
per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso
alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it –
https://www.facebook.com/mammeinpiazza
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in Europa, a
una criminalizzazione del dissenso politico
di Marco Sommariva*
La curatrice del libro Carcere ai ribell3, Nicoletta Salvi Ouazzene, è
un’attivista del Comitato “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, nato nel
2016.
Il Comitato nasce per iniziativa delle mamme di alcuni dei ventotto giovani
attivisti e attiviste torinesi, sottoposti a misure cautelari in seguito alle
denunce per fatti legati alla lotta NoTav della vicina Valsusa, e alle lotte
studentesche e sociali praticate in città: opposizioni agli sfratti e
occupazioni di stabili per svolgere attività del protagonismo giovanile o per
l’accoglienza di famiglie senza casa.
Attraverso le vicende di figli e figlie è nata la presa di coscienza politica di
queste madri – alcune già attiviste, altre invece che non s’erano mai
interessate di politica – tutte consapevoli di vivere in una società sempre più
sbilanciata, in cui il dissenso e la protesta vengono fortemente repressi nel
tentativo di far tacere qualsiasi voce contraria, mentre nel paese continuano a
perpetrarsi forme di ingiustizia e discriminazione.
Il libro – edito recentemente da Multimage APS, un’associazione editoriale senza
fini di lucro – racconta come questo collettivo ha condiviso e vissuto, per
anni, le storie di attivisti e attiviste finiti in carcere a causa del loro
impegno per un mondo più giusto.
Sono molti gli aspetti interessanti messi in risalto da queste pagine, su cui
sarebbe meglio soffermarsi a ragionare
Purtroppo, ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in
Europa, a una criminalizzazione del dissenso politico, a un deciso giro di vite
che sta colpendo, per esempio, il movimento di solidarietà per la Palestina o le
proteste per la giustizia climatica o contro le grandi opere.
Non a caso, uno degli aspetti cruciali che emergono come elemento comune dal
rapporto che Amnesty International ha lanciato nel luglio del 2024, sullo stato
di salute del diritto di protesta in ventuno paesi europei, è l’attacco senza
precedenti al diritto di manifestare pacificamente in Europa dove, con sempre
maggior frequenza, le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un
uso eccessivo e non necessario della forza.
Ma il problema è più esteso: l’uso della forza s’accompagna a una tendenza
generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le violazioni delle forze
dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la mancanza di meccanismi di
inchiesta indipendenti.
Uno dei tanti rischi che stiamo correndo è che questo insieme di misure e
strumenti repressivi stanno creando un progressivo “effetto intimidatorio” che
frena la partecipazione alle proteste.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca di
Amnesty International, lo stato di salute del diritto di protesta e al dissenso
versa in condizioni estremamente precarie.
Tra gli aspetti più preoccupanti di questa tendenza autoritaria, riscontriamo il
grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di applicazione delle
misure amministrative di prevenzione – in particolare “DASPO urbano” e “foglio
di via” – ai danni di attiviste e attivisti pacifici e sindacalisti, ma non solo
di questi.
La gravità di queste misure cautelari si fonda sul fatto che vengano emesse
sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di “pericolosità
sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia non fondate su un
esame individuale delle circostanze specifiche né su procedimenti penali né su
condanne di alcun tipo.
Come racconta l’avvocato Novaro, uno dei legali della difesa delle vicende
riportate su queste pagine, in tutti gli episodi esaminati in questo libro la
decisione finale, sia che si tratti di provvedimenti emessi dal tribunale di
sorveglianza in sede esecutiva sia che si tratti di ordinanze cautelari, muove
al di là dei diversi criteri disposti dal legislatore che sovrintendono alle
differenti valutazioni, perché si è partiti dal presupposto che si stava
trattando di soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica.
Per questo è stato possibile che si arrivasse alla carcerazione pur in presenza
di fatti e condanne di lieve entità.
In pratica, si è dovuto fare i conti, e ancora lo si deve fare, con una delle
principali risposte giudiziarie a fronte di fatti non gravi connessi alla
protesta sociale: la pena detentiva.
Fra le tante cose, Carcere ai ribell3 ci racconta anche qual è il sapere che
porta la polizia alle segnalazioni prima citate. È il frutto di anni di
pervasivo monitoraggio delle aree politiche più radicali e impegnate nella
protesta, un prodotto che diviene la fonte centrale, molto spesso l’unica, a cui
la magistratura guarda per calibrare le proprie decisioni: capita sempre più di
frequente che l’architrave della costruzione accusatoria sia costituito proprio
da schede compilate e annotazioni trascritte dalla polizia.
Si può immaginare quale sia l’approccio a questo genere di segnalazioni,
funzionale alle esigenze di repressione; per cui, si sprecherà l’amplificazione
a dismisura dei fatti e dell’importanza del ruolo ricoperto dai diversi
protagonisti che dovranno risultare come nemici dell’ordine costituito e
socialmente pericolosi.
Per l’ordine costituito è un lavoro importantissimo: non si tratta solo di
un’allergia alla protesta sociale, di una volontà di silenziarla e
neutralizzarla, ma di una vera e propria messa in campo di strategie di tipo
preventivo, dissuasivo che alimentino la disaffezione alle forme di lotta
collettive.
Quanto leggiamo su questo libro è, appunto, che la protesta sociale non è una
risorsa ma un pericolo per l’ordine costituito, e coloro che se ne fanno
portatori sono dei soggetti ostili, riprovevoli, da sanzionare.
I diversi provvedimenti giudiziari attuati costituiscono un tassello importante
per quel processo di costruzione sociale del nemico di cui il potere ha sempre
bisogno, fungono da rassicurazione collettiva.
Questo libro dà la parola ai protagonisti dei provvedimenti repressivi,
attraverso la raccolta di loro testimonianze capaci d’iniziare a destrutturare
la narrazione distorta ormai imperante perché, come in altri paesi europei, pure
in Italia la criminalizzazione dell’attivismo pacifico passa anche attraverso
una narrazione mediatica tossica, poi strumentalizzata per approvare leggi che
restringono in maniera progressiva il diritto di protesta.
Spesso, a essere attaccata direttamente è la disobbedienza civile, sempre più
modalità d’azione di gruppi per la giustizia ambientale.
Chiudo con due estratti dal libro Elogio della disobbedienza civile di Goffredo
Fofi, edito da Nottetempo nel 2015.
Questo il primo: “Un’ingiustizia subita o vista subire da altri è una forma di
violenza che, dice Thoreau e insiste Gandhi, non va accettata e a cui è doveroso
ribellarsi. La differenza tra Thoreau e Gandhi comincia con il discorso sui
mezzi. Thoreau non esclude affatto […] il ricorso ai mezzi violenti; Gandhi […]
si è limitato a dire che soltanto in casi davvero estremi, il ricorso alla
violenza può essere giustificato (ma entrambi hanno anche affermato che peggio
del violento è l’ignavo, il vigliacco)”.
E questo il secondo: “Quel tanto di disobbedienza civile che ancora oggi si
pratica, nonostante tutto, nel nostro paese, è visto con fastidio dall’ex
sinistra, e lo spettro dei pochi facinorosi […] serve per vituperare e reprimere
i giusti, coloro che hanno osato e ancora osano dire no a leggi inique, a
imposizioni autoritarie. Fino al paradosso di aver visto, come nel caso dei
no-Tav della Val di Susa, schierati da un lato tutti i sindaci della zona, “in
borghese” e con tanto di fascia tricolore e ovviamente disarmati, e dall’altro
poliziotti e celerini senza volto e dalle figure deformate da scudi e visiere,
armati di fucili e manganelli e grappoli di bombe lacrimogene. Dov’era lo Stato,
in quel caso? Chi era lo Stato?”
Un’ultima cosa: i proventi del libro andranno alla cassa di solidarietà delle
“Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, per sostenere le attività a favore
delle persone private della libertà, tipo l’acquisto di libri, riviste,
abbonamenti a quotidiani, ventilatori, sostegno a detenuti/e indigenti,
eccetera.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Recensione del film di Coralie Fargeat The Substance
di Roberta Cospito da Carmilla
Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in
passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna
stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti.
In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni
non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale
percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio
interessante.
Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film
ruota attorno all’assunzione di una “sostanza” reperita sul mercato nero da
parte dell’attrice cinquantenne Elisabeth Sparkle (fisico e volto sono di Demi
Moore), ormai in declino e relegata a fare lezioni di aerobica per la
televisione, nonostante in passato sia stata premiata anche con un Oscar.
L’imperativo dello show business è però impietoso e, così, lo spiacevole
produttore del programma – Harvey, stesso nome di battesimo di Weinstein, il
tristemente noto produttore cinematografico statunitense –, con le fattezze
dell’attore statunitense Dennis Quaid, decide che ormai Elisabeth ha fatto il
suo tempo ed è ora che lasci il campo a una sostituta più avvenente.
L’essere licenziata proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno perché
non ha più lo splendore della gioventù – curiosamente il suo cognome, Sparkle,
in inglese significa scintillare –, fa precipitare la diva nella depressione più
totale per cui, di fronte alla possibilità di ritornare ai fasti del passato,
cede rapidamente alla tentazione d’inocularsi una sostanza che le darà la
possibilità di creare – in pratica, partorire non dal grembo ma dalla schiena –
una versione migliore di se stessa, dove per migliore in questo caso s’intende
più giovane e bella.
Le regole del procedimento sono poche, semplici e ben spiegate: il siero è
inoculabile una sola volta e le due donne, la “diva matrice” e la “diva altra
sé”, dovranno alternarsi ogni sette giorni, l’una andando in una specie di
letargo mentre l’altra resterà libera di agire: Elisabeth potrà così rivivere
per interposta persona un’altra giovinezza con tutti i suoi benefici, percependo
nello stato “vegetativo” tutto quello che l’altra – interpretata da Margaret
Qualley, battezzata Sue – vivrà direttamente.
L’esperimento pare funzionare. Sue riesce a essere la protagonista dello
spettacolo che prima era condotto da Elisabeth riscuotendo un successo
strepitoso ed entrando rapidamente in un vortice di impegni, conoscenze,
opportunità, ormai precluse all’altra che si ritroverà, invece, ad affrontare
settimane di solitudine e inattività a cui non era abituata.
Ben presto, a Sue il tempo a sua disposizione non basta più e – contravvenendo
alla regola dell’alternanza e dimenticando l’imperativo che le viene fornito
insieme al kit di (ri)generazione di tenere ben presente il fatto che l’identità
è una sola, seppur in qualche modo sdoppiata – decide di non lasciare più
possibilità di vita all’altra innescando, così, un meccanismo di devastazione
del corpo (matrice) di Elisabeth da cui pare impossibile ritornare indietro.
Ogni momento rubato alla vita dell’altra crea a questa un terribile
invecchiamento del corpo, un po’ come succede ne Il ritratto di Dorian Gray per
cui Dorian venderà la sua anima per garantirsi che sarà un’immagine dipinta e
non il proprio corpo a invecchiare.
L’aspetto più rilevante e apprezzabile del film è la denuncia che fa la regista:
è evidente la critica allo show business, al mondo degli affari che alimenta
quello dello spettacolo. per cui bisogna massimizzare i guadagni e buttare via
ciò che viene considerato obsoleto, persone incluse; un mondo in cui bisogna
vincere a ogni costo e pazienza se si lasciano dei feriti sul campo.
L’altra forte critica è nei confronti di una società in cui la mercificazione
del corpo delle donne è all’ordine del giorno, decisa a farci credere che
l’esteriorità, la bellezza, sia l’unico obiettivo che valga la pena perseguire
nella vita.
La regista, con decise inquadrature sul corpo giovane e sodo di Sue, stringendo
l’occhio della telecamera su glutei, cosce, seni e labbra, restituisce alla
perfezione lo sguardo che alcuni uomini posano senza il minimo rispetto sui
corpi femminili ignorando (o facendo finta di ignorare) quanto sia offensivo e
doloroso per chi li riceve. Ma assieme si sviluppa una critica anche nei
confronti di chi non riesce ad accettare i segni che il passare del tempo lascia
inevitabilmente sul nostro corpo, segni che dovremmo imparare, se non proprio ad
apprezzare, almeno ad accettare con serenità, lasciando che la natura segua il
suo corso.
A un certo punto del film Elisabeth incontra un suo vecchio compagno di scuola
che, incantato dal suo aspetto – stiamo parlando di Demi Moore, una bellezza
decisamente fuori del comune –, riesce a vincere la timidezza lasciandole il suo
numero di cellulare; in un primo momento, lei lo liquida velocemente, ma quando
i morsi della solitudine iniziano a farla sanguinare decide di telefonargli e
accettare un suo invito a cena. La sera stabilita si prepara con cura e, con il
suo attillato vestito rosso, si appresta a uscire, ma il suo sguardo si posa
sull’immagine di Sue ritratta in un enorme poster visibile dalla finestra del
suo appartamento e, a quel punto, corre in bagno ad aggiustarsi il trucco, i
capelli, una, due, tre volte, finché alla fine rinuncerà a uscire non
considerandosi nemmeno abbastanza bella da poter farsi vedere dal suo ex
compagno di scuola, un uomo che definirlo ordinario è un complimento, o da
eventuali avventori del ristorante dove i due si sarebbero incontrati.
Chi come me in quel momento faceva il tifo per lei, una donna che finalmente
avrebbe potuto ricevere i complimenti cui era stata abituata e di cui aveva un
bisogno disperato per ricominciare a sentirsi viva, resta delusa dalla sua
scelta di non uscire ma, d’altra parte, quando una persona è abituata a essere
osannata, idolatrata, ammirata quotidianamente la vita “normale” è dura da
gestire, l’equilibrio con se stessi difficile da raggiungere.
La maturità, il vissuto da cui Elisabeth dovrebbe o potrebbe ricevere forza, non
riesce a evitarle l’arenarsi in poltrona davanti alla televisione; fa riflettere
il fatto che, nonostante i tanti soldi guadagnati in una vita da prima donna, le
varie frequentazioni con altre celebrità, i riconoscimenti di vario tipo
(addirittura la stella sulla Hollywood Walk of Fame) non resti traccia né di
felicità né di rapporti umani su cui poter contare.
The Substance mi ha lasciata perplessa per qualche momento eccessivamente
didascalico come, per esempio, il sottolineare più volte e da subito l’unicità
delle due versioni femminili – peraltro, ponendo lo spettatore in uno stato di
allerta per cui si può immaginare che sarà proprio questo l’aspetto che creerà
problemi nella gestione della sostanza – e qualche esagerazione di troppo; per
esempio, molti hanno ritenuto eccessivo il finale in cui viene versato sangue a
ettolitri – scene, in effetti, molto splatter che però possono essere
giustificate dal voler farci riflettere sulla mostruosità della bellezza a ogni
costo – ma, personalmente, ho trovato più fastidioso il fatto che Sue riesca a
ricavare dal suo bagno una sorta di sgabuzzino non visibile all’esterno, con
l’abilità di una carpentiera d’esperienza quando, invece, si sta parlando di una
star della tv che nulla c’entra con fiamme ossidriche e martelli.
Durante la visione del finale, mentre le immagini del corpo in disfacimento di
Elisabeth riempivano il grande schermo, continuavo a pensare al saggio di Jude
Ellison Sady Doyle Il mostruoso femminile edito da Tlon, un’opera che indaga –
analizzando miti, letteratura e anche cinema horror – la primordiale paura che
il patriarcato nutre da sempre nei confronti delle donne: “La donna è sempre
stata un mostro. La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto
al meno conosciuto: sirene carnivore, Furie che con artigli affilati come rasoi
dilaniano uomini, leanan sídhe che incantano mortali per poi prosciugarne
l’anima. Queste figure – di una bellezza letale o di una bruttezza
intollerabile, subdole o traboccanti di furore animale – rappresentano tutto ciò
che gli uomini trovano minaccioso nelle donne: bellezza, intelligenza, rabbia e
ambizione. Nel mito cristiano, a essere donna è l’apocalisse. Nella Bibbia,
infatti, si profetizza che la fine dei tempi sarà dominata da una regina
lussuriosa con in mano un calice d’oro «colmo delle abominazioni e delle
impurità della sua prostituzione”.
Mi piace chiudere così, con la letteratura, a mio avviso sempre poco citata
quando si scrive di cinema, benché nelle numerose recensioni a The Substance
abbondino, anche giustamente, gli accostamenti con film quali The elephant man
di David Lynch, Shining di Kubrick, Crash di David Cronenberg, Titane di
Julia Ducournau, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, Alien di Ridley Scott,
Carrie. Lo sguardo di Satana di Brian De Palma e molti altri ancora.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Nella serie Acab le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa finiscono per
essere considerate come l’unico argine a una generica «rabbia», impolitica ed
effetto di una frustrazione generalizzata
di Enrico Gargiulo da Jacobin
A quindici anni dalla pubblicazione di Acab. All cops are bastards, libro di
Carlo Bonini che racconta le vicende di alcuni membri del Reparto mobile di
Roma, e a tredici dal film che ne è stato tratto, diretto da Stefano Sollima, è
disponibile sulla piattaforma Netflix l’omonima serie tv. Un «prodotto» molto
pubblicizzato, lanciato sul mercato dell’intrattenimento come logica
continuazione del romanzo e della sua trasposizione cinematografica. La
produzione, infatti, è dello stesso Sollima e tra le cinque persone chiamate a
scrivere la sceneggiatura figura Bonini.
L’operazione sembra orientata a costruire un’egemonia non soltanto artistica ma
anche culturale. La serie, diretta da Michele Alhaique, aggiorna in senso
spazio-temporale il racconto delle vicende della celere romana, consolidando la
visione politica e morale già proposta in precedenza. Al di là di una facciata
cruda, cinica e iperrealistica, Acab condivide lo stesso carattere dell’opera di
carta e di quella cinematografica, offrendo una lettura della società
contemporanea che finisce per legittimare un certo tipo di ordine sociale.
La patologizzazione del conflitto sociale
La struttura delle serie, di tipo circolare, è significativa: le vicende della
squadra di celerini romana iniziano e finiscono in un tunnel: nel cantiere
dell’alta velocità durante le mobilitazioni No Tav in Val di Susa, nella prima
scena, e in prossimità della stazione Termini a Roma durante la notte di
Capodanno, nell’ultima. Ad accomunare l’alpha e l’omega di Acab è un senso di
oppressione e inquietudine, che fa da contesto e preludio all’inevitabile
aggressione subita dalla polizia: folle inferocite di «facinorosi» vestiti di
nero attaccano i protagonisti della serie, sfogando una rabbia incontrollabile.
Lo schema narrativo è ben noto a chi conosce il romanzo e il film. Il vero
protagonista del racconto è l’odio: un sentimento generalizzato e non meglio
definito che accompagna, o per meglio dire avvolge, l’intera vicenda, assumendo
la consistenza di una malattia capace di contagiare le diverse componenti della
società, inclusa la polizia. Le ragioni dell’odio, tuttavia, non sono
specificate. Le cause politiche ed economiche alla base dei conflitti e delle
violenze sono tenute al margine della narrazione: emergono a tratti, ma in
maniera frammentata e poco credibile. Del resto, non sono rilevanti
nell’economia del racconto: la macchina narrativa, per funzionare, non ha
bisogno di esplicitarle, dal momento che il conflitto sociale è patologizzato,
non analizzato in profondità. La società, in altre parole, è rappresentata come
intrinsecamente malata in senso morale. Di questo stato patologico bisogna
soltanto prendere atto, accettando ciò che ne consegue. Inclusa la celere, che è
parte integrante della «cura» contro il disordine.
La patologizzazione dell’odio e la rappresentazione della polizia come unico
argine al caos fanno perno innanzitutto sull’isolamento. I Reparti mobili si
trovano quasi sempre in radicale inferiorità numerica, in uno stato di totale
abbandono: sono l’ultimo – e l’unico – baluardo di uno Stato che, per il resto,
è del tutto assente. Meno nella prima scena ma in crescendo nelle successive, la
squadra al centro della serie è sola contro soggetti che la odiano. La
solitudine è percepita anche nei confronti degli altri apparati dello Stato, a
cominciare dai funzionari – esterni al Reparto mobile – che dirigono l’ordine
pubblico, per finire con i magistrati e con i politici.
L’isolamento non riguarda solo la vita professionale, ma anche quella privata.
Ricalcando un consumato cliché narrativo, i protagonisti di Acab, al pari di
quelli di molti romanzi noir, si sentono soli e incompresi dalle famiglie.
Sociopatie e traumi familiari sono la regola, non l’eccezione. Il caposquadra
Ivano Valenti, detto «Mazinga», ha un figlio che non gli rivolge la parola,
deluso dal comportamento del padre che, anni prima, ha abbandonato lui e la
madre, poi deceduta. Salvo, uno dei celerini, ha una relazione a distanza con
una donna inesistente: come si scopre, è vittima di una truffa online
finalizzata a ottenere regali e soldi. Marta, la poliziotta donna, ha una figlia
di tredici anni con un uomo che, prima della separazione, la picchiava, tanto da
arrivare ad accoltellarla, e che, ora, vorrebbe essere sempre più presente nella
vita della ragazza. Anche Michele Nobili, un poliziotto «democratico» appena
trasferitosi dal Reparto mobile di Senigallia, che dalla seconda puntata guida
la squadra romana protagonista del racconto, inizialmente appare come il
perfetto padre di famiglia, ma poi vede disfarsi il suo idillio familiare nel
momento in cui la figlia viene violentata: non riuscendo ad affrontare la
situazione, se ne va di casa.
Oltre all’isolamento lavorativo e familiare, un altro elemento centrale nello
schema narrativo è il contagio. La traiettoria di Nobili lo dimostra in maniera
cristallina. Nella prima serata passata in caserma dopo aver lasciato la
famiglia, il nuovo caposquadra incontra Salvo, il quale gli esprime il suo
dispiacere per quello che è successo a sua figlia e gli propone di uscire con il
resto della squadra. Nobili declina la proposta e gli fa vedere la foto del
violentatore, raccontandogli che lo ha seguito e l’ha visto sorridente e felice:
un figlio di papà che casca sempre in piedi. Salvo e gli altri, allora, decidono
di fare un «regalo» al loro caposquadra: al rientro dalla serata, lo svegliano e
lo invitano a seguirli in un capanno isolato. Lì si trova il ragazzo: lo hanno
rapito, legato e bendato. Nobili può scegliere se dare sfogo o no alla sua
vendetta. Lo fa, lasciandosi contagiare dal resto della squadra. Poco dopo,
ubriaco, lo ammette con Mazinga mentre stanno rientrando a casa dopo la cena di
Natale in caserma:
> «Tu avevi il comando. Sei tu che hai dato l’ordine perché c’era… c’era l’amico
> che stava a terra. Questa si chiama vendetta Mazì».
> «Bravo, così si chiama».
> «Non è fratellanza, questa. Questa… Questa è la fine di tutto. Ma tanto ormai
> mi avete contagiato, sono diventato come voi».
La de-politicizzazione
Rappresentare l’odio come una patologia che infetta la società intera e si
trasmette anche a chi deve tutelarla deresponsabilizza le azioni della polizia e
de-politicizza le ragioni del conflitto. In altre parole, sposta il discorso dal
piano politico a quello morale. Si tratta di uno schema consolidato, che segna
tanto il romanzo quanto il film ma che viene riproposto ora in una forma
aggiornata. Il libro di Bonini, infatti, esce in uno scenario italiano e
internazionale diverso da quello attuale. Nel 2009, la crisi economica era
appena esplosa e doveva ancora investire l’Italia. Una delle questioni al centro
dell’agenda politica nel momento in cui il racconto è ambientato era l’entrata
della Romania nell’Ue, che aveva scatenato un’ondata di panico morale a cui il
governo Prodi, nella breve legislatura 2006-2008, aveva risposto con un decreto
sicurezza firmato dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato. Le «cacce al
rumeno» erano la regola in quel periodo. A Roma, in particolare, la campagna
elettorale per le elezioni comunali, che vedeva contrapporsi Francesco Rutelli e
Gianni Alemanno, era stata condizionata in maniera decisiva dallo stupro e
dall’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di una persona rumena che viveva in
un insediamento informale. Il successo della destra nel 2008 non è avvenuto
soltanto nella capitale: la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha vinto le
elezioni politiche dopo una campagna elettorale in cui l’idea di sicurezza ha
giocato un ruolo di primo piano.
Il romanzo e il film mettono al centro della scena il presunto «degrado» dovuto
alla presenza massiccia della popolazione rumena, trattandolo con toni tra
l’allarmistico e il moralistico. Inoltre, evocano il G8 in modo esplicito: buona
parte della squadra protagonista, infatti, ha partecipato alle giornate di
Genova. L’eredità di quanto accaduto durante il vertice del 2001 è talmente
pesante che il film si chiude con una sorta di momento di nemesi. La notte della
morte di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un agente della polizia
stradale in un Autogrill nel 2007, la squadra protagonista del racconto si trova
isolata vicino allo stadio, in Piazzale Maresciallo Diaz – a cui è intitolata la
scuola genovese della «macelleria messicana» –, e sente sullo sfondo le urla dei
tifosi inferociti in cerca di vendetta.
Nella serie, invece, l’eredità del G8 è ormai lontana, se non del tutto assente.
Anagraficamente, soltanto alcuni dei personaggi possono aver partecipato agli
eventi di Genova. Tra questi Mazinga, unica presenza a garantire continuità con
il film. Le giornate del luglio 2001, peraltro, non sono mai richiamate in modo
esplicito. Lo scenario politico, più in generale, è cambiato. Il testa a testa
tra centro-destra e centro-sinistra che aveva segnato la seconda metà degli anni
Novanta del XX secolo e i primi anni Duemila si è risolto, di fatto, in uno
spostamento a destra dell’intero asse parlamentare. Il fascismo nella polizia
non è un più un tema oggetto di attenzione specifica. Il che non sorprende, dato
che il mondo al cui interno operano i celerini protagonisti della serie sembra
essere completamente spoliticizzato: un approccio morale e non politico al
conflitto sociale è ormai normalizzato. Inoltre, le questioni al centro
dell’agenda politica sono in parte diverse: la questione ambientale, quella
abitativa e lo sciovinismo del welfare sono sempre più in primo piano, ma come
dati di fatto, non come un aspetto della società su cui è possibile incidere.
Infine, l’ingresso delle donne nei Reparti mobili è testimoniato dalla figura,
centrale, di Marta.
Legittimare la violenza delle forze dell’ordine
In uno scenario del genere, i protagonisti di Acab riproducono una struttura
tipica del romanzo moderno: sono eroi problematici in un mondo corrotto e
degradato che cercano, in maniera confusa e disperata, un riscatto laddove un
cambiamento radicale è impossibile e, forse, neanche voluto. Se è vero che ogni
opera di finzione letteraria esprime in modo più o meno diretto un inconscio
politico, la serie estremizza una visione della società che, dietro un presunto
realismo, nasconde una difesa dell’ordine o, meglio, dei soggetti chiamati a
tutelarlo. Con tutti i loro difetti e i loro tormenti interiori, i protagonisti
di Acab incarnano, anche attraverso un senso di appartenenza al gruppo
ripetutamente ostentato nelle varie puntate, valori positivi in un contesto
politico e sociale irrimediabilmente corrotto, che non può essere cambiato.
E infatti, nonostante le parole che Salvo rivolge a Nobili durante la cena di
Natale – «com’è quel fatto, Michè? Quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È
una stronzata, quando tocchi il fondo, là rimani» – i diversi personaggi trovano
un riscatto morale. Il punto, però, è come lo trovano, dato che la loro
redenzione è segnata da azioni all’insegna del machismo e della maniera forte.
Al riguardo, il tema del genere, inserito esplicitamente nella serie e trattato
da una prospettiva che sembra quasi volutamente antifemminista, è rivelatore di
tutte le ambiguità di Acab e, più in generale, di quanto la presenza femminile
nelle opere poliziesche sia ammessa se e in quanto le protagoniste si comportano
come, se non peggio, dei loro colleghi maschi. Marta risolve i problemi con il
suo ex quando si accorge che questi picchia anche l’attuale compagna. Decide
allora di aspettare la donna fuori dal supermercato in cui lavora e, dopo averla
fatta salire in macchina con una scusa, la forza in maniera molto dura a
raccontare i dettagli delle percosse subite. Sua figlia, seduta sul sedile
posteriore, è costretta ad ascoltare: è lei il vero oggetto della «lezione».
Nobili, dal canto suo, riceve una telefonata mentre sta per prendere servizio la
notte di capodanno. Sua figlia gli fa promettere che il suo violentatore pagherà
per quello che ha fatto. Il celerino le risponde che sì, lo farà. La sua
risposta arriva dopo che il rapimento e il pestaggio sono già avvenuti.
Le modalità con cui i protagonisti della serie agiscono, cercando di dare
sostanza ai valori che li orientano, esprimono dunque un orizzonte di senso
piuttosto problematico. La violenza, psicologica e fisica, sembra essere l’unico
strumento da opporre a un mondo degradato e corrotto. Certo, il copione prevede
alcune eccezioni. Eppure, il quadro non cambia nella sua sostanza. La violenza e
le maniere forti sono giustificate perché il mondo in cui i protagonisti della
serie vivono è profondamente malato. E perché tutto è contro la polizia.
L’irrealismo di molte delle situazioni descritte, al riguardo, è funzionale ad
alimentare angoscia e paura del caos e, quindi, a legittimare le forze
dell’ordine. A cominciare dall’isolamento dei celerini: la scena finale in cui,
dopo che si è sparsa la notizia della morte del ragazzo entrato in coma dopo la
rappresaglia a freddo della polizia successiva agli scontri con i No Tav, una
sorta di influencer incappucciato diffonde un video, presto virale, in cui
incita a pareggiare i conti, sembra uscita da un film di zombie: la squadra, più
isolata che mai, è aggredita da due lati da folle inferocite e rigorosamente
vestite di nero. Passando per la testimonianza di Nobili che, anni prima, ha
denunciato due colleghi per avere picchiato una persona in stato di fermo. Per
finire con l’ostilità della magistratura: chi ha un minimo di conoscenza della
procura di Torino e del suo comportamento rispetto alla questione Tav/Tac si può
rendere conto benissimo di quanto i personaggi descritti nella serie e i loro
modi di fare siano lontani dalla realtà.
A testimonianza di un approccio patologizzante al conflitto sociale, le parole
di Carlo Bonini sono significative. I celerini sono rappresentati
> come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. […] Sono la
> faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino
> nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato
> offre di sé. […] I nostri poliziotti, le cosiddette «forze dell’ordine», sono
> pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta
> faticosamente di espungere da sé […] Sono i prescelti a fronteggiare la
> minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio
> della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge
> l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra
> legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a
> farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un
> confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non
> è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di
> azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il
> proteggersi l’uno con l’altro, senza lasciare che [i] sentimenti oscuri che
> provano prendano il sopravvento. I poliziotti si trovano, così, prigionieri di
> esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine
> sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla
> prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco
> rapporto. […] Il vero problema per i palombari è tornare a casa.
Del resto, l’idea che una generica «rabbia», impolitica e effetto di una
frustrazione generalizzata, sia la cifra esplicativa degli ultimi vent’anni
della società «occidentale» è ormai proposta anche da importanti esponenti
dell’accademia internazionale.
La rappresentazione dei celerini come argine al caos è evidente in un passaggio
della seconda puntata. Pietro, dimesso dall’ospedale e costretto su una sedia a
rotelle, si rivolge così alla sua squadra durante una cena: «noi lo sapemo che
ce so du polizie, la polizia di Stato e la polizia di governo. Ma noi chi semo?
La polizia di Stato!». Acab la serie, dunque, gioca in modo ancora più
esplicito, rispetto al romanzo e al film, con le categorie della cultura e del
sapere di polizia. Nel dibattito scientifico, infatti, è richiamata di frequente
la contrapposizione tra una polizia dei cittadini, democratica, e una polizia
del sovrano, autoritaria. Con la sua uscita perentoria e sanguigna, Pietro va
oltre questa distinzione. I celerini marcano la loro distanza dalla politica ma,
allo stesso tempo, non si sentono cittadini come altri. Rivendicano piuttosto il
loro essere il baluardo di uno Stato etico, non di un ordinamento giuridico
neutrale. Due polizie, pertanto, di cui una sola autentica: quella a guardia di
un ordine morale che deve essere tutelato, a ogni costo.
*Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Torino, si occupa di
trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di
polizia.
> Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab”
> A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
(archivio disegni napolimonitor)
S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta
(DeriveApprodi, 2024) è un libro di Sergio Gambino e Luca Perrone e racconta la
storia di S-Contro, collettivo redazionale e militante torinese legato
all’omonima rivista “aperiodica con intenti bellicosamente classisti” apparsa
fra il 1984 e il 1987.
S-Contro nasce nei primi anni Ottanta per iniziativa di un ristretto gruppo di
giovani proletari delle periferie torinesi di Lucento, Vallette e Parella,
attivi politicamente all’interno del Collettivo studentesco autonomo e del
Comitato disoccupati, emanazioni del gruppo marxista-leninista torinese
“Proletari”. Il gruppo si distingue presto dalla matrice ortodossa per una
spiccata vocazione antidogmatica e un’apertura al dialogo con le altre
componenti politiche della sinistra extraparlamentare. Nel 1983, assieme ad
altri compagni torinesi provenienti da diverse esperienze, fondano un Centro di
Documentazione, e poco dopo, con i disoccupati dei Banchi Nuovi di Napoli e i
Nuclei leninisti milanesi, danno vita a un gruppo nazionale: l’Organizzazione
comunista internazionalista (Oci). Centro di documentazione e Oci condividono la
medesima sede in via Po 12, dove ogni sabato ci si ritrova per discutere e
confrontarsi. È qui che, nel 1984, vede la luce il primo numero della rivista
S-Contro.
Il libro di Gambino e Perrone dedica uno spazio all’analisi dei cinque numeri di
S-Contro comparsi fra il 1984 e il 1987, mettendo anche a disposizione un link
per poter consultare l’intera collezione digitalizzata. Rivista di taglio
giovanile, sia nelle tematiche, sia nel linguaggio, S-Contro mescola ai temi
politici fondamentali (la disoccupazione, l’antimilitarismo, la scuola) il gusto
per l’arte e la controcultura, con un’attenzione particolare per il teatro
(Brecht, Majakovskij) e le nuove tendenze musicali (punk e new wave). Colpisce,
fin dal primo sguardo, l’aspetto grafico della rivista: dinamica, ricca di
immagini e di collage neodadaisti. L’intento è quello di “raggiungere una
grafica che si faccia anch’essa portatrice di determinati messaggi e non mero
appoggio formale agli articoli”.
Se da un lato S-Contro si richiama all’esperienza bolognese di A/traverso, la
rivista rappresentativa della cosiddetta “ala creativa” del movimento del ‘77,
dall’altro abbraccia un’estetica più punk. Il nome stesso della rivista porta in
sé questa doppia ispirazione: il trattino (orizzontale, anziché obliquo) è una
strizzata d’occhio ad A/traverso; il nome della rivista, invece, è la traduzione
di quello del leggendario gruppo punk The Clash.
La storia del collettivo S-Contro non si esaurisce, tuttavia, alla sola attività
redazionale. Fin dal primo numero la redazione si presenta come “aperta a
chiunque voglia intervenire / confrontarsi / s-contrarsi per costruire delle
iniziative (che non si riducono al solo giornale) di aggregazione giovanile sul
filo di un discorso politico e culturale”. Obiettivo esplicito della rivista,
insomma, “non è creare opinione pubblica”, bensì “fare politica, creare lotte,
creare organizzazione”.
Ripercorrendo con l’aiuto degli autori le diverse fasi del collettivo vediamo
S-Contro trasformarsi da semplice gruppo controculturale giovanile a vero gruppo
organizzato di redattori-militanti, impegnati direttamente nei principali
movimenti politici di quel periodo, dal movimento studentesco del 1985 a quello
antinucleare che sarà poi protagonista degli eventi del 10 ottobre 1986 a Trino
Vercellese. In seguito, intorno al 1988, S-Contro abbandona la rivista, si apre
a interventi politici nel settore del lavoro, e in particolare davanti ai
cancelli di Mirafiori, prendendo parte al progetto nazionale di “Politica e
Classe”. Infine, con la caduta dell’Unione Sovietica e l’aprirsi di una nuova
fase storica, il collettivo si dissolve naturalmente. Per alcuni anni ancora
resteranno visibili, sui muri della città, le scritte “S-Contro” accompagnate
dal simbolo del martello e del regolo incrociati.
Il percorso del collettivo è ricostruito dagli autori del libro attraverso gli
strumenti propri della storia culturale e della storia orale. Se la firma è di
Gambino e Perrone, i curatori del volume, la voce che da esso emerge è
collettiva. Il libro si apre con due capitoli di analisi dell’esperienza di
S-Contro e di suo inquadramento storico-sociale, nella conrnice della militanza
politica nella Torino post-fordista (uno a firma dello stesso Perrone, l’altro
di Salvatore Cominu). Segue un doppio intermezzo musicale: un excursus sulla
scena musicale torinese degli anni Ottanta (a cura del critico musicale Alberto
Campo), seguita da un’intervista a due suoi esponenti (Oliver e Bruno dei CCC
CNC NCN). Infine, la seconda metà del volume riporta una lunga intervista
collettiva agli ex-militanti di S-Contro, dove la storia del collettivo viene
narrata di nuovo, ma stavolta “dall’interno” e “dal basso”, direttamente dai
suoi protagonisti e protagoniste.
Questa struttura del libro, al contempo corale e orale, appare riuscita. La
prima parte permette un inquadramento storico-culturale fondamentale per
apprezzare la seconda parte. Qui, il discorso procede disegnando una spirale,
con eventi e nomi che ritornano, ma ogni volta da uno specifico punto di vista,
narrati da una voce diversa. Ne risulta una ricostruzione che mantiene vive le
contraddizioni e le differenze di vedute (gli s-contri, per l’appunto), mentre
la complessità dell’esperienza storica diventa “esperienza unica” contro ogni
“immagine eterna del passato”, come raccomanda Walter Benjamin nelle sue Tesi di
filosofia della storia.
Osservando la Torino degli anni Ottanta attraverso la lente della “microstoria”
di S-Contro, il libro permette di esplorare un aspetto ancora trascurato e
sottovalutato nella narrazione di quella fase storica: quello della multiforme
galassia militante e controculturale, certamente minoritaria, che, nella Torino
delle sconfitte operaie, della fine della lotta armata e del riflusso, è
comunque rimasta in fermento, navigando controcorrente e provando, malgrado le
condizioni avverse, a organizzarsi collettivamente.
Dalla lettura emerge una composita cartografia di gruppi, luoghi di incontro e
riviste della militanza torinese di quel decennio, con le loro peculiarità,
affinità e controversie ideologiche. È un documento di grande interesse: sia per
chi ha vissuto quell’epoca in prima persona (e, tramite la lettura, può
riviverla e rielaborarla); sia per chi, anagraficamente più giovane, abbia
interesse a ricostruire e a comprendere la Torino di quella fase. Proprio in
questo secondo senso sembra orientata la nota introduttiva degli autori che
presenta il volume principalmente come un ponte verso le giovani generazioni: un
passaggio di testimone verso chi prova a remare ancora contro, affinare il senso
critico e organizzarsi collettivamente. (lucio serafino)
Un libro di stringente attualità. “Stato di fermo” di John Wainwrigth, Edizioni
Paginauno
di Edoardo Todaro da Carmilla
In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma
sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le
mobilitazioni, con punti di vista ed impostazioni diverse, messe in campo per
contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo
Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si
sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è
bene sottolineare il rendere esplicito l’intento di questo provvedimento
dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di
base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel
settore della logistica.
Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta
regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte
portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in
modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve
essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della
logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore
degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto:
deve essere bandito.
Non è mia intenzione addentrarmi su cosa è il ddl1660 e cosa, la sua eventuale e
prevedibile approvazione possa portare. In estremissima sintesi: da una parte
coloro che effettueranno un blocco stradale compiranno un reato; chi, detenuti
in particolare, ricorrerà ad azioni non violente, sarà punito ecc…; dall’altra
avremo privilegi ed immunità per le forze dell’ordine. Quindi ben venga questo
libro, da considerare un vero e proprio manuale di autodifesa, che era buon uso
pubblicare. Una stanza, senza “ carattere “, di supporto allo scopo per cui
esiste che deve produrre un effetto claustrofobico, è il luogo dove si svolge il
tutto e due uomini: uno il sospettato, criminale e noto stupratore, in attesa di
interrogatorio; l’altro l’inquisitore, una relazione basata sulla dominazione e
l’accettazione di essa, accusato ed accusatore uno di fronte all’altro, la
sconfitta e la vittoria. Un sospettato, che necessita di un ristabilimento
della quiete mentale per salvaguardare la propria dignità che è messa in
discussione, e che ha nel proprio curriculum la violenza e l’uccisione di tre
ragazze.
Un colpevole perfetto per risolvere in tempi brevi un indagine che non vede
alcun senso nel protrarsi. Il colpevole perfetto che diviene il capro
espiatorio. Un’indagine che è costellata di grossi sospetti ma di nessuna prova,
di quelle necessarie per “convincere” una, prossima, giuria ad un verdetto di
condanna, e previste dalla legge, quella legge con i suoi limiti, debolezze ed
incoerenze. Ma essendo all’interno di trame, per così dire, giudiziarie, non
può mancare il cosiddetto ragionevole dubbio che invece può portare
all’assoluzione e le domande su cos’è la legge, sui suoi limiti.
Queste pagine si dipanano nei meandri, nelle modalità dell’interrogatorio, nelle
linee di questo con l’uso accorto del livello psicologico per far capitolare,
perché, lo si voglia o meno, anche l’interrogare è un’arte: “ dare un colpevole
e parlerà “. Interrogare con l’abilità del saper parlare ma anche del saper
ascoltare. Interrogatorio che ha insito il trucco di far ammettere al sospettato
la possibilità della propria colpevolezza e cioè l’ottenere un’ammissione, nel
quale è necessario essere distaccato dalla sofferenza del sospettato senza
lasciarsi coinvolgere; ingarbugliare un concetto, prendere un concetto logico e
farlo divenire il suo contrario; non urlare e non dare in escandescenza, provare
la colpevolezza del sospettato con le sue stesse parole, ripetere la stessa
domanda 10000 volte ma in 1000 modi diversi, dare al sospettato il senso di
sicurezza. Compare un secondo investigatore, questo senza pietà né alcun rimorso
ma solo disprezzo e fanatismo e le pressioni fisiche per ottenere la confessione
voluta. Quanto descritto è dovuto ad un semplice fatto: Wainwright è stato per
20 anni agente di polizia, diciamo che possiamo considerarlo un conoscitore dei
fatti descritti. Ma l’utilità del leggere “ Stato di fermo “ risiede in
particolare nel fatto che la crisi organica, economica e politica, accentua
sofferenze e difficoltà nel corpo sociale e produce forme, diverse tra loro, di
resistenza. Proprio queste forme di resistenza sono quelle che il governo si
pone di bloccare con il ddl 1660. Aspetto utile e soprattutto necessario,
risiede nella solidarietà e nella capacità di resistenza di fronte
all’accentuarsi degli interventi repressivi nei confronti di coloro che sono, e
che saranno colpiti, e nel diffonderla.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp