Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le
reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono
diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile
ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la
contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
di Haidi Gaggio Giuliani da Centro Studi Sereno Regis
Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al
mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle,
soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati
statali, direttamente o indirettamente responsabili.
Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e
“Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli,
Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della
stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque
assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti
compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario
Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.
La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si
processa.
Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore
insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.
Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi
assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato
alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George
Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma
la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i
suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.
Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua
lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a
Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata
processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo
fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e
Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla
vita di tutte e tutti i giovani del mondo…
Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia
Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente
delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da
molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di
essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si
uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.
Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme
di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme
torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo,
per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di
dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche
se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel
libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”
(Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non
essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di
dirlo a voce alta.
Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che
differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche
allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a
Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam
dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di
Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.
Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse
della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai
regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura
ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli
penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci.
L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente
da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la
fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.
Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di
quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato
raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho
imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano
sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua
individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere.
Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della
decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può
avvelenare l’anima.
È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a
Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti
a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo
deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente,
ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una
poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per
noi”?!
In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua
umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando
le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza,
e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava
la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo,
delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché
spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché
contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e
volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il
suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti
per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).
Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” –
prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in
un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese
(affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le
manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una
legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta,
agli industriali.
Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto
elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino
alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava,
ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si
devono vergognare ma chi li persegue!
Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole,
suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti
ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di
devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene
comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le
carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici
interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della
cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la
propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.
Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le
persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che,
prima o poi, li spazzerà via.
“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di
repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza
per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso
alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it –
https://www.facebook.com/mammeinpiazza
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Tag - recensioni
Ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in Europa, a
una criminalizzazione del dissenso politico
di Marco Sommariva*
La curatrice del libro Carcere ai ribell3, Nicoletta Salvi Ouazzene, è
un’attivista del Comitato “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, nato nel
2016.
Il Comitato nasce per iniziativa delle mamme di alcuni dei ventotto giovani
attivisti e attiviste torinesi, sottoposti a misure cautelari in seguito alle
denunce per fatti legati alla lotta NoTav della vicina Valsusa, e alle lotte
studentesche e sociali praticate in città: opposizioni agli sfratti e
occupazioni di stabili per svolgere attività del protagonismo giovanile o per
l’accoglienza di famiglie senza casa.
Attraverso le vicende di figli e figlie è nata la presa di coscienza politica di
queste madri – alcune già attiviste, altre invece che non s’erano mai
interessate di politica – tutte consapevoli di vivere in una società sempre più
sbilanciata, in cui il dissenso e la protesta vengono fortemente repressi nel
tentativo di far tacere qualsiasi voce contraria, mentre nel paese continuano a
perpetrarsi forme di ingiustizia e discriminazione.
Il libro – edito recentemente da Multimage APS, un’associazione editoriale senza
fini di lucro – racconta come questo collettivo ha condiviso e vissuto, per
anni, le storie di attivisti e attiviste finiti in carcere a causa del loro
impegno per un mondo più giusto.
Sono molti gli aspetti interessanti messi in risalto da queste pagine, su cui
sarebbe meglio soffermarsi a ragionare
Purtroppo, ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in
Europa, a una criminalizzazione del dissenso politico, a un deciso giro di vite
che sta colpendo, per esempio, il movimento di solidarietà per la Palestina o le
proteste per la giustizia climatica o contro le grandi opere.
Non a caso, uno degli aspetti cruciali che emergono come elemento comune dal
rapporto che Amnesty International ha lanciato nel luglio del 2024, sullo stato
di salute del diritto di protesta in ventuno paesi europei, è l’attacco senza
precedenti al diritto di manifestare pacificamente in Europa dove, con sempre
maggior frequenza, le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un
uso eccessivo e non necessario della forza.
Ma il problema è più esteso: l’uso della forza s’accompagna a una tendenza
generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le violazioni delle forze
dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la mancanza di meccanismi di
inchiesta indipendenti.
Uno dei tanti rischi che stiamo correndo è che questo insieme di misure e
strumenti repressivi stanno creando un progressivo “effetto intimidatorio” che
frena la partecipazione alle proteste.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca di
Amnesty International, lo stato di salute del diritto di protesta e al dissenso
versa in condizioni estremamente precarie.
Tra gli aspetti più preoccupanti di questa tendenza autoritaria, riscontriamo il
grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di applicazione delle
misure amministrative di prevenzione – in particolare “DASPO urbano” e “foglio
di via” – ai danni di attiviste e attivisti pacifici e sindacalisti, ma non solo
di questi.
La gravità di queste misure cautelari si fonda sul fatto che vengano emesse
sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di “pericolosità
sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia non fondate su un
esame individuale delle circostanze specifiche né su procedimenti penali né su
condanne di alcun tipo.
Come racconta l’avvocato Novaro, uno dei legali della difesa delle vicende
riportate su queste pagine, in tutti gli episodi esaminati in questo libro la
decisione finale, sia che si tratti di provvedimenti emessi dal tribunale di
sorveglianza in sede esecutiva sia che si tratti di ordinanze cautelari, muove
al di là dei diversi criteri disposti dal legislatore che sovrintendono alle
differenti valutazioni, perché si è partiti dal presupposto che si stava
trattando di soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica.
Per questo è stato possibile che si arrivasse alla carcerazione pur in presenza
di fatti e condanne di lieve entità.
In pratica, si è dovuto fare i conti, e ancora lo si deve fare, con una delle
principali risposte giudiziarie a fronte di fatti non gravi connessi alla
protesta sociale: la pena detentiva.
Fra le tante cose, Carcere ai ribell3 ci racconta anche qual è il sapere che
porta la polizia alle segnalazioni prima citate. È il frutto di anni di
pervasivo monitoraggio delle aree politiche più radicali e impegnate nella
protesta, un prodotto che diviene la fonte centrale, molto spesso l’unica, a cui
la magistratura guarda per calibrare le proprie decisioni: capita sempre più di
frequente che l’architrave della costruzione accusatoria sia costituito proprio
da schede compilate e annotazioni trascritte dalla polizia.
Si può immaginare quale sia l’approccio a questo genere di segnalazioni,
funzionale alle esigenze di repressione; per cui, si sprecherà l’amplificazione
a dismisura dei fatti e dell’importanza del ruolo ricoperto dai diversi
protagonisti che dovranno risultare come nemici dell’ordine costituito e
socialmente pericolosi.
Per l’ordine costituito è un lavoro importantissimo: non si tratta solo di
un’allergia alla protesta sociale, di una volontà di silenziarla e
neutralizzarla, ma di una vera e propria messa in campo di strategie di tipo
preventivo, dissuasivo che alimentino la disaffezione alle forme di lotta
collettive.
Quanto leggiamo su questo libro è, appunto, che la protesta sociale non è una
risorsa ma un pericolo per l’ordine costituito, e coloro che se ne fanno
portatori sono dei soggetti ostili, riprovevoli, da sanzionare.
I diversi provvedimenti giudiziari attuati costituiscono un tassello importante
per quel processo di costruzione sociale del nemico di cui il potere ha sempre
bisogno, fungono da rassicurazione collettiva.
Questo libro dà la parola ai protagonisti dei provvedimenti repressivi,
attraverso la raccolta di loro testimonianze capaci d’iniziare a destrutturare
la narrazione distorta ormai imperante perché, come in altri paesi europei, pure
in Italia la criminalizzazione dell’attivismo pacifico passa anche attraverso
una narrazione mediatica tossica, poi strumentalizzata per approvare leggi che
restringono in maniera progressiva il diritto di protesta.
Spesso, a essere attaccata direttamente è la disobbedienza civile, sempre più
modalità d’azione di gruppi per la giustizia ambientale.
Chiudo con due estratti dal libro Elogio della disobbedienza civile di Goffredo
Fofi, edito da Nottetempo nel 2015.
Questo il primo: “Un’ingiustizia subita o vista subire da altri è una forma di
violenza che, dice Thoreau e insiste Gandhi, non va accettata e a cui è doveroso
ribellarsi. La differenza tra Thoreau e Gandhi comincia con il discorso sui
mezzi. Thoreau non esclude affatto […] il ricorso ai mezzi violenti; Gandhi […]
si è limitato a dire che soltanto in casi davvero estremi, il ricorso alla
violenza può essere giustificato (ma entrambi hanno anche affermato che peggio
del violento è l’ignavo, il vigliacco)”.
E questo il secondo: “Quel tanto di disobbedienza civile che ancora oggi si
pratica, nonostante tutto, nel nostro paese, è visto con fastidio dall’ex
sinistra, e lo spettro dei pochi facinorosi […] serve per vituperare e reprimere
i giusti, coloro che hanno osato e ancora osano dire no a leggi inique, a
imposizioni autoritarie. Fino al paradosso di aver visto, come nel caso dei
no-Tav della Val di Susa, schierati da un lato tutti i sindaci della zona, “in
borghese” e con tanto di fascia tricolore e ovviamente disarmati, e dall’altro
poliziotti e celerini senza volto e dalle figure deformate da scudi e visiere,
armati di fucili e manganelli e grappoli di bombe lacrimogene. Dov’era lo Stato,
in quel caso? Chi era lo Stato?”
Un’ultima cosa: i proventi del libro andranno alla cassa di solidarietà delle
“Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, per sostenere le attività a favore
delle persone private della libertà, tipo l’acquisto di libri, riviste,
abbonamenti a quotidiani, ventilatori, sostegno a detenuti/e indigenti,
eccetera.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Recensione del film di Coralie Fargeat The Substance
di Roberta Cospito da Carmilla
Di The Substance, film di Coralie Fargeat – regista francese apprezzata in
passato per il suo Revenge (2017), in cui raccontava la vendetta di una donna
stuprata –, se ne sta parlando molto e con commenti piuttosto divergenti.
In effetti, è un film piuttosto particolare per cui questa varietà di opinioni
non mi stupisce affatto; sinceramente, anch’io non ho capito bene in quale
percentuale mi sia piaciuto, ma sta di fatto che il film è senza dubbio
interessante.
Approdato nella sale italiane tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, il film
ruota attorno all’assunzione di una “sostanza” reperita sul mercato nero da
parte dell’attrice cinquantenne Elisabeth Sparkle (fisico e volto sono di Demi
Moore), ormai in declino e relegata a fare lezioni di aerobica per la
televisione, nonostante in passato sia stata premiata anche con un Oscar.
L’imperativo dello show business è però impietoso e, così, lo spiacevole
produttore del programma – Harvey, stesso nome di battesimo di Weinstein, il
tristemente noto produttore cinematografico statunitense –, con le fattezze
dell’attore statunitense Dennis Quaid, decide che ormai Elisabeth ha fatto il
suo tempo ed è ora che lasci il campo a una sostituta più avvenente.
L’essere licenziata proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno perché
non ha più lo splendore della gioventù – curiosamente il suo cognome, Sparkle,
in inglese significa scintillare –, fa precipitare la diva nella depressione più
totale per cui, di fronte alla possibilità di ritornare ai fasti del passato,
cede rapidamente alla tentazione d’inocularsi una sostanza che le darà la
possibilità di creare – in pratica, partorire non dal grembo ma dalla schiena –
una versione migliore di se stessa, dove per migliore in questo caso s’intende
più giovane e bella.
Le regole del procedimento sono poche, semplici e ben spiegate: il siero è
inoculabile una sola volta e le due donne, la “diva matrice” e la “diva altra
sé”, dovranno alternarsi ogni sette giorni, l’una andando in una specie di
letargo mentre l’altra resterà libera di agire: Elisabeth potrà così rivivere
per interposta persona un’altra giovinezza con tutti i suoi benefici, percependo
nello stato “vegetativo” tutto quello che l’altra – interpretata da Margaret
Qualley, battezzata Sue – vivrà direttamente.
L’esperimento pare funzionare. Sue riesce a essere la protagonista dello
spettacolo che prima era condotto da Elisabeth riscuotendo un successo
strepitoso ed entrando rapidamente in un vortice di impegni, conoscenze,
opportunità, ormai precluse all’altra che si ritroverà, invece, ad affrontare
settimane di solitudine e inattività a cui non era abituata.
Ben presto, a Sue il tempo a sua disposizione non basta più e – contravvenendo
alla regola dell’alternanza e dimenticando l’imperativo che le viene fornito
insieme al kit di (ri)generazione di tenere ben presente il fatto che l’identità
è una sola, seppur in qualche modo sdoppiata – decide di non lasciare più
possibilità di vita all’altra innescando, così, un meccanismo di devastazione
del corpo (matrice) di Elisabeth da cui pare impossibile ritornare indietro.
Ogni momento rubato alla vita dell’altra crea a questa un terribile
invecchiamento del corpo, un po’ come succede ne Il ritratto di Dorian Gray per
cui Dorian venderà la sua anima per garantirsi che sarà un’immagine dipinta e
non il proprio corpo a invecchiare.
L’aspetto più rilevante e apprezzabile del film è la denuncia che fa la regista:
è evidente la critica allo show business, al mondo degli affari che alimenta
quello dello spettacolo. per cui bisogna massimizzare i guadagni e buttare via
ciò che viene considerato obsoleto, persone incluse; un mondo in cui bisogna
vincere a ogni costo e pazienza se si lasciano dei feriti sul campo.
L’altra forte critica è nei confronti di una società in cui la mercificazione
del corpo delle donne è all’ordine del giorno, decisa a farci credere che
l’esteriorità, la bellezza, sia l’unico obiettivo che valga la pena perseguire
nella vita.
La regista, con decise inquadrature sul corpo giovane e sodo di Sue, stringendo
l’occhio della telecamera su glutei, cosce, seni e labbra, restituisce alla
perfezione lo sguardo che alcuni uomini posano senza il minimo rispetto sui
corpi femminili ignorando (o facendo finta di ignorare) quanto sia offensivo e
doloroso per chi li riceve. Ma assieme si sviluppa una critica anche nei
confronti di chi non riesce ad accettare i segni che il passare del tempo lascia
inevitabilmente sul nostro corpo, segni che dovremmo imparare, se non proprio ad
apprezzare, almeno ad accettare con serenità, lasciando che la natura segua il
suo corso.
A un certo punto del film Elisabeth incontra un suo vecchio compagno di scuola
che, incantato dal suo aspetto – stiamo parlando di Demi Moore, una bellezza
decisamente fuori del comune –, riesce a vincere la timidezza lasciandole il suo
numero di cellulare; in un primo momento, lei lo liquida velocemente, ma quando
i morsi della solitudine iniziano a farla sanguinare decide di telefonargli e
accettare un suo invito a cena. La sera stabilita si prepara con cura e, con il
suo attillato vestito rosso, si appresta a uscire, ma il suo sguardo si posa
sull’immagine di Sue ritratta in un enorme poster visibile dalla finestra del
suo appartamento e, a quel punto, corre in bagno ad aggiustarsi il trucco, i
capelli, una, due, tre volte, finché alla fine rinuncerà a uscire non
considerandosi nemmeno abbastanza bella da poter farsi vedere dal suo ex
compagno di scuola, un uomo che definirlo ordinario è un complimento, o da
eventuali avventori del ristorante dove i due si sarebbero incontrati.
Chi come me in quel momento faceva il tifo per lei, una donna che finalmente
avrebbe potuto ricevere i complimenti cui era stata abituata e di cui aveva un
bisogno disperato per ricominciare a sentirsi viva, resta delusa dalla sua
scelta di non uscire ma, d’altra parte, quando una persona è abituata a essere
osannata, idolatrata, ammirata quotidianamente la vita “normale” è dura da
gestire, l’equilibrio con se stessi difficile da raggiungere.
La maturità, il vissuto da cui Elisabeth dovrebbe o potrebbe ricevere forza, non
riesce a evitarle l’arenarsi in poltrona davanti alla televisione; fa riflettere
il fatto che, nonostante i tanti soldi guadagnati in una vita da prima donna, le
varie frequentazioni con altre celebrità, i riconoscimenti di vario tipo
(addirittura la stella sulla Hollywood Walk of Fame) non resti traccia né di
felicità né di rapporti umani su cui poter contare.
The Substance mi ha lasciata perplessa per qualche momento eccessivamente
didascalico come, per esempio, il sottolineare più volte e da subito l’unicità
delle due versioni femminili – peraltro, ponendo lo spettatore in uno stato di
allerta per cui si può immaginare che sarà proprio questo l’aspetto che creerà
problemi nella gestione della sostanza – e qualche esagerazione di troppo; per
esempio, molti hanno ritenuto eccessivo il finale in cui viene versato sangue a
ettolitri – scene, in effetti, molto splatter che però possono essere
giustificate dal voler farci riflettere sulla mostruosità della bellezza a ogni
costo – ma, personalmente, ho trovato più fastidioso il fatto che Sue riesca a
ricavare dal suo bagno una sorta di sgabuzzino non visibile all’esterno, con
l’abilità di una carpentiera d’esperienza quando, invece, si sta parlando di una
star della tv che nulla c’entra con fiamme ossidriche e martelli.
Durante la visione del finale, mentre le immagini del corpo in disfacimento di
Elisabeth riempivano il grande schermo, continuavo a pensare al saggio di Jude
Ellison Sady Doyle Il mostruoso femminile edito da Tlon, un’opera che indaga –
analizzando miti, letteratura e anche cinema horror – la primordiale paura che
il patriarcato nutre da sempre nei confronti delle donne: “La donna è sempre
stata un mostro. La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto
al meno conosciuto: sirene carnivore, Furie che con artigli affilati come rasoi
dilaniano uomini, leanan sídhe che incantano mortali per poi prosciugarne
l’anima. Queste figure – di una bellezza letale o di una bruttezza
intollerabile, subdole o traboccanti di furore animale – rappresentano tutto ciò
che gli uomini trovano minaccioso nelle donne: bellezza, intelligenza, rabbia e
ambizione. Nel mito cristiano, a essere donna è l’apocalisse. Nella Bibbia,
infatti, si profetizza che la fine dei tempi sarà dominata da una regina
lussuriosa con in mano un calice d’oro «colmo delle abominazioni e delle
impurità della sua prostituzione”.
Mi piace chiudere così, con la letteratura, a mio avviso sempre poco citata
quando si scrive di cinema, benché nelle numerose recensioni a The Substance
abbondino, anche giustamente, gli accostamenti con film quali The elephant man
di David Lynch, Shining di Kubrick, Crash di David Cronenberg, Titane di
Julia Ducournau, La morte ti fa bella di Robert Zemeckis, Alien di Ridley Scott,
Carrie. Lo sguardo di Satana di Brian De Palma e molti altri ancora.
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Nella serie Acab le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa finiscono per
essere considerate come l’unico argine a una generica «rabbia», impolitica ed
effetto di una frustrazione generalizzata
di Enrico Gargiulo da Jacobin
A quindici anni dalla pubblicazione di Acab. All cops are bastards, libro di
Carlo Bonini che racconta le vicende di alcuni membri del Reparto mobile di
Roma, e a tredici dal film che ne è stato tratto, diretto da Stefano Sollima, è
disponibile sulla piattaforma Netflix l’omonima serie tv. Un «prodotto» molto
pubblicizzato, lanciato sul mercato dell’intrattenimento come logica
continuazione del romanzo e della sua trasposizione cinematografica. La
produzione, infatti, è dello stesso Sollima e tra le cinque persone chiamate a
scrivere la sceneggiatura figura Bonini.
L’operazione sembra orientata a costruire un’egemonia non soltanto artistica ma
anche culturale. La serie, diretta da Michele Alhaique, aggiorna in senso
spazio-temporale il racconto delle vicende della celere romana, consolidando la
visione politica e morale già proposta in precedenza. Al di là di una facciata
cruda, cinica e iperrealistica, Acab condivide lo stesso carattere dell’opera di
carta e di quella cinematografica, offrendo una lettura della società
contemporanea che finisce per legittimare un certo tipo di ordine sociale.
La patologizzazione del conflitto sociale
La struttura delle serie, di tipo circolare, è significativa: le vicende della
squadra di celerini romana iniziano e finiscono in un tunnel: nel cantiere
dell’alta velocità durante le mobilitazioni No Tav in Val di Susa, nella prima
scena, e in prossimità della stazione Termini a Roma durante la notte di
Capodanno, nell’ultima. Ad accomunare l’alpha e l’omega di Acab è un senso di
oppressione e inquietudine, che fa da contesto e preludio all’inevitabile
aggressione subita dalla polizia: folle inferocite di «facinorosi» vestiti di
nero attaccano i protagonisti della serie, sfogando una rabbia incontrollabile.
Lo schema narrativo è ben noto a chi conosce il romanzo e il film. Il vero
protagonista del racconto è l’odio: un sentimento generalizzato e non meglio
definito che accompagna, o per meglio dire avvolge, l’intera vicenda, assumendo
la consistenza di una malattia capace di contagiare le diverse componenti della
società, inclusa la polizia. Le ragioni dell’odio, tuttavia, non sono
specificate. Le cause politiche ed economiche alla base dei conflitti e delle
violenze sono tenute al margine della narrazione: emergono a tratti, ma in
maniera frammentata e poco credibile. Del resto, non sono rilevanti
nell’economia del racconto: la macchina narrativa, per funzionare, non ha
bisogno di esplicitarle, dal momento che il conflitto sociale è patologizzato,
non analizzato in profondità. La società, in altre parole, è rappresentata come
intrinsecamente malata in senso morale. Di questo stato patologico bisogna
soltanto prendere atto, accettando ciò che ne consegue. Inclusa la celere, che è
parte integrante della «cura» contro il disordine.
La patologizzazione dell’odio e la rappresentazione della polizia come unico
argine al caos fanno perno innanzitutto sull’isolamento. I Reparti mobili si
trovano quasi sempre in radicale inferiorità numerica, in uno stato di totale
abbandono: sono l’ultimo – e l’unico – baluardo di uno Stato che, per il resto,
è del tutto assente. Meno nella prima scena ma in crescendo nelle successive, la
squadra al centro della serie è sola contro soggetti che la odiano. La
solitudine è percepita anche nei confronti degli altri apparati dello Stato, a
cominciare dai funzionari – esterni al Reparto mobile – che dirigono l’ordine
pubblico, per finire con i magistrati e con i politici.
L’isolamento non riguarda solo la vita professionale, ma anche quella privata.
Ricalcando un consumato cliché narrativo, i protagonisti di Acab, al pari di
quelli di molti romanzi noir, si sentono soli e incompresi dalle famiglie.
Sociopatie e traumi familiari sono la regola, non l’eccezione. Il caposquadra
Ivano Valenti, detto «Mazinga», ha un figlio che non gli rivolge la parola,
deluso dal comportamento del padre che, anni prima, ha abbandonato lui e la
madre, poi deceduta. Salvo, uno dei celerini, ha una relazione a distanza con
una donna inesistente: come si scopre, è vittima di una truffa online
finalizzata a ottenere regali e soldi. Marta, la poliziotta donna, ha una figlia
di tredici anni con un uomo che, prima della separazione, la picchiava, tanto da
arrivare ad accoltellarla, e che, ora, vorrebbe essere sempre più presente nella
vita della ragazza. Anche Michele Nobili, un poliziotto «democratico» appena
trasferitosi dal Reparto mobile di Senigallia, che dalla seconda puntata guida
la squadra romana protagonista del racconto, inizialmente appare come il
perfetto padre di famiglia, ma poi vede disfarsi il suo idillio familiare nel
momento in cui la figlia viene violentata: non riuscendo ad affrontare la
situazione, se ne va di casa.
Oltre all’isolamento lavorativo e familiare, un altro elemento centrale nello
schema narrativo è il contagio. La traiettoria di Nobili lo dimostra in maniera
cristallina. Nella prima serata passata in caserma dopo aver lasciato la
famiglia, il nuovo caposquadra incontra Salvo, il quale gli esprime il suo
dispiacere per quello che è successo a sua figlia e gli propone di uscire con il
resto della squadra. Nobili declina la proposta e gli fa vedere la foto del
violentatore, raccontandogli che lo ha seguito e l’ha visto sorridente e felice:
un figlio di papà che casca sempre in piedi. Salvo e gli altri, allora, decidono
di fare un «regalo» al loro caposquadra: al rientro dalla serata, lo svegliano e
lo invitano a seguirli in un capanno isolato. Lì si trova il ragazzo: lo hanno
rapito, legato e bendato. Nobili può scegliere se dare sfogo o no alla sua
vendetta. Lo fa, lasciandosi contagiare dal resto della squadra. Poco dopo,
ubriaco, lo ammette con Mazinga mentre stanno rientrando a casa dopo la cena di
Natale in caserma:
> «Tu avevi il comando. Sei tu che hai dato l’ordine perché c’era… c’era l’amico
> che stava a terra. Questa si chiama vendetta Mazì».
> «Bravo, così si chiama».
> «Non è fratellanza, questa. Questa… Questa è la fine di tutto. Ma tanto ormai
> mi avete contagiato, sono diventato come voi».
La de-politicizzazione
Rappresentare l’odio come una patologia che infetta la società intera e si
trasmette anche a chi deve tutelarla deresponsabilizza le azioni della polizia e
de-politicizza le ragioni del conflitto. In altre parole, sposta il discorso dal
piano politico a quello morale. Si tratta di uno schema consolidato, che segna
tanto il romanzo quanto il film ma che viene riproposto ora in una forma
aggiornata. Il libro di Bonini, infatti, esce in uno scenario italiano e
internazionale diverso da quello attuale. Nel 2009, la crisi economica era
appena esplosa e doveva ancora investire l’Italia. Una delle questioni al centro
dell’agenda politica nel momento in cui il racconto è ambientato era l’entrata
della Romania nell’Ue, che aveva scatenato un’ondata di panico morale a cui il
governo Prodi, nella breve legislatura 2006-2008, aveva risposto con un decreto
sicurezza firmato dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato. Le «cacce al
rumeno» erano la regola in quel periodo. A Roma, in particolare, la campagna
elettorale per le elezioni comunali, che vedeva contrapporsi Francesco Rutelli e
Gianni Alemanno, era stata condizionata in maniera decisiva dallo stupro e
dall’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di una persona rumena che viveva in
un insediamento informale. Il successo della destra nel 2008 non è avvenuto
soltanto nella capitale: la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha vinto le
elezioni politiche dopo una campagna elettorale in cui l’idea di sicurezza ha
giocato un ruolo di primo piano.
Il romanzo e il film mettono al centro della scena il presunto «degrado» dovuto
alla presenza massiccia della popolazione rumena, trattandolo con toni tra
l’allarmistico e il moralistico. Inoltre, evocano il G8 in modo esplicito: buona
parte della squadra protagonista, infatti, ha partecipato alle giornate di
Genova. L’eredità di quanto accaduto durante il vertice del 2001 è talmente
pesante che il film si chiude con una sorta di momento di nemesi. La notte della
morte di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un agente della polizia
stradale in un Autogrill nel 2007, la squadra protagonista del racconto si trova
isolata vicino allo stadio, in Piazzale Maresciallo Diaz – a cui è intitolata la
scuola genovese della «macelleria messicana» –, e sente sullo sfondo le urla dei
tifosi inferociti in cerca di vendetta.
Nella serie, invece, l’eredità del G8 è ormai lontana, se non del tutto assente.
Anagraficamente, soltanto alcuni dei personaggi possono aver partecipato agli
eventi di Genova. Tra questi Mazinga, unica presenza a garantire continuità con
il film. Le giornate del luglio 2001, peraltro, non sono mai richiamate in modo
esplicito. Lo scenario politico, più in generale, è cambiato. Il testa a testa
tra centro-destra e centro-sinistra che aveva segnato la seconda metà degli anni
Novanta del XX secolo e i primi anni Duemila si è risolto, di fatto, in uno
spostamento a destra dell’intero asse parlamentare. Il fascismo nella polizia
non è un più un tema oggetto di attenzione specifica. Il che non sorprende, dato
che il mondo al cui interno operano i celerini protagonisti della serie sembra
essere completamente spoliticizzato: un approccio morale e non politico al
conflitto sociale è ormai normalizzato. Inoltre, le questioni al centro
dell’agenda politica sono in parte diverse: la questione ambientale, quella
abitativa e lo sciovinismo del welfare sono sempre più in primo piano, ma come
dati di fatto, non come un aspetto della società su cui è possibile incidere.
Infine, l’ingresso delle donne nei Reparti mobili è testimoniato dalla figura,
centrale, di Marta.
Legittimare la violenza delle forze dell’ordine
In uno scenario del genere, i protagonisti di Acab riproducono una struttura
tipica del romanzo moderno: sono eroi problematici in un mondo corrotto e
degradato che cercano, in maniera confusa e disperata, un riscatto laddove un
cambiamento radicale è impossibile e, forse, neanche voluto. Se è vero che ogni
opera di finzione letteraria esprime in modo più o meno diretto un inconscio
politico, la serie estremizza una visione della società che, dietro un presunto
realismo, nasconde una difesa dell’ordine o, meglio, dei soggetti chiamati a
tutelarlo. Con tutti i loro difetti e i loro tormenti interiori, i protagonisti
di Acab incarnano, anche attraverso un senso di appartenenza al gruppo
ripetutamente ostentato nelle varie puntate, valori positivi in un contesto
politico e sociale irrimediabilmente corrotto, che non può essere cambiato.
E infatti, nonostante le parole che Salvo rivolge a Nobili durante la cena di
Natale – «com’è quel fatto, Michè? Quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È
una stronzata, quando tocchi il fondo, là rimani» – i diversi personaggi trovano
un riscatto morale. Il punto, però, è come lo trovano, dato che la loro
redenzione è segnata da azioni all’insegna del machismo e della maniera forte.
Al riguardo, il tema del genere, inserito esplicitamente nella serie e trattato
da una prospettiva che sembra quasi volutamente antifemminista, è rivelatore di
tutte le ambiguità di Acab e, più in generale, di quanto la presenza femminile
nelle opere poliziesche sia ammessa se e in quanto le protagoniste si comportano
come, se non peggio, dei loro colleghi maschi. Marta risolve i problemi con il
suo ex quando si accorge che questi picchia anche l’attuale compagna. Decide
allora di aspettare la donna fuori dal supermercato in cui lavora e, dopo averla
fatta salire in macchina con una scusa, la forza in maniera molto dura a
raccontare i dettagli delle percosse subite. Sua figlia, seduta sul sedile
posteriore, è costretta ad ascoltare: è lei il vero oggetto della «lezione».
Nobili, dal canto suo, riceve una telefonata mentre sta per prendere servizio la
notte di capodanno. Sua figlia gli fa promettere che il suo violentatore pagherà
per quello che ha fatto. Il celerino le risponde che sì, lo farà. La sua
risposta arriva dopo che il rapimento e il pestaggio sono già avvenuti.
Le modalità con cui i protagonisti della serie agiscono, cercando di dare
sostanza ai valori che li orientano, esprimono dunque un orizzonte di senso
piuttosto problematico. La violenza, psicologica e fisica, sembra essere l’unico
strumento da opporre a un mondo degradato e corrotto. Certo, il copione prevede
alcune eccezioni. Eppure, il quadro non cambia nella sua sostanza. La violenza e
le maniere forti sono giustificate perché il mondo in cui i protagonisti della
serie vivono è profondamente malato. E perché tutto è contro la polizia.
L’irrealismo di molte delle situazioni descritte, al riguardo, è funzionale ad
alimentare angoscia e paura del caos e, quindi, a legittimare le forze
dell’ordine. A cominciare dall’isolamento dei celerini: la scena finale in cui,
dopo che si è sparsa la notizia della morte del ragazzo entrato in coma dopo la
rappresaglia a freddo della polizia successiva agli scontri con i No Tav, una
sorta di influencer incappucciato diffonde un video, presto virale, in cui
incita a pareggiare i conti, sembra uscita da un film di zombie: la squadra, più
isolata che mai, è aggredita da due lati da folle inferocite e rigorosamente
vestite di nero. Passando per la testimonianza di Nobili che, anni prima, ha
denunciato due colleghi per avere picchiato una persona in stato di fermo. Per
finire con l’ostilità della magistratura: chi ha un minimo di conoscenza della
procura di Torino e del suo comportamento rispetto alla questione Tav/Tac si può
rendere conto benissimo di quanto i personaggi descritti nella serie e i loro
modi di fare siano lontani dalla realtà.
A testimonianza di un approccio patologizzante al conflitto sociale, le parole
di Carlo Bonini sono significative. I celerini sono rappresentati
> come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. […] Sono la
> faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino
> nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato
> offre di sé. […] I nostri poliziotti, le cosiddette «forze dell’ordine», sono
> pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta
> faticosamente di espungere da sé […] Sono i prescelti a fronteggiare la
> minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio
> della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge
> l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra
> legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a
> farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un
> confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non
> è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di
> azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il
> proteggersi l’uno con l’altro, senza lasciare che [i] sentimenti oscuri che
> provano prendano il sopravvento. I poliziotti si trovano, così, prigionieri di
> esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine
> sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla
> prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco
> rapporto. […] Il vero problema per i palombari è tornare a casa.
Del resto, l’idea che una generica «rabbia», impolitica e effetto di una
frustrazione generalizzata, sia la cifra esplicativa degli ultimi vent’anni
della società «occidentale» è ormai proposta anche da importanti esponenti
dell’accademia internazionale.
La rappresentazione dei celerini come argine al caos è evidente in un passaggio
della seconda puntata. Pietro, dimesso dall’ospedale e costretto su una sedia a
rotelle, si rivolge così alla sua squadra durante una cena: «noi lo sapemo che
ce so du polizie, la polizia di Stato e la polizia di governo. Ma noi chi semo?
La polizia di Stato!». Acab la serie, dunque, gioca in modo ancora più
esplicito, rispetto al romanzo e al film, con le categorie della cultura e del
sapere di polizia. Nel dibattito scientifico, infatti, è richiamata di frequente
la contrapposizione tra una polizia dei cittadini, democratica, e una polizia
del sovrano, autoritaria. Con la sua uscita perentoria e sanguigna, Pietro va
oltre questa distinzione. I celerini marcano la loro distanza dalla politica ma,
allo stesso tempo, non si sentono cittadini come altri. Rivendicano piuttosto il
loro essere il baluardo di uno Stato etico, non di un ordinamento giuridico
neutrale. Due polizie, pertanto, di cui una sola autentica: quella a guardia di
un ordine morale che deve essere tutelato, a ogni costo.
*Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Torino, si occupa di
trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di
polizia.
> Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab”
> A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo
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(archivio disegni napolimonitor)
S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta
(DeriveApprodi, 2024) è un libro di Sergio Gambino e Luca Perrone e racconta la
storia di S-Contro, collettivo redazionale e militante torinese legato
all’omonima rivista “aperiodica con intenti bellicosamente classisti” apparsa
fra il 1984 e il 1987.
S-Contro nasce nei primi anni Ottanta per iniziativa di un ristretto gruppo di
giovani proletari delle periferie torinesi di Lucento, Vallette e Parella,
attivi politicamente all’interno del Collettivo studentesco autonomo e del
Comitato disoccupati, emanazioni del gruppo marxista-leninista torinese
“Proletari”. Il gruppo si distingue presto dalla matrice ortodossa per una
spiccata vocazione antidogmatica e un’apertura al dialogo con le altre
componenti politiche della sinistra extraparlamentare. Nel 1983, assieme ad
altri compagni torinesi provenienti da diverse esperienze, fondano un Centro di
Documentazione, e poco dopo, con i disoccupati dei Banchi Nuovi di Napoli e i
Nuclei leninisti milanesi, danno vita a un gruppo nazionale: l’Organizzazione
comunista internazionalista (Oci). Centro di documentazione e Oci condividono la
medesima sede in via Po 12, dove ogni sabato ci si ritrova per discutere e
confrontarsi. È qui che, nel 1984, vede la luce il primo numero della rivista
S-Contro.
Il libro di Gambino e Perrone dedica uno spazio all’analisi dei cinque numeri di
S-Contro comparsi fra il 1984 e il 1987, mettendo anche a disposizione un link
per poter consultare l’intera collezione digitalizzata. Rivista di taglio
giovanile, sia nelle tematiche, sia nel linguaggio, S-Contro mescola ai temi
politici fondamentali (la disoccupazione, l’antimilitarismo, la scuola) il gusto
per l’arte e la controcultura, con un’attenzione particolare per il teatro
(Brecht, Majakovskij) e le nuove tendenze musicali (punk e new wave). Colpisce,
fin dal primo sguardo, l’aspetto grafico della rivista: dinamica, ricca di
immagini e di collage neodadaisti. L’intento è quello di “raggiungere una
grafica che si faccia anch’essa portatrice di determinati messaggi e non mero
appoggio formale agli articoli”.
Se da un lato S-Contro si richiama all’esperienza bolognese di A/traverso, la
rivista rappresentativa della cosiddetta “ala creativa” del movimento del ‘77,
dall’altro abbraccia un’estetica più punk. Il nome stesso della rivista porta in
sé questa doppia ispirazione: il trattino (orizzontale, anziché obliquo) è una
strizzata d’occhio ad A/traverso; il nome della rivista, invece, è la traduzione
di quello del leggendario gruppo punk The Clash.
La storia del collettivo S-Contro non si esaurisce, tuttavia, alla sola attività
redazionale. Fin dal primo numero la redazione si presenta come “aperta a
chiunque voglia intervenire / confrontarsi / s-contrarsi per costruire delle
iniziative (che non si riducono al solo giornale) di aggregazione giovanile sul
filo di un discorso politico e culturale”. Obiettivo esplicito della rivista,
insomma, “non è creare opinione pubblica”, bensì “fare politica, creare lotte,
creare organizzazione”.
Ripercorrendo con l’aiuto degli autori le diverse fasi del collettivo vediamo
S-Contro trasformarsi da semplice gruppo controculturale giovanile a vero gruppo
organizzato di redattori-militanti, impegnati direttamente nei principali
movimenti politici di quel periodo, dal movimento studentesco del 1985 a quello
antinucleare che sarà poi protagonista degli eventi del 10 ottobre 1986 a Trino
Vercellese. In seguito, intorno al 1988, S-Contro abbandona la rivista, si apre
a interventi politici nel settore del lavoro, e in particolare davanti ai
cancelli di Mirafiori, prendendo parte al progetto nazionale di “Politica e
Classe”. Infine, con la caduta dell’Unione Sovietica e l’aprirsi di una nuova
fase storica, il collettivo si dissolve naturalmente. Per alcuni anni ancora
resteranno visibili, sui muri della città, le scritte “S-Contro” accompagnate
dal simbolo del martello e del regolo incrociati.
Il percorso del collettivo è ricostruito dagli autori del libro attraverso gli
strumenti propri della storia culturale e della storia orale. Se la firma è di
Gambino e Perrone, i curatori del volume, la voce che da esso emerge è
collettiva. Il libro si apre con due capitoli di analisi dell’esperienza di
S-Contro e di suo inquadramento storico-sociale, nella conrnice della militanza
politica nella Torino post-fordista (uno a firma dello stesso Perrone, l’altro
di Salvatore Cominu). Segue un doppio intermezzo musicale: un excursus sulla
scena musicale torinese degli anni Ottanta (a cura del critico musicale Alberto
Campo), seguita da un’intervista a due suoi esponenti (Oliver e Bruno dei CCC
CNC NCN). Infine, la seconda metà del volume riporta una lunga intervista
collettiva agli ex-militanti di S-Contro, dove la storia del collettivo viene
narrata di nuovo, ma stavolta “dall’interno” e “dal basso”, direttamente dai
suoi protagonisti e protagoniste.
Questa struttura del libro, al contempo corale e orale, appare riuscita. La
prima parte permette un inquadramento storico-culturale fondamentale per
apprezzare la seconda parte. Qui, il discorso procede disegnando una spirale,
con eventi e nomi che ritornano, ma ogni volta da uno specifico punto di vista,
narrati da una voce diversa. Ne risulta una ricostruzione che mantiene vive le
contraddizioni e le differenze di vedute (gli s-contri, per l’appunto), mentre
la complessità dell’esperienza storica diventa “esperienza unica” contro ogni
“immagine eterna del passato”, come raccomanda Walter Benjamin nelle sue Tesi di
filosofia della storia.
Osservando la Torino degli anni Ottanta attraverso la lente della “microstoria”
di S-Contro, il libro permette di esplorare un aspetto ancora trascurato e
sottovalutato nella narrazione di quella fase storica: quello della multiforme
galassia militante e controculturale, certamente minoritaria, che, nella Torino
delle sconfitte operaie, della fine della lotta armata e del riflusso, è
comunque rimasta in fermento, navigando controcorrente e provando, malgrado le
condizioni avverse, a organizzarsi collettivamente.
Dalla lettura emerge una composita cartografia di gruppi, luoghi di incontro e
riviste della militanza torinese di quel decennio, con le loro peculiarità,
affinità e controversie ideologiche. È un documento di grande interesse: sia per
chi ha vissuto quell’epoca in prima persona (e, tramite la lettura, può
riviverla e rielaborarla); sia per chi, anagraficamente più giovane, abbia
interesse a ricostruire e a comprendere la Torino di quella fase. Proprio in
questo secondo senso sembra orientata la nota introduttiva degli autori che
presenta il volume principalmente come un ponte verso le giovani generazioni: un
passaggio di testimone verso chi prova a remare ancora contro, affinare il senso
critico e organizzarsi collettivamente. (lucio serafino)
Un libro di stringente attualità. “Stato di fermo” di John Wainwrigth, Edizioni
Paginauno
di Edoardo Todaro da Carmilla
In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma
sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le
mobilitazioni, con punti di vista ed impostazioni diverse, messe in campo per
contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo
Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si
sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è
bene sottolineare il rendere esplicito l’intento di questo provvedimento
dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di
base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel
settore della logistica.
Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta
regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte
portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in
modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve
essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della
logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore
degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto:
deve essere bandito.
Non è mia intenzione addentrarmi su cosa è il ddl1660 e cosa, la sua eventuale e
prevedibile approvazione possa portare. In estremissima sintesi: da una parte
coloro che effettueranno un blocco stradale compiranno un reato; chi, detenuti
in particolare, ricorrerà ad azioni non violente, sarà punito ecc…; dall’altra
avremo privilegi ed immunità per le forze dell’ordine. Quindi ben venga questo
libro, da considerare un vero e proprio manuale di autodifesa, che era buon uso
pubblicare. Una stanza, senza “ carattere “, di supporto allo scopo per cui
esiste che deve produrre un effetto claustrofobico, è il luogo dove si svolge il
tutto e due uomini: uno il sospettato, criminale e noto stupratore, in attesa di
interrogatorio; l’altro l’inquisitore, una relazione basata sulla dominazione e
l’accettazione di essa, accusato ed accusatore uno di fronte all’altro, la
sconfitta e la vittoria. Un sospettato, che necessita di un ristabilimento
della quiete mentale per salvaguardare la propria dignità che è messa in
discussione, e che ha nel proprio curriculum la violenza e l’uccisione di tre
ragazze.
Un colpevole perfetto per risolvere in tempi brevi un indagine che non vede
alcun senso nel protrarsi. Il colpevole perfetto che diviene il capro
espiatorio. Un’indagine che è costellata di grossi sospetti ma di nessuna prova,
di quelle necessarie per “convincere” una, prossima, giuria ad un verdetto di
condanna, e previste dalla legge, quella legge con i suoi limiti, debolezze ed
incoerenze. Ma essendo all’interno di trame, per così dire, giudiziarie, non
può mancare il cosiddetto ragionevole dubbio che invece può portare
all’assoluzione e le domande su cos’è la legge, sui suoi limiti.
Queste pagine si dipanano nei meandri, nelle modalità dell’interrogatorio, nelle
linee di questo con l’uso accorto del livello psicologico per far capitolare,
perché, lo si voglia o meno, anche l’interrogare è un’arte: “ dare un colpevole
e parlerà “. Interrogare con l’abilità del saper parlare ma anche del saper
ascoltare. Interrogatorio che ha insito il trucco di far ammettere al sospettato
la possibilità della propria colpevolezza e cioè l’ottenere un’ammissione, nel
quale è necessario essere distaccato dalla sofferenza del sospettato senza
lasciarsi coinvolgere; ingarbugliare un concetto, prendere un concetto logico e
farlo divenire il suo contrario; non urlare e non dare in escandescenza, provare
la colpevolezza del sospettato con le sue stesse parole, ripetere la stessa
domanda 10000 volte ma in 1000 modi diversi, dare al sospettato il senso di
sicurezza. Compare un secondo investigatore, questo senza pietà né alcun rimorso
ma solo disprezzo e fanatismo e le pressioni fisiche per ottenere la confessione
voluta. Quanto descritto è dovuto ad un semplice fatto: Wainwright è stato per
20 anni agente di polizia, diciamo che possiamo considerarlo un conoscitore dei
fatti descritti. Ma l’utilità del leggere “ Stato di fermo “ risiede in
particolare nel fatto che la crisi organica, economica e politica, accentua
sofferenze e difficoltà nel corpo sociale e produce forme, diverse tra loro, di
resistenza. Proprio queste forme di resistenza sono quelle che il governo si
pone di bloccare con il ddl 1660. Aspetto utile e soprattutto necessario,
risiede nella solidarietà e nella capacità di resistenza di fronte
all’accentuarsi degli interventi repressivi nei confronti di coloro che sono, e
che saranno colpiti, e nel diffonderla.
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E’ uscito recentemente per l’Associazione Editoriale Multimage un libro che più
necessario e attuale non sapremmo immaginare. Si intitola Carcere ai ribell3 ed
è stato curato da Nicoletta Salvi Ouazzene in rappresentanza delle Mamme in
piazza per la libertà del dissenso di Torino.
di Daniela Bezzi da pressenza
Un libro che ho letto con un misto di emozione, smarrimento, ammirazione…
Emozione perché parecchie delle storie documentate in queste pagine le ho
raccontate un po’ anch’io, e proprio per questa testata, in alternanza con il
collega Fabrizio Maffioletti. Smarrimento perché si fa fatica a credere che
simili vicende di repressione del dissenso possano essere successe qui, a casa
nostra, nella nostra ‘democratica’ Italia, nel cuore dell’Europa.
Ammirazione per la forza, la capacità di reazione e resilienza, la mirabile
propensione a stemperare le proprie singolari sventure in un ‘noi’ che per un
attimo diventa messa in pratica di ‘nuova società’, così autenticamente
partecipata e solidale che persino quelle alte mura carcerarie diventano almeno
per brevi sprazzi permeabili al ‘fuori’, a qualche azione concreta nella giusta
direzione, dimostrativa di una qualche possibilità di miglioramento. E insomma
sì: tanta roba ci arriva dalle storie così efficacemente ricostruite da
Nicoletta Salvi in queste pagine.
Proviamo dunque a passarle in rassegna queste storie.
Storia di Dana (Lauriola) che un certo giorno, 17 settembre 2020, alla fine di
un’estate già parecchio ‘calda’ in Val Susa, viene prelevata dalla casa in cui
abita a Bussoleno per essere tradotta alla Casa Circondariale Lorusso Cotugno di
Torino comunemente nota come Vallette. A nulla sono valsi i tentativi dei suoi
Avvocati di vedere applicate misure meno restrittive: Dana è incensurata, è una
giovane donna impegnata nel sociale, con un rapporto di lavoro stabile
all’interno di una cooperativa, niente da fare. Due anni di carcere è la pena
che la Procura di Torino si è sentita in dovere di prescrivere per il reato
commesso in data 14 marzo 2012 nell’ambito di una manifestazione che il
movimento NoTav aveva inscenato al casello di Avigliana, in bassa Val Susa.
Un’azione che con lo slogan ‘Oggi Paga Monti’ si limitò a tenere aperti i
tornelli per una quindicina di minuti, mentre Dana spiegava al microfono le
ragioni della protesta e qualcuno dietro di lei (tra cui Nicoletta Dosio)
sorreggeva uno striscione.
Particolare non da poco: solo qualche mese prima, 27 giugno 2011, le ruspe
avevano sgomberato con violenza la ‘Libera Repubblica della Maddalena’, presidio
che per settimane aveva cercato di opporsi all’apertura del cantiere di
Chiomonte; e solo pochi giorni prima, 27 febbraio, l’attivista Luca Abbà era
precipitato da un traliccio della luce, nel tentativo di dare visibilità allo
scempio che si sarebbe mangiato la Val Clarea… e i giorni immediatamente
successivi erano stati un susseguirsi di scontri, lacrimogeni e violenze, con le
FFOO all’inseguimento degli attivisti fin dentro i bar, mentre Abbà era tra la
vita e la morte.
Una situazione insomma di comprensibile rabbia e ansietà collettiva, che era
sfociata in quell’azione ai caselli di Avigliana, durata in tutto una manciata
di minuti, con un mancato incasso di € 777 che il Movimento NoTav aveva poi
rimborsato in sede processuale. Ma niente da fare: due anni di carcere a Dana
Lauriola per aver reiterato dentro un microfono le ragioni del No al TAV a nome
di un’intera valle.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” starebbe scritto nell’Art
21 della Costituzione a tutela del Diritto al Dissenso. Così non è.
In difesa di Dana si attiveranno a un certo punto anche le donne della
Biblioteca UDI di Palermo, in particolare Ketty Giannilivigni e Daniela
Dioguardi che oltre a dare vita a dei presidi ‘a distanza’ che da Palermo fino a
Torino aggiungeranno anche le loro grida a quelle delle Mamme in Piazza, non
perderanno occasione di scrivere lettere, raccogliere firme, indirizzare
appelli, a Liliana Segre, a Sergio Mattarella, sulle colonne de Il Manifesto.
“Quando finalmente ho avuto modo di soffermarmi sul caso della Lauriola non
riuscivo a credere che le avessero dato due anni solo per aver speakerato al
megafono!” ebbe a dichiarare poi la Dioguardi, ex parlamentare (tra il 2006 e il
2008) nelle fila di RC. “E quanti ergastoli avrei dovuto avere io, tutt3 noi,
per le manifestazioni che ci siamo fatte in anni di impegno politico!”
Dana uscirà dalle Vallette il 16 marzo 2021, solo per proseguire la sua
detenzione ai domiciliari, situazione non meno (e per molti versi più) penosa
del carcere, perché non sei libera comunque, e sei da sola. “A Dana è permesso
uscire solo per recarsi al lavoro” leggiamo infatti nel libro. “Chiami i
carabinieri, li avvisi che stai uscendo di casa, poi li chiami per avvisarli che
sei arrivata a destinazione e al rientro stesso teatrino. Sabato e domenica due
ore d’aria (…) In casa non può ricevere nessuno, previo permesso del magistrato
di sorveglianza…” Una non vita che durerà fino ai primi di maggio 2022, quando
verrà dichiarata ‘rieducata’ e rimessa in libertà.
Ci siamo particolarmente soffermati sul caso di Dana perché tra tutti i casi che
Nicoletta Salvi ricostruisce con mirabile puntualità e frequente, utilissimo,
ricorso al QRCode, è quello che riuscì a catalizzare un certo seguito,
nonostante la pandemia.
Ma non meno meritevoli di attenzione sono le ‘storie di carcere’ delle pagine
successive. La storia di Fabiola Di Costanzo, implicata nello stesso caso di
blocco stradale dei tornelli di Avigliana. E le storie di Stella, Francesco,
Mattia, Stefano, Emilio, e tanti altri attivisti NoTav che si trovarono a
condividere pesanti restrizioni nello stesso periodo di Dana: sospensione dei
colloqui, scioperi della fame, difficoltà di far fronte a situazioni già molto
penalizzanti in condizioni di “normale amministrazione” figurarsi in tempi di
emergenza e pandemia!
E poi passa anche la pandemia e solo pochi giorni dopo la riconquistata libertà
di Dana, ecco il 12 maggio l’azione in grande stile della Digos che colpisce tre
studenti universitari, anche loro giovanissimi, incensurati, rei di aver
partecipato qualche mese prima alle sacrosante proteste di piazza per la morte
di Lorenzo Parrelli, martire di quell’indecenza che si chiama “alternanza
scuola-lavoro”. Si era ancora in regime di restrizioni, la polizia risponde con
pesanti cariche ad ogni tentativo di corteo e a fine giornata il bilancio è: 40
feriti, parecchie teste rotte, molti al Pronto Soccorso, una violenza inaudita
contro ragazzi inermi.
Il 14 febbraio la stessa “alternanza scuola-lavoro” registra una nuova vittima,
Giuseppe Lenoci. Di nuovo gli studenti cercano di inscenare manifestazioni di
protesta, con scontri dinnanzi alla sede della Confindustria – e dai primi di
maggio 2022 ha inizio l’allucinante calvario giudiziario per i “capri espiatori”
Emiliano e Jacopo (22 anni) e Francesco (20 anni) oltre alla compagna Sara, con
i legali che cercano invano di ridimensionare le penalità a loro carico.
Passano i mesi, si arriva al 13 novembre 2023 con una sentenza che punisce il
summenzionato gruppetto più altri a condanne variabili tra i cinque e nove mei
di reclusione, però con la condizionale e la facoltà di ‘non menzione nel
casellario giudiziario”. “La mitezza delle condanne conferma che le pesanti
restrizioni della libertà personale, comminate come misure cautelari erano state
‘incongrue e sproporzionate’” fa notare Nicoletta Salvi a pag 56 del libro. E
insomma tante ansietà, dolore, difficoltà, per i ragazzi e per le loro famiglie,
tanto tempo che avrebbe potuto essere dedicato allo studio, a qualcosa di
costruttivo, tante risorse buttate, per esempio per i braccialetti elettronici…
per nulla. Questa l’amara conclusione di Emiliano, Francesco e Jacopo nelle
testimonianze che concludono il loro capitolo.
Ed eccoci alla storia di Francesca Lucchetto. Personalità estroversa, solare,
concreta, Cecca (come tutti la chiamano) fa parte del Centro Sociale Askatasuna
ed è impegnata nel movimento NoTav, per la libertà in Kurdistan, per la fine
dell’occupazione in Palestina, per i senza casa che crescono a vista d’occhio a
Torino. Finirà dietro le sbarre il 7 febbraio 2023 e vi resterà fino al 17
settembre dello stesso anno, proseguendo poi la detenzione ai domiciliari fino
al 1 dicembre 2023. Il reato? Di nuovo un nonnulla: aver tentato (e solo
tentato, perché la polizia partì subito alla carica con gran dispiego di
violenza e manganelli) di appendere uno striscione davanti al Tribunale di
Torino, per esprimere solidarietà alla 1ma udienza (nel lontano 2013) a carico
della compagna Marta, che non solo era stata malmenata e molestata sessualmente
durante una manifestazione al Cantiere Tav di Chiomonte, ma si era beccata
appunto una denuncia. Una semplice, pacifica, inoffensiva manifestazione di
dissenso, che ci aspetteremmo di veder tutelata da uno ‘stato di diritto’. E
dieci anni dopo quei lontani fatti, febbraio 2023, la procura di Torino decide
di punire con il carcere anche Cecca.
Una reclusione che lei affronta fin da subito con gran determinazione e
concretezza, facendosi portavoce delle istanze, bisogni, desideri delle altre
recluse, con cui entra subito in sintonia, instaurando un ponte tra il ‘dentro’
e il ‘fuori’, con il puntuale, affettuoso, immancabile sostegno delle Mamme. Che
ogni giovedì hanno ricominciato ad essere lì, presenti, sotto le mura delle
Vallette: con il banchetto, il megafono per gli interventi, la musica a palla
trasmessa dagli altoparlanti, come ai tempi di Dana e di nuovo per un’intera
comunità di detenute, un terzo delle quali soffre di disturbi psichiatrici,
“curati” a suon di psicofarmaci.
La detenzione di Cecca sarà infatti scandita da una serie di suicidi:
* il 28 giugno si impicca Graziana, che aveva quasi finito di scontare la sua
pena: “la prospettiva di tornare in libertà ha scatenato in lei un malessere
che pure erano stati notati, segnalati…” ma senza alcun concreto intervento;
* solo pochi giorni dopo, 12 luglio, toccherà ad Angelo, 44 anni anche lui
impiccato;
* il 9 agosto muore la nigeriana Susan George, che era in sciopero della fame
dal 22 luglio, a quanto pare nessuno sapeva di lei;
* il giorno dopo si impicca Azzurra, ventotto anni, con già alle spalle un
tentativo di suicidio presso il carcere di Genova.
“E’ la cronaca di un inferno” scrive Nicoletta Salvi a pag 79 del libro. “Un
inferno cui si assiste impotenti ma non silenti. Raccogliamo la voce delle donne
detenute, la diffondiamo, contrastiamo gli articoli pietistici e giudicanti con
articoli scritti da noi, che raccontano la realtà per come Cecca e le altre
donne ce la fanno conoscere…” E nel suo piccolo anche questa testata farà la sua
parte, inaugurando una rubrica fissa per questi preziosi contributi di
controinformazione che ci arrivano dalle Mamme in Piazza per la Libertà di
Dissenso di Torino, che il libro non manca di riproporre a mo’ di appendice
conclusiva.
Un libro dunque che ripercorre anche la loro storia, da quando nel 2015 si
trovarono a condividere le udienze in tribunale per vicende (in tutto simili a
quelle ricostruite in queste pagine) che vedevano protagonisti i loro figli “e
ci venne spontaneo concludere che erano proprio figli nostri, che le mostruosità
di cui erano accusati erano in fondo l’espressione di un forte impegno sociale
che avevamo trasmesso noi stesse, per cui dovevamo fare qualcosa!”
Un libro che le racconta nel loro mirabile lavoro di rete, di continua tessitura
di relazioni, ciascuna con una propria distinta personalità, ma all’occorrenza
tutte compatte e unite, in straordinaria sintonia di gesti, suddivisione dei
compiti, reciproca valorizzazione, capacità di comunicazione.
Arricchiscono questa pubblicazione la bella prefazione di Debora Del Pistoia,
ricercatrice per Amnesty International, e le autorevoli conclusioni dell’Avv.
Claudio Novaro, che di tutte le vicende giudiziarie passate in rassegna è stato
il difensore. Ed entrambi i contributi ci invitano a tenere alta l’attenzione, a
non arrenderci, anzi a moltiplicare le iniziative di risposta, da parte di noi
cosiddetta ‘società civile’, che non può accontentarsi di restare alla finestra.
Perché tra DDL Sicurezza e quella mostruosità di processo definito ‘del
sovrano’, che sta per concludersi al Tribunale di Torino, il peggio deve ancora
venire.
Per saperne di più e/o organizzare presentazioni del libro:
https://www.facebook.com/mammeinpiazza oppure contattando Multimage.
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Recensione al libro di Donatella Della Porta, “Guerra all’antisemitismo?”
di Micol Stivala (Università di Palermo) da Studi sulla questione criminale
Cosa vuol dire non essere più liberi di esprimere il proprio dissenso?
In cosa consiste il panico morale al quale sono soggetti, da oltre un anno,
intellettuali e artisti che tentano di portare alla luce il perpetuarsi delle
violazioni dei diritti umani attuate dal governo israeliano?
Quesiti che restano ad oggi aperti, vivi, più che mai urgenti e a cui tenta di
dare una definizione Donatella Della Porta nel suo testo Guerra
all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica.
La riflessione sorge dalla necessità di analizzare e comprendere l’origine della
preoccupante deriva repressiva alla quale stiamo assistendo, forse senza il
dovuto clamore, troppo spesso in assoluto silenzio.
Della Porta mette fin da subito in evidenza il profondo senso di smarrimento
provato dalle personalità ebree convintamente antisionisti. La struttura del
testo, suddivisa in tre parti centrali, consente di individuare i protagonisti
del discorso: a) gli imprenditori del panico morale, ovvero i giornalisti,
politici e gli organi amministrativi specializzati nell’antisemitismo b) i folk
devils[1] o anche definiti soggetti devianti, intellettuali che pur essendo
tutti promotori di posizioni antirazziste, sono stati vittime dell’accusa di
“nuovo antisemitismo” c) il disciplinamento, ovvero la campagna posta in essere
dalle politiche governative israeliane che ha condotto al licenziamento ed a
comportamenti di autolimitazione di tutte le voci dissenzienti.
Il panico morale viene quindi inteso come una strutturale narrativa di allarme
sociale, che spinge gli stessi intellettuali antirazzisti ad una forma di
autocensura, derivata dall’impossibilità di poter manifestare il proprio
dissenso, in quanto, ove venga espresso un parere non aderente alle politiche
governative israeliane, immediata conseguenza risulta essere quella di venire
classificati come soggetti devianti, automaticamente antisemiti e, pertanto,
estranei alla “società perbene”. È questo ciò a cui sono stati e vengono
tutt’oggi sottoposti gli intellettuali progressisti ed antirazzisti, anche di
origine ebraica che hanno mostrato solidarietà al popolo palestinese.
Che cosa deve intendersi quindi per panico morale? L’idea è quella che taluni
soggetti vengano «considerati estranei ai valori della società tradizionale e
rappresentati come una minaccia per quest’ultima, in quanto responsabili di ciò
che viene definito come un problema sociale.»[2]
Della Porta aiuta il lettore a porsi dalla prospettiva di chi, all’interno di un
conflitto, si trova in contrasto con le politiche governative del suo stesso
Stato di appartenenza; la prospettiva di soggetti che, pur appartenendo al
gruppo, sono sottoposti a forme di repressione silenti, tese a limitare
ed «escludere le idee e le singole identità nel dibattito pubblico.»[3]
L’evento scatenante risulta essere la premiazione del docufilm “No Other Land”
avvenuto al festival del Cinema di Berlino del 2023, opera realizzata
congiuntamente da Yuval Abraham e Basel Adra, rispettivamente di cittadinanza
israeliana e palestinese. La risposta immediata dei media tedeschi all’esito
della premiazione è stata una dura condanna di antisemitismo, successiva alla
semplice richiesta di un “cessate il fuoco” rivolta al governo israeliano.
In ciò consiste il concetto di panico morale: la possibilità di limitare un
diverso punto di vista basandosi su «radicate paure razziste»[4], alimentate
dalla produzione di notizie giornalistiche veicolate e strutturate in modo tale
da ridurre sensibilmente la libertà dei cosiddetti soggetti devianti. La
risposta a tali atti di repressione suscita quindi un’autolimitazione, una
tendenza all’isolamento di individui che risultano scomodi e, in quanto
tali, vulnerabili. Judith Butler, già in tempi meno allarmanti sottolineava che
la vulnerabilità è un concetto che può diventare punto di vista centrale per
comprendere meglio le dinamiche della guerra. Appare evidente ancor più oggi,
come i social media influiscano sulla scelta di immagini e di racconti che
assumono un ruolo a sé stante della macchina bellica. L’impressione, infatti,
sembra essere quella di vivere immersi all’interno di un narrato che cerca di
ridurre un conflitto, per sua natura complesso, a una “favola semplice” in cui
Israele si erge a unica vittima. Le voci degli ebrei dissenzienti e contrarie
alle politiche governative di Netanyahu vengono stigmatizzate, con la
conseguenza che gli stessi vengono tacciati di antisemitismo e, infine
censurati.
Segnatamente, vediamo come «in Israele si è passati quasi istantaneamente a
riprodurre in modo crudo gli eventi del 7 ottobre 2023 attraverso esperienze
mediate, a volte con l’obiettivo di contrastare le notizie false che negavano i
crimini commessi, ma spesso allo scopo di ridurre la solidarietà verso i
palestinesi»[5]. Forme di controllo sistematiche si sono registrate anche in
rapporto alla limitazione della libertà di manifestazione. In Germania, in
special modo a partire dal maggio del 2023, anche le manifestazioni pacifiche
sono state oggetto di repressione, attraverso veri e propri atti di divieto
preventivo. La limitazione dell’agentività corporea e l’utilizzo di una forza
prevaricatrice da parte degli agenti di polizia operanti viene giustificata dal
fine di una presunta tutela dell’incombente odio verso Israele.
Della Porta giunge, in tal senso, a evidenziare la pressione subita, analizzando
casi specifici di repressione. In modo particolare, è utile soffermarci su
alcuni esempi dalla stessa approfonditi e posti in risalto. Paradigmatico è il
caso di Nancy Fraser, filosofa di origine ebraica che avrebbe dovuto ottenere
nell’aprile del 2024 l’assegnazione della cattedra Albertus Magnus
dell’Università di Colonia. Il motivo della rescissione del contratto consegue
alla pubblicazione della lettera Philosophie for Palestine, al cui interno la
filosofa dichiara apertamente che gli atti del 7 ottobre 2023 andrebbero letti
alla luce di uno sguardo storico completo e di sistema, elevandoli poi ad «atto
di resistenza legittima»[6]. Ancora Fraser cerca di sottolineare come questo
attacco risulti sistematicamente rivolto all’ambiente universitario, in quanto
bersaglio tangibile dei bombardamenti che hanno portato all’abbattimento di
tutte le principali università palestinesi. L’impossibilità di palesare il
proprio dissenso mina ciò che per Butler è la capacità di dare forza produttiva
a un discorso, inscrivendo in esso nuovi significati. In altre parole, il
discorso non è più capace di divenire «il luogo della ricostituzione e della
risignificazione della legge»[7].
Un altro esempio di quelle che, parafrasando Butler, sarebbero da considerare
vite scomode, costrette al silenzio perché contrarie alle politiche governative
israeliane è quella di Peter Schäfer, professore ordinario presso l’università
di Princeton. Della Porta mette in evidenza l’effetto della drammatica campagna
mediatica di emarginazione alla quale è stato sottoposto. Emarginazione
invadente al punto da spingere il professore di Princeton a dimettersi dal ruolo
di direttore del Museo ebraico di Berlino. Emerge un chiaro esempio di
auto-isolamento, una risposta, si potrebbe dire, necessaria e conseguente alla
stigmatizzazione di un individuo: l’essere poiché “contrario” anche “scomodo”.
Netanyahu in primis aveva espresso la sua disapprovazione a seguito della
promozione della mostra “Welcome to Israel”[8] e ne aveva sottolineato la
“preoccupante” gestione, definita come “direttoriale”, del Museo, del tutto
distaccato dalla comunità ebraica e dai suoi valori. L’attacco mediatico, la
limitazione di un rapporto pacifico e l’emersione di uno stigma negativo
associato alla dimensione del dialogo fra la comunità ebraica e la comunità
musulmana, hanno costretto al silenzio ben «240 intellettuali israeliani ed
ebrei»[9]. Emerge chiaramente come anche la comunità musulmana sia stata vittima
di una campagna scandalistica mediatica, ciò a seguito di un tweet pubblicato
dall’ufficio stampa del Museo, dove venivano riportate «una serie di lettere
aperte che criticavano la risoluzione anti-Bsd approvata dal parlamento
federale»[10]
Alla luce di ciò, Della Porta individua gli strumenti per comprendere a fondo il
contesto e per leggerlo attraverso lenti nuove. Guerra all’antisemitismo? Il
panico morale come strumento di repressione politica è un lavoro di ricerca sul
presente che ponendo in risalto casi concreti di campagna di panico morale
consente di rileggere il conflitto in atto, evidenziando le problematicità della
condizione di chi, essendo israeliano, non può allo stesso tempo essere libero
di dichiararsi antisionista. Le problematicità sembrano comunque non riducibili
a tale aspetto, che è certamente il più paradossale. Il problema centrale è che
sembra proprio di essere immersi all’interno di una vera e propria
criminalizzazione di ogni forma di dissenso politico. Sembra quasi di essere
immersi all’interno di un sistema di costrizione al silenzio, di vulnerabilità e
di arbitrio nell’uso politico del termine “antisemitismo”, inteso come scontro
necessario fra due civiltà. La repressione delle voci dissenzienti incide
significativamente sullo spazio pubblico, limitandoil dialogo e
imponendo conseguentemente un’auto-censura. Il rischio del panico morale è,
quindi, quello di pervenire ad una chiusura netta del dialogo, giustificata da
un presunto odio razziale che non lascia spazio alla libera manifestazione del
pensiero, impedendo la tutela dei soggetti che sono posti in condizioni di
vulnerabilità. «Questi critici non contestano la protezione della vita ebraica.
[…] Stanno contestando la negazione della vita dei palestinesi e il diritto
all’esistenza della Palestina»[11].
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[1] S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics, The creation of the Mods and
Rockers,Routledge, Londra 2002,p.
[2] D. Della Porta, Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di
repressione politica, Altrəconomia, Milano, 2024, p.15
[3] D. Della Porta, op.cit, p.18
[4] D. Della Porta, op cit, p.16
[5] N. Klein, Israeele usa il suo trauma come arma di guerra, in Internazionale,
2024, p.48
[6] D. Della Porta, op cit, p.38
[7] J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Castelvecchi,
Roma, 2023, p.99
[8] D. Della Porta, op.cit, p.39
[9] Ibidem, p.40
[10] Ibidem, p.40
[11] Ibidem, p.108
Bibliografia
Butler, J. (2023). Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Roma:
Castelvecchi.
Cohen, S. (2002). Folk Devils and Moral Panics, The creation of the Mods and
Rockers. Londra: Routledge.
Della Porta, D. (2024). Guerra all’antisemitismo? il panico morale come
strumento della repressione. Milano: Altraeconomia.
Klein, N. (2024). Israeele usa il suo trauma come arma di
guerra. Internazionale, 46-54.
Per citare questo post:
M. Stivala (2025), Recensione al libro di Donatella Della Porta, Guerra
all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica
(Altrəconomia, 2024) in Blog Studi sulla Questione Criminale, al link:
https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/01/29/recensione-al-libro-di-donatella-della-porta-guerra-allantisemitismo-il-panico-morale-come-strumento-di-repressione-politica-altraeconomia-2024/
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di Marco Sommariva da Carmilla
Ultimamente ho incassato un po’ di delusioni da diverse persone sulle quali
contavo in modo particolare: tutta gente che frequento da almeno quarant’anni,
si sappia. È stata la loro intelligenza a deludermi, le loro esternazioni a
sorprendermi negativamente. E a parole che fanno male, ho pensato di porre
rimedio con parole che fanno bene: è una vita che mi curo coi libri. Sono
entrato in sala dove tengo esposti gli oltre cinquecento libri letti di cui ho
preferito non liberarmi e, col magone, ho cercato lo spazio dedicato ai titoli
di George Orwell: in qualche angolo del mio cervello c’era la certezza che un
libro dello scrittore inglese potesse aiutarmi. Guardo La fattoria degli
animali, ma il cervello non reagisce. Una boccata d’aria? Senza un soldo a
Parigi e a Londra? Niente. Forse Omaggio alla Catalogna oppure 1984? Neppure.
Nel ventre della balena? Zero assoluto. Possibile che quell’angolo del mio
cervello abbia preso un tale abbaglio? Data l’età sì. E invece no che non l’ha
preso! Eccolo lì il ricercato, stranamente fuori posto: La strada di Wigan Pier.
Mi affretto a cercare in terza di copertina tutte le note che richiamano ogni
mia sottolineatura di quando l’ho letto nell’aprile del 2005 – non è buona
memoria: ho trovato la data in calce alle note –, e inizio a sfogliare il libro
cercando le frasi sottolineate, l’urgente medicamento.
“La cosa più terribile in [certa] gente […] è il modo con cui ripetono
all’infinito sempre le stesse cose.” In effetti, ai personaggi che mi hanno
ferito ho troppo spesso scusato il loro frequente ripetersi, mi spiaceva
farglielo notare, ma il sopportare questa loro terribile caratteristica non mi
ha giovato: quando il problema su cui avrei voluto confrontarmi era di una
portata spaventosa, mi è stata detta la stessa banalità che avevo già sentito
per il figlio del fruttivendolo sotto casa, che non ha mai mostrato troppa
voglia di lavorare.
Qualche pagina più avanti, con l’evidente intento d’infondermi coraggio, Orwell
mi dice: “Per quanto abbia tentato, l’uomo non è ancora riuscito a spargere la
sua sporcizia dappertutto. La terra è così vasta e ancora così vuota che perfino
nel sudicio cuore della civiltà trovi campi dove l’erba è verde anzi che grigia;
forse, a cercarli, si potrebbero perfino trovare fiumi e torrenti con dentro
pesci vivi anzi che scatole di salmone.”
Questa faccenda di non aver mai fatto notare ai miei interlocutori che si
ripetevano, che le loro frasi sfilate dalla faretra della banalità non servivano
a nulla, che erano comode solo ai piccoloborghesi per infilzare qualsiasi
discorso, ferirlo, se non ucciderlo, potrebbe aver spiegazione nelle mie radici
operaie: lo erano i miei nonni, lo era mio padre, lo son stato io per almeno una
dozzina d’anni: “Questa faccenda […] di dover fare ogni cosa secondo il comodo
altrui è implicita nella vita della classe operaia. Mille influenze costringono
di continuo l’operaio in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l’azione
altrui. Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è fermamente convinto che
“quelli” non gli permetteranno mai di fare questo, quello, o quell’altro.”
Mi domando se anch’io faccio parte di “quella gente [che] ha cessato di
scalciare sotto le frustate.” Fa bene Orwell a farmelo notare.
Che poi, ripensandoci bene, una delle persone che mi ha deluso è un dirigente
abituato a sviscerare complessità enormi che spesso “l’uomo comune” ha
difficoltà persino a immaginare, a sbrogliare matasse relazionali sviscerando
ogni minimo dettaglio; sia chiaro, non per il gusto del vivere pacifico, ma
perché ogni risorsa coinvolta in qualsivoglia bega possa rendere al massimo in
quella famosissima ditta per cui lavora. Ma anche qui sbagliavo: “…lo sviluppo
postbellico di generi voluttuari a buon mercato è stato una fortuna per i nostri
governanti. È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze di seta,
salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici […] il cinematografo, la radio,
il tè forte e i Football Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così
che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è un’astuta manovra della
classe dirigente – una specie di “pane e circensi” – per tenere a bada i
disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che
abbia molta intelligenza. La cosa è avvenuta, ma attraverso un processo
inconscio: l’interazione affatto naturale tra la necessità da parte
dell’industriale di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, di
palliativi a basso costo.”
Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta
intelligenza, e io l’avevo vista la poca elasticità di questa stirpe, ma avevo
dimenticato, o meglio, ritenevo che qualcuno si potesse salvare da questo
egocentrismo che riesce a convincerli d’essere in grado di chiudere a loro
favore ogni querelle, disputa, perché alla fine di questo si trattava: io
esprimevo un pensiero rispettando il suo, lui esprimeva il suo ritenendo il mio
quello di un idiota. Era un pensiero per nulla profondo, il mio, lo ammetto; mi
ero limitato a dire che invidiavo agli stranieri la loro capacità di aprire
un’attività in Italia mentre io, che non ho il problema della lingua, non saprei
neppure da che parte iniziare, tutto qui. Bene, dall’altra parte mi sentivo
ripetere che sbagliavo. In cosa? Sbagliavo a invidiarli, STOP!, senza alcuna
spiegazione del perché ero nell’errore. Detto che la mia era invidia “buona” e
che al mio contraltare nulla importava dei sette peccati capitali che lo
impregnano da una vita per minimo quattro settimi del totale, mi chiedevo –
visto lo stato in cui ero: dignitosamente disperato – non mi fai neppure un
piccolo sconto? Perché mi aspettavo uno sconto? Perché nelle case dove sono
cresciuto s’è sempre respirato un’atmosfera profondamente umana: “In una casa
della classe operaia – non penso per il momento a case di operai disoccupati, ma
ad altre relativamente prospere – si respira un’atmosfera calda, onesta,
profondamente umana, che non è molto facile trovare altrove.”
Case dove ho imparato molto, dove s’impara molto: “…so che si può imparare molto
in una casa operaia, sol che vi si possa andare a vivere. Il punto essenziale è
che i vostri ideali e pregiudizi borghesi sono messi alla prova dal contatto con
altri ideali e pregiudizi che non sono necessariamente migliori, ma sono certo
diversi.”
Case in cui non si va tanto per il sottile, dove si dice pane al pane e vino al
vino, dove regna la schiettezza: “Un’altra caratteristica operaia, sconcertante
in un primo momento, è la schiettezza nei riguardi di chiunque l’operaio ritenga
suo pari. Se offrite a un operaio qualcosa che egli non vuole, vi dirà che non
la vuole; una persona del ceto medio l’accetterà evitando così di offendervi.”
Forse sarà stata la mia schiettezza a infastidire, chissà.
Di certo qualcuno era infastidito: io. E lo ero per via della pena capitale che
avrebbe volentieri inflitto chi stava dall’altra parte del telefono, al ragazzo
su cui si stava disquisendo, un giovane che, in fondo, aveva soltanto ripetuto
più volte d’avere in testa un unico progetto di vita pressoché impossibile da
realizzare, denunciando così tutto il proprio grande disagio e che questo – il
Grande Disagio – andava analizzato, null’altro: “La maggioranza della gente
approva la punizione capitale, ma quella stessa maggioranza non vorrebbe fare il
lavoro del boia. E ancora… Non ho mai messo piede in una prigione senza sentire
[…] che il mio posto era dall’altra parte delle sbarre. […] il peggior criminale
che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo
condanna alla forca.” Ma quanti passaggi interessanti ci sono in questo libro?!
Le delusioni a cui sto facendo riferimento, le ho incassate sia parlando al
telefono sia vis à vis e anche nei silenzi che dialogando faccia a faccia,
spesso, dicono più di tante parole: “…sfortunatamente non mi ero allenato ad
essere indifferente all’espressione della faccia umana.”
Nonostante tutto, a parte l’impatto iniziale di questi scontri imprevisti, ne
sono uscito certamente più forte: “È solo quando s’incontra qualcuno di cultura
ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire quali siano
realmente le nostre opinioni.”
Eppure, me lo ricordo bene quel dirigente quand’era ragazzo, verso la fine degli
anni Settanta, quando girava con in testa la cresta colorata dei punk
dell’epoca: “…si può osservare […] il triste fenomeno del borghese che è un
ardente socialista a venticinque anni e un conservatore tutto sussiego a
trentacinque.”
Se non vi ho ancora annoiato, termino con l’ultima grande delusione: una persona
che raccoglie per anni le mie confidenze e un giorno scopro non aver tenuto per
sé nulla, ogni mia personalissima parola l’aveva data in pasto ad altri. Motivo?
“Perché così potrai riappacificarti con un po’ di persone.” Ma uno potrà ancora
avere almeno la libertà di decidere da sé quando, come e con chi
riappacificarsi? Purtroppo, pare non essere così, c’è sempre qualcuno che si
erge genitore benché tu abbia ormai tutti i capelli grigi, e ti indichi la retta
via. Questa persona credente cattolica, fottendosene ampiamente del segreto
previsto dal sacramento della (mia) confessione, mi ha gettato al vento un mondo
intero, perlomeno una dimensione di questo: “Come avviene per la religione
cristiana, la peggior pubblicità al socialismo è rappresentata dai suoi
fautori”, sempre il buon George.
Niente. Non mi resta altro da fare che ammettere tutta la mia imbecillità: a
cosa serve leggere, rileggere, sottolineare Orwell se poi penso ad altro e
abbasso la guardia? Appena l’ho abbassata, subito mi hanno fiocinato come un
polpo, anzi, di più, mi hanno battuto come un polpo, legato, incaprettato e
trascinato per lo scalpo. Consegnata ai posteri la mia ammissione d’imbecillità,
mi viene in mente che una cosa ha accomunato tutte queste delusioni:
gl’interlocutori m’interrompevano continuamente. Mi si voleva silenziare, in
pratica. Insomma, era stato messo in opera un genocidio nei miei confronti:
“…c’è una differenza sostanziale fra genocidio e tortura. Il genocidio cerca di
mettere a tacere, mentre la tortura è l’antidoto contro il silenzio.” Questo non
è più Orwell, è John Biguenet e il suo libro s’intitola Elogio del silenzio, un
saggio da non perdere: “…un mondo in cui il destino, anzi Dio stesso si son
fatti famosi anzitutto perché ci fronteggiano col silenzio.”
È in questo libro che ho realizzato una conclusione tanto scontata quanto
sfuggente: chi t’interrompe manifesta la sua superiorità: “…mentre cercavo di
perfezionarmi nel mestiere di professore, lessi un articolo sulla tendenza degli
insegnanti, sia uomini che donne, a interrompere le studentesse – ma non gli
studenti – mentre rispondono alle domande. […] Viviamo in un mondo in cui le
donne vengono spesso messe a tacere, a volte anche in modo violento. Ma
l’umiliante affronto di zittire le donne con nonchalance è un’esperienza
talmente radicata nella nostra quotidianità che questo piccolo esempio di
imposizione del silenzio su un altro essere umano – la brusca interruzione […]
dell’insegnante – in realtà può aiutare, anche meglio di casi più eclatanti, a
chiarire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento dell’attuale
distribuzione del potere nella società.”
Il tentativo di zittirmi va avanti ormai da una vita. Mi contestano i credenti
perché non credo e mi contestano i non credenti perché non sto neppure dalla
loro parte, e allora mi consolo con Non ho risposte semplici, un volume che
raccoglie una ventina tra interviste e conversazioni con Stanley Kubrick, che
delineano il suo genio: “Nella galassia ci sono cento miliardi di stelle e
nell’universo visibile ci sono cento miliardi di galassie. Ogni stella è un
sole, come il nostro, probabilmente con pianeti che lo circondano. […] Pensi al
tipo di vita che potrebbe essersi evoluta su quei pianeti nel corso di millenni,
e pensi anche a quali passi da gigante ha fatto la tecnologia dell’uomo sulla
terra nei seimila anni in cui è documentata la sua civiltà, un periodo che è più
piccolo di un granello di sabbia nella clessidra cosmica. […] Quelle
intelligenze cosmiche […] potrebbero essere in comunicazione telepatica
simultanea attraverso tutto l’universo; potrebbero aver ottenuto la padronanza
completa sulla materia, e quindi potrebbero essere in grado di trasportarsi
telecineticamente in modo istantaneo a miliardi di anni luce di distanza; nella
loro forma definitiva, potrebbero essersi liberati completamente del guscio del
corpo ed esistere in quanto coscienze incorporee e immortali in tutto
l’universo. […] tutti gli attributi essenziali di quelle intelligenze
extraterrestri sono gli attributi che noi conferiamo a Dio. E se quegli esseri
di pura intelligenza dovessero mai intervenire negli affari dell’uomo, i loro
poteri sarebbero talmente lontani dalla nostra possibilità di capirli che
potremmo giustificarli solo in termini divini o magici.”
Mi contesta chi vota perché non voto e mi contesta chi non vota perché non
scrivo ciò che lo aggrada: “Un aspetto doloroso della crescita intellettuale e
artistica è che implica soprattutto il superamento degli altri: man mano, ci
sono sempre meno persone con cui condividere le proprie idee, persone che
capiscono, senza semplificare troppo, quello che uno sta cercando di
comunicare.” Ancora Stanley Kubrick in Non ho risposte semplici.
Visto che non mi è nuovo questo potere che interrompe, silenzia, irrompe e
violenta, da molto tempo mi auto silenzio verso coloro che tanto tengono alla
mia bocca chiusa, così da restituire loro un po’ di dolore. E pare che Biguenet
abbia nuovamente qualcosa da dire al riguardo: “L’impiego del silenzio […]
spesso attraverso il semplice rifiuto di rivolgersi al soggetto, viene
largamente utilizzato sia dai governi sia dai singoli individui. Per esempio, il
rifiuto dei terroristi di proclamare la propria responsabilità dopo un
bombardamento o dopo altre forme di omicidio di massa cerca di amplificare la
paura causata dal violento attacco attraverso un silenzio implacabile. Così
facendo, si prolunga la paura almeno finché il mistero sui responsabili rimane
irrisolto.”
Non mi spiace affatto l’idea che alle tante delusioni causatemi da ‘sti signori
corrisponda loro un po’ di paura, fosse solo che per rivolgermi la parola; certo
è che dall’altra parte della barricata sono sempre più numerosi i nemici, ma non
mi scoraggio perché se erano numerosi i consigli de La strada di Wigan Pier che
avevo dimenticato, un passaggio di un altro romanzo di Orwell – 1984 – lo
ricordo bene: “l’essere in minoranza, anche l’esser rimasto addirittura solo,
non vuol dire affatto esser pazzo.” Ma anche, come diceva Camillo Berneri, “Non
ci posso niente, in questo mio trovarmi d’accordo con quasi nessuno.” La
solitudine è scomoda? La posizione scomoda è da sempre una garanzia di sapere
come stanno veramente le cose. Sapere come stanno veramente le cose non fa star
tranquilli? Bene. Come diceva Errico Malatesta, “Non ho bisogno di stare
tranquillo.”
Permettetemi un consiglio: agitatevi. Anzi, istruitevi agitatevi organizzatevi.
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A Belal, del campo profughi di Aida, scomparso nelle prigioni israeliane e di
cui oggi non si hanno notizie.
di Edoardo Todaro da La Città Invisibile
Aysar Al-Saifi, ormai in Italia da diversi anni, ci porta la sua testimonianza
che arriva dal campo profughi di Dheisheh a Betlemme, in Palestina. Una
testimonianza che ci viene riportata attraverso 146 pagine e che non può non
farci riflettere su quanto sta accadendo in Palestina in questi ultimi mesi,
anzi da oltre un anno.
Non è la prima volta che scrivo qualcosa dopo aver letto un libro sulla
Palestina, sicuramente non sarà l’ultima. Chi legge potrebbe obiettare: ancora!
Sì, perché anche con una piccola cosa, come ciò che scrivo, è dare un contributo
per sostenere il popolo palestinese, far conoscere le sue sofferenze e la sua
determinazione nel non darsi per vinto. E’ una cosa importante. Necessaria?
Sicuramente utile nell’opporsi al genocidio in corso.
Aysar, come l’attivista afroamericano George Jackson, ci racconta cosa voglia
dire non solo l’essere sotto occupazione, ed i neri negli Stati Uniti lo erano e
lo sono, ma essere sottoposti al “sorvegliare e punire”, al fatto che – e
nessuno può metterlo in discussione – qualsiasi famiglia in Palestina deve fare
i conti con il carcere e i suoi effetti collaterali, come una tassa che grava,
un debito che ogni famiglia palestinese deve pagare.
Ma se ricordiamo Jackson non possiamo non citare anche Suaad Genem, ex
prigioniera palestinese, con il suo Il racconto di Suaad. Quelli che ci riporta
Aysar sono i racconti di chi non ha voce. Racconti che emergono dalle celle
nelle quali i/le palestinesi devono sottostare, devono sopravvivere. Aysar non
si sottrae dal descrivere il baratro in cui si trovano i palestinesi e cosa
significa essere rinchiusi nelle prigioni israeliane. E visto che descrive
quanto accade ai prigionieri palestinesi ostaggi nelle mani dell’occupante, non
può non dire di quanto di aberrante avviene per i palestinesi con la cosiddetta
detenzione amministrativa. Detenzione amministrativa che, riprendendo dall’Ong
Addameer, realtà messa al bando da Israele che interviene nella difesa dei
prigionieri palestinesi che quotidianamente svolge un lavoro importante rispetto
alle condizioni della detenzione, non è che: “ … una procedura che consente
all’esercito israeliano di trattenere i prigionieri a tempo indeterminato sulla
base di informazioni segrete senza accusarli o consentire loro di essere
processati …”. Praticamente avviene una vera e propria sparizione, in realtà un
ostaggio, perché essere palestinesi è colpa sufficiente per essere perseguitati.
Se Aysar fa riferimento alla detenzione amministrativa, non poteva tacere su
quanto avviene nel carcere di Offer, luogo di detenzione e tortura: dell’attesa
infinita per i possibili, e sperati, colloqui, delle “stanze” in cui avvengono
le umilianti perquisizioni corporali; ma anche delle letture, delle riunioni
collettive, dell’imperativo categorico da tenere in riferimento: mai parlare,
delle domande e le risposte che si susseguono in testa, delle lettere ricevute
che sostituiscono le visite che non avverranno. Ma Offer, non è un caso a sé
stante. Offer è la quotidianità a cui sono sottoposti i palestinesi. Una
quotidianità che non è fatta solo di carcere, ma di check-point con le
“spiumatrici” = la porta per disumanizzare.
Ciò che emerge dalla sua descrizione è la volontà, oggettiva, dei palestinesi di
resistere e di sopravvivere, con la solidarietà come arma per sfuggire alla
sopraffazione, all’arroganza dell’esercito occupante, con la speranza, la forza,
la combattività ed anche “il profumo della patria”, il disprezzo, la ribellione;
la militanza che sottrae l’infanzia al proprio tempo. Un’occupazione che ha
trasformato bambini che non capiscono nulla di politica in nuovi militanti per
la libertà, che non dimenticheranno mai il giorno in cui sono stati privati
della possibilità di vivere. Un libro sulla prigionia: “… ma c’è ancora il sole
che si leverà …” ed i detenuti hanno la capacità di trasformare il silenzio in
parole; lo sciopero della fame con le conseguenze che comporta, arma
penultima/ultima di forza e pressione.
Posso permettermi un consiglio? “Lettere da carcere. Racconti palestinesi” per
il titolo della prossima edizione italiana, che ci dovrà sicuramente essere.
L’entità sionista sta procedendo verso uno sterminio politico e culturale per
cancellare memoria e cultura, noi non possiamo fare altro che essere con la
Palestina che resiste.
Aysar Al-Saifi, Foglie di gelso. Racconti palestinesi, Prospero Editore, 2024,
164 pp, 14 euro
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