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A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo
In A.C.A.B., la serie prodotta dalla multinazionale americana Netflix la lotta No Tav viene mostrata in modo macchiettistico e violento, in linea oltretutto con la retorica giornalistica che abbiamo visto in questi anni. La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze, suggerendo una simmetria tra le parti, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli anni di carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra. di Movimento No Tav da notav.info In Val Susa abbiamo avuto modo di vedere A.C.A.B., la serie prodotta dalla multinazionale americana Netflix e uscita mercoledi 15 gennaio. Eravamo curiosi di osservare come una fiction di tale portata avrebbe trattato la nostra terra e la nostra lotta. Quello che abbiamo visto non ci ha colpiti: la Val Susa, in questo caso, è solo un pretesto narrativo per introdurre la storia dei reparti celere protagonisti. È significativo, tuttavia, che la lotta No Tav venga mostrata in modo macchiettistico e violento, in linea oltretutto con la retorica giornalistica che abbiamo visto in questi anni. La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze, suggerendo una simmetria tra le parti, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. In realtà, il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli anni di carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra. Quello che la serie mette in scena non è uno scontro realistico, ma una sorta di battaglia epica, che ricorda le lotte tra antichi romani e popolazioni barbariche, in cui solo l’inganno consente ai “barbari” di colpire un valoroso centurione. La narrazione non appare squilibrata solo nella rappresentazione della violenza, ma anche nell’attribuzione delle sue origini. Si tenta di far credere al vasto pubblico globale di Netflix che le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in Val Susa – e altrove – siano una reazione inevitabile, giustificata dalla tensione generata dai manifestanti. Questi vengono rappresentati attraverso la solita retorica manichea, che li divide in “pensionati buoni” e “zecche pericolose”, oppure riducendo ogni abuso a episodi isolati causati dal singolo elemento irruento: la stanca e falsa narrazione della “mela marcia” che nega, di fatto, la verità incontrovertibile per cui è il sistema ad essere violento, imponendo con la forza ciò che viene rifiutato da più di 30 anni in questa valle. E quindi nessun riferimento, ovviamente, alle ragioni della protesta, alle origini di una contrarietà ragionata e diffusa nella nostra valle, alla devastazione che quotidianamente osserviamo, ai nostri boschi distrutti, alle colate di cemento, all’inquinamento, ai rischi per la nostra salute. Poiché noi la realtà la viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, sappiamo che quello che accade in Valsusa non è un film e infatti conosciamo il prezzo per difendere il nostro territorio dalla devastazione. Siamo di fronte ad un crimine ambientale che all’oggi non vede punire i colpevoli, anche se sappiamo bene chi sono. Cosa che invece sta accadendo è che alcuni di noi sono accusati del reato di associazione a delinquere e dai vari ministeri e da Telt ci viene richiesto un rimborso pluri-milionario per difendere quei cantieri che la nostra valle non ha mai richiesto. La realtà è qui, tra le persone che vivono queste montagne. In questo documentario di cui vi alleghiamo il link, Archiviato (regia di Carlo Amblino, con voce narrante di Elio Germano) sono elencati una piccola parte degli abusi che abbiamo subito in questi anni. La nostra Resistenza ci porterà alla vittoria e questo è quanto basta.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Fotogrammi di guerra
Film che parlano di guerra e in cui la guerra è evidentemente la protagonista principale di Roberta Cospito da Carmilla Vermiglio è il film presentato all’ultimo festival di Venezia da Maura Delpero, regista non ancora cinquantenne. Durante l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, un disertore – un soldato siciliano – trova rifugio in Trentino, a Vermiglio, un paese montano a pochi chilometri dal confine austriaco, riportando in salvo, a casa, un commilitone ferito, caricandoselo sulle spalle per chilometri. Mentre sul grande schermo, nel buio della sala del cinema – perché è così che si dovrebbero guardare i film – scorrevano le immagini di una natura innevata, ogni volta che la telecamera si posava su un albero carico di neve o sul vorticare di fiocchi, mi tornavano alla mente altre immagini di una natura invernale, quelle viste nel film di Roberto Minervini, I dannati. Anche questo è un film recente dall’esile trama, in cui seguiamo le gesta di un manipolo di soldati volontari dell’esercito nordista che, durante la Guerra di secessione americana, nell’inverno del 1862, vaga perlustrando e presidiando le terre di confine non mappate dell’Ovest. Mi sembrava debole come legame il susseguirsi di scene invernali, ma poi ho capito perché i due film si richiamavano: se Vermiglio è un racconto di guerra dove la guerra, però, non si vede mai, nonostante se ne percepiscano gli effetti – povertà, lontananza da casa, morte, paura e il cambiamento in chi è tornato dal fronte – nel film di Minervini, invece, è il nemico a cui sparano i soldati a esistere senza venir mai mostrato. Anche in questo caso, però, se ne capisce la presenza dagli echi di spari, dai bagliori nella fitta vegetazione e per i cadaveri abbandonati al suolo. Il film di Minervini, coi suoi pochi dialoghi e i tanti silenzi, punta il dito contro la profonda insensatezza di ogni guerra e sull’impossibilità di trovarne una qualsiasi giustificazione se non quella di imporsi su un nemico costruito a tavolino, così come nel film della Delpero mi pare di leggere una critica al bisogno dell’uomo di affermare la propria potenza che trova terreno fertile nelle guerre. Ma i legami non si fermano qui: ne I dannati c’è un interessante dialogo tra i soldati nordisti sulla religione come appiglio, come richiesta d’aiuto per giustificare la loro presenza in un luogo assurdo e dimenticato da tutti rischiando quotidianamente la vita, così come una delle protagoniste di Vermiglio cerca di placare le sue pulsioni (omo)sessuali dialogando col Dio impostole dalla società, cercando conforto in questo. A proposito di guerra e religione, mi vengono in mente due passaggi di Tempo di vivere, tempo di morire di Erich Maria Remarque: “Il culto dei dittatori diventa facilmente religione” e “la Chiesa è l’unica dittatura che abbia vinto i secoli”. Un altro film dove la guerra c’è ma non si vede è Gli spiriti dell’isola del 2022 per la regia di Martin McDonagh. Questa volta siamo nel 1923, nell’immaginaria isola irlandese di Inisherin dove, mentre sta volgendo al termine la Guerra civile irlandese, la lunga amicizia tra il violinista Colm e l’umile mandriano Pádraic s’interrompe all’improvviso per volontà del primo, senza un motivo apparente. Il regista fa intravedere in lontananza gli echi della guerra come a sottolineare la vocazione distruttiva della natura umana, il facile deteriorarsi dei rapporti e come si sia spesso dominati da un istinto brutale che trova ampia soddisfazione nel campo di battaglia: anche l’amicizia interrotta sfocerà in un violento scontro fra le due parti. Tra Vermiglio e quest’ultimo film, trovo un’altra particolare affinità: la donna raccontata nel primo film che uccide “per onore” il marito che l’ha tradita è simile a chi, punto nell’orgoglio, si scaglia violentemente contro l’amico che, semplicemente, non ha più voglia di dedicare parte del suo prezioso tempo libero alle sue facezie, ai suoi discorsi vacui. Certo, film che parlano di guerra e in cui la guerra è evidentemente la protagonista principale ce ne sono. Non si può prescindere da un cult come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola che ci racconta del Vietnam. Il capitano Willard delle forze speciali, esperto in missioni segrete, viene incaricato di risalire il fiume fino all’interno della Cambogia per trovare il colonello Kurtz, berretto verde, impazzito e impegnato in una guerra personale contro i vietcong senza più controllo; il compito del capitano è eliminarlo in qualsiasi modo, ma questa sua ultima missione lo cambierà per sempre. Il colonnello Kurtz ha combattuto e ucciso centinaia di persone, ma gli stessi capi che prima gli hanno ordinato di uccidere, ora lo condannano per aver dato la morte, senza la loro autorizzazione, a dei singoli individui applicando una diversa moralità per cui un individuo per ragion di stato deve e può eseguire assassinii di massa, però viene condannato se inizia ad attuare assassini singoli – tre uomini e una donna dell’esercito sudvietnamita – senza l’avvallo statale: “Dal mio punto di vista, uccidere in guerra non è affatto meglio che commettere un banale assassinio” – Pensieri di un uomo curioso di Albert Einstein. Il pregio di Apocalypse Now è che con questo film termina l’era dei war-film che narrano le imprese degli eroi e comincia un’analisi critica della guerra e delle sue conseguenze: la guerra non porta ordine, ma solo caos e genera azioni che si autoalimentano in una spirale inarrestabile di violenza. Scriveva Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale: “Sotto le armi vi è molta impostura, molta ingiustizia, molta cattiveria”. Mi piace ricordare un film più recente, 1917 di Sam Mendes. La storia, come si evince dal titolo, si svolge durante il primo conflitto mondiale: due soldati inglesi, stanziati nel nord della Francia, devono consegnare a costo della vita un dispaccio che avvisa di ritirarsi prima dell’attacco tedesco e, per salvare più di mille commilitoni, si getteranno tra le fila del nemico. Anche in questa storia, pur venendo calati direttamente nelle trincee inglesi, assistendo ai roghi dei palazzi, messi di fronte a cadaveri calpestati da soldati in fuga, a ordigni che esplodono, macerie fumanti, non vediamo nessuna rappresentazione di eroi, ma solo un’umanità disperata. In caso i precedenti film non abbiano illustrato a sufficienza quale orrore sia ogni conflitto scoppiato e che, purtroppo, sicuramente ancora scoppierà, gli sguardi smarriti dei giovani soldati in trincea ritratti in 1917, dovrebbero essere un monito per tutti. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 3, 2025 / Osservatorio Repressione
L’arco dell’impero
Recensione del libro “L’arco dell’impero”, di Qiao Liang, a cura del generale Fabio Mini, LEG Edizioni di Edoardo Todaro da Carmilla Cosa ci spinge a scrivere a proposito de “ L’ARCO DELL’IMPERO “ a distanza di tempo dalla sua uscita negli scaffali delle librerie? Di sicuro la sua stringente attualità tenendo in considerazione il panorama internazionale, i venti di guerra che soffiano da più parti, la tendenza alla guerra divenuta una opzione sempre più inevitabile per gli appetiti di un capitalismo che deve uscire da una crisi sistemica senza via d’uscita, la necessità della guerra divenuta una costante, guerra come necessità politica, sociale ed economica. Abbiamo conosciuto Qiao Liang, ex maggiore generale dell’aeronautica nelle forze armate cinesi, quindi anche se non più in servizio  lo porta ad essere considerato “ esperto “ per la sua esperienza;  portatore di un punto di vista di persona a conoscenza di ciò di cui scrive. Abbiamo letto, con molto interesse, “ GUERRA SENZA LIMITI “, uscito nel 1999, scritto insieme a Wang Xiangsui, colonnello in pensione dell’Esercito popolare di liberazione,  libro che ebbe notevole attenzione a livello internazionale,scritto da due esperti di guerra,  due intellettuali organici, per dirla con Gramsci,  per i quali la strategia non si ha solo con le armi, e l’uso della forza non può essere considerato sufficiente; per i quali la politica non ha necessità dell’ideologia; scrittori e soprattutto divulgatori, consapevoli dei rischi che si può correre con la guerra. Mi ritengo fortunato nell’aver ascoltato, circa due mesi fa, la presentazione fatta dal generale Mini, ex capo di stato maggiore di comando Nato delle forze alleate ed a capo della Forza Internazionale di sicurezza in Kosovo, e Alberto Bradanini ex ambasciatore italiano in Cina. In questi ultimi tempi, anni, assistiamo, e leggiamo, discussioni, una dietro l’altra, che si incentrano nel tentare di dire, in base ad elementi concreti ed analitici, cos’è la Cina: è o non è capitalista; cos’è il socialismo con caratteristiche cinesi. Qiao tra le truppe con compiti operativi; negli stati maggiori con i vertici; scrive per mestiere prima, oggi per piacere e dovere civico; si pone a disposizione, con le sue conoscenze avvenute sul campo, nel mettere i piedi nel piatto, dell’ideologia comunista. “ L’arco dell’impero “ è in realtà una raccolta di punti di vista di Qiao tra il 2009 ed il 2015; Quiao, che in madre patria è considerato, positivamente, più un intellettuale che un militare, scrive un libro in cinese ed essenzialmente è rivolto ai cinesi. Comunque per sgombrare da possibili approcci riduttivi del tema che viene affrontato, diciamo che l’intento di questo contributo è tentare di far capire, assolutamente non per raccontare, e certamente quanto esposto in queste pagine non ha niente di accostabile ad un racconto, ma, a proposito di intento, spiegare e dimostrare. Se ci addentriamo a leggere un testo di cinesi ben coscienti di quello che sono, non possiamo stupirci se incorriamo in aspetti che ci possono sembrare inutili. Troviamo, e notiamo, ripetizioni, considerazioni ripetute. Ciò avviene in quanto ogni volta c’è un qualcosa in più o in meno da sottolineare, dal mettere in evidenza, cioè un segnale di ulteriore riflessione a proposito di un concetto già esposto; oppure le cosiddette  appendici: fonti originali dei ragionamenti  sostenuti dal libro. Entrando nello specifico del libro che sottoponiamo all’attenzione, diciamo senza difficoltà, che ci troviamo di fronte ad un testo che è una vera e propria critica/denuncia della civiltà finanziaria degli Stati Uniti i quali  portano avanti, attraverso l’egemonia del dollaro, un’opera di colonizzazione. Quiao con la sua apertura mentale, la sua capacità di analisi e la sua visione strategica affronta e ci fa capire quale sia, oggi ed in prospettiva, il ruolo cinese nel mondo, o quanto meno, quello che dovrebbe essere, al di là delle idee espresse che non sono considerabili “ ortodosse “; ruolo che la Cina dovrà avere in ambito globale; un Quiao con un forte riferimento alle contraddizioni che la società cinese ha di fronte a sé; la Cina è una nazione da far rispettare, una patria che deve servire per tutti i cinesi del mondo;  con un sistema più rappresentativo per combattere la corruzione che non va sottaciuta, per combattere le lotte tra clan, tra gruppi di potere ed ambizione dei capi. Una considerazione, tra le altre, che ci fa Quiao, e che, sicuramente è di estrema attualità: gli Stati Uniti, all’apice, quell’apice comune a tutti gli imperi, sono in fase di declino, un declino storicamente inevitabile per tutti gli imperi, a differenza della Cina che va alla conquista delle fonti, internazionali, e non  del prodotto finale, la Cina paese di pace, di una pace come strumento per vivere meglio, e per dirla alla cinese: di armonia e tranquillità; gli USA con una visione imperiale, che fa propria una visione imperiale con un approccio colonialista: ultimo impero che può  sopravvivere solo se continua a portare guerre nel mondo e con il potere/ricatto del dollaro,dollaro e guerre con le seconde che fanno bene al primo con la sua funzione egemonica,  gli USA producono dollari ed il resto del mondo produce merce che verrà scambiata con il biglietto verde; gli Usa che hanno un vero e proprio impero coloniale finanziario; gli USA che usano la politica estera per salvaguardia ai propri interessi , e che non fanno alcuna analisi e/o riflessione sul perché tanti paesi resistono e si oppongono alla globalizzazione a stelle e strisce. Non un libro tecnico, che evidenzia, come tra l’altro è successo nel recente passato,l’uso in guerra di strumenti non militari come ad esempio internet, l’uso dell’informazione, l’informatica o “ i cerca persone “. In definitiva: non è un libro antiamericano, ma è un libro che ci offre strumenti per capire le dinamiche in corso, un libro che entra a pieno titolo a far parte della cosiddetta “ cassetta degli attrezzi “. Un libro sulla guerra seguendo non solo le leggi della domanda/offerta ma, sicuramente,  le leggi del capitale. Detto questo, si può capire che è un libro più riferibile a Marx che a Clausewitz e non è né un manuale, né tantomeno un documento propagandistico. Un libro che oltre all’essere considerato la prosecuzione di “ Guerra senza limiti “, prende in considerazione, in tempi antecedenti all’oggi,  gli avvenimenti  in Ucraina,Afghanistan, Iraq, Kosovo. Gli ultimi due, emblematici rispetto al potere del dollaro ed al fatto che gli USA non tollerano nessuna altra moneta, euro compreso, che possa stare sullo stesso piano del dollaro e mantenere l’egemonia e che non si fanno scrupoli ad alterare gli scenari esistenti, e, tanto per non lasciarsi niente di non analizzato: la caduta dell’URSS con gli effetti conseguenti. Quiao ci da tutti gli elementi per capire che il prossimo campo di battaglia non sarà quello in cui si svolgerà la guerra, ma quello economico, una guerra finanziaria per l’egemonia del capitale, certo la guerra finanziaria non uccide ma ugualmente travolge, saccheggia, distrugge; tenendo in considerazione che tutti gli interessi strategici sono in definitiva interessi economici. Non è misero complottismo, sono dati di fatto, è una normale operazione finanziaria. Se abbiamo l’intelligenza di leggere questo libro nella giusta ottica, capiamo che c’è una differenza fondamentale  tra la realtà oggettiva e certe teorie ritenute consolidate, e capire quali delle due sono importanti, ma non solo ci aiuta a capire la relazione che esiste tra il dollaro, l’economia e le forze militari. Un libro che ha una sua logica indiscutibile: se non si può mettere in campo una guerra militare, non si può non combattere una guerra economica, e Quiao ci consiglia che se non capiamo la finanza non possiamo capire le intenzioni strategiche. Ovviamente non potevamo dal sottrarci da quanto si sta affacciando all’orizzonte e che è strettamente collegato a quanto scritto: i BRICS ed il percorso di dedollarizzazione, un percorso foriero di sorprese, attraverso un sistema di pagamento che dia l’opportunità di liberarsi dalla dipendenza dal dollaro, dall’egemonia USA, per creare una reale autonomia e sottrarsi dalla centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale che assicura agli USA un enorme potere, per dirla in parole povere: stiamo assistendo ad una crescente tendenza ad evadere, a livello internazionale, dal sistema dollaro/centrico ed all’accentuarsi di una sfiducia generalizzata nei confronti di un ordine internazionale basato sull’unilateralismo statunitense > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 10, 2024 / Osservatorio Repressione
Il tempo del genocidio
Recensione al libro di Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie di Edoardo Todaro da Carmilla Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente giusto.  Allo stesso tempo leggere il contributo di Samah ci rende ancor di più consapevoli del fatto che la solidarietà internazionale verso i palestinesi è quanto mai necessaria ed indispensabile; che la solidarietà verso il popolo palestinese è terapeutica  per tutti noi, è un imperativo morale ed etico, che la loro resistenza  è sostegno ed aiuto anche per noi, e coniugare questi due aspetti può essere un percorso proficuo per mettere fine alla più lunga e sanguinosa occupazione attualmente in corso, la solidarietà rende i palestinesi consapevoli del non sentirsi soli. La solidarietà ha un potere curativo reciproco.  L’essere impegnata nel campo della psichiatria, Samah dirige l’unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese, fa sì che quanto descritto sia inserito in un contesto storico di quanto avviene. Se vi è ancora bisogno di capire che quanto ci viene raccontato dalla propaganda di guerra: “tutto è iniziato il 7 ottobre” è pura demagogia utile solo a far schierare l’opinione pubblica a sostegno dell’entità sionista delle complicità occidentali, leggere “Il tempo del genocidio” ci permette, con una descrizione lucida, di valorizzare ulteriormente il perché ci schieriamo da una parte, quella di chi non accetta di vivere da schiavi e si ribella, nonostante che Gaza venga lasciata morire. Poco sopra dicevo della sua descrizione lucida, ma mi sento di aggiungere che niente concede. Lei, del ministero della sanità palestinese, non si sottrae, con un notevole pensiero critico, al criticare quanto di negativo si annidi all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, dall’illusione degli accordi di Oslo alla conseguente delusione,  e del vivere quotidiano in Palestina, con il patriarcato, il sessismo, andando al di là dell’occupazione. Un popolo, quello palestinese, che è stretto tra il sopravvivere e la resa all’oppressore. Samah è ben cosciente del suo contributo alla lotta di liberazione e del volerne dare mano. Samah ci rende chiaro, in tutto e per tutto, cosa significhi Gaza: una prigione a cielo aperto con le sue infrastrutture deteriorate, le strade distrutte, gli spazi abitativi sovraffollati, la povertà, l’anemia, l’insicurezza alimentare, l’assenza di carburante, di elettricità, di assistenza sanitaria, dove dire: “non ci sono luoghi sicuri” è la normalità e nei volti di chi sta sopravvivendo è fotografata la schiavitù moderna, dove si va accentuando il consumo di droghe e l’abbandono scolastico con tutto ciò che comporta, i suicidi in aumento e la perdita di un positivo desiderio tra i giovani. Samah usa la lente della psichiatria per leggere lo stato d’animo degli oppressi, mette mano a Fanon, entra dentro i meandri della salute fisica e mentale dei palestinesi, quello che i palestinesi vivono è un trauma psicologico e collettivo che è il risultato di decenni di oppressione, di violenza, umiliazione, ingiustizia. Detto questo, ovviamente  Samah non può non riconoscersi nel diritto di un popolo occupato a resistere. Un diritto sia legale dal punto di vista della legge internazionale e sia un diritto umano basilare, perché dove c’è oppressione ci sarà sempre resistenza. A proposito di resistenza, Samah evidenzia il significato dello sciopero della fame portato avanti dai prigionieri politici palestinesi come ultimo tentativo di opporsi alla sopraffazione. L’aspetto che più dobbiamo far emergere dalla lettura di queste pagine, e lo vediamo in questi lunghissimi mesi, è che i palestinesi non si considerano assolutamente vittime ma soggetti attivi e combattenti per la libertà, terminologia che piacerà sicuramente agli statunitensi come il passato ci insegna. Quanto avviene in Palestina non è la «guerra» che ci viene propinata, ma bensì la guerra alla storia palestinese, è parte della guerra alle menti, la continua, e per certi versi silenziosa pulizia etnica per riscrivere la storia. Non è un caso che l’occupazione scelga di distruggere i simboli  che sono psicologicamente importanti per la resistenza e la memoria collettiva, in un odioso tentativo di memoricidio. Ma l’occupazione non fa uso solo di questo; la fame come arma di guerra; la distruzione delle infrastrutture essenziali, del sistema sanitario, la carestia per compromettere lo sviluppo mentale e fisico dei bambini, le sepolture negate come arma psicologica per immettere una sensazione di impotenza in coloro i quali la subiscono, il sopravvivere che se può sembrare un qualcosa di positivo, in realtà è un qualcosa che trasmette profondo disagio psicologico; la tortura, attraverso le finte fucilazioni, la detenzione in condizioni umilianti e degradanti, la privazione del sonno ecc … con i traumi fisici e psicologici che trasmette per spezzare la resistenza  e creare impotenza,  far perdere la stima di sé e creare un clima di diffidenza all’interno della comunità di appartenenza, il bendare gli occhi non solo per non identificare i torturatori ma come deprivazione sensoriale creando, così, gravi problemi di salute mentale e conseguenze traumatiche de umanizzando la vittima; le punizioni collettive privando la popolazione dei beni di prima necessità. Quanti immagini abbiamo visto in questi mesi che ritraggono gli occupanti in modalità festeggiante dopo aver compiuto molteplici nefandezze, ebbene non siamo in presenza di killer psicopatici ma bensì di chi prova piacere e/o gratificazione psicologica nel dare ad altri dolore e/o sofferenza. All’inizio abbiamo parlato del 7 ottobre, non potevamo non farlo visto il continuo, assillante martellante, propinare la narrazione di quel fatto; ma se vogliamo dare una corretta lettura di quei fatti, perché non dire che si è passati dall’umiliazione alla vendetta contro tutto ciò che è palestinese. Certo l’esempio è palestinese, ma la lezione non può che essere globale. Quanto avviene in Palestina è una lotta che non potrà che proseguire fino a quando la Palestina non sarà libera ed arrivare a far sì che le tendenze sadiche dell’occupante siano rimosse e trionfi l’umanità di coloro che lottano per la liberazione. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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December 5, 2024 / Osservatorio Repressione
La poesia autentica di Kalomenìdis e la Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre
Una recensione al libro di Filippo Kalomenìdis “La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre” a cura di Valerio della Libreria I Fiori Blu Un testo, un sentimento, un cammino nel solco de “I dannati della terra” di Franz Fanon. Questo il percorso poetico-politico di Filippo Kalomenìdis nel suo ultimo “La rivoluzione palestinese del 7 ottobre” edito da Pgreco (introduzione di Samed Ismail, illustrazioni di Abu Manu, pp.124). Tre sono le caratteristiche della resistenza palestinese che Filippo richiama “scandalosamente” in causa: la prima riguarda la potenza innovatrice «che rivela una concezione inedita della donna e dell’uomo come soggetti che liberano “l’estremismo umano”, lottano contro “questa vita” incatenata, espropriata e scarnificata e la scagliano come arma contro il nemico pur di giungere alla vittoria». Fuori da ogni mediazione possibile col nemico coloniale. La seconda riguarda la sovversione volta «all’attacco senza tregua del carnefice» mettendo a nudo la sua debolezza imponendogli una mutazione definitiva nel suo «stile di vita superiore per diritto confessionale ed etnico». I resistenti palestinesi riescono a colpire in profondità, anche psichica, la società occupante e trasformano Gaza da lager a fortezza dell’insurrezione. La terza caratteristica della rivoluzione palestinese del 7 Ottobre viene definita con la frase di Calvino: «è una continua sfida alla legge della gravitazione». Il 7 ottobre rimette in discussione i confini tracciati dagli occidentali è «l’epicentro di un terremoto che scuote e scuoterà le colonne portanti, già quasi disfatte, del totalitarismo neoliberista dell’Unione Europea». Questo libro è una ricerca serrata dentro le contraddizioni dell’Europa come entità ideologica fittizia, responsabile principale della storia coloniale di Israele, con richiami alla nascita del rapporto dell’Italia fascista con l’entità sionista già dai primi anni trenta del ‘900. La critica ai rapporti odierni di cooperazione economica e militare tra l’Italia e lo stato sionista è centrale e ben documentata nelle note. Ci mostra l’isomorfismo tra le leggi di apartheid israeliane con quelle repressive contro gli immigrati in Italia inaugurata nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e i dispositivi repressivi dell’articolo 90 per i rivoluzionari italiani degli anni settanta e il successivo 41 bis di più attuale memoria contro anarchici e mafiosi: «isolamento del detenuto come pena, forma estrema di tortura e metodica distruzione psichica» citando Ahmad Sadat, scrittore, segretario del FPLP, prigioniero politico nelle carceri israeliane. Questo testo è anche un’analisi lucida dello stato confusionale delle sinistre italiane ed europee obnubilate dall’ideologia vittimaria che vede i palestinesi come vittime sacrificali da proteggere come una specie in via d’estinzione finché si sottomettono, per poi ipocritamente prendere distanze o fare distinzioni tra buoni e cattivi, tra popolo e resistenza, conferendo o revocando patenti di legittimità dal proprio divano di casa, quando i palestinesi vanno all’attacco. Ne escono male “i maestri di morale” quanto “le anime belle”. Vengono qui trattati i punti controversi della propaganda sionista e la cattiva coscienza di chi la propugna in Italia e nel mondo: in primo luogo, il tentativo di equiparazione dell’antisionismo con l’antisemitismo, invenzione a tutti gli effetti fuori da qualsiasi giustificazione storica, antropologica e politica. Sono da leggere a perdifiato il capitolo “I pesci escono dal mare” dove teneramente Filippo racconta al nipote di Amira la storia di un mare che verrà e “Le mani vedono insieme agli occhi”, un’ode struggente al suo amico Roshdi Sarraj ucciso dai bombardamenti dell’aviazione sionista nella sua abitazione a Gaza. In questi capitoli, i ragionamenti escono come profluvio dalle citazioni di poeti, scrittori, uomini e donne di ingegno, arabi, iraniani, resistenti palestinesi, di cui è riccamente corredato il testo che fanno risuonare, nei loro canti, nei loro pensieri, nei loro scritti,  i racconti degli storici arabi delle crociate nel celebre saggio di Francesco Gabrielli e ci portano avanti e indietro nel secolare rapporto di scambio e scontro dei popoli che hanno vissuto mescolando il loro cibo e l’arte della guerra sulle differenti sponde del bacino mediterraneo, avendo questi in comune una terra ardua da dissodare come ricordava Fernand Braudel: sotto pochi centimetri di massa organica su cui coltivare, la roccia dura come le armi dei greci. Eppure in questi tempi di acciaio e fuoco, l’ospitalità mediterranea non viene meno, si riattiva nella solidarietà che la causa palestinese, in lungo e largo, in Italia e nel mondo, dalle persone più disparate e diverse, soffia forte in direzione ostinata e contraria. A partire dalla terra di Sardegna, prima colonia d’Italia, terra di addestramento militare della Nato, da cui giovani donne e uomini manifestano come “un movimento nel movimento”. Per queste sue pagine il nostro Filippo, scrittore, poeta e militante politico sardo-greco, con origini turche e russe, figlio e nipote di profughi, è stato minacciato. Perché in Italia, oggi esiste un groviglio ambiguo che unisce appartenenti all’area del partito radicale e esponenti neonazi presenti nei direttivi delle associazioni Italia-Israele con estremisti fanatici che sventolano bandiere con la stella a sei punte. Per finire, ritorna in questo testo il ricordo dolce di una comune amica. Barbara Balzerani, con la quale presentammo insieme l’opera precedente di Filippo: “Per tutte, per ciascuna, Per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi” edito da D. E. A. Barbara non è più tra noi ma è sempre insieme a noi, nei suoi scritti poetici e nella sua storia di rivoluzionaria. Ci esorta a non dismettere mai il proprio abito, a non farci annichilire dalle condizioni avverse, a non perdere l’abitudine del pensiero critico e della perseveranza nella lotta. Nell’epoca del genocidio, dell’artificializzazione delle vite, della sostituzione del vivente e dell’estinzione progressiva di homo sapiens non è cosa da poco. Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022). Abu Manu, scrittore (Pietre; Racconti mediorientali) e pittore. Ha militato per oltre trent’anni nella Resistenza Palestinese. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 27, 2024 / Osservatorio Repressione
La rivoluzione è fede
Intervista a Filippo Kalomenìdis, autore del discusso libro “La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre” di Dimitra Kazantzidou* Esce oggi nelle librerie italiane, La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre dello scrittore e poeta Filippo Kalomenìdis (PGreco Edizioni, illustrazioni di Abu Manu, pp.116). Terzo capitolo della sua tetralogia del «campo di battaglia come Paradiso» – dopo La direzione è storta (2021) e Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022), scritto con il Collettivo Eutopia – è stato già pubblicato in Grecia a settembre. Ne parlo con lui nei giorni successivi al suo rientro da Beirut e alla presentazione ateniese nel giardino Tsamadou di Exarchia. Esattamente a un anno dalla diffusione, proprio sulle pagine di Osservatorio Repressione, del breve saggio eretico-politico che ha dato il titolo al libro. Se nell’ottobre 2023 chiamare “Rivoluzione” il Tūfān al-ʾAqṣā è parso scandaloso, in quest’opera Kalomenìdis si è spinto oltre giungendo a un concetto assai più scabroso, quello del «necessario annientamento dell’entità sionista e occidentale d’insediamento coloniale in Palestina». Infatti, dice sempre Kalomenìdis, non ci potrà mai essere alcuna pace finché l’occupante genocida non sarà definitivamente sconfitto dalla Resistenza Palestinese e dall’Asse della Resistenza. Mi racconta di essere profondamente colpito dal dinamismo del movimento greco per la Palestina e di essere deluso dalla farraginosità che negli ultimi mesi caratterizza quello italiano. «E non solo per i decreti e le azioni repressive del governo neofascista. Mi risulta che da voi, sotto tale aspetto, si stia persino peggio», precisa prima di cominciare l’intervista. Come è nato questo libro? È una raccolta di brani scritti a margine di una nuova opera poetica dedicata ai palestinesi che si battono nella Shatat (la diaspora, la dispersione palestinese), e del mio impegno di militante per la liberazione totale della Palestina. Quando il compagno Leonidas Valasopoulos mi ha proposto di raccogliere materiali editi e soprattutto inediti sulla Palestina per pubblicarli in Grecia con Προλεταριακή Πρωτοβουλία (Iniziativa Proletaria), mi sono reso conto che quest’opera era un passaggio impreteribile nel mio cammino di uomo e scrittore. Avevo di fronte il terzo capitolo della mia «tetralogia del campo di battaglia come Paradiso». Come nei precedenti viaggi di scrittura, ogni riga è incardinata sull’amore per i reclusi negli inferi del pianeta, sulla ricerca di una giustizia ultramondana e indivisibile che divenga giustizia in terra (nel Corano, ‘adala); sulla testimonianza dei resistenti, dei combattenti, dei martiri contro l’oppressione occidentale, capitalistica e coloniale; sulla fede come corpo vivo che nella donna e nell’uomo si fa parola e azione; sul conflitto senza requie (il polemos di Eraclito) e l’estremismo umano come spinte imprescindibili dell’esistenza; sulla riscrittura poetica della Storia dal basso, dal punto di vista dei diseredati. In questo caso, dando voce al popolo della mia anima come figlio e nipote di profughi, perseguitati politici, derubati della propria casa e scacciati: il popolo palestinese. Nei tuoi libri precedenti, sei stato eretico non solo nei contenuti ma anche nello stile mescolando monologo e dialoghi teatrali, versi, pagine di diario, prose liriche, ma in questa raccolta sei andato oltre. Hai aggiunto agli strumenti stilistici già adoperati il saggio antiaccademico che è poesia, conversazione interiore, lettera ai protagonisti storici e ai fratelli e alle sorelle martiri, e persino favola teosofico-politica. Non sembra che ci sia nessuno al momento a sperimentare in tal senso, soprattutto considerando il fatto che la parola è per te arma di resistenza. Come ti senti ad essere una voce così stentorea e solitaria nel panorama letterario italiano? In Memoria dello scrittore palestinese Salman Natur c’è un’indimenticabile, per me indispensabile, affermazione che ripeto ogni volta che scrivo, quasi fosse una preghiera: «Se il taccuino si perde, è perduta la mia vita! […] Io morirò ma la storia non morirà. Ci sono persone che vogliono uccidere la storia. No! È tutto scritto in questo taccuino!». La mia ossessiva ricerca linguistica e stilistica vuole sempre approdare a quella che nell’introduzione a Respiro di Barbara Balzerani ho denominato «opera esperienza sensibile». Un’opera che non si legge soltanto ma s’incontra brutalmente con le sue parole autentiche, scabre, taglienti, carnali che chiamano le cose con il loro nome. In contrapposizione alla distanza tra linguaggio e realtà, al mercimonio del racconto, alla contraffazione della storia e della verità che impera nella scrittura derivativa della propaganda liberale, nordoccidentale. Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere personalmente e attingere da Maestri di vita e poesia come la stessa Barbara Balzerani, Sante Notarnicola, Salvatore Ricciardi, Suaad Genem e di crescere come autore con le pagine altrettanto inarrivabili di Ghassan Kanafani, Walid Daqqah, Alekòs Panagulis e Hervé Guibert. Nel tuo breve saggio poetico-politico La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre, sei stato il primo in Italia, e credo in Europa, a mettere un punto saldo sul fatto che il 7 Ottobre sia la data della “Rivoluzione Palestinese”. Sei stato e sei il solo scrittore a definirla tale. Il saggio è stato allora divisivo, anche e soprattutto tra i soggetti che a diverso titolo hanno sostenuto, almeno nelle intenzioni, la causa palestinese. Perché si tirano indietro davanti alla parola “rivoluzione”? Quasi tutta la porzione italiana – e non palestinese, araba, musulmana – del Movimento non ha idea di cosa sia realmente una rivoluzione. La rivoluzione è una sovversione violenta, irreversibile del presente che concretizza una concezione inedita della donna e dell’uomo. Una sollevazione di massa dei reietti che salda armoniosamente il politico e il militare per introdurre con forza l’assoluto nella Storia. Un agire collettivo che confida nel cambiamento in terra della propria condizione come non solo necessario, ma anche raggiungibile. Un moto corale che crede nella potenza e usa la potenza (in arabo, Quwa) in quanto principio che obbliga a modificare lo stato di cose dominante, creando il possibile. Tutto questo non sarà mai compreso dai professionisti dell’umanitarismo, del quietismo che nelle loro comode case e nella loro miseria morale continuano a parlare di “pace”, senza intendere che quella che vogliono è una falsa pace assassina. Il 7 Ottobre ha tolto finalmente credito alla loro presenza sulla scena culturale e politica attuale. Le tue parole ripropongono la questione della violenza e della lotta armata in Palestina e nei paesi arabi occupati da Israele, rifiutata aprioristicamente dalla sinistra italiana delle bandiere arcobaleno… …E dalla sinistra delle bandiere rosse sbiadite, aggiungerei… I palestinesi espropriati di tutto da un secolo come dovrebbero affrontare i coloni genocidari sionisti? Come dovrebbero rapportarsi gli oppressi (mustadha’fin) con gli oppressori (mustakhbirin)? Perché non dovrebbero ricorrere alla violenza (per quanto nella cultura araba e islamica rappresenti sempre – nessuno o quasi lo sa – un’operazione dolorosa al contrario che nel razionale, civile, democratico Nord Occidente) come strumento di difesa della vita dei propri figli, della vita di un intero popolo? Muhammed Hussein Fadlallah, fulgido esponente libanese del pensiero islamico contemporaneo, nel trattato giuridico Ahkam al-shari’a, ce lo spiega in termini essenziali nel punto 741: «Reagire all’aggressione con una contro-aggressione […] è di fatto un obbligo per il difensore». Oppure ancora più semplicemente in un’intervista del 1995 al “Journal of Palestine Studies”: «Se un pazzo ti prende per il collo, hai come unica soluzione per salvare la tua vita ucciderlo oppure tagliare la sua mano». La Resistenza Palestinese è riuscita nel prodigio di elevare la vocazione legittima verso la difesa collettiva, dopo 76 anni di occupazione e sterminio, a una rivoluzione che ha cambiato e cambierà per sempre questo secolo. Dal 7 Ottobre 2023 è definitivamente chiaro a chiunque abbia gli occhi dell’anima spalancati che la battaglia per la liberazione totale della Palestina è la battaglia cruciale per il genere umano. Perché coincide con quella tra oppressori e oppressi in qualsiasi angolo del pianeta. Le stesse «anime belle razziste» così le chiami nel libro citando Fanon, obietterebbero che il 7 ottobre è stato un attacco terroristico portato avanti da Hamas, movimento islamico, in cui sono stati uccisi anche civili… Cosa rispondi loro? Ritengo chi ha simili posizioni corresponsabile – non importa se inconsapevole – del genocidio in atto nella Palestina Occupata e dello sterminio del popolo libanese, quanto la consorteria neofascista-ebraica-sionista che controlla questo disgraziato Paese. Se anziché osteggiare in tutta Italia le presentazioni del mio libro, impiegassero i loro giorni a leggere Fanon, Ahmad Sa’adat, i manifesti di Hamas e Hezbollah saprebbero che la violenza del colonialismo d’insediamento è «terroristica». La violenza della risposta del colonizzato, invece, è «terrificante», ma sempre liberatrice dalla ferocia suprematista divenuta legge. Se ascoltassero sinceramente per un solo momento palestinesi e libanesi scorgerebbero la loro «potenza di vita» e si vergognerebbero di raccontarli, dall’alto della pretesa superiorità bianca, razionale e nordoccidentale, come vittime da salvare con l’inanità del diritto internazionale. Se studiassero – non dai testi dei servi d’Israele e del mondo liberale – la storia di Hamas, del Jihad Islamico, del Fronte Popolare, del Fronte Democratico, se  parlassero coi militanti rivoluzionari, potrebbero constatare la propria macilenza etica, e toccare la fede pura di donne e uomini nuovi che infrangono nel Vicino Oriente il tempo lineare del capitalismo e del colonialismo. Però immagino siano troppo impegnati a piagnucolare, tenere in piedi la finta solidarietà che li aiuta ad autoassolversi dall’orrore di cui sono compartecipi, e sopravvivere da perfetti cittadini genocidari della repubblica italiana. Nella tua opera, parli esplicitamente di «spiritualità politica»; di «teocentrismo […] la dimensione dove Dio e la potenza liberatrice della spiritualità garantiscono ogni altra dimensione. Per prima, la battaglia senza tregua per la giustizia terrena»; di «fede concreta e al contempo assoluta, un ideale sacro che permette» di andare oltre se stessi nella lotta. Questa visione è il punto centrale della tua “eresia”? Se non si comprende questo aspetto, non si è in grado di comprendere la Resistenza Palestinese e il genocidio perpetrato dai sionisti e dai nordoccidentali, governo e stato italiano in prima fila. La rivoluzione dei movimenti islamici palestinesi, libanesi, yemeniti, siriani, iracheni e del marxismo palestinese è una lotta armata e spirituale contro il liberalismo sionista, contro il fondamentalismo atlantista ateo. Da una parte le donne e gli uomini nuovi delle comunità della solidarietà immensa arabe e islamiche, dall’altra la società laica della distruzione, dell’individualismo apocalittico, fondata sul genocidio dei difformi, in nome del profitto, del benessere e del dominio di pochi prescelti. La Resistenza Palestinese e l’Asse della Resistenza non combattono quindi contro l’ebraismo che, in quanto strumento di un’ideologia della falsa democrazia coloniale, non ha alcun valore religioso. È già secolarizzato, è già ateismo. Come testimoniato pure dalle frange dell’ortodossia ebraica che si oppongono a Israele. Alle nostre latitudini, senza fede, senza fare uso della propria vita per gli altri e per generare un mondo luminoso, senza un radicale processo di de-occidentalizzazione, non è possibile nemmeno immaginare di sabotare il genocidio del popolo palestinese e colpire nel profondo le centrali politiche, militari, culturali, mediatiche dell’oppressione sionista e occidentale. Il tuo libro si apre con la prigionia di Khaled El Qaisi nella galera sionista di Ashkelon e si conclude con la vicenda dei tre prigionieri politici palestinesi rinchiusi nelle carceri italiane: Anan, Alì e Mansour. Possiamo dire che i due casi sono speculari tra loro e perché? È una corrispondenza geometrica all’interno del testo per rimarcare che il popolo palestinese è un popolo prigioniero: nei centri israeliani d’internamento, sevizia e annientamento; nel gigantesco campo di sterminio a cielo aperto della Palestina usurpata; nei Paesi che compartecipano all’occupazione, tra i quali l’Italia, dove i suoi figli scacciati e costretti a vivere in esilio, vengono perseguitati. Come Anan Yaeesh. Sepolto vivo in un penitenziario “democratico” per il delitto di legittima difesa della propria terra da immondi invasori. Non è un caso che la poesia e la narrativa più rilevanti degli ultimi settant’anni vengano dalle mani e dal cuore di autrici e autori palestinesi. Si congiungono alla lirica epica dei reclusi politici che ha centralità nella scrittura in tutto il mondo, in tutto il Novecento, rinnovandola e innalzandola con la «dimensione del sovra-esistenziale», come l’ho battezzata nelle mie pagine. È un voler sottolineare la «consanguineità ideologica e concreta» tra Israele e la repubblica italiana fondata sul diritto di annientare differenti e resistenti. «Come quello sionista, lo stato italiano fa del razzismo coloniale una religione», scrivo in La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre. Il sionismo ha secolari, profondissime, maligne radici culturali, storiche, politiche, economiche nella melma tricolore. A livello legislativo e repressivo con l’editto di segregazione razziale sulla detenzione amministrativa per i migranti – ispirato alle norme sioniste esercitate al massimo livello di ferocia sui palestinesi – promulgato dal centrosinistra 26 anni prima delle deportazioni in Albania, ordinate dal governo neofascista. Altrettanto si dica per i dispositivi dell’apparato giudiziario-carcerario che da mezzo secolo utilizzano l’isolamento come scientifica forma di tortura funzionale alla disintegrazione dell’identità del prigioniero, ricalcando il sistema giuridico d’apartheid israeliano. Potrei fare molti altri esempi. Mi fermo all’impunità che permette a migliaia di ebrei italiani di partecipare alla macelleria di civili gazawi, come sicari e torturatori negli squadroni della morte dello Tsahal, l’Israel Defence Forces, con la benedizione delle alte cariche istituzionali e dei media predominanti. Nel tuo libro, ci afferri per i capelli e ci mostri le radici e il fango dell’Italia sionista a cui accennavi prima… L’Italia è una delle nazioni dove vennero addestrati i banditi sionisti che parteciparono alla seconda fase della Nakba, come ci insegna Joseph Massad, cominciata nel 1947. Dove, oggi, i nipoti assassini di quegli assassini si esercitano a bombardare a bassa quota e sperimentano armi chimiche come il fosforo bianco prima di utilizzarle sui civili palestinesi e libanesi. L’Italia è una nazione islamofoba, arabofoba, misoxena con una tradizione – a lungo nascosta, adesso a volte perfino celebrata dal regime repubblicano – di pratiche genocidarie e di colonialismo d’insediamento in Libia, Somalia, Etiopia, Abissinia, Istria e Dalmazia. L’Italia ha rinnegato da decenni l’identità mediterranea per accogliere la fittizia, suprematista e distruttiva identità europea e atlantista. Né le fiacche o prezzolate élite culturali della sinistra, né la popolazione, né la componente italiana del movimento per la Palestina hanno ancora fatto i conti con questa fondante mostruosità. Credo sia semplicistico ricondurre alla complicità fascista nella Shoah e al derivante senso di colpa di massa, la noncuranza abietta, criminale della maggioranza dell’opinione pubblica italica rispetto alla tragedia palestinese. Hai da poco vissuto un intenso periodo in Libano fino ai bombardamenti e all’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, da parte degli israeliani. Cosa puoi riportarci in breve della tua esperienza? Ogni angolo di Shatila è aperto al vero cielo. Uno spiraglio minuto di cielo a Shatila riceve lo sguardo grato di chiunque cammini tra i vicoli del campo, stretti come cunicoli. Perché quelle fessure celesti tra le case attaccate l’una all’altra donano respiro e ricevono amore dagli occhi di donne, bambini, uomini. Si possono misurare coi palmi delle mani ma sono al tempo stesso sconfinate. Le ampie distese di nuvole e azzurro sporco, metallico sopra le larghe strade del Nord Occidente sono al contrario scontate. Nessuno ha il tempo o il coraggio di alzare gli occhi per ammirarle. Sono un grande coperchio che schiaccia privilegiati e sottoprivilegiati che corrono a testa bassa per sopravvivere da schiavi, nella rassegnazione, nella caduta nel nulla di un’esistenza insensata. A Shatila, Beirut, Baalbek, nell’intero Paese, pur espropriati di tutto, con il rischio di morire sotto le bombe israelo-statunitensi in qualunque istante, i palestinesi e i libanesi invece vivono. Abbracciano l’altissimo vivere. Combattono e vivono uniti in una fraternità e generosità immensurabili. «Isrā’īl», sorrideva senza timore un mio giovanissimo amico palestinese mentre sentivamo il latrato demoniaco dei caccia sionisti sopra Shatila. Continuava a fumare, richiamando calmo i compagni, restando seduto accanto a me. Si lasciava cingere dal cielo notturno finalmente pieno, in un piccolo spazio sul tetto di una casa. Tra grovigli di cavi elettrici e la cisterna d’acqua marina. Quel tiepido filo salato che ringraziavamo lavandoci appena svegli e rendeva ogni passo della giornata un tuffo tra le onde. Come insegna Sayyed Hassan Nasrallah: «questo tipo di sangue trionfa sulla spada, questo tipo di sangue vince sulla spada e la sconfigge, spezza tutte le catene e umilia ogni tiranno e arrogante». Il martirio di probe, eroiche Guide dell’umanità che resteranno eternamente nella storia, come Hassan Nasrallah, Ismail Haniyeh, e Yahya Sinwar non scoraggia certo le donne e gli uomini dalla tempra eccezionale della Rivoluzione del 7 Ottobre. Non fermerà di sicuro il processo irreversibile di dissoluzione del sistema nordoccidentale e dell’entità coloniale d’insediamento sionista. Fino all’assoluta liberazione della Palestina e del Libano. * Dimitra Kazantzidou, traduttrice e militante politica. * Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).               > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp      
October 25, 2024 / Osservatorio Repressione
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July 2, 2024 / Osservatorio Repressione
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April 17, 2024 / Osservatorio Repressione
Edward Said, preludi alla trappola di Gaza
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March 29, 2024 / Osservatorio Repressione
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March 29, 2024 / Osservatorio Repressione