Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile. Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia
compresa, è contributo nella direzione di una presa di coscienza, per capire da
che parte stare.
di Edoardo Todaro da La Città Invisibile
Quanto sta avvenendo in Palestina, Gaza e Cisgiordania, è qualcosa a cui mai
potevamo pensare di assistere, praticamente in diretta. Crimini di guerra e
crimini contro l’umanità vengono commessi su scala mai vista. Non c’è rifugio,
non c’è luogo sicuro. I palestinesi vengono bruciati vivi nelle tende. Vengono
attirati nei “ luoghi sicuri” e poi bombardati. Vengono lasciati morire di fame,
privati di cibo, acqua ed elettricità, condannando così a morte i pazienti degli
ospedali.
Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile, rai ed affini a parte, a chiunque abbia un minimo di interesse nel
volersi fare un proprio punto di vista sugli avvenimenti in corso, e nel vedere
le immagini che scorrono sul televisore, o meglio sul pc, i sentimenti che si
accavallano sono commozione e frustrazione. Sul primo non credo sia necessario
dire chissà cosa, ognuno fa i conti con i propri sentimenti, ma la frustrazione
è dovuta semplicemente al fatto che stiamo facendo tanto per essere solidali con
i palestinesi, ma siamo consapevoli che ancora non facciamo quanto dovremmo.
Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia compresa, lo
considero un ulteriore contributo nella direzione di una presa di coscienza, per
capire da che parte stare. Hanin Soufan ci porta all’interno di quello che è
divenuto un vero e proprio deserto, ci offre una luce nel buio del genocidio,
una vera e propria inchiesta sul campo.
Il primo contributo riportato si riferisce a coloro i quali con il proprio
incessante lavoro sono sotto attacco continuo, da parte delle forze
d’occupazione: i giornalisti, che sono odiati da Israele in quanto testimoniano
cosa significa raccontare i diritti di un popolo oppresso, una verità che è
immortale. Wael Al-Dahdouh che lavora per Al Jazeera ha già passato in carcere 7
anni in occasione della prima Intifada. Un lavoro fatto come fosse una missione,
perché il mondo ha bisogno di sapere quanto sta succedendo. Quanto descritto è
sotto gli occhi di tutti: nessuna zona definibile sicura; bombardamenti ovunque
anche le ambulanze che portano i feriti da parte di quello che in occidente
viene definito l’unica democrazia del Medio Oriente, con quello che è ritenuto
l’ esercito ritenuto “morale”.
Passando alla seconda testimonianza, che dire? Emerge il ruolo delle donne,
delle madri che fanno figli, molti figli, come atto di resistenza, delle mogli
con i mariti che lavorano nelle colonie israeliane, con le difficoltà, e già
definirle così è attenuare cosa vuol dire “difficoltà”, che Gaza subisce per il
blocco economico in corso ben prima del 7 ottobre, senza cibo, senza acqua,
senza medicine. Dal ’73 c’è uno slogan che ritengo del tutto attuale: “Potremo
morire tutti, ma se resterà una donna incinta essa darà alla luce un figlio che
libererà la Palestina”.
Leggere il terzo contributo, con Ahmad testimone dell’orrore, è come vedere
quanto quotidianamente i palestinesi subiscono: non solo i bombardamenti, ma le
urla strazianti, i pianti inconsolabili. Gaza: un assedio ininterrotto di
massacri, che porta inevitabilmente al genocidio. Gaza meglio morire che “vivere
“ nell’inferno. Gli occupanti distruggono tutto perché non è la loro terra.
Motal Azaiza, nella quarta testimonianza, ci parla di una Gaza sotto assedio,
dimenticata da tutti, dove chi vive è rinchiuso in una gabbia e ciò che è
concesso è dato dall’occupazione con il contagocce. Motal si è posto un compito,
un compito che l’essere giornalista/testimone impone: portare avanti un’opera di
sensibilizzazione, far emergere voci, le voci di chi non ha voce, far emergere
la forza e la sofferenza di un popolo.
Quindi con Khaled Nebhan, nel contributo seguente, è la speranza, quella
speranza che non si piega, ad essere valorizzata, la speranza che vive anche nel
campo profughi: un vero e proprio labirinto di sogni, una battaglia l’accesso
all’acqua, mangiare carne un lusso, con le giornate che trascorrono lentamente e
nonostante tutto questo ciò che conta è che la miseria non divide, ma unisce.
Una frase su tutte deve essere da riferimento: “ Non usciremo da qui, accada
quel che accada”.
Incontrando Nadine, nel sesto, è il ruolo di unità nella resistenza
all’oppressione delle comunità religiose; la solidarietà nella lotta che unisce
al di là dei riferimenti religiosi, nel sogno di una terra libera
dall’oppressione. Vangelo e Corano …. uniti nella lotta. A dispetto dei
bombardamenti è la solidarietà che vince.
Con Mohammad Abu Salimah, dopo aver visto il ruolo dei giornalisti e
dell’informazione, conosciamo il coraggio di un medico sotto assedio: le sfide
continue dovute all’imperativo categorico autoimposto del dover salvare vite;
l’assenza di medicinali, di carburante, di elettricità, e la lotta quotidiana
per la sopravvivenza è la normalità. L’ospedale un luogo di possibile guarigione
diviene rifugio per migliaia di sfollati e poi luogo di morte. L’assurdità
raggiunta dal governo israeliano nel dichiarare che le autoambulanze e gli
ospedali sono un rifugio di Hamas. Ma una cosa su tutto: il popolo Gaza non si
piega anche se Israele non rispetta la vita e nemmeno la morte. Avvilire,
umiliare, distruggere psicologicamente in questi comportamenti si può riassumere
il comportamento degli occupanti. Infine l’atto di accusa, dovuto, verso una
comunità internazionale, paesi arabi compresi, complice e che è brava solo ad
usare parole di circostanza.
Giungiamo all’ottavo contributo, con Israa Jaabis: è l’istinto alla
sopravvivenza più forte della disperazione che attrae la nostra attenzione,
quell’istinto che si contrappone a quei soldati, occupanti, che non hanno alcuna
sensibilità umana. Una insensibilità che si concretizza nella descrizione dei
diritti umani negati in carcere. Una parola ci fa capire il modo di porsi
rispetto alla resistenza ed al 7 ottobre: la resistenza ha dato un duro colpo
all’occupazione.
Ci avviamo alla conclusione, con il nono contributo, nel quale ci addentriamo ad
esaminare cosa significa la detenzione amministrativa, le torture di ogni tipo
alle quali associazioni come Addameer dedicano il loro impegno, cosa significa
essere la voce di chi non può parlare e quando sei fuori dal carcere non
abbandonare mai chi vi resta e l’idea di una Palestina libera deve essere con
animo più determinato che mai.
Arriviamo all’ultima parte, sempre con il carcere sotto la lente d’osservazione,
vero e proprio luogo di tortura e di sfogo per le guardie, che sono
esclusivamente capaci di essere vendicative in particolare quando si sentono
messe in difficoltà. Per finire ritengo fondamentale riportare questa frase che
dà senso a queste 124 pagine: “Gaza è libera, è il resto del mondo che è sotto
occupazione”.
Hanin A. Soufan, Le anime invincibili di Gaza. Dieci squarci di luce nell’ombra
del genocidio, Editori della luce, 2024, pp 125, euro 15
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Sulla piattaforma Netflix l’adattamento di uno dei grandi capolavori del fumetto
novecentesco: L’Eternauta.
di Marco Sommariva da Carmilla
Fu durante le feste di Natale del ’77 che mio padre, due miei zii e un loro
amico si misero d’accordo per vedersi tutti i sabati di gennaio, dopo cena, per
giocare a poker. Lo dissero e lo fecero, nonostante lo storcere leggero delle
labbra di mia madre, delle mie zie e della moglie del loro amico. Due coppie non
avevano figli; le altre sì, ma erano grandi e già uscivano di casa per conto
loro: solo io, da poco quattordicenne, ero ancora a rimorchio dei “grandi”.
E così, la sera di sabato 7 gennaio 1978 – mentre “gli uomini” bevevano fumavano
giocavano a carte e non gradivano granché la mia presenza, Se stai qui a
guardare non fare domande!, e “le donne” poco distanti sedute in cerchio
parlavano a voce bassa di cose che m’interessavano poco o nulla, Se stai qui ad
ascoltare non devi interrompere! –, iniziai ad aggirarmi per la casa della zia
che ospitava il tavolo d’azzardo, cercando qualcosa da fare.
Non vidi granché d’interessante – dalla classica gondola di Venezia posata su un
centrino fatto all’uncinetto sopra il televisore spento, a un puzzle delle
Dolomiti appeso di sghimbescio alla parete del corridoio –, finché non
m’imbattei in una manciata di fumetti abbandonata in un grosso canestro di
vimini: erano dei Lanciostory di luglio, agosto e settembre 1977 acquistati da
mio cugino, in quel momento al cinema con la fidanzata.
Chiesi il permesso di prenderli e iniziai a leggerli in cucina, da solo, seduto
a tavola, a debita distanza dagli otto adulti che rimasero di là, in sala, sotto
una cappa di fumo che andava via via inspessendosi.
Fuori era buio, c’era silenzio e faceva freddo: a quell’ora, la temperatura era
intorno ai tre gradi – i “grandi” sostenevano fosse alto il rischio nevicasse.
Intanto che gli italiani discutevano sulla strage di Acca Larenzia, cantavano
Solo tu dei Matia Bazar, approvavano la legge Basaglia, vedevano l’album
Saturday night fever dei Bee Gees raggiungere la prima posizione nella
classifica delle vendite, e non sapevano ancora che un certo Silvio Berlusconi
versava centomila lire per iscriversi alla loggia massonica P2, presi in mano un
Lanciostory a caso dalla pila che avevo davanti: la copertina riportava immagini
western e preannunciava qualcosa al suo interno destinato a cambiare decisamente
rotta alla mia visione del mondo, “IL 1° EPISODIO DELL’ETERNAUTA” – era scritto
proprio così, tutto maiuscolo.
All’epoca, non potevo sapere che, dopo l’Argentina, l’Italia era il primo paese
al mondo a pubblicare L’Eternauta, e proprio a iniziare da quel fumetto che
avevo in mano, il numero 27 (anno III) del settimanale Lanciostory dell’Eura
Editoriale.
A differenza di Hora Cero Semanal, la rivista argentina che aveva pubblicato
L’Eternauta che aveva uno sviluppo in orizzontale (27×20 cm), il settimanale
dell’Eura aveva il tipico formato “a quaderno”, e per questo motivo, con
l’approvazione del disegnatore Francisco Solano López, le tavole furono
rimontate per essere adattate allo sviluppo verticale della rivista: vignette
tagliate, allungate e manipolate, e testi ritoccati.
Iniziai a sfogliarlo e rimasi immediatamente impressionato dai disegni molto
diversi da quelli degli americani Jack Kirby e John Buscema o degli italiani
Magnus, Bonvi e Gallieno Ferri, ossia tutte le matite che avevano accompagnato
la mia crescita sino a quel momento.
E mi folgorò la storia di questo misterioso personaggio – l’Eternauta, appunto –
materializzatosi in casa di uno sceneggiatore di fumetti, in quel di Buenos
Aires; un’avventura scritta da un altro argentino, Héctor Germán Oesterheld,
divoratore di opere del connazionale Bioy Casares e di Salgari, Wells, Poe,
Melville, Stevenson, Conrad, London e Verne – di quest’ultimo, nella prima metà
degli anni Settanta adatterà a fumetti Ventimila leghe sotto i mari.
Iniziò così il mio rapporto con questa historieta, così viene chiamato il
fumetto in Argentina.
Quando l’Eternauta, “l’uomo dai cento nomi”, prende corpo davanti allo
stupefatto sceneggiatore di fumetti – che, poi, altro non è che lo stesso Germán
– per raccontargli una storia incredibile, lo sceneggiatore è seduto al suo
tavolo di lavoro in una fredda notte australe.
L’incredibile storia che racconterà l’Eternauta ha inizio una sera quando, nel
chiuso della sua casa dove abitava con la moglie Elena e la figlia Martita,
mentre stava giocando a carte con tre amici e il suo nome era ancora Juan Salvo,
assistette alla prima manifestazione di un’invasione aliena: una neve
fosforescente che in poco tempo avrebbe ucciso quasi tutti gli abitanti della
capitale argentina, chiunque fosse stato toccato dai fiocchi.
È questo l’indimenticabile inizio di un’opera che, utilizzando la metafora
dell’occupazione extraterrestre, s’apprestava a denunciare ogni potere
repressivo.
L’apparizione iniziale di fronte allo sceneggiatore di fumetti è un classico; in
questo modo, l’autore finge l’irresponsabilità della storia che narra, proprio
come si fa col luogo comune del manoscritto ritrovato, tipo il Don Chisciotte
della Mancia di Miguel de Cervantes o I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Avevo letto poche pagine quando, senza alzarmi dalla seggiola, guardai fuori
dalla portafinestra della cucina per controllare se per caso avesse iniziato a
fioccare poi, sempre restando a tavola, causa uno scricchiolio, rivolsi lo
sguardo di fronte a me – si stava forse materializzando qualcuno sulla sedia
davanti alla mia? – e, infine, aguzzai le orecchie per capire se, in sala, gli
otto adulti fossero ancora tutti vivi: mai mi era capitato prima e mai mi
successe in seguito d’essere così immerso in un fumetto.
Sceneggiato dal prolifico Héctor Germán Oesterheld, nato a Buenos Aires da una
famiglia di origini tedesche e spagnole, e disegnato dall’argentino autodidatta
Francisco Solano López, L’Eternauta venne pubblicato per la prima volta dalla
rivista Hora Cero Semanal tra il settembre 1957 e il settembre 1959, a puntate,
come fosse stato un romanzo d’appendice.
Oesterheld raccontò che L’Eternauta “nacque come un racconto di appena settanta
vignette”, un fumetto breve che diventò un lungo e straordinario viaggio capace
di raggiungere e traghettare diverse generazioni e culture di lettori.
Oesterheld, ammiratore di Robinson Crusoe – il naufrago pensato dallo scrittore
inglese Daniel Defoe nel 1719 –, scrisse negli anni Settanta: “All’inizio
L’Eternauta era la mia versione di Robinson. La solitudine dell’uomo, circondato
e prigioniero non del mare ma della morte. Non l’individuo solitario Robinson,
ma l’uomo con famiglia e amici”.
Il disegnatore Solano López ricorda, invece, che L’Eternauta “fu, oltre che una
storia di fantascienza, una specie di anticipazione del destino vissuto decenni
dopo dal paese. Credo che fu un atto quasi incosciente tanto da parte di Héctor
Oesterheld come da parte mia, in un contesto come quello degli anni ’50, si
capisce. Héctor era un deciso antiperonista, un liberale con idee socialiste, di
sinistra – come potevo esserlo anch’io, senza essere iscritto a nessun partito –
collocato più o meno sulle stesse posizioni di tutta l’intellighenzia argentina
e con un’idea di popolo e di giustizia sociale che gli facevano concepire i
fatti storici come determinati dalle pressioni dei paesi più ricchi”.
I fatti storici determinati dalle pressioni dei paesi più ricchi, li si trova
già raccontati quando, nella seconda puntata pubblicata da Hora Cero Semanal, un
giornale radio trasmette un bollettino informativo in cui si racconta di
un’eccezionale esplosione atomica nel Pacifico, che contrariamente a quanto
precedentemente annunciato gli Stati Uniti avevano continuato a effettuare test
atomici, e che questo era stato rivelato da un incidente appena accaduto:
l’esplosione di una bomba atomica di nuovo tipo che aveva prodotto una quantità
enorme di polvere radioattiva, una nube che, spinta dal vento, avanzava a gran
velocità verso sudovest, l’Argentina; era come se Oesterheld, pur non dando
ancora una lettura esplicitamente politica dei fatti come farà in seguito,
iniziasse a denunciare la minaccia incombente sull’America del Sud del governo
statunitense.
Impressiona la chiarezza di idee che permise a Oesterheld di capire con largo
anticipo il problema di fondo che affliggeva la politica argentina dell’epoca:
L’Eternauta risulterà essere la metafora perfetta dei futuri venticinque anni
del paese, “una storia che diventa profezia”, scriverà nel 2001 Juan Sasturain –
giornalista, fumettista e scrittore argentino – in una prefazione a una delle
tante edizioni del fumetto.
L’historieta pensata da Oesterheld divenne premonitrice di un concreto e
determinato scenario: la nevicata mortale rappresentava il paese distrutto, un
paese consegnato agli interessi di potenze straniere e dominato dall’invasore:
intorno alla metà degli anni Cinquanta, governo argentino e multinazionali
avevano stipulato accordi che, in pratica, consegnavano a capitali stranieri, in
primis statunitensi, la guida del processo di sviluppo del paese, soprattutto
nel settore petrolchimico e metalmeccanico.
Può una historieta diventare denuncia del vuoto etico lasciato dalle
istituzioni, in teoria democratiche, che tanti ritengono debbano essere i
garanti dei destini di una nazione? Decisamente sì, L’Eternauta simboleggerà la
lotta per un’Argentina più giusta e degna; non solo, data la capacità di questa
storia di attraversare lo spazio e il tempo mantenendo intatta la sua capacità
di meravigliare il lettore, L’Eternauta simboleggia ancora le battaglie per un
mondo più giusto e degno, compresa l’attuale lotta argentina contro quella
caricatura di Trump che risponde al nome di Milei, l’uomo che sta trascinando
l’Argentina in una profonda povertà, tentando la narrazione di una controstoria
che cancelli anche i desaparecidos.
Oesterheld era il primo a essere fortemente convinto della forza comunicativa
del fumetto come mezzo per diffondere valori socioculturali; un genere che, in
quel determinato contesto storico, era capace di un grande impatto popolare.
Quando nello studio di casa dello sceneggiatore di fumetti si materializza dal
nulla l’uomo ribattezzato Eternauta da un filosofo del XXI secolo, insieme
all’estraneo si concretizza la storia più fantastica mai ascoltata; durante il
dialogo fra i due verrà consacrata l’importanza della tradizione orale e,
quindi, la difesa della memoria come fonte di identità: la voce dell’Eternauta,
infatti, porta reminiscenze di un altro tempo, di un’altra notte, di un’altra
casa quando, attorno a un tavolo da gioco, un gruppo di amici assapora le
semplici cose offerte dalla vita.
I giocatori seduti al tavolo – Juan Salvo che diverrà l’Eternauta, e i suoi
amici Favalli, Lucas Herbert e Polsky – sono sereni e le loro menti libere,
quando la nevicata mortale comincia a coprir le strade; l’apparente evento
meteorologico risulterà essere la prima mossa degli invasori.
Questa prima sequenza del fumetto già rimanda direttamente al Robinson Crusoe
citato dallo stesso Oesterheld: la lotta per la sopravvivenza si delinea come
nucleo centrale della storia, con l’Uomo costretto ad affrontare condizioni
esterne estreme: isolamento, fame, solitudine, la fine di tutto ciò che si
conosce.
Dato che ancora oggi il concetto dell’essere umano capace di attraversare lo
spazio e il tempo ha la capacità di appassionare il lettore, pensate quale
effetto può aver avuto nel 1957, quando la corsa verso lo spazio avanzava con
forza verso orizzonti incerti: Juan Salvo parla del suo destino di marinaio del
tempo, di viaggiatore dell’eternità e della sua triste e desolata condizione di
pellegrino nei secoli, nel settembre del 1957, quando mancava un solo mese al
lancio nello spazio del primo satellite artificiale della storia, il sovietico
Sputnik I.
Un primo sostanziale cambio narrativo del fumetto avviene con la discesa di due
sfere luminose nella notte di Buenos Aires spostando, così, la storia in un
altro contesto, quello dell’invasione extraterrestre; consapevoli d’essere
attaccati da una razza aliena, proveniente dallo spazio, i personaggi vengono
catapultati nel genere fantascientifico e, a quel punto, il tema portante non
sarà più la sopravvivenza, ma la resistenza.
Vista la passione di Oesterheld per le opere di Verne, Salgari e Wells, non è da
escludere che i due temi fondanti de L’Eternauta, gli stessi di tutta la
letteratura di fantascienza, ossia l’invasione aliena e il viaggio nel tempo,
gli siano stati ispirati anche da letture quali La guerra dei mondi di H.G.
Wells per il primo tema e da La macchina del tempo sempre di Wells, Le
meraviglie del duemila di Emilio Salgari e Parigi nel XX secolo di Jules Verne
per il secondo.
La historieta ci racconterà di una resistenza contro l’invasore extraterrestre
ma, vista da un’altra prospettiva, potrà essere letta come la resistenza dei
meno abbienti contro il potere costituito: non a caso comparirà la figura
dell’operaio Alberto Franco che, nei momenti più critici, s’assumerà la
responsabilità di diverse iniziative, decisioni.
Nella sua ultima intervista, Oesterheld ricorderà che “pochi l’hanno notato ma è
così, l’eroe principale è Franco, un operaio”.
Attaccare il nemico e batterlo provvisoriamente come succede nella storia,
significa vincere una battaglia ma non la guerra, e questo è qualcosa che
Oesterheld ha ben chiaro; non a caso, la risposta data dagli invasori a un gran
colpo inferto loro da Franco sarà una nuova nevicata, più mortale della
precedente.
In linea con la sua filosofia di mutuo soccorso, Oesterheld assegnerà la
resistenza all’invasore a piccoli imprenditori, gente della classe media,
lavoratori, professionisti, sottufficiali e qualche ufficiale dell’esercito, e
spesso la responsabilità delle decisioni verrà fatta ricadere sull’elemento più
umile del gruppo; il messaggio dello sceneggiatore parrebbe chiaro: per
risolvere i problemi nazionali, occorre un’alleanza fra i ceti medi, la classe
operaia, i militari e gli intellettuali – solo così si potrà evitare la
sconfitta di fronte a un nemico fornito di tecnologie e armamenti superiori.
A causa di questa resistenza, la historieta raffigura scontri che, pagina dopo
pagina, salgono di tono; tra questi, il combattimento nello stadio del River
Plate, la fuga tra i tunnel della metropolitana D e il bombardamento atomico su
Buenos Aires.
Così come ciò che accade allo stadio del River Plate e nella linea D della
metropolitana, tutti gli avvenimenti si svolgono in luoghi e zone ben note ai
lettori argentini; Solano López ricorderà che ne L’Eternauta “tutto è
riconoscibile, la Plaza Italia, lo Zoo che tanto amavo da piccolo, le Barrancas
di Belgrano e il suo mercato. Non ho usato foto, né mi sono recato nei luoghi
per prendere appunti, ma ho disegnato la città così come la ricordavo. Se la
ricordavo così, la gente l’avrebbe riconosciuta, pensai”.
Oesterheld, che conosceva bene l’assurda compulsione a ripetersi delle
dittature, sapeva che i nazisti avevano usato gli stadi come aree di smistamento
degli ebrei, ma non poteva sapere che lo stadio di Buenos Aires del River Plate
che nel fumetto descrive assediato dagli invasori e dove gli umani sostengono e
respingono i ripetuti attacchi nemici, sarà usato dai militari durante la loro
dittatura che durò dal ‘76 all’83 per rinchiudere, torturare e poi far sparire i
corpi degli oppositori.
Per una mostra sull’opera del marito tenutasi a Torino nel 2002, la moglie di
Oesterheld ha scritto: “Nell’opera di Héctor si anticipò quella lotta nella
quale tutti senza eccezione dobbiamo impegnarci: il rispetto della vita al di là
dei condizionamenti, delle idee politiche, delle classi sociali”.
L’Eternauta si presta a una lettura umanista: lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo da parte di un sistema politico e sociale che non dà alcuna importanza
alle possibili conseguenze, è incarnato nella figura degli Ellos [i “Loro”] i
quali, intenzionati a conquistare l’Universo, invadono la Terra per mano dei
Manos, una razza pacifica che sono riusciti a dominare dopo aver loro impiantato
una “ghiandola del terrore” che li uccide nel caso tentassero di ribellarsi –
forse esagero, ma a me sembra si stia già parlando di transumanesimo.
Molto probabilmente, una delle scene più celebri de L’Eternauta è quella dove
uno degli schiavi degli Ellos muore e si lascia andare a una malinconica
meditazione sull’universo a partire da una caffettiera, dalla bellezza di questo
manufatto, e qui è difficile che la memoria non corra alla malinconia
dell’androide del film Blade runner di Ridley Scott, trasposizione
cinematografica de Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, e al suo famoso
monologo: “Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere
uno schiavo. Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da
combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione…”.
Così come la trasposizione cinematografica del romanzo di Dick, anche la
historieta sceneggiata da Oesterheld è un’opera capace di trovare un giusto
equilibrio tra gli schemi classici del genere e domande profonde sul senso della
Vita e dell’essere umano.
Il finale de L’Eternauta si concentra sull’incontro di Juan Salvo con la moglie
Elena e la figlia Martita e, sempre a proposito di transumanesimo, col
sacrificio di Favalli, Franco e altri trasformati in uomini robot al servizio
degli invasori, con le loro volontà annullate da un telecomando impiantato nella
nuca.
Il fine ultimo dei militari al potere, così come quello del Potere in generale,
era quello di produrre uomini-robot senza volontà, senza autodeterminazione: non
c’era posto per chi non si allineava. Non a caso, nel 1977, vent’anni dopo
l’uscita del suo capolavoro, Oesterheld farà una brutta fine.
“Deve essere chiaro che i fatti del 24 marzo 1976 non stanno a indicare solo la
caduta di un governo. Significano, invece, la fine di un ciclo storico e
l’inizio di uno nuovo”, sentenziò Videla in un messaggio all’Argentina,
trasmesso dal canale nazionale il 30 marzo; la Giunta dei Generali formata dai
comandanti a capo delle tre forze armate – Jorge Rafael Videla per l’esercito,
Emilio Eduardo Massera per la Marina e Orlando Ramón Agosti per l’Aeronautica –
s’impossessò del Governo il 24 marzo 1976, appunto, e nominò presidente di fatto
Jorge Rafael Videla.
Fra le prime misure prese, il nuovo Governo sciolse il parlamento e i partiti
politici.
Chiunque avesse creduto possibile, realizzabile un modello di paese più giusto,
militasse o no in una qualsiasi organizzazione di sinistra, finì con l’essere
accusato di “delinquenza sovversiva”; contro questi “delinquenti sovversivi” lo
Stato adottò il sistema della “desaparición de personas”, che non era altro che
l’incarcerazione illegale, eseguita dalle stesse Forze armate, in centri segreti
dove i sequestrati venivano torturati e, nella maggior parte dei casi, uccisi.
Nel giro di diciotto mesi, tra il 1976 e il 1977, le quattro figlie di
Oesterheld – come il padre, tutte militanti nelle file dei Montoneros, l’ala
sinistra del Peronismo – vennero assassinate dalla dittatura, così come i loro
compagni. Delle quattro ragazze uccise, due erano incinte.
Oesterheld si nascose e continuò a pubblicare nuove opere clandestine, ma
nell’aprile del 1977 fu catturato e portato nel centro clandestino di detenzione
e sterminio “El Vesubio” dove tortura, omicidio e stupro erano la norma. Fu
visto vivo l’ultima volta da un altro prigioniero intorno al gennaio del 1978;
si ritiene sia stato ucciso a Mercedes, in provincia di Buenos Aires, con un
colpo d’arma da fuoco – i suoi resti risultano ancora dispersi.
Se tante opere della fantascienza degli anni Cinquanta ci hanno messo in guardia
dai futuri possibili, visto quanto accaduto al suo creatore, L’Eternauta lo ha
fatto a ragion veduta.
Quella degli Oesterheld è la storia di una famiglia distrutta da un regime
criminale, che ha abbracciato la lotta politica fino alle sue estreme
conseguenze: l’umanità professata dalle storie di Héctor Germán non era e non è
di questo mondo; ha detto Martín Mórtola Oesterheld, figlio di Estela, la figlia
maggiore di Oesterheld uccisa a colpi d’arma da fuoco fuori casa sua da uno
squadrone della morte nel dicembre 1977: “I racconti di mio nonno avevano come
asse centrale i legami umani, le relazioni umane”.
Prima di finire tra i desaparecidos, Oesterheld troverà il tempo e il modo per
produrre qualcos’altro: invogliato dal successo ottenuto nel 1976 da una
ristampa de L’Eternauta, Oesterheld creerà una seconda parte della saga –
L’Eternauta II, sempre disegnata da Solano López – che in Italia verrà
pubblicata col titolo L’Eternauta, il ritorno.
La sceneggiatura di questo sequel scritta in clandestinità prima d’esser
sequestrato, mostra la famiglia di Juan Salvo e lo stesso Oesterheld lottare a
fianco degli umani superstiti in uno scenario post-apocalittico; la storia che
vede l’Eternauta leader di un popolo oppresso guidare la ribellione contro un
governo dittatoriale, riflette ancora una volta l’impegno politico dell’autore.
Ha detto Solano López: “Se la prima parte era un discorso antimperialista, la
seconda era decisamente propaganda politica. Ero molto preoccupato poiché in
quel periodo lottavo per tirar fuori dal carcere mio figlio minore [Gabriel],
imprigionato per la sua militanza. Inoltre, vivendo a Belgrano ero molto esposto
e temevo, in quanto coautore dell’Eternauta, che venissero a prendermi”.
Fortunatamente Gabriel López fu liberato e l’intera famiglia si trasferì a
Madrid, dove il disegnatore concluse le tavole dell’Eternauta II.
Riguardo la scena finale – dove Germán (Oesterheld) e Juan Salvo stanno
camminando uno fianco all’altro, di spalle, verso l’orizzonte – Lopez ha
commentato così: “Disegnare la scena finale […] è stata per me un’esperienza
molto toccante. Ha significato la chiusura di una storia che, emotivamente e
personalmente, mi aveva colpito tanto e causato molto dolore. Mi trovavo
esiliato a Madrid con mio figlio, in un appartamento in Calle de la Princesa. In
questo stesso appartamento, da alcuni amici profughi di mio figlio, avevo saputo
che Héctor era stato sequestrato. E un anno dopo mi arrivò la notizia, priva di
conferma, che era stato ucciso. Per questo motivo completare L’Eternauta, il
ritorno mi ha provocato una sensazione di vuoto, di dolore. Sia per quello che
era successo sia per il fatto di non sapere cosa sarebbe successo in futuro. Per
la tristezza che provavano mio figlio e gli amici di mio figlio. Perché noi
tutti stavamo andando da qualche parte, senza saper bene dove né fino a quando”.
Grazie ai miei quattordici anni, anch’io stavo andando da qualche parte senza
sapere dove; di certo, sapevo che non avrei mai dimenticato la figura
dell’Eternauta, la sua storia, il suo insegnamento, l’aiuto a diventare “grande”
simile a quello che mi avrebbe dato, a partire dal mese seguente, la rivista
satirica Il Male che iniziai ad acquistare regolarmente appena veniva consegnata
nelle edicole così da non rischiare di restare senza, sia perché contava
centinaia di migliaia di lettori sia perché veniva sequestrata ogni tre per due.
Ormai, era domenica 8 gennaio 1978 quando uscimmo da casa di mia zia e andammo a
casa; come all’andata, il viaggio lo feci seduto sul sedile posteriore della
nostra vecchia FIAT Seicento comprata a rate, guidata da mio padre che, al
tavolo da poker, aveva limitato le perdite entro limiti accettabili dal bilancio
famigliare, con mia madre accomodata sul sedile del passeggero che si lamentava
del freddo.
Seduto sul sedile posteriore, solo e angosciato come Juan Salvo, guardavo le
strade deserte e speravo s’arrivasse a casa il prima possibile: temevo
fortemente iniziasse a nevicare da un momento all’altro.
Mai mi era capitato prima e mai mi successe in seguito d’essere così immerso in
un fumetto; a dirla tutta, ci sono ancora dentro fino al collo.
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Recensione al libro “Elettroshock” di Giulio Di Luzio, un romanzo che si rivela
una chiave attuale di interpretazione, analisi e discussione sullo stato di
“attuazione” della Legge Basaglia, contrastata oggi più che mai dal mondo medico
e politico
Dopo il riuscito saggio “Le foche ammaestrate” controstoria dell’informazione
sulla guerra ucraina, Giulio Di Luzio torna alla narrativa di impegno civile e
politico col suo tipico taglio irriverente e senza concessioni con
“Elettroshock”, un romanzo che nasce nel clima generale di una stagione animata
da una tensione intellettuale innegabile, da un contesto conflittuale e da
esperienze di opposizione alle istituzioni totalitarie.
L’Autore ripercorre nell’opera esperienze giovanili, che in quella temperie
storica trovarono forme, tempi e modi di rappresentarsi, in ciò associandosi
agli scrittori, che hanno attinto al proprio passato giovanile tematiche nate da
esigenze esistenziali, etiche e collettive, per raccontare una fase storica.
Di Luzio lo fa con rigore e passione letteraria con una trama costruita intorno
alla istituzione totale per antonomasia, il manicomio, che proprio negli anni
Settanta verrà investito da una severa opposizione di massa, che ne minerà la
credibilità fino allo sbocco della Legge 180 del 1978 grazie all’opera titanica
dello psichiatra veneto Franco Basaglia.
Ma lo scrittore pugliese osa di più, ponendo in essere un’opera letteraria di
stampo neorealista, che si fa carico di rappresentare con fedeltà la radicalità
di quella opposizione sociale e politica alla feroce realtà della reclusione
manicomiale, più volte minimizzata dai media dominanti e dalla élite
psichiatrica, che tentano -ieri come oggi- di ridurne la portata, la profondità,
la estensione in un processo di revisionismo e restaurazione implacabili, che
strizzano l’occhio al ritorno dei grigi padiglioni manicomiali e al
rafforzamento della managerialità delle residenze psichiatriche, come unico
modello per affrontare il delicato segmento della salute mentale.
In ciò il romanzo si rivela una chiave attuale di interpretazione, analisi e
discussione sullo stato di “attuazione” della Legge Basaglia, contrastata oggi
più che mai dal mondo medico e politico.
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800 MILIARDI DI MOTIVI PER DIRE NO ALLA FORTEZZA EUROPA
A cura di Ludovico Basili, Italo Di Sabato e Giovanni Russo Spena – Osservatorio
Repressione
Left edizioni – Editorialenovanta S.r.l – Prezzo di copertina 14,80
Introduzione di Italo Di Sabato
Interventi di:
Livio Pepino, Giovanni Russo Spena, Antonio Mazzeo, Angela Cianfagna Bracone,
Andrea Ventura, Franco Russo, Saverio Ferrari, Gianfranco Schiavone, Emilio
Drudi, Dana Lauriola, Ilaria Salis, Salvatore Palidda, Victor Serri, Nicola
Carella, Comitato free Gino, Marco Sommariva, Roberta Cospito, Paola Bevere,
Patrizio Gonnella
> Da tempo i più avveduti ci avevano avvertiti che l’Utopia di Ventotene e le
> democrazie occidentali volgevano al termine. L’Europa che nasce perché non ci
> siano più guerre, trova oggi ragione per esistere nel tempo della guerra che
> non finisce mai. E dunque via al riarmo, come identità dell’Europa, con il
> ReArm Europe, con 800 miliardi per le lobbies delle armi che da sempre non
> sopportano la democrazia, il conflitto sociale, che ne è l’essenza, e i
> diritti universali.
>
> Sicurezza e paura le parole più usate, c’è bisogno di un nemico interno ed
> esterno, si innalzano muri, si erigono fortezze, non dobbiamo disturbare, non
> c’è spazio per nessuna visione di mondi futuri in giro per il mondo. E dunque
> non abbiamo forse 800 miliardi di motivi per dire no alla guerra, no alla
> fortezza Europa?
Richiedi una copia inviando una mail a: info@osservatoriorepressione.info
pagamento tramite:
bonifico bancario sul conto corrente bancario intestato a Osservatorio sulla
Repressione presso Banca Popolare Etica – Filiale di Roma, coordinate bancarie:
IBAN: IT39N0501803200000011494259 Causale: copia libro fortezza europa
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Recensione al libro “La trappola” di John Wainwright, edizioni Paginauno, 2024
di Edoardo Todaro da Carmilla
Qualche mese fa avevo scritto, proprio qui, a proposito di Stato di fermo del
medesimo autore. In continuità con le righe di allora, scrivo, avendolo letto,
di La trappola, come ebbi modo di scrivere allora, quanto Wainwright scrive lo
deve, in particolare, al suo essere stato in polizia per ben 19 anni.
Conosce avendo sperimentato direttamente: “vita, morte e miracoli” di metodi,
usi ed abusi delle forze dell’ordine. Nelle pagine che ho letto, abbiamo a che
fare con il capro espiatorio di turno, perché un colpevole ci deve essere, ma
soprattutto ci vuole: stando alle modalità previste dai tutori dell’ordine e per
far questo viene predisposta una “sala omicidi” apposita, perché non avverrà un
normale interrogatorio, ma una vera e propria intimidazione, unica arma a
disposizione degli investigatori.
Interrogatorio che si svolge, prima, nella macchina di servizio, con tutte le
pressioni del caso e psicologicamente sfavorevole per il presunto colpevole, che
attorno a sé non può che sentirsi in trappola essendo circondato da dei veri e
propri nemici. Interrogatorio nei confronti di un indiziato che avendo
precedenti, diviene in automatico un assassino.
Oltre al volere a tutti i costi un colpevole, “creare il vestito”, visto che i
poliziotti quando arrestano qualcuno lo terrorizzano, Wainwright evidenzia anche
i pregiudizi esistenti, tra le forze dell’ordine, verso gli omosessuali, la cui
comunità, e le rimostranze del presidente della comunità non servono a niente,
un presidente che dà una lezione di vita spiegando non solo, cos’è l’amore ma
le difficoltà nel dichiarare il proprio orientamento sessuale, è messa sotto
pressione.
Visto che c’è un omicidio di mezzo, è legittima la domanda: l’omicidio di uno
sconosciuto omosessuale a chi può interessare, visto che la comunità del luogo
costruisce una falsa unità su luoghi comuni, sull’asserzione che l’omosessuale,
Richardson è stato ucciso da qualcuno della sua specie. Omosessualità che sarà
elemento importante nel contesto di queste 209 pagine.
Quindi pregiudizi ed arroganza che danno vita ad un sistema di sopraffazione. La
montatura che predispone la trappola: avere un colpevole comunque in fin dei
conti non è niente di illegale, solo un po’ insolito. Si parlava di arroganza
verso i presunti colpevoli, ma l’arroganza, la sopraffazione è un qualcosa che
si rivolge anche verso i propri colleghi, un detective deve incutere timore
anche tra loro.
Wainwright mette in evidenza anche il ruolo positivo , in quel contesto, del
poliziotto di zona che mantiene rapporti cordiali con gli abitanti della zona a
cui deve soprintendere (il poliziotto buono). Ciò che unisce il poliziotto buono
e quello cattivo è l’usare il trucco più vecchio del mondo nel campo
investigativo: non solo lasciare tutto il tempo necessario affinché
nell’indagato subentri un senso di preoccupazione rispetto a ciò che potrebbe
accadere, condurre un interrogatorio con ampi spazi di silenzio nei quali far
logorare il presunto colpevole, ma soprattutto l’assillo di un quesito che gira
nella testa degli uomini in divisa, lasciare un assassino a piede libero o
arrestarlo con prove insufficienti?
Perché l’essere sicuri al 99% della colpevolezza dell’indiziato non è
sufficiente: basta l’1% ed un omicida si ritrova libero. Ma tanto, chi è
colpevole alla fine crolla.
Nel manuale del bravo poliziotto ma soprattutto esperto trovi sicuramente che è
sufficiente ottenere reazioni alle proprie domande visto che ad esse le risposte
non sono necessarie. Questi metodi sono parte del mestiere, dell’arte
dell’essere detective, la cui abilità risiede nel mettere l’interrogato, di
turno, in condizioni sfavorevoli, perché i detective non costruiscono, bensì
demoliscono, distruggono.
In questo caso ci troviamo di fronte a un indagato che ostinatamente continua a
negare per dirigersi piano piano verso una quasi ammissione. Il punto di domanda
si riferisce esclusivamente al quando questo momento arriverà. L’ammissione
arriverà, chissà, ma solo grazie ad una vera propria tortura, certamente non
fisica, ma mentale e psicologica, nascosta, metodica, al di là di ogni strategia
e tecnica pervasiva di polizia.
Il risultato deve essere uno ed uno soltanto: la trappola ha funzionato ed il
caso è risolto. Quante volte abbiamo assistito, anche in Italia, a situazioni di
questo tipo: montature, “teoremi”, colpevolezze definite in base a prove
costruite a tavolino. In Italia è ancora in vigore il Codice Rocco, per non
parlare della Legge Reale, che trasforma il conflitto sociale in problema di
“ordine pubblico”, e le “leggi speciali” tutt’ora in vigore. E se come pare il
decreto legge in discussione (1236) (1) alla camera dovesse passare, non oso
immaginare il concretizzarsi dell’attuazione del sorvegliare e punire. (ndr:
venerdi 4 aprile il governo ha approvato il decreto legge sicurezza)
Note:
1.
https://www.osservatoriorepressione.info/sicurezza-il-governo-forza-la-mano-un-decreto-al-posto-del-disegno-di-legge/
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Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia Edizione italiana
a cura di Italo di Sabato. Postfazione di Italo di Sabato e Turi Palidda.
Illustrazioni di Noah Jodice. Momo Edizioni
Police Abolition è un piccolo libro, una ripubblicazione di Momo Edizioni di una
fanzine americana divulgativa che racconta come negli Usa l’utopia
dell’abolizione della Polizia sia diventato un tema sempre più concreto e
attuale.
Definanziare, smantellare e abolire la polizia sono state alcune tra le
rivendicazioni più forti e concrete delle mobilitazioni che hanno attraversato
gli Stati Uniti negli ultimi anni. L’illusione di poter riformare i corpi di
polizia ha lasciato il passo alla consapevolezza delle radici storiche e
strutturali della violenza poliziesca.
Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio repressione che ha curato
l’edizione italiana ha cercato, nella postfazione insieme a Salvatore Palidda,
di contestualizzare la proposta americana e tentare un parallelo con la
situazione in Italia e in Europa.
Partendo dall’interrogarsi la polizia a cosa serve? A chi serve? A che serve
tutta questa meticolosa militarizzazione del territorio, tutta questa
sorveglianza dei comportamenti, tutta questa brutalità istituzionalizzata?
Perché la polizia è così violenta nell’approccio con le classi subalterne?
Per il curatore la polizia difende con tutti i mezzi a sua disposizione un certo
tipo di ordine e di società che esercita il suo ricatto di paura e sicurezza
sugli individui soli, diseredati e quindi deboli prodotti dal mondo
dell’economia. Lungi dal creare sicurezza, la polizia è sempre stata un mezzo
per affermare il controllo. Oggi, la polizia rimane la forza in prima linea che
reprime le manifestazioni per la pace, il clima, la giustizia sociale, e
l’imperativo del pericolo rimane uno strumento potente per spiegare le loro
azioni. Ma la polizia non è solo il braccio armato dello stato e del governo, è
la garanzia che ognuno rimanga al posto che gli spetta. I regimi democratici, in
evidente crisi di legittimazione, tendono a incrementare l’uso delle forze di
polizia come risposta ai movimenti sociali e di protesta, perciò i governi
esitano quando si parla di riformare i corpi e cambiare le regole di ingaggio.
Che la funzione sociale della polizia sia mantenere un certo ordine mondiale è
un dato di fatto. Ciò che continua ad essere meno compreso, tuttavia, è
l’affermazione da cui dipende la loro esistenza, la più grande menzogna
antropologica: che senza il loro esercizio di violenza “legittima” non saremmo
in grado di darci regole di vita comuni e ci uccideremmo a vicenda alla prima
opportunità.
Secondo Italo Di Sabato l’unico modo per affrontare il problema della polizia
oppressiva è abolirla. Poter togliere i finanziamenti alla polizia, e investire
nei servizi sociali e di cura, può significare anche rinunciare ai modelli
produttivi che ci danneggiano e che sono basati sulla difesa dei privilegi e
investire invece nel benessere delle comunità. Certo, non sono trasformazioni
praticabili dall’oggi al domani ma, se quel che conosciamo non funziona e meno
ancora ci piace, potrebbe essere arrivato il momento di ragionarci un po’ su.
Tutte le info sul sito di Momo
https://momoedizioni.it/catalogo/police-abolition/
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Dall’ottobre del 2023 i governi di vari paesi europei hanno applicato un livello
allarmante di repressione contro le proteste e il dissenso a sostegno della
causa palestinese, prendendo di mira persone attiviste, artiste, manifestanti,
organizzazioni politiche e civili attraverso l’uso di divieti generalizzati,
intimidazioni, molestie e arresti.
di Debora Del Pistoia da pressenza
La potenza espressiva delle storie di attiviste e di attivismo che emerge dal
libro CARCERE AI RIBELL3. STORIE DI ATTIVIST3 (Multimage, 2025) riflette le
grandi personalità femminili che vi stanno dietro, le donne ribelli del comitato
“Mamme in piazza per la libertà del dissenso”, tutte figlie, a loro volta, del
territorio più rivoltoso d’Italia e anche per questo, forse, più brutalmente
oggetto di repressione.
Questo libro ci aiuta ad osservare quello che accade sempre più diffusamente nel
nostro paese in chiave di chiusura degli spazi di agibilità democratica
attraverso un taglio nuovo, emotivamente toccante, ma che non perde mai il punto
centrale della volontà di cambiamento.
La tempestività con cui questo importante contributo editoriale vede la luce è
particolarmente simbolica, considerato il momento storico eccezionale che stiamo
vivendo nel mondo e in Europa. Un genocidio in corso alle porte dell’Europa,
quello ai danni del popolo palestinese, e allo stesso tempo la peggiore deriva
autoritaria in tutto il continente mai vista dalla Seconda guerra mondiale.
Ma che cosa lega a stretto giro la regressione dello stato di diritto in Europa
con il genocidio in corso? Oltre alla complicità delle potenze occidentali negli
eventi di Gaza e della Palestina tutta, viviamo oggi un gravissimo giro di vite
e di criminalizzazione del dissenso pacifico in Europa che sta colpendo proprio
il movimento in solidarietà con la Palestina, accompagnato da una profonda
discriminazione ai danni delle persone razzializzate, al punto di diventare una
sorta di test dello stato di salute della democrazia nel continente, così come
lo sono state e continuano ad esserlo, in parte, le proteste per la giustizia
climatica e le grandi opere.
Dall’ottobre del 2023, infatti, i governi di vari paesi europei, in primis Regno
Unito, Francia e Germania hanno applicato un livello allarmante di repressione
contro le proteste e il dissenso a sostegno della causa palestinese, prendendo
di mira persone attiviste, artiste, manifestanti, organizzazioni politiche e
civili attraverso l’uso di divieti generalizzati, intimidazioni, molestie e
arresti. Si tratta di un attacco diretto alla libertà al dissenso e alla libertà
di espressione, inclusa accademica e di ricerca (ne è esempio lampante l’ultima
direttiva approvata in Germania sulla definizione di antisemitismo.
Recentemente, la stessa relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di
opinione e di espressione ha espresso preoccupazione per la tendenza di diversi
paesi a reprimere le proteste e le espressioni critiche “in modo sproporzionato
e discriminatorio nei confronti dei gruppi palestinesi”, definendo la situazione
come un “giro di vite” sulle libertà civili e citando l’Italia come uno dei
contesti in questione.
La relatrice speciale dell’ONU ha anche definito i divieti generalizzati o
preventivi sulle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese introdotti da
diversi governi europei come “… arbitrari, che equiparano ingiustamente la
difesa della Palestina ad attività antisemite o a sostegno del terrorismo, e
discriminatori, in quanto nessuna manifestazione a sostegno di Israele sembra
aver subito restrizioni specifiche”.
Ma cosa c’entra tutto questo con le storie raccontate in questo libro?
La criminalizzazione mirata di determinati gruppi di attiviste e attivisti, come
nel caso del movimento in solidarietà con la Palestina, è uno degli aspetti
cruciali che emergono come elemento comune dal rapporto che Amnesty
International ha lanciato nel luglio di quest’anno sullo stato di salute del
diritto di protesta in 21 paesi europei. La ricerca mette in evidenza l’attacco
senza precedenti al diritto di protesta pacifica in Europa, descrivendo un
modello europeo di repressione, con similitudini regionali nell’apparato
utilizzato per soffocare il dissenso. Un diritto cruciale come quello alla
protesta pacifica e al dissenso, considerato acquisito in Europa, è oggi sempre
più a rischio in un contesto di generale crescente criminalizzazione da parte
delle autorità dei principali paesi europei analizzati.
Una delle tendenze europee più preoccupanti riguarda proprio, come sopra
menzionato, la crescente stigmatizzazione da parte di autorità e media mirata a
delegittimare chi manifesta pacificamente, attraverso una retorica tossica, che
in molti casi è solo la premessa per giustificare l’introduzione di leggi ancora
più restrittive per il diritto di riunione pacifica. Prima di aver come
obiettivo le proteste in solidarietà con il popolo palestinese, questa dinamica
in Europa aveva colpito brutalmente le proteste per la giustizia climatica che
dilagavano in tutta la regione anche attraverso atti di disobbedienza civile,
mirati a denunciare le ingiustizie infrangendo intenzionalmente la legge in modo
non violento.
Il modello è chiaro, dopo aver identificato individui o gruppi specifici come
minacce all’ordine pubblico, definendoli come criminali o “terroristi”, questi
stessi diventano poi destinatari di misure normative e amministrative ad hoc e
oggetto di restrizioni generalizzate, illegali per gli standard internazionali
dei diritti umani.
Il quadro europeo evidenzia poi un uso sempre più diffuso, eccessivo e/o non
necessario della forza da parte delle forze di polizia per disperdere
manifestazioni pacifiche, compreso attraverso l’uso di armi meno letali, che in
molti casi hanno causato feriti con lesioni gravi e talvolta permanenti in più
della metà dei paesi analizzati. Con sempre maggiore frequenza anche in Europa
le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un uso eccessivo e
non necessario della forza, anche attraverso l’impiego di militari, come
avvenuto recentemente in Olanda in occasione di azioni dirette non violente da
parte di attiviste e attivisti di Extinction Rebellion. Questo si accompagna poi
a una tendenza generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le
violazioni delle forze dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la
mancanza di meccanismi di inchiesta indipendenti.
Questo insieme di misure e strumenti repressivi stanno creando un progressivo
“effetto intimidatorio” che inibisce la partecipazione alle proteste e
l’espressione pubblica del dissenso, pilastro della democrazia, contribuendo
velocemente ad una regressione importante dello stato di diritto nei principali
paesi europei.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca, lo
stato di salute del diritto di protesta e al dissenso versa in condizioni
estremamente precarie. A fronte di una regressione nell’esercizio del dissenso
pacifico che ormai data di almeno di tre decenni, gli ultimi due anni hanno
visto un accelerarsi di prassi e provvedimenti legislativi repressivi mirati a
smantellare progressivamente un diritto fondamentale che veniva considerato
scontato.
Il comitato delle “Mamme”, così come le altre persone attiviste del contesto
torinese raccontate in questa pubblicazione, nascono in un territorio che ha
conosciuto la repressione direttamente e prima che questa dilagasse a macchia
d’olio molto velocemente nel resto del paese. Fino a qualche anno fa, in ambito
attivista, si soleva dire che Torino e la Valsusa fossero un territorio
d’eccezione, o come meglio lo ha definito l’ex magistrato Livio Pepino, “un
laboratorio di repressione anticipatorio di pratiche di repressione lì
sperimentate che si sarebbero poi replicate a macchia d’olio su altri territori”
nell’intero stivale. In particolare, un modello di repressione che metteva
insieme un apparato mediatico, politico e giudiziario, abbinato alla
militarizzazione del territorio attraverso provvedimenti di emergenza, come la
creazione delle “zone rosse”, poi prolungati in maniera illegittima nel tempo
senza valutazioni di necessità e proporzionalità.
Duole costatare che è arrivato molto velocemente il momento in cui le pratiche
torinesi sono ormai diventate routine in tutta Italia.
Tra gli aspetti certamente più preoccupanti di questa tendenza autoritaria
riscontriamo il grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di
applicazione delle misure amministrative di prevenzione, in particolare il
“DASPO urbano” e il “foglio di via”, ai danni di (ma non solo) attiviste e
attivisti pacifici e sindacalisti. Basati su motivazioni vaghe e spesso imposti
dalle autorità amministrative senza una preventiva autorizzazione giudiziaria,
questi violano i principi di legalità e di presunzione di innocenza, sono in
contrasto con le garanzie del giusto processo e possono violare diritti umani
fondamentali.
Come meglio specificato nella postfazione curata dall’avvocato torinese Claudio
Novaro, la gravità di queste misure cautelari si fonda proprio sul fatto che
vengano emesse sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di
“pericolosità sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia
(talvolta definiti anche “pregiudizi” di polizia) non fondati su un esame
individuale delle circostanze specifiche, né su procedimenti penali o condanne
di alcun tipo.
Lo abbiamo riscontrato chiaramente durante la giornata del 5 ottobre 2024 in
occasione della manifestazione nazionale per la Palestina a Roma. In quella
circostanza le autorità hanno effettuato controlli di identità e perquisizioni a
tappeto su un altissimo numero di persone manifestanti o percepite tali durante
il loro percorso in direzione del luogo di assembramento della manifestazione.
Molte di loro sono state trattenute per diverse ore in varie stazioni di polizia
della capitale, senza ricevere alcuna informazione sulle ragioni specifiche
della loro detenzione, per essere infine notificate di essere oggetto di “fogli
di via obbligatori”, che prevedevano l’obbligo di lasciare Roma entro un’ora e
di non farvi ritorno per un periodo compreso tra i sei mesi e i quattro anni. In
alcuni di questi provvedimenti si esplicita che la “condotta di vita” suggeriva
alla polizia che la stessa persona avrebbe commesso attività illegali nella
città di Roma. Una presunzione di colpevolezza quindi e un salto importante
verso un sistema di eccessiva discrezionalità nell’emissione di determinate
misure estremamente limitative della libertà personale e di vari diritti, tra
cui il diritto alla libera circolazione, allo studio, al lavoro e alla vita
privata.
Come in altri paesi europei, anche in Italia la criminalizzazione dell’attivismo
pacifico passa anche attraverso la narrazione mediatica tossica, poi
strumentalizzata per approvare leggi che restringono in maniera progressiva il
diritto di protesta. Per quanto con un approccio in continuità con le
legislature precedenti, con il governo attuale abbiamo riscontrato questa
strategia applicarsi in maniera più chiara, con un aumento importante di
provvedimenti che prevedono incrementi e norme specifiche che vanno a
criminalizzare direttamente il dissenso pacifico.
> Diamo voce al dissenso
> Non sono i nostri figli che si devono vergognare, ma chi li persegue
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(disegno di escif)
Quando nel 1988 Umberto Eco pubblicò il suo Pendolo di Foucault, Severino Cesari
scrisse sul Manifesto: “È il grande libro sul vuoto di questi anni e lo
dichiara, se appena uno sa leggere. Ed è il duro, metallico libro che insegna a
vivere con questo vuoto, a diventare adulti nell’unico tempo concesso…”.
Qualcuno, rileggendo queste parole, potrebbe chiedersi: ma che c’entra il vuoto
degli anni Ottanta con quella storia di complotti secolari e confraternite
arcaiche? Eppure, quella chiave di lettura del romanzo di Eco era pertinente: il
libro parlava obliquamente anche del presente, se solo si sapeva leggere in
controluce attraverso il suo disegno tortuoso e immaginifico. Questo perché
l’autore aveva afferrato il “genere” e l’aveva strizzato con una tale intensità
da esondare oltre il suo perimetro “naturale”, trasformandolo in altro, in
letteratura tout court, alta, polisemica, universale.
Con lo stesso approccio, Franco Pezzini, riconosciuto come massimo esperto
italiano di letteratura gotico-horror vittoriana, ha dato alle stampe il
suo Morte Astrale (Polidoro editore, 2025, pag. 432, 18 euro), un libro
labirintico e avvincente che solo superficialmente potrebbe rimandare al canone
stilistico e tematico del Pendolo. In realtà, i parallelismi che si possono
cogliere rimandano essenzialmente al metodo – la sfida continua al lettore,
l’esortazione a perdersi nei meandri della trama. E anche nella tracimazione,
più o meno voluta, dal proprio dichiarato alveo “fantasy” (detestabile
definizione che mortifica il genere) verso approdi diversi e più ampi.
Franco Pezzini è stato amico del compianto Valerio Evangelisti – con il quale ha
condiviso l’avventura di Carmilla –, figura chiave della letteratura italiana
contemporanea, innovatore e fonte di ispirazione per molti. Evangelisti intuì
fin dai primi anni Novanta che il romanzo di genere poteva essere usato come un
ponte da attraversare e far saltare – in una tensione continua verso la
costruzione di un immaginario luminoso, di apertura ai mondi possibili
dell’esperienza e della praxis umana. E questi criteri Evangelisti li applicava
sia quando raccontava di Nostradamus che del sindacalismo americano. Scriveva
Evangelisti che, quello che orgogliosamente la letteratura “alta” si permetteva
di ignorare, nel fantasy e nella fantascienza trovava posto perché “il genere è
intrinsecamente massimalista e incline a gestire grandi temi: trasformazioni di
larga scala, sistemi nascosti di dominio, società alternative, effetti tragici o
bizzarrie della tecnologia… quello che il genere non tollererà mai è il
minimalismo, perché incompatibile con il suo codice genetico. Solo nella
fantascienza troviamo descrizioni realistiche (si, realistiche!) del mondo in
cui viviamo…”.
Pezzini raccoglie il testimone e costruisce la sua storia su un intreccio di
suggestioni e rimandi cronologici e letterari, che poi riesce a padroneggiare
(con fatica) e condurre fino in fondo, facendo quadrare in qualche modo i conti
della ricca narrazione. Sotto le sue mani di puparo scrupoloso, moderni
esoteristi e antichissime sette si contendono i segreti delle forze della natura
e del potere a cui esse consentono di accedere. Personaggi e contesti reali e
immaginari attraversano il tempo e lo spazio inseguendo il filo del Segreto –
che rappresenta la distopia, la minaccia incombente, l’incubo del male, ma che
può anche rovesciarsi nel suo opposto, nella luce dell’utopia. Il Segreto come
bussola dell’esistenza e della storia in tempi in cui il nichilismo troneggia
vittorioso.
Viene da riflettere sui miti occultistici – a lungo alimentati e inseguiti
dall’uomo –, oggi che siamo giunti nell’epoca della loro sostanziale inutilità:
le forze naturali sono state soggiogate non da ritualità arcane ma dalla
tecnologia; e la vera magia operativa è oggi nelle mani di ristrette oligarchie
che creano tempeste materiali e finanziarie, con più facilità di quanto un
romanziere possa immaginare. E allora bisogna raccontare in qualche modo “il
duro metallico” mondo in cui ci tocca vivere, ricreandolo nella dimensione
parallela del fantastico. Un mondo in cui la “morte astrale” non arriva da una
dimensione parallela più o meno immaginaria, ma dalla cybersfera, i cui incubi
entrano ed escono dalla nostra realtà materiale a ogni istante, nei tempi della
iperconnessione globale.
Serve la letteratura di genere oggi? E può essere considerata evasione o
trastullo immaginativo? Chiediamoci cos’è una rivoluzione – politica o
letteraria – se non innanzitutto un grandioso sforzo creativo di immaginazione.
Col pragmatismo non si fa altro che contemplare il miserabile presente. Così
come il pragmatismo in politica è la scienza triste dell’amministrazione, in
letteratura corrisponde al minimalismo intimista, così diffuso oggi per stile e
contenuti. E Pezzini non vuole saperne di volare basso raccontando il mondo così
com’è. I suoi personaggi sono incalliti idealisti – del bene o del male, cambia
poco. La loro missione è sconvolgere la storia o salvarla. E anche qui un
rimando al tempo presente: continuiamo a tenere in vita la medesima
meta-narrazione, il racconto teosofico della Loggia Bianca e Nera che si
affrontano da secoli e che viene rivitalizzato e declinato, epoca dopo epoca,
fino ai giorni nostri – con i “progressisti” asserragliati nei salotti della
Gruber pensando di difendere il paradiso perduto dell’occidente dall’orco Trump;
e i dementi di Qannon che sperano di usare il messia Trump per rifondarlo.
Insomma, gli esoteristi di Pezzini, che attraversano i secoli dal Medioevo alla
Belle Epoque, sono altrettanto plausibili delle maschere irritanti del reale. E
davanti alla malattia del mondo contemporaneo fanno anche tenerezza le citazioni
di figure iconiche del milieu magico esoterico che abbondano nel testo: come
quell’Aleister Crowley, che nelle sue megalomani velleità di Mago Nero non
avrebbe mai pensato di diventare inoffensiva icona pop finito su una copertina
dei Beatles.
Franco Pezzini sceglie l’esordio narrativo – dopo anni di scrittura intensa e
piena di riconoscimenti come critico e saggista. E lo fa con una storia scritta
più di un ventennio fa. È un esordio ricco di adrenalina e malinconia, che
stupisce e interroga in più di uno snodo. Ma alla fine ti costringe a chiederti:
ci sarà mai un seguito? (giovanni iozzoli)
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata
di Marco Sommariva*
In un articolo di Stefania Garassini pubblicato qualche giorno fa su Avvenire,
leggo che Adolescence – la miniserie tv britannica che affronta il tema della
violenza tra i teenager, appena uscita e già la più vista sulla piattaforma
Netflix – conta “quattro episodi girati tutti in tempo reale (un’ora circa di
durata corrisponde esattamente a un’ora di vicenda narrata) e con inquadrature
continue che seguono i personaggi in ogni loro movimento con l’effetto di
immergere completamente lo spettatore nella storia, evitando di dare alcun
giudizio su quanto accade”.
Adolescence è la storia dello sconvolgimento di una famiglia quando il figlio
tredicenne, Jamie, viene arrestato per l’omicidio di una sua coetanea, compagna
di scuola.
Stefania Garassini prosegue spiegandoci che “sono diversi e tutti cruciali i
temi che la serie affronta, dal bullismo, alle dinamiche tossiche all’interno
dei social media, all’incomunicabilità tra genitori e figli. Un oceano di dolore
che lambisce le vite di tutti i personaggi, senza che sia possibile identificare
con certezza un colpevole per il disastro cui si assiste. […] Adolescence invita
ad allargare lo sguardo su un mondo adulto che non sembra avere più gli
strumenti per capire quanto sta accadendo nelle menti e nei cuori dei propri
figli, troppo spesso soli, totalmente immersi nel mondo dei social, dove la
derisione e la vergogna possono nascondersi anche dietro le parole e le emoji
apparentemente più innocue”.
Su un altro articolo pubblicato da Avvenire, questa volta a firma di Marco
Pappalardo, vengono riportate le parole di una studentessa alla quale il
giornalista ha chiesto un parere su Adolescence: “Non ero pronta a vedere una
storia così violenta eppure così normale oggi. La necessità di sentirsi
accettati non si nega e non è solo della mia generazione. Avere le proprie idee,
diverse dagli altri, è difficile. Devi essere brava a scuola, educata,
obbediente a casa, tra i compagni furba e vestita in un certo modo; devi piacere
e condividere storie nel posto giusto. Senza uno di questi requisiti, la vita
potrebbe diventare un inferno e per colpa dei social non c’è un posto dove
nascondersi. Mi ha sconvolta l’incapacità del protagonista di capire che aveva
un’altra scelta. Mi ha spaventato che nessuno abbia chiesto aiuto agli adulti e
che essi siano così ciechi e sordi. Questa serie non dà speranze!”
Nell’articolo di Pappalardo, quello sopra non è l’unico commento per bocca dei
giovani; altri dicono la loro, come per esempio un certo Marco: “Il contrasto a
casa riesce ad isolarci, facendoci sentire soli, impotenti uditori di liti tra
adulti. Così giungono delle “consolazioni” che ci distruggono: droga, bullismo,
alcool, azzardo, atti criminali. Mi fa riflettere la fragilità umana e la
delicatezza dei rapporti”.
Da giorni, sono tantissimi a occuparsi di questa miniserie tv di Netflix: il
Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Il Mattino, Il
Fatto Quotidiano, Il Foglio, Libero, Internazionale, L’Espresso, eccetera.
Oltre ai due articoli già citati, Avvenire ne ha pubblicati altri su
Adolescence, tra cui quello di Massimo Calvi, il quale ci fa notare che “Il vero
motivo per cui tutti in questi giorni stanno parlando di Adolescence […] non
risiede probabilmente nella sua elevata qualità di regia e recitazione, e
nemmeno nella complessità del tema affrontato, aspetti che in ogni caso ne
stanno decretando uno straordinario successo. La ragione più profonda che tiene
sulla bocca di tanti la storia del giovane Jamie è legata al fatto che dopo aver
visto la serie per intero si manifesta pressante il bisogno di parlarne. Perché
è necessario liberarsi di qualcosa, trovare il modo di espellere il disagio
condividendolo, superare il trauma attraverso le parole e lo
scambio. Adolescence è sì un pugno nello stomaco, come in tanti hanno rilevato –
o meglio, sono quattro cazzotti, quante le puntate della serie – ma è
soprattutto una forma di abuso, un racconto talmente disturbante per un genitore
da richiedere di essere elaborato il prima possibile”.
Ora, anche giustamente, qualcuno di voi s’aspetterà una mia disamina su
Adolescence così che anch’io possa liberarmi di qualcosa, trovare il modo di
espellere un disagio, superare un trauma attraverso la scrittura di un articolo.
No. La mia disamina sarà leggermente diversa, verterà sull’adolescenza di altre
epoche cui fanno cenno alcuni scrittori e scrittrici a me cari, anche per capire
se, in passato, tutto filava liscio o meno; quindi, tranquilli, non si parlerà
della mia adolescenza o di quella “dei miei tempi”.
Intanto, inizierei col dire che sono d’accordo con Laura Pariani quando nella
sua raccolta di racconti Il pettine, scrive che “L’adolescenza è una brutta età.
[…] come un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare
di afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo
che mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci
e di coloro che sono destinati a riceverti…”
In Autunno tedesco, Stig Dagerman scrive della Germania dell’immediato
dopoguerra, quella del 1946, e dei giovani ci racconta questo: “I ventenni
gironzolano per le stazioni delle piccole città fino a quando fa buio, senza
avere un treno o qualcosa d’altro da aspettare. Qui si assiste a piccoli,
disperati tentativi di furto da parte di adolescenti nervosi che buttano
fieramente all’indietro il ciuffo con un colpo di testa quando vengono presi, si
vedono ragazzine brille che si attaccano al collo dei soldati alleati e se ne
stanno quasi sdraiate sui divani delle sale d’aspetto in compagnia di negri
ubriachi. Nessuna gioventù ha mai vissuto un simile destino […]. Hanno
conquistato il mondo a diciotto anni, e a ventidue hanno perso tutto”.
Mi verrebbe da dire che gli adolescenti d’oggi hanno perso tutto senza, prima,
aver mai conquistato nulla, ma forse la faccio troppo semplice, e allora mi
limito a scrivere che questi disperati tentativi di furto da parte di
adolescenti e queste ragazzine brille che si attaccano al collo di qualcuno, mi
ricordano un po’ troppo da vicino i nostri figli; fosse così, significherebbe
che siamo riusciti a devastarli come fossero usciti da una guerra mondiale.
Nel libro Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa, si racconta la storia di
quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la
nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza
patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo
profughi di Jenin: “[…] il corpo di Jolanta era stato devastato dai nazisti, che
l’avevano costretta a dare gli ultimi anni della sua adolescenza in pasto agli
appetiti sessuali delle SS. Quell’incubo le aveva salvato la vita ma l’aveva
resa sterile. Avendo perso ogni membro della sua famiglia nei campi di
sterminio, Jolanta si era imbarcata da sola per la Palestina alla fine della
Seconda guerra mondiale. Non sapeva nulla della Palestina né dei palestinesi,
seguiva solo il richiamo del sionismo e le lussureggianti promesse di una terra
di latte e miele. Voleva un rifugio. Voleva fuggire dai ricordi di tedeschi
sudati che contaminavano il suo corpo, dai ricordi di fame, dai ricordi di
depravazione. Voleva fuggire dalle urla di morte che popolavano i suoi sogni,
dalle canzoni ormai spente di sua madre e suo padre, di suo fratello e delle
sorelle, dalle grida senza fine degli ebrei agonizzanti”.
Non sarà che i nostri figli vorrebbero “semplicemente” scappare dalle urla di
morte che popolano i loro sogni, dalle grida di chi agonizza in questi nostri
tempi in cui la ricchezza dei miliardari è cresciuta nel 2024 di duemila
miliardi di dollari, tre volte più velocemente del 2023, mentre tre miliardi e
mezzo di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno? Non solo, non è che
i nostri figli vengono devastati sempre più spesso dagli appetiti sessuali degli
adulti o si devastano vicendevolmente pensandosi protagonisti di quei video
pornografici da cui si fatica a star distanti e che nessuno ha insegnato loro a
studiare, analizzare, verificare, decifrare?
Tra il 1963 e il 1966, Jim Carroll – poeta e musicista – racconta in un diario
gli anni della sua adolescenza, scritti che poi diventeranno il libro culto Jim
entra nel campo di basket. Quando uscì negli Stati Uniti, rappresentò un caso
letterario, suscitando l’entusiasmo di Jack Kerouac; racconta la vita on the
road di un ragazzino straordinariamente intelligente, un libro autobiografico,
un racconto fedele della sua adolescenza segnata da una precoce dipendenza
dall’eroina e dall’esperienza della prostituzione: “Poi ci siamo noialtri
ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e
crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine.
Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di
controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che
passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene
tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui
correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che
svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o
mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono
cazzi”.
Non so dalle vostre parti cosa stia succedendo, ma qui, dalle mie – a Genova –
lo spaccio di stupefacenti è così diffuso che il più conosciuto quotidiano
locale, ha dedicato ultimamente numerosi articoli “all’inferno del crack nel
Centro città” e, credetemi, sono tantissimi i ragazzi che si alzano da letto
decisi a qualsiasi cosa, anche a farsi “spaccare” pur di avere la propria dose
giornaliera; fosse così, significherebbe che siamo riusciti a bucarli,
intossicarli, stordirli e mortificarli come certi ragazzi eroinomani newyorkesi
dei primi anni Sessanta, e senza neppure aver la consolazione di ritrovarli
ostili alle mode e alle comparsate televisive come lo era Jim Carroll, appunto.
Nel 1967 viene pubblicato Ora d’aria, la storia di un gruppo di detenuti in un
carcere statunitense dove la vita scorre senza tempo: qualcuno è arrivato da
poco, qualcuno è dietro le sbarre da anni, qualcuno ci resterà per sempre. Il
carcere descritto da Malcolm Braly, l’autore, è un mondo straordinariamente
simile a ciò che sta fuori, capace di farci comprendere che tutti, sotto certi
aspetti, siamo prigionieri delle nostre esistenze. Braly, abbandonato dai
genitori ancora bambino, si dedicherà fin dall’adolescenza a piccole attività
criminali, perlopiù rapine, che lo porteranno presto in riformatorio; dei suoi
primi quarant’anni, diciassette li trascorrerà nelle più dure prigioni
americane: “Si svegliò. Mentre la sensazione del sogno scivolava via, lui ne
riconobbe i contorni adolescenziali e gli venne un desiderio nostalgico per quel
mondo perduto, le cui aspettative troppo alte avevano avvelenato la sua vita di
adulto quando ne aveva scoperto il grigiore”.
E forse qui troviamo un altro aspetto su cui bisognerebbe fermarsi a ragionare
un bel po’: le aspettative troppo alte di quel mondo adolescenziale che
avvelenano la vita adulta quando se ne scopre il grigiore. Chi genera queste
aspettative troppo alte? I genitori? Magari per provare a rifarsi dei propri
fallimenti? Magari nel tentativo di “perfezionare” i figli senza rendersi conto
che, invece, questa loro deleteria ricerca di perfezione distruggerà i ragazzi?
O certe ideologie? Magari quelle che ti promettono ricchezza e benessere se
competi contro tutto e tutti e in continuazione? O forse è lo stato? Magari con
le sue promesse di sconfiggere nemici, conquistare terre, anche fosse “solo”
occupandole culturalmente?
Riprendo la frase di Laura Pariani – “L’adolescenza è una brutta età. […] come
un trapezista, devi abbandonare la salda presa dell’infanzia e cercare di
afferrare l’appiglio dell’età adulta; e tutto ciò dipende, in un intervallo che
mozza il fiato dall’emozione, dall’attendibilità di coloro da cui ti sganci e di
coloro che sono destinati a riceverti…” – e mi domando se, noi che di questi
adolescenti siamo genitori zii nonni e insegnanti, siamo attendibili o se siamo
soltanto corpi che attraversano i giorni con modalità talmente anonima e passiva
da garantire agli altri un minimo di credibilità unicamente quando viene
pubblicato il nostro necrologio, o se magari la nostra affidabilità l’abbiamo
esaurita perché interamente impegnata nel soddisfare il nostro bisogno di far
sapere al mondo intero ogni cosa noi si pensi e si faccia postando tutti i
nostri palpiti, o se siamo così presi a dispiacerci per i figli adolescenti e
per chiunque altro esclusivamente per ignorare noi stessi, la nostra
inattendibilità.
L’adolescenza è l’unico periodo della vita in cui non si è sopraffatti dalla
nostra adolescenza, è un santuario dove alcuni trascorrono tutto il loro tempo
anche mentre i capelli s’ingrigiscono. Forse perché è quel periodo della vita
tanto bello quanto tormentato, in cui l’innocenza dell’infanzia non è ancora
stata contaminata dall’età adulta e si riesce ancora a immaginare un futuro a
colori.
Chi più chi meno, temo si sia tutti ostaggio della propria adolescenza,
soprattutto coloro che, anagraficamente, l’hanno superata.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Uno spaccato sulla lotta politica del C.A.L.P., Collettivo Autonomo Lavoratori
Portuali di Genova, tra il 2019 e il 2023. Gli scioperi contro la “nave delle
armi” e la ricerca di un sindacato più attento alle istanze del presente. La
sicurezza sul posto di lavoro, l’antimilitarismo, il dialogo con gli altri
portuali del Mediterraneo. Il sogno di dare forma a un mondo diverso, e il
prezzo che comporta. Nelle burrascose settimane in cui la parola “” viene
pronunciata con inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non
sottrarci alle nostre responsabilità, riproponendo un modello di resistenza dal
basso di cui abbiamo tremendamente bisogno.
di Ossydiana Speri da OndaCinema.
“La chiamata”: così, con enfasi quasi biblica, era ribattezzata la convocazione
degli aspiranti camalli che ogni mattina affollavano il porto di Genova. Una
massa sgomitante a cui, caso più unico che raro, veniva comunque corrisposto un
obolo qualora non avessero ottenuto il lavoro. Lavoro che non era certo un bagno
di salute (basti pensare alle vittime da bollettino di guerra mietute dalla
silicosi), ma che quantomeno vedeva in campo un sindacato battagliero e un
padronato meno spietato che altrove. Quest’ultimo lato della barricata ha da
tempo cambiato faccia: “Il porto è una macchina inesorabile, una miniera
infernale. È l’immagine stessa del capitalismo globale nel ventunesimo secolo”,
apprendiamo dal libro-inchiesta “Le frontiere del mondo” di Andrea Bottalico,
dedicato all’oscuro universo geometrico dei container. Ancora intatta è invece
la pelle dura dei nuovi lavoratori del porto, mirabilmente ritratti nel primo
lungometraggio della marchigiana Perla Sardella, autrice anche della fotografia
e del montaggio.
Ad aprirlo e chiuderlo, sulle note strozzate del sax di Alabaster DePlume, sono
materiali d’archivio che documentano quel mondo di fatica e orgoglio. Tirare in
ballo la pellicola qui non è certo un vezzo hipsteroide, semmai la prova del
filo diretto tra le lotte di ieri e di oggi. Ulteriore nota di merito, il
proemio e il congedo sono le uniche occasioni in cui si ricorre sia al found
footage sia al commento musicale, senza negarsi qualche straniante manipolazione
(i movimenti in reverse dei primi cinque minuti).
Lo stesso rigore formale permea tutte le scelte della regista, pienamente
consapevole dei suoi obiettivi e dei suoi strumenti: niente interviste, niente
voice over, niente didascalie se non concentrate nei tableux che di tanto in
tanto intervallano il montato, peraltro di pregevole confezione (i testi si
materializzano dal basso verso l’alto con un incisivo font rosso, unica
concessione al background arty dell’autrice). A contenuti coerenti, forme
coerenti, sembra chiosare Sardella.
Mosca sul muro di ammirevole discrezione, la camera plana tra assemblee fluviali
e impavide manifestazioni che chiariscono la natura sui generis dei soggetti in
esame: i portuali genovesi non si limitano a perorare la loro causa, ma portano
avanti una crociata senza quartiere contro il traffico di armi di cui la Superba
è ben noto scalo, per nulla intimoriti dalle innumerevoli denunce e minacce di
cui son fatti bersaglio. Ben consci che non c’è rivoluzione senza condivisione,
nelle loro arringhe auspicano una saldatura tra tutti i dissidenti del
Mediterraneo, in un afflato internazionalista che sempre più di rado attraversa
gli slogan di categoria.
Se nei documentari d’osservazione fa spesso gioco pedinare un protagonista, la
regista ne trova uno maiuscolo in Josè Nivoi, sindacalista USB e portavoce del
CALP, il portentoso Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali autore
dell’imperdibile “Fino all’ultimo di noi”, edito l’anno scorso da Red Star
Press. Un personaggio d’altri tempi e fuori dal comune, tabagista incallito e
impetuoso oratore, a suo agio (più o meno) sulle banchine del molo quanto al
Parlamento Europeo. Cicerone affabile e grintoso, è lui a farci strada tra
un’umanità dai modi spicci ma dal cuore grande, in cui le vecchie generazioni
vegliano sulle nuove senza pretese indottrinanti. Ed è così che conosciamo anche
Bruno Rossi, tenero vegliardo che negli anni si è fatto simbolo vivente della
causa portuale.
Rivendicazioni sindacali, ma non solo: c’è spazio anche per la straziante
vicenda della figlia di Bruno, Martina, precipitata nel 2011 da un hotel di
Palma di Maiorca per sottrarsi a uno stupro. È stata la tenacia investigativa
del padre a incastrare i due autori, non predatori dei bassifondi ma “bravi
ragazzi” di buona famiglia, rivoltante categoria umana messa alla berlina,
proprio nella Genova degli scorsi mesi, dall’impietoso j’accuse dalla
consigliera comunale Francesca Ghio, rimbalzato sulle cronache nazionali tra gli
sfottò maschilisti.
Alla barbara vigliaccheria di chi confida nell’impunità risponde per le rime la
solidarietà dei compagni di Bruno, compatti e sul pezzo anche all’asciutto,
sempre e comunque dalla parte delle vittime. Una sberla a mano piena contro chi
vorrebbe le battaglie compartimentate come la stiva di una nave.
Nelle burrascose settimane in cui la parola “riarmo” viene pronunciata con
inquietante sconsideratezza, “Portuali” ci invita a non sottrarci ai nostri
doveri civici, riproponendo un modello di resistenza dal basso di cui abbiamo
tremendamente bisogno.
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