
Forze dell’ordine, strumenti e pratiche per riflettere
Osservatorio Repressione - Sunday, May 25, 2025Recensione di «Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia», a cura di Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio Repressione, per Momo edizioni
di Vincenzo Scalia da il manifesto
La recente pubblicazione Police Abolition. Corso di base sull’abolizione della polizia (Momo, pp. 96, euro 13), curata da Italo Di Sabato e Turi Palidda nella sua edizione italiana, con le illustrazioni di Noah Jodice, rappresenta uno strumento utile a riflettere sulla genealogia delle forze dell’ordine, fino a considerare la possibilità di abolirle.
L’eterogenesi dei fini costituisce una caratteristica fondante delle interazioni sociali. I conflitti, le trasformazioni, le variabili impreviste, sortiscono a volte l’effetto di deviare verso esiti opposti specifici costrutti sociali, pensati per adempiere ad altre finalità. Il caso della polizia rientra pienamente all’interno di questa dinamica. Istituita per la prima volta a Londra nel 1829, sotto il governo Tory di Robert Peel (da cui il soprannome di bobbies che tuttora contraddistingue i poliziotti inglesi), la polizia metropolitana londinese, il cui modello venne in breve esteso a tutto il paese, rispondeva a scopi specifici. Lo scopo principale era quello di sanare la frattura tra gli strati subalterni della società inglese e lo Stato, che, dopo il massacro di Peterloo del 1829, si era ampliata a dismisura. Inoltre, attraverso un corpo statuale centralizzato, si voleva porre fine alla discrezionalità e all’abuso delle polizie private.
IL MODELLO INGLESE, diffusosi rapidamente in tutta Europa e nel mondo, non tardò ad evolversi nella direzione opposta. Il consolidarsi della polizia come istituzione dotata di un proprio spazio, indipendente da ragioni specifiche, si sovrappone all’acuirsi dei conflitti sociali, all’interno dei quali le forze dell’ordine si collocano all’interno della prospettiva del mantenimento e della riproduzione degli equilibri di potere esistenti. La polizia finisce quindi per allontanarsi dalla funzione per la quale era stata pensata, diventando refrattaria ai cambiamenti radicali. A meno che, come avvenne per esempio in Italia negli anni Settanta, non viene essa stessa attraversata da conflittualità profonde.
Gli ultimi anni ci consegnano un’istituzione poliziesca identificata e identificatasi come avversaria diretta di migranti, minoranze etniche, lgbtqia+, no global (si pensi a Genova 2001 e al caso di Carlo Giuliani), nonché allergica all’eccentricità degli stili di vita. Nel caso italiano, le tragedie Aldrovandi e Magherini, ne sono un’esemplificazione. Oltreoceano, sulla scia del tragico caso di George Floyd, nasce il movimento «Defund Police», che si prefigge di abolire la polizia e di dirottare le risorse destinate a mantenerla in direzione di politiche sociali inclusive.
UN PROGETTO AMBIZIOSO, provocatorio, che, nel contesto USA, si prefigge di invertire la tendenza già indicata da Loic Wacquant, ovvero del passaggio dallo stato sociale a quello penale. Che fa dell’origine relativamente recente delle forze di polizia il suo punto di forza. Un percorso da incoraggiare, anche nell’Italia del Ddl 1660. Ma che pone un interrogativo: sono mature le condizioni per una società senza polizia?
Prima della sua istituzione, avevamo le milizie private dei signori e delle corporazioni. Per esempio, in Sicilia, la mafia è nata in questo contesto. Dopo la polizia, cosa ci sarebbe? Pensiamo a un contesto dove la sorveglianza elettronica prende sempre più piede, e il taglio dei fondi prelude, come nel caso inglese, a una polizia predittiva, che sorveglia e reprime sempre le stesse classi pericolose. Senza tralasciare ronde e vigilanze private. Volendo rispondere alla domanda, perciò, potremmo dire: la polizia si può abolire. Ma se si abolisce l’ordine sociale e politico che la sostiene.
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