«Un progetto esplicitamente apocalittico»

il Rovescio - Thursday, June 19, 2025

«Un progetto esplicitamente apocalittico»

Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti sono un progetto esplicitamente apocalittico».

Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella rivoluzionaria.

Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe, eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine “intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma la sua interruzione e il suo disvelamento.

Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che «l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore.

Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale, se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala a pioli.

«Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci), sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del capitale.

O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita. Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare.

L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente, «oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e «Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di apocalittico.

Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica) – è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo, perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli Untermenschen del presente e del futuro.

Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888).

Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti» russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow, cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco.

E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.