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«Un progetto esplicitamente apocalittico»
«Un progetto esplicitamente apocalittico» Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti sono un progetto esplicitamente apocalittico». Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella rivoluzionaria. Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe, eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine “intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma la sua interruzione e il suo disvelamento. Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che «l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore. Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale, se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala a pioli. «Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci), sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del capitale. O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita. Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare. L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente, «oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e «Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di apocalittico. Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica) – è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo, perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli Untermenschen del presente e del futuro. Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888). Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti» russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow, cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco. E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.
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Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione
Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione Cos’è la guerra? La si può definire senz’altro in tanti modi. Dal secondo conflitto mondiale a oggi, essa è contemporaneamente – e indissociabilmente – scontro di potenza tra gli Stati, artificializzazione dell’ecosfera e attacco generalizzato a ogni forma di autonomia individuale-comunitaria. Se è nel solco della Seconda Guerra mondiale che si appronta il mondo come laboratorio – eugenetica, campi di prigionia e di sterminio, fusione di scienza, Stato e industria, costruzione della bomba atomica, “modello IBM” e paradigma cibernetico –, l’ulteriore sviluppo delle tecnologie convergenti fornisce oggi alla macchina bellica una dimensione totale (terra, acqua, cielo, spazio ultra-atmosferico, onde elettroniche, corpi e cervelli). Contrariamente alle tante imbecillità profferite per anni sulla “fine dello Stato”, sulla fase post-imperialista e sulla “microfisica dei poteri” che avrebbe abolito il comando verticale e centralizzato, la contesa sulla definizione delle gerarchie statali (e dei monopoli che queste difendono e da cui dipendono) ritorna in tutta la sua brutalità. E “ritorna”, appunto, armata di tutto ciò che ha accumulato nella storia. La guerra è anzi proprio il momento in cui si svela che l’«accumulazione originaria» del capitale non è un evento, bensì una struttura. L’economia di guerra serve ad allargare e a difendere con le armi vecchie e nuove enclosures (terre, prodotti agricoli, fonti energetiche, “dati”, cavi sottomarini, “minerali strategici”, sequenze di DNA, reti neurali…). La guerra s’impone innanzitutto come parodia assassina della lotta di classe. Non solo perché essa incorpora nei propri arsenali le vittorie contro i salariati e i loro tentativi di emanciparsi dallo sfruttamento, ma perché si basa sulla mistificazione totale del concetto di violenza. Si può forse dire, in tal senso, che l’attuale incapacità di dar vita a un movimento disfattista orientato a trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni, sia direttamente proporzionale a quanta mistificazione è stata interiorizzata negli ultimi decenni. Il vero dramma, infatti, non è tanto quello di uscire sconfitti da un lungo ciclo di lotte, quanto quello di lasciarsi arruolare nel sistema di valori del nemico. Senza una qualificazione etica e sociale delle tipologie di violenza (violenza degli oppressori e violenza degli oppressi, violenza coloniale e violenza anticoloniale, violenza indiscriminata e violenza rivoluzionaria, violenza statale e violenza liberatrice) si è letteralmente disarmati. La «guerra al terrore» con cui dal 2001 in poi gli USA e i loro alleati (Stato d’Israele soprattutto) hanno esteso ulteriormente la loro macchina bellica e predatrice – fusione tra Pentagono e piattaforme digitali, sviluppo dei droni, giustificazione giuridica della «caccia al nemico planetaria», ibridazione soldato-macchina ecc. – era stata condotta e vinta prima sul piano interno grazie alla riqualificazione – mediatica, giudiziaria, sociale – della sovversione armata (e a seguire di ogni conflitto reale) come «terrorismo», cioè come violenza indiscriminata contro l’insieme dei cittadini. Il genocidio a Gaza quale «diritto d’Israele all’autodifesa» e la resistenza palestinese quale «barbarie» – il 7 ottobre come «pogrom», oppure, Gad Lerner dixit, come equivalente della strage di Marzabotto – sono le espressioni più ignobili di tale mistificazione. Nella violenza alle parole e alla loro storia si riverbera sul piano dei concetti l’abisso senza fondo della corruzione morale. Oltre che tardiva, la constatazione di un Maurizio Lazzarato – «il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri-Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire» – confonde l’effetto con la causa. È la rimozione della violenza di classe e della violenza rivoluzionaria – quando non, come nel caso di Negri, la partecipazione attiva e premiata alla mistificazione sul concetto di «terrorismo» – a spiegare l’imbroglio post-modernista più di quanto non sia il contrario. Contro le sottili mistificazioni a cui è stato sottoposto lo stesso pensiero benjaminiano, nelle Tesi sul concetto di storia è proprio la violenza rivoluzionaria che secondo Benjamin può spezzare il continuum della catastrofe storica, contrapponendo allo stato di eccezione fittizio (la dialettica tra normalità ed emergenza, tra pace e guerra, tra il Diritto e la sua sospensione) lo stato di eccezione effettivo (la fine dello Stato e del suo Diritto, della sua guerra come della sua pace). Quando una guerra tra Stati e blocchi capitalistici diventa una «resistenza popolare» (come se la lotta partigiana si fosse basata sull’arruolamento forzato, come se usare una mitragliatrice contro delle forze occupanti fosse la stessa cosa che lanciare un missile guidato da un satellite contro una cittadina a centinaia di chilometri di distanza…); quando la violenza di una popolazione imprigionata è paragonata alle stragi degli eserciti di occupazione, il terreno è dissodato per ogni manipolazione. L’appello lanciato da Michele Serra dalle colonne di “Repubblica” – a cui si sono subito accodati PD, Cgil, Cisl, Uil… – allarga al piano internazionale una mistificazione cominciata sul fronte interno. Se l’appoggio, malamente mascherato dietro la «difesa dei valori dell’Europa», all’imperialismo e ai piani di riarmo europei è «un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che giustamente è considerato uno degli elementi costitutivi della guerra, al pari dell’artiglieria», lo stesso giornalista ci aveva già regalato in passato un «capolavoro» non meno infido. Nel 2002, sempre sulle colonne di “Repubblica”, Serra aveva scritto che gli spari delle nuove Brigate Rosse contro il giuslavorista Marco Biagi (quella brava persona a cui dobbiamo la Legge 30, con cui sono state rese ancora più precarie le condizioni di lavoro di milioni di persone) avevano fatto riecheggiare per le strade felsinee il boato della bomba esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. È difficile, benché la concorrenza al riguardo sia sempre stata piuttosto agguerrita, immaginare un livello di disonestà intellettuale e di falsificazione storica paragonabile. L’uccisione di un consapevole servitore del capitale messa sullo stesso piano di una strage fascista e di Stato che ha assassinato 85 ignari pendolari, ferendone oltre 200. Una strage, tra l’altro, che aveva il significato materiale e simbolico di suggellare nel sangue la sconfitta operaia alla FIAT avvenuta nello stesso anno. Nemmeno i giornalacci più reazionari – nemmeno “Il Borghese” – sono riusciti a raggiungere un tale Himalaya di infamia. Se un atto ben discriminato di violenza di classe – quali che siano i giudizi sulle nuove Brigate Rosse, sulle organizzazioni combattenti in genere, sull’“omicidio politico” – può venire paragonato a una strage di gente comune, allora la prosecuzione della guerra in Ucraina per non essere esclusi dalla sua spartizione può ben diventare «difesa dei valori di libertà». E gli «antagonisti» che all’epoca si recarono ai funerali di Biagi, oggi possono ben condividere le piazze con i reggicoda dei guerrafondai. A conferma di come lo strabismo interessato sulle forme di violenza sia la corruzione che contiene tutte le altre. Resta di tragica attualità quello che la ventiquattrenne Simone Weil scriveva nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933): «Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».
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La pace della terra
La pace della terra Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La «pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza, andò perduto con il Rinascimento. Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione. Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»: che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il tentativo stesso di esportarla significa guerra. Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesti tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza. Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la “bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i data center e sottratta ai campi. Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo» (Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit 8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana? Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema aristotelico e marxiano, ma come un certo modo – localmente radicato, basato sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (mangiare, stare al caldo, crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi comunitari. La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi dell’autonomia. Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue» va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa amministra.
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Nocciola
Nocciola Ad avvisarci dell’inizio della distruzione di massa non saranno le trombe del Giudizio universale, ma qualche nomignolo elaborato dalla macchina dell’eufemismo burocratico. Se c’è un elemento che tutti i complessi scientifico-militar-industriali hanno in comune è senz’altro l’ignobile creatività nel nascondere o banalizzare i propri programmi, le proprie macchine, le proprie mosse sul quadrante dei comandi. «Soluzione finale della questione ebraica», prima di diventare l’espressione-simbolo della produzione industriale di cadaveri, è stato l’eufemismo con cui mascherarla. Nella macchina burocratica nazista, a cui IBM ha fornito l’efficienza delle schede perforate, gli internati da avviare alle camere a gas erano definiti «musulmani», mentre Sonderkommando («unità speciale») era il nome per designare il gruppo di deportati costretti a recuperare i capelli e gli eventuali denti d’oro dai corpi gassati («Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo», scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati). L’assassinio di oltre duecentomila «improduttivi», «pesi morti della società» o «vite indegne di essere vissute» è sgorgato da un programma che stava tutto in un sostantivo, una lettera e un numero: Aktion T4 (come noto, T4 era l’abbreviazione di Tiergartenstraße 4, via e numero civico di Berlino al cui indirizzo era situato il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil-und Anstaltspflege, la Fondazione di Beneficenza per la Salute e l’Assistenza sociale). Come non ricordare, poi, i nomignoli con cui sono stati chiamati gli ordigni atomici del Progetto Manhattan (alla cui produzione, giova ricordarlo, hanno lavorato quasi seicentomila persone tenute all’oscuro di cosa stessero fabbricando)? La bomba fatta esplodere il 16 luglio 1945 ad Alamogordo si chiamava Gadget (così, come un orologio o un fermacarte), mentre il linguaggio scelto per il test nucleare era iperbolico e biblico (Trinity). Almeno duecentomila giapponesi furono disintegrati tra il 6 agosto (Hiroshima) e il 9 agosto 1945 (Nagasaki) da Little boy (60 kg di uranio-235) e da Fat man (6,4 kg di plutonio-239). Se il modello di ogni complesso scientifico-militar-industriale è stato forgiato durante la Seconda guerra mondiale – vero e proprio laboratorio di cui il presente è ancora un’appendice –, il suo sviluppo non ha fatto che generalizzarne gergo. Non è forse degno di questa storia il calcolo scientifico delle kilocalorie necessarie alla mera sopravvivenza della popolazione di Gaza? («Le formule numeriche contenenti le soglie massime e minime sono ciò che i militari chiamano lo “spazio di respiro”, il tempo rimanente prima che le persone inizino a morire di fame», scrive Eyal Weizman ne Il minore dei mali possibili). Solo dei violentatori della lingua al servizio del dominio possono chiamare «Arcobaleno», «Prime Piogge», «Piogge Estive», «Nuvole di Autunno», «Inverno Caldo», «Sorgere dell’Alba» delle operazioni di bombardamento, come è accaduto con quelle realizzate dall’IDF contro gli abitanti di Gaza tra il 2004 e il 2022. Oppure chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal 2006 sempre contro i gazawi. O ancora dare il nome di Havatzalot («Gigli») a un programma accademico-militare incentrato sull’intelligence di guerra e sul combattimento tattico. E non è forse in perfetta continuità con il Progetto Manhattan chiamare Habsora («Vangelo»), Lavender («Lavandaia») e Were is Daddy? («Dov’è paparino?») i programmi di Intelligenza Artificiale con cui lo Stato d’Israele sta compiendo il primo genocidio automatizzato della storia? In risposta alle inutili (sul piano militare) e irresponsabili (sul piano delle conseguenze per l’intera umanità) provocazioni da parte della NATO attraverso il lancio di missili occidentali direttamente sul territorio russo, il complesso scientifico-militar-industriale che fa capo al Cremlino ha scagliato contro uno stabilimento militare ucraino un missile ipersonico. Questa “tipologia di arma” viaggia alla velocità di 2,5 chilometri al secondo ed è in grado di colpire ogni obiettivo in pochi minuti nel raggio di 5 mila chilometri, senza che l’apparato militare della NATO – almeno nel Vecchio Continente – possa intercettarlo. Cosa ancora più inquietante, questi missili, che l’esercito russo sta producendo in serie, sono fabbricati per trasportare diverse testate atomiche. Quello realizzato il 21 novembre scorso, insomma, è stato un vero e proprio test balistico nucleare senza bombe atomiche. Un avvertimento al servo (il governo ucraino) perché il padrone (la NATO) intenda. Un piano inclinato verso la guerra nucleare, i cui mezzi di mutua distruzione (nella scommessa che l’altro si fermi prima…) sono in realtà Mezzi assoluti, dal momento che qualsiasi nozione di Fine presuppone ancora un mondo dove poter perseguire degli obiettivi. La dottrina della “deterrenza nucleare” è allo stesso tempo l’apice della razionalità strumentale (e della sua costitutiva amoralità) e la sua disintegrazione per eccesso di potenza. Qualche analista militare (che epoca generosa per simili professioni) ha paragonato il lancio del missile IRBM (balistico a raggio intermedio) e MIRV (a testata multipla) al primo algoritmo di un programma automatico. Si chiamava “Minaccia di Apocalisse” o “Inizio dell’Inferno”? No, si chiamava Orešnik. «Nocciola». Vari scribacchini dei media occidentali hanno parlato di bluff. Un missile che viaggia a dieci volte la velocità del suono e che solo per un calcolo nella logica della potenza non trasporta testate atomiche sarebbe una minaccia più o meno retorica. Nei giorni successivi, infatti, sono stati lanciati contro il territorio russo altri missili a lunga gittata di produzione occidentale (che possono essere azionati, come quelli sganciati in precedenza, solo da personale della NATO), nonostante il Cremlino si fosse già dichiarato “in diritto” di colpire direttamente i Paesi che pianificano simili operazioni.    L’unica variabile che ci può salvaguardare dal fatto che in questo poker tra le potenze qualcuno finisca per andare a vedere, è il crollo generalizzato del fronte ucraino per l’insubordinazione del materiale umano e proletario da mandare nel tritatutto della guerra. L’unica “linea rossa” che ci può preservare dalla distruzione di massa è un movimento sociale e internazionale contro tutti i complessi scientifico-militar-industriali, le loro Unità Speciali, i loro Gadget, i loro Gigli, i loro Vangeli e le loro Nocciole.
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