Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento
Partiamo da un’immagine. La “piazza per l’Europa” scelta a Trento dal quotidiano
“Il Dolomiti” è tra le più piccole della città ed ha accessi molto stretti.
Insomma, se i Michele Serra nostrani non si aspettavano le folle, non
escludevano le contestazioni. Il risultato è stato qualche centinaio di persone
(300? 400?) che si sono parlate addosso letteralmente circondate dalla celere e
dai carabinieri in tenuta antisommossa. Perché a cinquecento metri di distanza è
stata lanciata una manifestazione inequivocabilmente contro il riarmo, contro
l’economia di guerra, per la fine del massacro in Ucraina e del genocidio in
Palestina, in solidarietà ai disertori ucraini e russi. Nonostante lo scarso
preavviso (e la tanta pioggia), poco meno di 300 persone sono partite in corteo,
passando dalle quattro strade attorno alla piazza dei guerrafondai (malamente)
mascherati, disturbando con gli interventi amplificati proprio le parole del
sindaco (neanche a farlo apposta). Le persone che passavano in centro si sono
accorte degli europeisti con l’elmetto solo per via della polizia, mentre gli
slogan e gli interventi che hanno sentito erano antimilitaristi,
internazionalisti, anticolonialisti: “Gaza nel cuore, Jenin nella memoria,
Intifada fino alla vittoria”, “Dalla von der Leyen a Michele Serra, cambiano le
forme, la sostanza è guerra”, “Lo chiede l’Europa, la riposta è no. Per le loro
guerre non mi arruolerò”, “Contro le guerre dei signori, siamo tutti disertori”,
“Non un soldo né un soldato per le guerre del governo, dell’UE e della NATO”…
La composizione del corteo – più variegata rispetto alle ultime manifestazioni a
fianco della resistenza palestinese – suggerisce un moto di risveglio di fronte
a piani di riarmo che non hanno precedenti negli ultimi decenni. Poco, troppo
poco. Ma le due piazze di sabato rappresentano un netto, necessario spartiacque.
E infatti chi si muove nelle orbite di PD, Cgil, Arci, Anpi o AVS, e magari si
considera antifascista e contro la guerra, non ha mosso un dito né una voce,
perché sa che schierarsi davvero contro i progetti imperialisti e contro i
complessi scientifico-militar-industriali significa oggi tagliare i ponti della
compatibilità politica. Non caso a lanciare il corteo è stato quel pezzo di
società che da 16 mesi si attiva senza se e senza ma contro il governo, contro
l’Europa, contro le collaborazioni trentine con il genocidio a Gaza.
Il piano von der Leyen arma un plurisecolare suprematismo colonialista che oggi
deve farsi la guerra anche al proprio interno. Il fatto che nelle risoluzioni
belliciste dell’UE non si parli più di “Occidente”, bensì di “Europa”, significa
che l’accordo sulla rapina delle masse palestinizzate del mondo non basta più; e
che la guerra coloniale torna indietro sotto forma di furia estrattivista, di
“monopoli radicali” e di fine delle pantomime democratiche. Se Volkswagen si
dichiara pronta a riconvertire i propri stabilimenti insieme a Rheinmetall, si
scopre per passaparola che Leonardo SpA sta contattando piccole aziende locali
per proporre la produzione di armamenti (c’è da scommettere che, in tal senso,
arriveranno a breve gli incentivi governativi sotto forma di sgravi fiscali).
Esattamente come cento anni fa, il partito unico della guerra mobilita gli
“intellettuali progressisti”, la sinistra del capitale e i sindacati di Stato
per arruolare o irretire chi potrebbe rompere le righe. La novità è che oggi a
schierarsi contro il riarmo UE (ma non quello nazionale) sono anche forze
reazionarie. Motivo in più per prendere l’iniziativa. Che il genocidio e le
guerra spacchino in due la società. Il 15 marzo ha creato solo le prime crepe.
Di seguito il volantino distribuito a Trento dall’Assemblea in solidarietà con
la resistenza palestinese:
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese.
Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra
Le “piazze per l’Europa” lanciate a Roma da “Repubblica” e qui a Trento dal
“Dolomiti” sono un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che è uno
degli elementi costitutivi della guerra al pari dell’artiglieria.
L’Europa come terra della libertà, della fratellanza tra i popoli e del Diritto
internazionale è un mito che gronda sangue. La storia delle classi dominanti
europee è quella del colonialismo e del suprematismo bianco, di cui gli stessi
Stati Uniti sono un prodotto. I «valori europei» dei quali si straparla in
queste piazze li vediamo a Gaza. Se tutto l’Occidente è schierato con il
colonialismo genocida israeliano (non una sanzione, non un embargo militare, non
una sola cessazione delle collaborazioni e degli scambi strategici… alla faccia
del Diritto internazionale!) è perché Israele compendia fino all’estremo la
storia europea e occidentale. In tal senso, l’unica differenza fra Trump-Musk e
von der Leyen è che il primo si dichiara esplicitamente suprematista, mentre la
seconda pratica il suprematismo senza dichiararlo.
Ma nelle “piazze per l’Europa” si va oltre l’ipocrisia. Ci si mobilita per la
guerra. Partiti, partitini e sindacati che vi partecipano sembrano in disaccordo
su alcuni aspetti (tra chi appoggia apertamente il piano di riarmo dei singoli
Stati e chi preferisce la «difesa comune europea»), ma sul rafforzamento
dell’industria bellica per continuare a depredare il resto del mondo sono tutti
d’accordo. Il punto è chi ci deve guadagnare.
Tutto ciò non c’entra nulla, sia chiaro, con la protezione della popolazione
ucraina. Massacrata e depredata sia dalla Russia sia da USA-NATO-UE, la gran
parte delle gente in Ucraina vuole il cessate il fuoco (come dimostra il livello
di massa raggiunto dalle diserzioni). Quello che l’UE non può accettare non è
certo l’invasione di un Paese sovrano (vogliamo parlare dell’Iraq, della Serbia,
dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, della Palestina, del Libano?),
peraltro ampiamente ricercata dal blocco occidentale con una serie di continue
provocazioni volte a far entrare Ucraina e Georgia nella NATO, ma solo di essere
tagliata fuori da un bottino su cui le sue classi dirigenti hanno scommesso
tutto. L’«orgoglio europeo» dei vari Michele Serra è il tentativo di rilanciare
una potenza imperialista europea in declino. Rilancio che passa oggi attraverso
l’economia di guerra – chiamata furbescamente «difesa» – quale ulteriore
concentrazione dei monopoli economici e finanziari, pagata come sempre da chi
sta in basso.
Viviamo in un’epoca che non permette alcuna pigrizia nel pensare. La guerra è
condotta, oltre che sui campi di battaglia e nelle retrovie, contro i nostri
cervelli. Se vogliamo opporci ai venti di guerra e di riarmo; se vogliamo
spezzare le collaborazioni nei nostri territori con il genocidio a Gaza e la
pulizia etnica in Cisgiordania, dobbiamo disintossicarci dalla propaganda e
contrapporle idee e princìpi ben saldi.
A volere la guerra è un’infima minoranza: quella che si arricchisce. Per tutti
gli altri un riarmo da 800 miliardi di euro significa salari miseri, bollette
alle stelle, sanità al collasso, scuole in cui si impara poco e si obbedisce
molto, criminalizzazione del dissenso, città militarizzate.
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha
trascinato nella spirale della guerra.
Da perdere non abbiamo che una vita sempre più invivibile. E la nostra
disumanità.
Trento, 15 marzo 2025
Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese
(ci troviamo ogni lunedì, dalle ore 18,30, alla Talpa di via S. Martino a
Trento)
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Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione
Cos’è la guerra? La si può definire senz’altro in tanti modi. Dal secondo
conflitto mondiale a oggi, essa è contemporaneamente – e indissociabilmente –
scontro di potenza tra gli Stati, artificializzazione dell’ecosfera e attacco
generalizzato a ogni forma di autonomia individuale-comunitaria. Se è nel solco
della Seconda Guerra mondiale che si appronta il mondo come laboratorio –
eugenetica, campi di prigionia e di sterminio, fusione di scienza, Stato e
industria, costruzione della bomba atomica, “modello IBM” e paradigma
cibernetico –, l’ulteriore sviluppo delle tecnologie convergenti fornisce oggi
alla macchina bellica una dimensione totale (terra, acqua, cielo, spazio
ultra-atmosferico, onde elettroniche, corpi e cervelli). Contrariamente alle
tante imbecillità profferite per anni sulla “fine dello Stato”, sulla fase
post-imperialista e sulla “microfisica dei poteri” che avrebbe abolito il
comando verticale e centralizzato, la contesa sulla definizione delle gerarchie
statali (e dei monopoli che queste difendono e da cui dipendono) ritorna in
tutta la sua brutalità. E “ritorna”, appunto, armata di tutto ciò che ha
accumulato nella storia. La guerra è anzi proprio il momento in cui si svela che
l’«accumulazione originaria» del capitale non è un evento, bensì una struttura.
L’economia di guerra serve ad allargare e a difendere con le armi vecchie e
nuove enclosures (terre, prodotti agricoli, fonti energetiche, “dati”, cavi
sottomarini, “minerali strategici”, sequenze di DNA, reti neurali…).
La guerra s’impone innanzitutto come parodia assassina della lotta di classe.
Non solo perché essa incorpora nei propri arsenali le vittorie contro i
salariati e i loro tentativi di emanciparsi dallo sfruttamento, ma perché si
basa sulla mistificazione totale del concetto di violenza. Si può forse dire, in
tal senso, che l’attuale incapacità di dar vita a un movimento disfattista
orientato a trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni, sia
direttamente proporzionale a quanta mistificazione è stata interiorizzata negli
ultimi decenni. Il vero dramma, infatti, non è tanto quello di uscire sconfitti
da un lungo ciclo di lotte, quanto quello di lasciarsi arruolare nel sistema di
valori del nemico. Senza una qualificazione etica e sociale delle tipologie di
violenza (violenza degli oppressori e violenza degli oppressi, violenza
coloniale e violenza anticoloniale, violenza indiscriminata e violenza
rivoluzionaria, violenza statale e violenza liberatrice) si è letteralmente
disarmati. La «guerra al terrore» con cui dal 2001 in poi gli USA e i loro
alleati (Stato d’Israele soprattutto) hanno esteso ulteriormente la loro
macchina bellica e predatrice – fusione tra Pentagono e piattaforme digitali,
sviluppo dei droni, giustificazione giuridica della «caccia al nemico
planetaria», ibridazione soldato-macchina ecc. – era stata condotta e vinta
prima sul piano interno grazie alla riqualificazione – mediatica, giudiziaria,
sociale – della sovversione armata (e a seguire di ogni conflitto reale) come
«terrorismo», cioè come violenza indiscriminata contro l’insieme dei cittadini.
Il genocidio a Gaza quale «diritto d’Israele all’autodifesa» e la resistenza
palestinese quale «barbarie» – il 7 ottobre come «pogrom», oppure, Gad Lerner
dixit, come equivalente della strage di Marzabotto – sono le espressioni più
ignobili di tale mistificazione. Nella violenza alle parole e alla loro storia
si riverbera sul piano dei concetti l’abisso senza fondo della corruzione
morale.
Oltre che tardiva, la constatazione di un Maurizio Lazzarato – «il pensiero
critico occidentale (Foucault, Negri-Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze
e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati,
lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non
avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per
intervenire» – confonde l’effetto con la causa. È la rimozione della violenza di
classe e della violenza rivoluzionaria – quando non, come nel caso di Negri, la
partecipazione attiva e premiata alla mistificazione sul concetto di
«terrorismo» – a spiegare l’imbroglio post-modernista più di quanto non sia il
contrario. Contro le sottili mistificazioni a cui è stato sottoposto lo stesso
pensiero benjaminiano, nelle Tesi sul concetto di storia è proprio la violenza
rivoluzionaria che secondo Benjamin può spezzare il continuum della catastrofe
storica, contrapponendo allo stato di eccezione fittizio (la dialettica tra
normalità ed emergenza, tra pace e guerra, tra il Diritto e la sua sospensione)
lo stato di eccezione effettivo (la fine dello Stato e del suo Diritto, della
sua guerra come della sua pace). Quando una guerra tra Stati e blocchi
capitalistici diventa una «resistenza popolare» (come se la lotta partigiana si
fosse basata sull’arruolamento forzato, come se usare una mitragliatrice contro
delle forze occupanti fosse la stessa cosa che lanciare un missile guidato da un
satellite contro una cittadina a centinaia di chilometri di distanza…); quando
la violenza di una popolazione imprigionata è paragonata alle stragi degli
eserciti di occupazione, il terreno è dissodato per ogni manipolazione.
L’appello lanciato da Michele Serra dalle colonne di “Repubblica” – a cui si
sono subito accodati PD, Cgil, Cisl, Uil… – allarga al piano internazionale una
mistificazione cominciata sul fronte interno. Se l’appoggio, malamente
mascherato dietro la «difesa dei valori dell’Europa», all’imperialismo e ai
piani di riarmo europei è «un capolavoro della propaganda, quel terreno infido
che giustamente è considerato uno degli elementi costitutivi della guerra, al
pari dell’artiglieria», lo stesso giornalista ci aveva già regalato in passato
un «capolavoro» non meno infido. Nel 2002, sempre sulle colonne di “Repubblica”,
Serra aveva scritto che gli spari delle nuove Brigate Rosse contro il
giuslavorista Marco Biagi (quella brava persona a cui dobbiamo la Legge 30, con
cui sono state rese ancora più precarie le condizioni di lavoro di milioni di
persone) avevano fatto riecheggiare per le strade felsinee il boato della bomba
esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. È difficile, benché la
concorrenza al riguardo sia sempre stata piuttosto agguerrita, immaginare un
livello di disonestà intellettuale e di falsificazione storica paragonabile.
L’uccisione di un consapevole servitore del capitale messa sullo stesso piano di
una strage fascista e di Stato che ha assassinato 85 ignari pendolari, ferendone
oltre 200. Una strage, tra l’altro, che aveva il significato materiale e
simbolico di suggellare nel sangue la sconfitta operaia alla FIAT avvenuta nello
stesso anno. Nemmeno i giornalacci più reazionari – nemmeno “Il Borghese” – sono
riusciti a raggiungere un tale Himalaya di infamia. Se un atto ben discriminato
di violenza di classe – quali che siano i giudizi sulle nuove Brigate Rosse,
sulle organizzazioni combattenti in genere, sull’“omicidio politico” – può
venire paragonato a una strage di gente comune, allora la prosecuzione della
guerra in Ucraina per non essere esclusi dalla sua spartizione può ben diventare
«difesa dei valori di libertà». E gli «antagonisti» che all’epoca si recarono ai
funerali di Biagi, oggi possono ben condividere le piazze con i reggicoda dei
guerrafondai. A conferma di come lo strabismo interessato sulle forme di
violenza sia la corruzione che contiene tutte le altre.
Resta di tragica attualità quello che la ventiquattrenne Simone Weil scriveva
nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933): «Il grande errore di quasi tutti gli
studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di
considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce
innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».
In attesa di ragionamenti più articolati, pubblichiamo questo volantino
distribuito durante il corteo a Rovereto del 22 febbraio. A fianco di un chiaro
posizionamento sul genocidio a Gaza e contro la militarizzazione del fronte
interno (dal DDL elmetto e manganello ai processi o inchieste per “terrorismo”
nei confronti di compagne e compagni), esso contiene – se così si può chiamare –
una proposta, tanto necessaria nella sua formulazione quanto difficile nella sua
declinazione pratica: spodestare con un movimento dal basso tutti coloro che
hanno scommesso sulla guerra in Ucraina: dai produttori di armi agli speculatori
sull’energia, dai giornalisti in divisa ai partiti – Fratelli d’Italia, PD,
Lega, 5 Stelle… – che sono saliti sul treno della distruzione-ricostruzione
bellica, treno dal quale il nuovo padrone Trump li sta scaraventando a terra per
andare da solo all’incasso. In tale direzione dovrebbero muovere i nostri sforzi
antimilitaristi, internazionalisti e disfattisti. Una direzione opposta, non c’è
bisogno di sottolinearlo, da quella di chi contrasta il DDL (ex) 1660
organizzando le piazze con i guerrafondai del PD, i loro reggicoda (Cgil, Arci)
e i loro collaboratori alternativi (AVS). Muti – dal primo all’ultimo – sulla
stretta di mano tra Matterella e Herzog, conferma e rinnovo, sui cadaveri e
sulle rovine di Gaza, dell'”amicizia tra Italia e Israele”. Che il genocidio e
la guerra spacchino in due la società!
Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione
Mentre il nostro amico e compagno Juan è sotto processo con l’accusa di «atto
con finalità di terrorismo» per un’azione che ha danneggiato l’ingresso della
Scuola di Polizia di Brescia nel 2015; mentre il partigiano palestinese Anan
Yaeesh si trova in carcere a Terni insieme a Juan con l’accusa di «terrorismo»
per aver partecipato alla resistenza contro soldati e coloni israeliani nei
territori occupati della Cisgiordania; mentre a 12 anarchici e anarchiche si
notifica l’ennesima inchiesta per «associazione con finalità di terrorismo»
condotta dalla Procura di Trento; mentre il governo Meloni vuole introdurre nel
Pacchetto Sicurezza il reato di «terrorismo della parola», Mattarella stringe la
mano del capo di Stato israeliano Isaac Herzog, rinnovando «l’amicizia tra
Italia e Israele». Herzog è lo stesso che aveva dichiarato – in una conferenza
stampa del 12 ottobre 2023, una settimana dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza
– che non c’erano palestinesi innocenti, che tutti gli abitanti della Striscia
erano complici, bambini compresi. Se la nozione di terrorismo ha ancora il
significato storico di violenza indiscriminata contro i civili, esiste oggi un
terrorismo più esplicito e feroce di quello compiuto dallo Stato d’Israele? Come
se non fosse bastato l’appoggio mediatico, economico, tecnologico e militare
fornito dalle istituzioni occidentali (e italiane) al genocidio del popolo
palestinese, l’amicizia rinnovata con Israele dopo l’assassinio di oltre
ventimila bambini a Gaza è un’infamia che niente e nessuno potrà mai cancellare.
Nelle parole della scrittrice palestinese Samah Jabr: «ferita, dolorante, in
lacrime e tradita, Gaza un giorno risorgerà dalle macerie e ci guarderà negli
occhi».
Poco dopo aver proposto di costruire a Gaza dei resort di lusso deportando più
di due milioni di palestinesi, Trump ha cominciato le trattative con Putin per
“congelare” il conflitto in Ucraina, tagliando fuori dai negoziati sia Zelenski
– prima servo utile, oggi ferro vecchio da rimpiazzare – sia l’Unione Europea,
le cui classi dirigenti avevano scommesso tutto sulla guerra contro la Russia.
Al punto che l’8 giugno 2023 l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi aveva
dichiarato al MIT di Boston: «Se Kiev non vince la guerra, sarà la fine
dell’Unione Europea». Per tre anni ci hanno raccontato che le sanzioni e l’invio
di armi in Ucraina avrebbero sconfitto la Russia (nascondendo, dietro la libertà
e il diritto all’autodeterminazione dei popoli, gli interessi del complesso
scientifico-militar-industriale occidentale). Ora che il nuovo padrone
statunitense ha chiarito senza fronzoli che in realtà si trattava di una guerra
di potenza per ridefinire le sfere di influenza e di una guerra di rapina delle
gigantesche ricchezze minerarie ucraine, traiamo delle conclusioni dal discorso
di Draghi. Hanno voluto la guerra (costata agli ucraini centinaia di migliaia di
morti e alle classi sfruttate europee miseria e militarizzazione sociale). E
l’hanno persa. Da chi si è arricchito con gli armamenti a chi continua a
speculare sull’energia, da Fratelli d’Italia al PD…, dobbiamo spodestarli tutti
con un vasto movimento dal basso. E poi?
Per quanto ci riguarda, per non sprofondare in una nuova guerra mondiale o in
una società-macchina del controllo totale, dobbiamo batterci per delle comunità
ecologiche, decentrate, basate sulla reciprocità delle decisioni e dei compiti,
in cui niente e nessuno – né uno Stato né un padrone né un computer – ci sgravi
del peso di pensare e di assumerci la responsabilità delle nostre azioni.
Rovereto, 22 febbraio 2025
anarchiche e anarchici
La pace della terra
Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza
dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era
questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della
terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa
salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In
genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da
un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai
boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La
«pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in
guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza,
andò perduto con il Rinascimento.
Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in
Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace,
economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione.
Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»:
che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in
cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che
la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il
tentativo stesso di esportarla significa guerra.
Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto
immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite
più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta
leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce
iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della
mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesti
tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno
portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi
della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e
distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza.
Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso
tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali
e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal
Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso
l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo
viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono
più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori
d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la
“bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto
reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i
data center e sottratta ai campi.
Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono
curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci
vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti
viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo»
(Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per
passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte
automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto
di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit
8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri
ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi
assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione
necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i
suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in
Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a
raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro
territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i
droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un
sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana?
Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina
con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso
a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui
ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di
sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce
l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema
aristotelico e marxiano, ma come un certo modo – localmente radicato, basato
sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di
affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (mangiare, stare al caldo,
crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro
punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è
la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi
non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione
che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle
monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi
comunitari.
La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci
nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la
ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi
dell’autonomia.
Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a
Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di
diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue»
va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi
mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa
amministra.
Vale per Monza, vale per Manhattan
Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di
quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di
vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di
messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole
“deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali
dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un
consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe
gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale
d’inizio di una più ampia guerra di classe».
Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era
l’ammazzato.
Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore
delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente
sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il
gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%,
seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese
celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese –
attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure
mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.
Quel “deny” è una risposta automatica per un sacco di gente e ogni giorno.
Lontano dai quartieri di lusso, in quegli ectoplasmi che non sono né campagne né
città, ma hinterland in mezzo al deserto, commesse, pulitori, operai, rider
fanno la fila per entrare in farmacie indistinguibili dai supermercati, con la
guardia armata all’entrata, in cui tutto – persino il dentifricio – è chiuso a
chiave dietro il vetro. Finita la fila, un addetto «che emana quel sottile
sentore di ammoniaca che fa pensare a una malattia endocrina» comunica che il
farmaco prescritto dal medico non può essere consegnato perché manca
l’autorizzazione preventiva da parte della compagnia assicurativa. Aggiungiamoci
anche il sentimento di essere delle cavie per l’industria farmaceutica (e per
Big data). Pensiamo per esempio alle terapie digitali, la cui
commercializzazione è stata autorizzata dalla Food and Drugs Administration nel
2017. A spingere la gente a ingerire farmaci-software dotati di nano-sensori
attraverso i quali il “tele-medico” può “monitorare” l’attività neuropsichica e
metabolica, è spesso il ricatto di evitare in tal modo una polizza assicurativa
più cara. In maniera più prosaica, dei dipendenti pubblici si trovano costretti
ad indossare un fit bit (un orologio digitale che misura il numero di passi),
altrimenti la UnitedHealthcare di turno può decidere di non assicurare chi ha
una vita considerata non sana sulla base dei dati forniti da quel fit bit…
Nella gioia per la morte di Thompson c’è tutto questo: cure negate, certo, ma
anche umiliazioni garantite da guardie armate, possibilità chiuse a chiave,
passeggiate obbligatorie, e una miseria che sa di ammoniaca.
Se poi il vendicatore è un giovane bianco, di bell’aspetto e di famiglia
benestante, laureatosi in una prestigiosa università, a cui si attribuiscono «un
manifesto politico anticapitalista», delle simpatie per Ted Kaczynski e dei modi
piuttosto gentili («Questi parassiti la devono pagare. Mi scuso per i traumi
provocati, ma andava fatto»), la sua «brutale onestà» (altra espressione
attribuita a Mangione) comunica un senso di riscatto e di speranza perché spezza
la più potente – se non la sola rimasta – ideologia contemporanea:
l’inevitabilismo.
Mettiamoci ora dal lato dei capitalisti, degli amministratori delegati e dei
tecnocrati. Al loro sentimento di costituire una razza superiore non
contribuiscono soltanto l’istruzione, i privilegi quotidiani e l’appartenenza a
una ristretta gated community. A un simile darwinismo sociale – lo stesso che ha
prodotto, storicamente, l’eugenetica – oggi si aggiunge qualcosa di inedito. La
possibilità di raggiungere, se non l’immortalità, una vita aumentata. Nel mondo
del transumanesimo realmente esistente, questa upper class spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea – che le si vende cara – di vivere fino a 120 anni. Questa nuova razza di
signori è pervasa quindi dal terrore di incidenti che possano ridurre il suo
capitale biologico, e possiede allo stesso tempo il potere di costruire una
società panottica a misura delle proprie paranoie. Per questi gated dreams, il
fantasma col cappuccio che si è materializzato in Avenue of the Americas, a
Manhattan, il 4 dicembre scorso, è un incubo umano, troppo umano.
Osservando quanto un solo gesto abbia polarizzato le passioni di un’intera
società, c’è di che riflettere. Se il giudizio di fatto è persino banale, quello
di valore non lo è affatto. Su questo abbiamo letto soprattutto formule
cautelative, distinguo, precisazioni (non richieste) di non voler fare né
apologie né istigazioni. E poi le immancabili tirate contro l’“individualismo” e
il “terrorismo”, oppure versioni “antagoniste” dell’inevitabilismo: morto un
amministratore delegato se ne fa un altro.
Per noi vale l’esatto opposto. L’azione violenta, quando è ben discriminata, va
sempre difesa. Poco importa che sia individuale o collettiva. Se, come in questo
caso, è addirittura cristallina, la difesa diventa essa stessa uno strumento di
propaganda rivoluzionaria.
È vero che a Thompson succederà un altro Ceo. Ma si può ripetere oggi quello che
l’anarchico Galleani diceva di Umberto I (il paragone non sembri esagerato,
perché il potere dei Thompson non è affatto inferiore). Il re ammazzato insegna
al suo successore se non altro la moderazione. La qual cosa va a pro di tutti
gli sfruttati. E sembra proprio questo il caso. «Appena il Ceo è stato
assassinato, Anthem Blue Cross (un’altra compagnia assicurativa) ha
immediatamente fatto marcia indietro su una nuova clausola che avrebbe messo a
carico degli assicurati eventuali tempi “extra” di anestesia». Le formule
“deny”, “delay”, “defend” si sono fatte magicamente meno arroganti, migliorando
un poco la salute degl’individui e della classe. Poteva riuscirci anche l’azione
collettiva? In astratto, sì. Nel concreto: quale?
Se ci auguriamo con tutto il cuore che i tre spari di Midtown Manhattan siano
davvero una «specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe»,
possiamo dire di Mangione quello che diciamo sempre dei nostri compagni
incarcerati: «Se è innocente, merita la nostra solidarietà. Se è colpevole, la
merita ancora di più». Anzi, per una volta, rinunciamo volentieri alle nostre
formule. Nega, difendi, detronizza. Mangione Libero!
Nocciola
Ad avvisarci dell’inizio della distruzione di massa non saranno le trombe del
Giudizio universale, ma qualche nomignolo elaborato dalla macchina
dell’eufemismo burocratico.
Se c’è un elemento che tutti i complessi scientifico-militar-industriali hanno
in comune è senz’altro l’ignobile creatività nel nascondere o banalizzare i
propri programmi, le proprie macchine, le proprie mosse sul quadrante dei
comandi.
«Soluzione finale della questione ebraica», prima di diventare
l’espressione-simbolo della produzione industriale di cadaveri, è stato
l’eufemismo con cui mascherarla. Nella macchina burocratica nazista, a cui IBM
ha fornito l’efficienza delle schede perforate, gli internati da avviare alle
camere a gas erano definiti «musulmani», mentre Sonderkommando («unità
speciale») era il nome per designare il gruppo di deportati costretti a
recuperare i capelli e gli eventuali denti d’oro dai corpi gassati («Aver
concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del
nazionalsocialismo», scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati). L’assassinio
di oltre duecentomila «improduttivi», «pesi morti della società» o «vite indegne
di essere vissute» è sgorgato da un programma che stava tutto in un sostantivo,
una lettera e un numero: Aktion T4 (come noto, T4 era l’abbreviazione di
Tiergartenstraße 4, via e numero civico di Berlino al cui indirizzo era situato
il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil-und Anstaltspflege,
la Fondazione di Beneficenza per la Salute e l’Assistenza sociale).
Come non ricordare, poi, i nomignoli con cui sono stati chiamati gli ordigni
atomici del Progetto Manhattan (alla cui produzione, giova ricordarlo, hanno
lavorato quasi seicentomila persone tenute all’oscuro di cosa stessero
fabbricando)? La bomba fatta esplodere il 16 luglio 1945 ad Alamogordo si
chiamava Gadget (così, come un orologio o un fermacarte), mentre il linguaggio
scelto per il test nucleare era iperbolico e biblico (Trinity). Almeno
duecentomila giapponesi furono disintegrati tra il 6 agosto (Hiroshima) e il 9
agosto 1945 (Nagasaki) da Little boy (60 kg di uranio-235) e da Fat man (6,4 kg
di plutonio-239).
Se il modello di ogni complesso scientifico-militar-industriale è stato forgiato
durante la Seconda guerra mondiale – vero e proprio laboratorio di cui il
presente è ancora un’appendice –, il suo sviluppo non ha fatto che
generalizzarne gergo. Non è forse degno di questa storia il calcolo scientifico
delle kilocalorie necessarie alla mera sopravvivenza della popolazione di Gaza?
(«Le formule numeriche contenenti le soglie massime e minime sono ciò che i
militari chiamano lo “spazio di respiro”, il tempo rimanente prima che le
persone inizino a morire di fame», scrive Eyal Weizman ne Il minore dei mali
possibili). Solo dei violentatori della lingua al servizio del dominio possono
chiamare «Arcobaleno», «Prime Piogge», «Piogge Estive», «Nuvole di Autunno»,
«Inverno Caldo», «Sorgere dell’Alba» delle operazioni di bombardamento, come è
accaduto con quelle realizzate dall’IDF contro gli abitanti di Gaza tra il 2004
e il 2022. Oppure chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di
bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto
d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal
2006 sempre contro i gazawi. O ancora dare il nome di Havatzalot («Gigli») a un
programma accademico-militare incentrato sull’intelligence di guerra e sul
combattimento tattico.
E non è forse in perfetta continuità con il Progetto Manhattan chiamare Habsora
(«Vangelo»), Lavender («Lavandaia») e Were is Daddy? («Dov’è paparino?») i
programmi di Intelligenza Artificiale con cui lo Stato d’Israele sta compiendo
il primo genocidio automatizzato della storia?
In risposta alle inutili (sul piano militare) e irresponsabili (sul piano delle
conseguenze per l’intera umanità) provocazioni da parte della NATO attraverso il
lancio di missili occidentali direttamente sul territorio russo, il complesso
scientifico-militar-industriale che fa capo al Cremlino ha scagliato contro uno
stabilimento militare ucraino un missile ipersonico. Questa “tipologia di arma”
viaggia alla velocità di 2,5 chilometri al secondo ed è in grado di colpire ogni
obiettivo in pochi minuti nel raggio di 5 mila chilometri, senza che l’apparato
militare della NATO – almeno nel Vecchio Continente – possa intercettarlo. Cosa
ancora più inquietante, questi missili, che l’esercito russo sta producendo in
serie, sono fabbricati per trasportare diverse testate atomiche. Quello
realizzato il 21 novembre scorso, insomma, è stato un vero e proprio test
balistico nucleare senza bombe atomiche. Un avvertimento al servo (il governo
ucraino) perché il padrone (la NATO) intenda. Un piano inclinato verso la guerra
nucleare, i cui mezzi di mutua distruzione (nella scommessa che l’altro si fermi
prima…) sono in realtà Mezzi assoluti, dal momento che qualsiasi nozione di Fine
presuppone ancora un mondo dove poter perseguire degli obiettivi. La dottrina
della “deterrenza nucleare” è allo stesso tempo l’apice della razionalità
strumentale (e della sua costitutiva amoralità) e la sua disintegrazione per
eccesso di potenza. Qualche analista militare (che epoca generosa per simili
professioni) ha paragonato il lancio del missile IRBM (balistico a raggio
intermedio) e MIRV (a testata multipla) al primo algoritmo di un programma
automatico. Si chiamava “Minaccia di Apocalisse” o “Inizio dell’Inferno”? No, si
chiamava Orešnik. «Nocciola».
Vari scribacchini dei media occidentali hanno parlato di bluff. Un missile che
viaggia a dieci volte la velocità del suono e che solo per un calcolo nella
logica della potenza non trasporta testate atomiche sarebbe una minaccia più o
meno retorica. Nei giorni successivi, infatti, sono stati lanciati contro il
territorio russo altri missili a lunga gittata di produzione occidentale (che
possono essere azionati, come quelli sganciati in precedenza, solo da personale
della NATO), nonostante il Cremlino si fosse già dichiarato “in diritto” di
colpire direttamente i Paesi che pianificano simili operazioni.
L’unica variabile che ci può salvaguardare dal fatto che in questo poker tra le
potenze qualcuno finisca per andare a vedere, è il crollo generalizzato del
fronte ucraino per l’insubordinazione del materiale umano e proletario da
mandare nel tritatutto della guerra. L’unica “linea rossa” che ci può
preservare dalla distruzione di massa è un movimento sociale e internazionale
contro tutti i complessi scientifico-militar-industriali, le loro Unità
Speciali, i loro Gadget, i loro Gigli, i loro Vangeli e le loro Nocciole.
Riceviamo e diffondiamo la traduzione dell’ultimo opuscolo del gruppo anarchico
“Assembly” di Kharkov:
opuscolo_diserzioneAssembly
Il 5 ottobre a Roma: un segnale
Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco
trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei.
Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti
statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre
nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un
cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo
uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo
scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni
vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della
resistenza palestinese.
È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un
ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale.
Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito.
Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati
verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile:
fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in
piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della
partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via
preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare
i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via
intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di
ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della
guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i
dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La
tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del
DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani,
sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le
manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo
spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano
letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200
black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita
alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca.
Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero –
come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per
tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo
accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di
specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha.
Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.
Riceviamo e pubblichiamo questo testo che arriva dalla Romagna. Parole chiare in
una società per tre quarti annegata.
QUANTE ALTRE VOLTE ANCORA!?
Quante scene che abbiamo già visto, quanta sofferenza per la stessa gente che
dal Maggio del 2023 cerca di riprendersi dalla batosta e per contro, quante
chiacchiere di chi dovrebbe “amministrare il bene pubblico” e amministra solo la
propria sete di potere, l’ampiezza delle proprie tasche.
Di fronte a questa nuova piccola catastrofe staremo davvero ancora ad ascoltare
i blaterii di un Mesumeci, di una Meloni o di Bonaccini?!
Davvero ci berremo ancora le menzogne di questa gentaglia che cura solo ed
esclusivamente il proprio interesse e quello della loro classe d’appartenenza,
ossia i padroni?!
Di fronte a questa nuova emergenza, che si inserisce in una quotidianità di
terrorismo mediatico e di propaganda di guerra (guerra di eserciti ma anche
guerra alle povere, guerra ai migranti, guerra alle diversità, guerra a chi
lotta sul posto di lavoro…) ci affideremo a un assassino blaterante come il
generale Figliuolo?!
Lo scrivevamo e gridavamo l’anno scorso e lo grideremo per sempre: i morti e le
devastazioni dell’alluvione in Romagna del 2023 così come quelli del settembre
2024, sono morti e devastazioni del capitalismo e della politica complcie che lo
amministra e sostiene: non sono “calamità naturali”.
Asfaltare la terra e inquinare i cieli e i mari produce calamità non-naturali:
ricollegarsi agli equilibri della Terra, buttando al fuoco questo stile di vita
imposto dal profitto capitalista, è l’unica soluzione che si intravede in un
presente che alterna siccità e alluvioni, trombe d’aria e incendi (senza contare
guerre, genocidi, miseria, epidemie).
Non abbiamo nulla da domandare alle istituzioni, perché crediamo che non stiano
sbagliando, che siano distratte o impreparate, crediamo invece che lucidamente
prefiggano i proprio interessi e quelli dell’élite alla quale appartengono:
perché, tra sfruttate, tra gente semplice, tra contadini e artigiane, tra esseri
umani oppressi non riusciamo a fare lo stesso?
Perché, anzi, ci incarogniamo col diverso, col migrante, con quello del Sud, con
chi non lavora, con chi occupa una casa, adottando il punto di vista dei nostri
padroni e carnefici?!
Se vuoi tutelare un crinale o un fosso di scolo o una piana soggetta ad
alluvioni, i saperi ruruali antichi e anche le conoscenze moderne ci dicono come
fare, e si può fare. Basta volerlo.
A chi servono invece se non agli imprenditori i nuovi mega poli commeriali a
Forlì, a Bertinoro, a Cesena con il loro corollario di asfalto? A chi serve un
nuovo mega allevamento-lager come quello Fileni in Valmarecchia? Con che
coraggio una chiesa (orribile) di tonnellate di cemento a Coriano quartiere
forlivese simbolo dell’alluvione del ‘23?
O il progetto di torri eoliche (da 160 metri) sui crinali dell’Acquacheta e
forse a Modigliana dove di vento non ce n’è, ma di soldi del PNRR sì, eccome?!
Non sono sviste, sono scelte intenzionali, sarebbe bene che ce lo mettessimo in
testa: Stato e padroni se ne fregano di noi sottoposte, se non quando c’è da
raschiare il fondo dell’urna elettorale.
Se non fermiamo da noi queste mostruosità, se non fermiamo gli assassini
dell’ambiente (e quindi di animali anche umani) la rivolta della Terra ci
spazzerà via tutti.
E l’anno scorso l’unica forza che davvero abbia risollevato i cuori allagati
della gente, ancor prima che spalare il fango dalle strade, è stata la
solidarietà attiva e autorganizzta della gente (non la malefica e classista
burocrazia degli “aiuti”): attività che protezione civile, forze dell’ordine e
politici hanno tentato di ostacolare in ogni modo, perché se ci autorganizziamo,
chi ha più bisogno di Stato, governi e sbirri, che ci tengono alla catena?!
È una questioni di sopravvivenza, ma ci interroga anche sul significato che
diamo alla vita: supermercati, autostrade (il Passante di Mezzo di Bologna, per
esempio), caserme, laboratori, server, autosaloni, antenne, condomini (tutta
roba che consuma suolo e risorse) tratteggiano un mondo fatto ad immagine e
somiglianza dei cadaveri in smoking che dominano questa società alla deriva.
Laddove foreste, boschi, prati, feste, piazze piene, falò, fiumi, mari,
condivisione, solidarietà, arte, amicizia, non hanno bisogno di infrastrutture
mortifere per dispiegarsi, basta disertare il capitalismo, disubbidire
all’autorità, riscoprire il valore e la bellezza della dignità nella rivolta,
nell’autogestione, nell’autonomia.
SOLIDARIETÀ ATTIVA E MUTUO AIUTO, PRIMA DI TUTTI VERSO I MENO PRIVILEGIATI,
VERSO LE FASCE RESE DEBOLI DALLA SOCIETÀ DEL DENARO!
DISERTIAMO LE MENZOGNE DELLE ISTITUZIONI: AUTOGESTIONE NELLA CURA DELLE VALLATE,
DELLE PIANE, DELLE STRADE!
FERMIAMO IL CAPITALISMO CHE CONDUCE LA TERRA ALLA DEVASTAZIONE E TRASFORMA LE
NOSTRE ESISTENZE IN SPIETATE CORSE DI PLASTICA E ALIENAZIONE!
Alcuni Anarchiche della Romagna
Riceviamo e diffondiamo questo importante contributo del gruppo anarchico
“Assembly” di Kharkov, ringraziando chi ce...