Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il terzo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”,
dell’autunno 2025.
Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires:
disfare@autistici.org
* 56 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su)
* 56 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards)
* 56 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de
3 exemplaires)
Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_3_editoriale
Editoriale
Interrompere il flusso, ritrovare il mondo
Quella avvenuta tra fine settembre e inizio ottobre è stata per certi versi una
tempesta perfetta. L’appello lanciato dai portuali di Genova (e raccolto nei
porti di Ravenna, Livorno, Salerno, Marghera, Trieste, Napoli…) a “bloccare
tutto”, in occasione del tentativo di rompere il blocco navale israeliano su
Gaza da parte della Sumud Flotilla, ha visto milioni di persone scendere in
strada con l’idea di partecipare a uno sforzo concreto contro il genocidio. Le
ambivalenze a bordo si riflettevano nelle piazze – solidarietà internazionalista
contro umanitarismo, azione diretta contro rappresentazione, rottura della legge
contro proposta costituente, rifiuto della delega contro mediatizzazione,
riconoscimento tra sfruttati contro interclassismo – senza permetterne facili e
immediate letture. Moti “spuri”, “opachi” – come usano dire gli analisti della
politica dall’epoca dei Forconi a quella dei Trattori passando per i No Green
Pass – la cui simultaneità e i cui numeri hanno messo in difficoltà il governo,
mentre varie componenti della sinistra più o meno istituzionale tentavano di
garantirsi uno spazio di rappresentazione[1]. Foschia e strumentalizzazioni,
certo, ma nella rottura della normalità si è aperta una breccia per ciò che fino
a poco prima sarebbe stato impensabile. Bloccare fabbriche, porti, stazioni,
autostrade, aeroporti, scuole, università. Prendersi strade non concesse e
scontrarsi con chi le nega. Non più la domanda “perché scendere in strada?” ma,
per molti, ritrovarsi in strada senza niente da chiedere, con l’anelito che
tutto l’orrore finisca e la sensazione che il tempo d’agire non sia più
procrastinabile.
La propaganda ci aveva abituati a pensare alla guerra in Europa come a un fatto
novecentesco, ebbene sempre dal Novecento è tornato anche il mito dello sciopero
generale, con tutta la forza – e le faglie[2] – che si porta dietro. Centinaia
di migliaia di persone sono scese in strada in tutta Europa (in Francia, in
Spagna e in Grecia) producendo, volontariamente o no, irregolarità e
disallineamenti che – così come nelle manifestazioni di massa che hanno
infiammato il “Sud globale” grazie ai giovani no future (p. 41), quelli che
rischiano di trovarsi nei prossimi anni di fronte alla prospettiva
dell’arruolamento – hanno dischiuso la possibilità di inceppare la macchina del
terrore, con un connubio tra azione e non-collaborazione[3]. La pratica del
blocco diffuso ha infatti infranto il mortifero ordine costituito secondo un
gioco di scomposizioni e corrispondenze: “bloccare per avanzare”, diceva uno
slogan dal gusto per l’ossimoro. Scomporre la guerra totale nelle sue
ramificazioni determinate – una fabbrica, una strada, un porto, un palazzo del
governo, un cavo, la polizia – e, attaccandole, ricomporre il quadro generale
dei rapporti gerarchici e mercantili.
Dopo due anni di genocidio in streaming e mentre sul fronte orientale si
perpetua la minaccia della distruzione totale che la scienza vuole rendere
tecnicamente senza fine[4], quegli istanti – alcuni inaspettati, come l’attacco
alla Tech Week e alla Leonardo a Torino (p. 28), altri organizzati e collettivi,
come le pratiche di blocco (p. 22) e mobilitazione in diversi snodi decisivi per
la guerra – hanno talvolta rotto il tempo della rappresentazione, del diritto,
dell’umanitaria banalità del bene che non mette in discussione le strutture del
dominio, dell’ineluttabilità. E, contro il mare piatto della rassegnazione,
hanno reso palpabile una ritrovata tensione etica.
Disallineamenti e rotture contro la normalità, talvolta dentro e contro gli
stessi cortei, capaci di svelare la logistica – scienza e tecnologia la cui
razionalità si origina in ambito militare (p. 7) – quale perno centrale
nell’organizzazione della guerra totale. L’organizzazione dei flussi, sempre più
sofisticata ed ingegnerizzata ed in cui rotte civili e militari si sovrappongono
quotidianamente senza soluzione di continuità, presenta al contempo delle
evidenti vulnerabilità e diventa quindi potente terreno di lotta
antimilitarista, come emerge nelle azioni di anonimi sabotatori disfattisti in
molteplici punti del vecchio continente – contro ferrovie, porti e centri di
ricerca (p. 30, p. 46).
I recenti blocchi e sabotaggi della logistica di guerra (sia essa di merci,
esseri umani o informazioni), assumono un significato ben più profondo di quel
semplice “disarmare” la produzione e la tecnologia (affinché continuino ad
espandersi per il benessere generale) invocato nelle rappresentazioni della
sinistra – la cui storia dice guerra, che si chiami privatizzazione, missione di
pace, riforma del lavoro, ordine pubblico o detenzione amministrativa (p. 49). È
la vita stessa che giunge ad essere concepita come un flusso manipolabile e
ottimizzabile. Per questo interrompere i flussi della guerra può significare
mettere in questione tutto, rompendo con la concezione per cui la vita è ridotta
a un’entità in tutto analoga alle macchine, che è alla base del tentativo di
replicare l’intelligenza umana attraverso i computer – un progetto che fin dai
suoi albori è teso all’accrescimento della potenza militare (p. 14). Il concetto
stesso di militarizzazione, al netto della condivisibile sensibilità che spesso
ne muove l’utilizzo, è fuorviante: esso implica una corruzione o distorsione in
senso bellico di conoscenze, tecnologie, istituzioni che sarebbe solo recente o
localizzata. In realtà, il tecno-mondo e la guerra – come approfondiamo in
questo numero in particolare rispetto alla logistica e all’intelligenza
artificiale – sono implicati in un rapporto storico di co-produzione tramite cui
si sono dati e si danno forma a vicenda, e condividono le stesse logiche
profonde.
La Storia che vorrebbero scrivere i dominatori, nel frattempo, continua a
prendere forma. Il conflitto militare sembra sempre essere sull’orlo di
precipitare (dalla Polonia all’Iran), mentre la mobilitazione pre-bellica e la
complicità autoritaria si rafforza – ad esempio attraverso la caccia ai
disertori, oggi braccati in Ucraina dagli stessi droni che li rimpiazzano in
trincea (p. 31, p. 33). I BRICS+ – che hanno contribuito a fabbricare la
macchina del genocidio (dai droni cinesi e indiani, al petrolio brasiliano, al
carbone sudafricano e russo, alla logistica egiziana, emiratina e saudita…) –
non rappresentano affatto una “alternativa”; mentre la “pace eterna” sbandierata
da Trump in Medioriente è la stessa che viene proposta in Ucraina: tregue
traballanti o inesistenti, che prefigurano altri massacri in quella macabra
sequenza distruzione-spopolamento/ricostruzione-riordinamento che palesa la
continuità tra il piano genocidario e quello di un ordinario sgombero o progetto
di riqualificazione urbana. Mentre le alleanze tra Stati assumono sempre più
frequentemente geometrie variabili e inestricabili, l’attacco statunitense al
Venezuela conferma un vecchio e arcinoto adagio: l’America First comporta
innanzitutto il riserrare i ranghi nei “cortili di casa”. Infatti, se in America
Latina, dietro la retorica della guerra al narcotraffico (p. 35) si consolida il
dominio neocoloniale su materie e corpi considerati strategici per la logistica
militare-commerciale, per l’energia, per il dollaro (p. 44), in Europa la bolla
del riarmo (p. 11) spinta con retoriche diverse tanto dall’élite sovranista
quanto da quella globalista, apparecchia grossi affari per i finanzieri
d’assalto.
Il declino del potere occidentale ne svela la ferocia e rende l’incarceramento
di massa una realtà, già pienamente visibile a Gaza e in Cisgiordania, nelle
deportazioni di migranti negli USA come in Europa, nelle retate in periferia che
nelle favelas di Rio diventano carneficine, nella messa al bando di “nemici
interni” – terroristi, trafficanti, poveri “cattivi”. Riflettere sul «rapporto
di implicazione reciproca tra le forme della carcerazione e le caratteristiche
della resistenza» (p. 38) diventa quindi più che mai necessario. Proprio nel
momento in cui, a seguito della proscrizione e oltre duemila arresti, i
prigionieri di Palestine Action intraprendono uno sciopero della fame, e la
presenza della polizia penitenziaria in tenuta antisommossa durante il corteo
del 4 ottobre a Roma rende plastica l’immagine del futuro previsto per quella
parte di umanità considerata nemica o minaccia, dentro e fuori dalle mura
cintate. In questo scenario di guerra, che sia definita ad “alta” o a “bassa”
intensità, a difendere le popolazioni dall’abisso non ci saranno Diritti più o
meno internazionali, costituzioni, enti sovranazionali, per questo compito
«siamo tutto ciò che abbiamo».
Se l’umano è da tempo “senza mondo”, disfare il mondo-guerra – l’orrore che è
semplicemente “dato” – significa precisamente (ri)trovare il mondo come
intenzione e significato per quella parte di umanità tagliata-fuori o mai
ammessa alla Storia della classe dominante. Nel momento in cui, tramite le armi
di distruzione totale, si dischiude lo scenario di un mondo-senza-umani, le
brecce aperte a settembre e ottobre che si intrecciano all’imprevisto del 7
ottobre ci dicono che è possibile riattivare le storie dei dominati
interrompendo il continuum storico del dominio. Come sottolinea il contributo “I
compiti dell’ora presente” (p. 5): «Dobbiamo uscire da quello che Riccardo
d’Este chiamava “totalitarismo del frammento” (…). Se i nostri privilegi
differiscono alquanto in base al colore della pelle, alla classe e al sesso,
tutte le nostre vite si riproducono grazie al saccheggio planetario di materie e
corpi, foreste e infanzia, sussistenza comunitaria, ghiacciai e cosmovisioni.
Dal “Sud Globale” sta arrivando un’inaspettata notifica: materie e corpi sono
sempre meno disponibili, poiché il moto-Palestina cita all’ordine del giorno
cinquecento anni di depredazioni e di resistenza».
«Di doman non v’è certezza», dice la più grande rivolta carceraria della storia,
in Palestina. E come affermano i moti d’autunno, qui come altrove, rifiutare lo
spossessamento tecnologicamente equipaggiato e la predazione materiale e
spirituale delle nostre vite è forse diventato pensabile.
[1] Limitiamoci qui alla CGIL, che ha proclamato prima uno sciopero il 19
settembre – depotenziando lo sciopero del 22 settembre indetto dai sindacati di
base – per poi, senza tema di contraddizione, unirsi allo sciopero generale del
3 ottobre convocato inizialmente da SI Cobas, a rincorsa della propria base.
[2] Secondo la nota riflessione di Walter Benjamin (Per la critica della
violenza, 1920) che, riprendendo la critica di Sorel, distingue lo sciopero
generale politico – che mira ad un cambiamento nei rapporti di forza tutto
interno all’orizzonte dello Stato e del Diritto – da quello proletario, che pone
«la questione di una violenza di altro genere», rivoluzionaria perché non ha il
fine di impadronirsi dello Stato, ma si manifesta distruggendone l’ordine e la
temporalità.
[3] Su cui ci eravamo soffermati nel primo numero di disfare, con l’articolo “Il
fuoco di Prometeo”.
[4] Il nuovo missile a propulsione nucleare Burevestnik – “uccello delle
tempeste” –, testato dalla Russia riattivando la competizione tecno-scientifica
globale, può restare in volo a bassa quota per ore in forza del motore atomico.
Tag - In primo piano
Riceviamo e pubblichiamo questo profondo testo del nostro amico e compagno
Massimo, ora detenuto in regime di semilibertà nel carcere di Trento. Quello che
segue contiene le motivazioni di un gesto di solidarietà, al fianco di Stecco e
dei prigionieri di Palestine Action in sciopero della fame, di Anan, Alì e
Mansour, dei prigionieri palestinesi.
Un cesto di pensieri
In quella sorta di interregno in cui mi trovo – né libero né del tutto carcerato
–, ho deciso di rinunciare per la prossima settimana alle uscite giornaliere
dalla prigione, come gesto di solidarietà con le compagne e i compagni di
Palestine Action in sciopero della fame nelle carceri britanniche, sciopero a
cui si è unito anche il mio amico e fratello Stecco. So che stando in prigione
invece di andare al lavoro non impensierisco certo l’amministrazione
penitenziaria. Ma il mio messaggio non è rivolto alla direzione del carcere – a
cui non ho niente da dire né da chiedere –, bensì a chi si sta battendo contro
il genocidio del popolo palestinese, al fianco della sua indomita resistenza.
Quello che posso offrire, insieme a questo mio piccolo gesto, è un cesto di
pensieri, un pugno di parole con cui esprimere ciò che ho nel cuore.
La forza che mi arriva dalle carceri britanniche – che a sua volta riflette la
tenacia di quella resistenza che le prigioni e i centri di detenzione
amministrativa sionisti non riescono a piegare, nonostante l’isolamento, la
tortura e gli stupri – non ha solo la forma della condivisione etica e ideale,
ma anche l’intensità delle emozioni che provo nel leggere le dichiarazioni di
sciopero. Sono convinto – perché lo sento con tutte le fibre dell’animo – che il
moto internazionale contro il genocidio a Gaza e contro il sistema globale che
lo rende possibile sia un nuovo inizio, un cominciamento.
In aggiunta a quello che è successo nelle strade, nei porti, nelle università;
in aggiunta ai sabotaggi avvenuti di giorno e di notte, anche le proteste che
collegano prigioniere e prigionieri al di là delle sbarre, dei Paesi e dei
continenti ne sono un segnale importante. Innanzitutto perché tra “dentro” e
“fuori” si sta creando un rapporto di reciprocità e di circolarità, non solo di
sostegno da “fuori” a “dentro”. Il fatto che tra le rivendicazioni dei
prigionieri per la Palestina ci sia la chiusura di tutti gli stabilimenti di
Elbit Systems UK dimostra la volontà di non separare la propria sorte dalla
liberazione della Palestina, la quale implica niente meno che la sovversione
globale dei rapporti di potere e di sfruttamento, di cui il colonialismo
d’insediamento sionista è un ganglio fondamentale.
Il genocidio algoritmico del popolo palestinese è l’espressione più atroce di un
sistema scientifico-militare-industriale in guerra con gli oppressi, con gli
immigrati, con le donne, con i diversi, con i bambini, con tutto il vivente e
ormai con gli umani in quanto tali.
Se, come ha scritto Mohammed El-Kurd, ci sono «semi che germogliano
all’inferno», la rivolta contro l’inferno di Gaza sta facendo germogliare
un’Internazionale del genere umano.
Che i terroristi di Stato strillino al «terrorismo» di fronte ai tentativi di
sabotare almeno in parte la loro violenza sterminatrice significa che cominciano
ad avere paura. E fanno bene. Perché i cuori ardenti, a differenza degli
algoritmi, non sono prevedibili. E non sono prevedibili perché non subordinano
al calcolo costi-benefici la propria ricerca della libertà e della giustizia.
Come un albero non ha bisogno di vedere l’insieme della foresta per sapere che
la grande quercia è stata abbattuta – perché lo avverte attraverso la fitta rete
delle sue radici –, anche gli umani che si rifiutano di diventare macchine
sentono la sofferenza e la gioia di altri umani che non incontreranno mai. La
solidarietà tra sorelle e fratelli sconosciuti, le cui azioni e parole ci fanno
vibrare, è il lievito morale di ogni Intifada, il dono più prezioso nel cesto.
Forza e coraggio ai prigionieri palestinesi. Forza e coraggio ai prigionieri per
la Palestina. Solidarietà con Anan, Alì e Mansour. Fianco a fianco con il mio
amico e compagno Stecco.
Carcere di Trento, 12 novembre 2025
Massimo Passamani
Veniamo a sapere in queste ore che il nostro compagno Luca Dolce, detto Stecco,
attualmente rinchiuso nel carcere di Sanremo, inizierà da domani sabato 8
novembre uno sciopero della fame unendosi a quello intrapreso dai “Prisoners for
Palestine” nelle carceri inglesi a partire dal 2 novembre. Mentre attendiamo
ulteriori notizie dal compagno, quello che possiamo dire è che siamo al suo
fianco esprimendogli tutta la nostra solidarietà e complicità.
Seguiranno aggiornamenti al più presto.
Per scrivergli:
Luca Dolce
c/o Casa Circondariale Sanremo
Strada Armea, 144
18038, Sanremo (IM)
Vladimir Žabotinskij, il fondatore dell’organizzazione paramilitare sionista
Irgun, ammetteva senza fronzoli: «[I palestinesi] guardavano la Palestina con lo
stesso amore istintivo e con lo stesso fervore con cui un qualsiasi Azteco
guardava il suo Messico o un qualunque Sioux guardava la sua prateria». Il
colonialismo sionista ha fatto di tutto per rimuovere tali paralleli storici. Ma
l’orrore di Gaza ci fa vedere in diretta – equipaggiato con tutti i mezzi che il
complesso scientifico-militare-industriale ha sviluppato nel frattempo –
l’annientamento dei nativi americani o degl’aborigeni d’Australia.
Per questo è tanto vertiginoso quanto necessario elaborare e mettere in pratica
una concezione della storia more Gaza demonstrata
Prendiamo la ben nota frase dello storico Patrick Wolfe (al quale dobbiamo
alcuni degli studi più puntuali sul colonialismo d’insediamento): «l’invasione
coloniale di una terra per crearvi degli insediamenti è una struttura, non un
evento». (Da cui discende il corollario: «l’eliminazione dei nativi è un
principio organizzativo».) Questa struttura rende ancora operativa nel 2025 la
giustificazione giuridica dell’esproprio coloniale fornita nel 1689 da John
Locke (Secondo trattato sul governo): proprietario della terra non è chi vi
risiede, ma chi la mette a profitto. Definire terra di nessuno (terra nullius)
gli ambienti abitati dalle popolazioni native è l’architrave dell’insediamento
coloniale. Non si tratta di un evento, appunto, ma di una struttura. Tant’è che
le leggi sulla terra nullius sono state abrogate, in Australia, solo nel 1992, a
lavoro ampiamente concluso. L’esproprio non si è compiuto solo con la
coercizione fisica, ma anche con i contratti commerciali e con i trattati
legali. Lo stesso vale per la colonizzazione sionista: «L’architettura di
sfollamento del regime israeliano usa tanti metodi diversi, ma hanno tutti un
unico scopo: controllare quanta più terra possibile tenendo all’interno quanti
meno palestinesi possibile, senza innescare i campanelli d’allarme
internazionale – sia attraverso l’invenzione di “dispute immobiliari”; demolendo
case costruite “senza autorizzazione”; rubando terre dichiarandole “zone
militari”, “siti archeologici”, “tutela ambientale” o “proprietà dello stato”; o
semplicemente stroncando la crescita delle comunità palestinesi isolandole e
recidendo i loro legami economici e sociali con le città vicine. Il progetto
sionista ha già creato le narrazioni per rendere legale e giustificare la
sostituzione del nativo con il colono» (Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la
politica del gradimento, Fandango, Roma, 2025). La celebre frase di Kafka – «le
catene dell’umanità torturata sono fatte di carta protocollata» – vale in
particolare per le colonie. È il sovrano – in epoca moderna, lo Stato – a
decidere chi è il legittimo proprietario della terra. Lo Stato, insieme prodotto
e garante dell’esproprio delle terre, rivela proprio nei colonialismi
d’insediamento il rapporto di implicazione reciproca tra la violenza
extra-legale e l’estensione dell’imperio della legge: la seconda sancisce la
prima, occultandola. Non a caso lo Stato sionista, unico colonialismo
d’insediamento rimasto incompiuto – un’incompiutezza che si chiama resistenza
palestinese –, è il solo Stato al mondo a non avere confini definiti. Più terra
viene strappata con la violenza ai palestinesi, più si allarga lo Stato
israeliano, con la relativa giurisdizione. «Il colonialismo è il rapinatore e
simultaneamente il poliziotto, che commette il crimine e lo rende legale»
(Mohammed El-Kurd). Il rapporto che le leggi di Tel Aviv hanno con le azioni
extra-legali dei coloni ai danni dei palestinesi è lo stesso che quelle di
Washington avevano con le ruberie e le stragi compiute dai cowboy ai danni dei
nativi americani. Né le «leggi fondamentali» d’Israele né la Costituzione degli
Stati Uniti ammettono ufficialmente l’incendio di villaggi e l’espulsione armata
dei suoi abitanti da parte di privati cittadini, ma ciò che chiamiamo «Stato
d’Israele» e «Stati Uniti d’America» sono niente meno che la legalizzazione di
quelle violenze. Più passa il tempo, più il fatto compiuto diventa un fatto
giuridico. La differenza tra i due contesti è che nel caso del sionismo il suo
«genocidio incrementale» («l’eliminazione del nativo come principio
organizzativo») è tutt’ora in corso, mentre la violenza contro i nativi
americani è stata conclusa, cioè sancita e occultata.
Il cosiddetto «piano Trump» prende atto che l’alleato sionista ha subìto una
cocente sconfitta (lo scambio di 2000 prigionieri palestinesi contro 20
prigionieri israeliani ne è la manifestazione più immediate ed evidente). Ecco
allora che il «principio organizzativo» (annettere quanta più terra palestinese
con quanti meno palestinesi possibile) ricorre ad altri mezzi. Quel diritto
legale di proprietà che serve in genere a giustificare a posteriori l’esproprio
violento delle terre diventa ora un presupposto per i futuri espropri. Eccolo,
ben riassunto, il meccanismo: «Le Nazioni Unite stimano che, dopo il 7 ottobre
2023, quasi due milioni di abitanti di Gaza sono stati sfollati. In sostanza,
per il 90 percento della popolazione, i palestinesi hanno dovuto abbandonare le
loro abitazioni, o quel poco che resta di esse. Per rivendicare la proprietà
delle terre che hanno lasciato dovrebbero allora disporre di un atto che li
legittimi.
«Il guaio è che in Palestina, in particolar modo nei territori occupati, la
percentuale di terre e di immobili regolarmente registrati è a dir poco scarsa.
Israele ha sempre reso complicate le procedure di validazione degli atti di
proprietà. […] Il risultato è facilmente intuibile: i palestinesi evacuati da
Gaza e dagli altri territori occupati non potranno rivendicare la proprietà dei
terreni selezionati per il rilancio economico dell’area. […] Magari i più
disciplinati potranno anche servire ai tavoli dei futuri resort di proprietà
degli invasori» (Emiliano Brancaccio, Palestinesi schiavi moderni: espropriati e
resi vagabondi, “il manifesto”, 30 settembre 2025).
Se vogliamo un’immagine di brutale chiarezza sul rapporto tra violenza e diritto
di proprietà, e su come il tecno-capitalismo cancelli la storia per imporre agli
umani di vivere in una sorta di cantiere permanente, eccola: un potere costruito
in alcuni decenni annuncia di edificare una «Nuova Gaza» su quella millenaria
che ha raso al suolo in ventiquattro mesi.
Il «piano di pace» è mosso dalla consapevolezza ubuesca che l’unico modo per
demolire anche le rovine, è «equilibrarle in begli edifici ben ordinati». Non
solo resort di lusso, ma anche e soprattutto poli tecnologici, grazie ai quali
trasformare in un modello internazionale la «Nazione Start-up»: il
mondo-cantiere, il mondo-laboratorio. Come è stato ben documentato (per esempio:
https://merip.org/2025/10/the-military-backbone-of-normalization/), infatti, il
motivo principale per cui quasi tutti i Paesi arabi sono favorevoli a questo
piano coloniale e schiavistico non è tanto e soltanto l’affare immobiliare che
si annuncia, o una generica convenienza politica, quanto la volontà di
rafforzare i rispettivi complessi scientifico-militare-industriali. Da questo
punto di vista, l’esperienza sul campo d’Israele in materia di sorveglianza di
massa, di fusione civile-militare e di guerra cibernetica non ha rivali.
Riunendo epoche diverse nello stesso spazio-tempo, il colonialismo smart
aggiorna di continuo le triplici alleanze più funeste della storia: «inchiostro,
tecnica e morte» (Karl Kraus); «denaro, macchinismo e algebra» (Simone Weil);
«Stato, scienza e industria» (Jean-Marc Royer). In uno scenario di guerra
mondiale, di sconvolgimenti ambientali e di politiche di “razionamento” degli
accessi a beni, servizi o aree geografiche, tutti i poteri vogliono comprare un
simile know-how. Mentre il transumanesimo di destra e di sinistra vorrebbe farci
credere che si può vivere sulle nuvole (cloud), Gaza mette a nudo che lo
sviluppo tecno-militare è il braccio armato dell’esproprio della terra, prodotto
e insieme gendarme di quella lunga «guerra alla sussistenza» (Ivan Illich) che è
la modernità capitalistica industriale.
Mentre su quella striscia di terra si «infrange il mito dell’invincibilità
coloniale», stare al fianco della resistenza palestinese non significa
collocarsi in modo autocompiaciuto «dal lato giusto della storia», bensì
scegliere la sua parte maledetta, le sue «classi annientate», i suoi «semi in
grado di germogliare all’inferno».
«Lo slogan Siamo tutti palestinesi deve abbandonare la metafora e manifestarsi
materialmente. Perché Gaza non può combattere contro l’impero da sola. […]
Siamo, senza ombra di dubbio, soggetti di conquista e colonizzazione, ma siamo
anche molto di più. A ogni svolta nella nostra storia insanguinata, siamo stati
brutalizzati, resi orfani dei nostri cari, espropriati, esiliati, affamati,
massacrati e imprigionati, ma ci siamo rifiutati – con grande sconcerto del
mondo – di sottometterci. Per ogni massacro e invasione, ci sono stati e ci sono
adesso uomini e donne che imbracciano le armi, artigianali e sofisticate –
molotov, fucili, fionde, razzi – per combattere. C’è sempre stata la lotta, c’è
sempre stato il gelsomino» (Mohammed El-Kurd).
Se è di un’evidenza abbacinante la natura suprematista e colonialista del “piano
Trump” per Gaza, forse l’aggettivo più corretto per definire il discorso con cui
il presidente degli Stati Uniti lo ha annunciato è «ubuesco». Soltanto la penna
di un Alfred Jarry, infatti, avrebbe potuto descrivere un potere a tal punto
mostruoso nei mezzi e grottesco nelle pretese. Alcune frasi di Ubu Roi – l’opera
teatrale che l’autore francese scrisse nel 1896 – si sarebbero incastonate alla
perfezione nella conferenza di Trump. L’immobiliarista statunitense, con a
fianco il suo amico genocida, ha promesso una vita piena di prosperità a una
popolazione che vive in un carcere di massima sicurezza, in mezzo a una distesa
di rovine, tra la fame e le bombe. Non diversamente da Ubu Re, che annunciava
tronfio : «Va bene, acconsento a espormi per voi. […] Grazie a me, avrete di che
cenare. […] Sono dispostissimo a diventare un sant’uomo, voglio essere vescovo e
vedere il mio nome sul calendario».
Se la patafisica fondata da Jarry era «la scienza delle soluzioni immaginarie»,
noi viviamo nell’epoca in cui la tecnoscienza, togliendo ogni misura storica ai
problemi, può offrire delle soluzioni eterne. Proprio così. In poche ore (72,
per la precisione) ci si può avviare, se tutti fanno quello che dice Padre Ubu,
verso una «pace eterna» in grado di risolvere per sempre un conflitto che va
avanti da «due-tremila anni». Millennio più, millennio meno. Per vendere una
soluzione eterna, il problema deve ben essere millenario. Circoscriverlo
storicamente al progetto sionista, alla Dichiarazione Balfour, alla nascita
dello Stato israeliano o alla «linea verde» oltrepassata da Israele nel 1967,
non permetterebbe alla tecnoscienza delle soluzioni immaginarie di girare a
pieno regime. Un immobiliarista che agisce per conto di Dio, un Padrone delle
Finanze attorniato da transumanisti che vogliono colonizzare Marte, non è tenuto
nemmeno a precisare tra chi e chi sarebbe in corso questo conflitto da
«due-tremila anni». Ubu Re (quello di Jarry): «Dovete convincervi che se siete
ancora vivi […], lo dovete alla virtù magnanima del Padrone delle Finanze, che
si è affannato, sfacchinato e sgolato a recitare paternostri per la vostra
salvezza […]. Abbiamo persino spinto oltre la nostra dedizione, perché non
abbiamo esitato a salire su una roccia altissima affinché le nostre preghiere
avessero meno strada da fare per giungere sino al cielo».
Come noto, non ci sono Soluzioni senza un Piano. «Gaza sarà riqualificata a
beneficio della popolazione». Ci penserà il Consiglio di Amministrazione.
«Questo organismo [il Board of Peace] si baserà sui migliori standard
internazionali per creare una governance moderna ed efficiente al servizio della
popolazione di Gaza e che favorisca l’attrazione di investimenti». Il Piano
«sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla
nascita di alcune delle fiorenti e miracolose città moderne del Medio Oriente».
Se la pace è «eterna», le città non possono essere niente meno che «miracolose».
Altro che quartieri pieni di strade e vicoli o villaggi circondati dagli
uliveti. «Sarà istituita una zona economica speciale con tariffe di accesso
preferenziali da negoziare con i paesi partecipanti». «La Nuova Gaza sarà
pienamente impegnata a costruire un’economia prospera».
Ubu Re (quello di Jarry): «Vi conduco verso una felicità che adesso non sareste
nemmeno in grado di sognare. Solo io lo so». Io e altre «brave persone» –
Erdogan, Tony Blair, il monarca dell’Arabia Saudita – le cui soluzioni non sono
state meno eterne per i curdi, gl’iracheni e gli yemeniti. (Ed è certo solo un
caso che Tony Blair sia anche consulente di British Petroleum, la multinazionale
inglese intenzionata a sfruttare i giacimenti di gas al largo di Gaza.)
Maurice Genevoix, nel suo Un Jour (1976), aveva già aggiornato il ritratto dei
tiranni ubueschi nell’èra della tecnocrazia: «saltimbanchi, persone designate
per la loro pura omni-incompetenza, buoni a nulla con poteri mostruosi». Per
concludere: «È il mondo alla rovescia, c’è da disperarsi». I buoni a nulla hanno
oggi poteri ancora più mostruosi. Il potere di far sorgere «città miracolose» su
decine di migliaia di cadaveri e sull’immane devastazione prodotti dal primo
genocidio automatizzato della storia. Sicuri che i sopravvissuti – quelli che
l’unità 8200 dell’esercito israeliano non ha trasformato in «spazzatura»
algoritmica – sapranno cogliere «l’opportunità di costruire una Gaza migliore»,
grazie a un «comitato palestinese tecnocratico e politico». Un massacro
tecnologicamente organizzato non può che avere una soluzione «tecnocratica».
Messianico il primo, eterna la seconda. È un Piano mostruoso. Infatti anche le
tecnocrazie russa e cinese sono d’accordo.
Circondati da specialisti omni-incompetenti di tutto ciò che è umano, di ciò che
richiede soluzioni storiche e sociali commisurate a problemi storici e sociali,
gli Ubu Re osano annunciare – Himalaya di infamia e di stupidità – che tra gli
sterminatori e gli sfuggiti allo sterminio ci sarà una «convivenza pacifica», e
che la vita futura di questi ultimi sarà «prospera» per gentile concessione dei
suoi colonizzatori e di chi li ha sostenuti, finanziati e armati.
Mentre i commentatori stipendiati e i saltimbanchi politici scommettono sulla
ubuizzazione dei nostri cervelli («È fattibile il piano Trump?», chiede
l’elegante presentatrice all’immancabile esperto), c’è un unico argine agli
ubueschi deliri di un potere insaziabile: la rivolta degli oppressi. La cui
sacrosanta violenza potrà mantenere la misura della libertà solo conservando
intatto il disgusto verso i mezzi mostruosi e disumani dei propri oppressori.
La giornata del 22 settembre è stata un’importante boccata d’aria, come se
finalmente fosse saltato il tappo. Non avevamo dubbi sul fatto che a rimettere
in moto la rabbia sociale sarebbe stata la Palestina e non la politica interna.
Per esempio, il “blocchiamo tutto per Gaza” ha sfidato il decreto sicurezza più
di quanto non abbiano fatto finora le piazze organizzate su quel terreno
specifico di contestazione. Il ciclo storico di guerra in cui siamo entrati
colloca le vite e quindi le iniziative di lotta su un piano necessariamente
internazionale, di cui il fronte interno è il riflesso. Se le idee spesso
divergono, c’è qualcosa di universale nei sentimenti. Che l’emozione contro il
genocidio stesse crescendo era palpabile: lo sciopero generale le ha fornito
l’occasione di esprimersi. Quel sentimento si è tradotto in partecipazione di
massa anche per la parziale e opportunistica legittimazione – sul piano
umanitario – da parte di mass media e mondo culturale, grazie al coinvolgimento
che ha suscitato la Global Sumud Flotilla. Il ponte tra il sostegno a distanza e
la partecipazione diretta ai blocchi è avvenuto grazie ai portuali di Genova.
Sono state le loro dichiarazioni – e la storia da cui provengono – a incrinare
il recupero politico-umanitario-spettacolare operato sulla Flotilla e a
trasformare uno sciopero in un movimento reale. Ha detto bene una scrittrice
palestinese, parlando di una flottiglia per i ritardatari. Se però tra questi
ultimi ci sono migliaia di giovani e di giovanissimi, il ritardo può assumere la
dimensione di un nuovo inizio. Si tratta dunque di spingere il più in avanti
possibile la marea, cogliendo fino in fondo la frattura che si è aperta (e che
non è detto che rimanga aperta a lungo).
Da questo punto di vista, la valutazione del 22 settembre cambia se lo si
osserva dal punto di vista sociale oppure se ci si concentra sui gruppi che
hanno mantenuto costante l’iniziativa a fianco della resistenza palestinese in
questi due anni. Le iniziative a nostro avviso più significative sono state i
blocchi dei porti, perché hanno unito precisione strategica e partecipazione di
massa – di lì passano le forniture belliche al sistema genocida israeliano, lì
si organizza la logistica di guerra –, mentre gli altri blocchi sono stati più
generici. Che di fronte a un genocidio si debba fermare tutto è un’indicazione
importante, sentita e facilmente riproducibile, anche nelle piccole realtà. Ma
ad essa va aggiunta la capacità di colpire in modo più preciso la macchina delle
collaborazioni (fabbriche, centri di ricerca, banche, assicurazioni, aziende).
La mancanza di tale aggiunta denota una certa arretratezza dei gruppi più
organizzati, a cui lo sciopero del 22 settembre ha fornito un’occasione in buona
parte non còlta. Se lo “stato di agitazione permanente” continuerà, come sembra,
a creare momenti di incontro e di rottura, è necessario saper dare nome, cognome
e indirizzo a chi si arricchisce con lo sterminio del popolo palestinese. Unendo
al “blocchiamo tutto” (che permette una partecipazione più ampia) il “mandiamo
in pezzi la macchina globale del genocidio”. Se persino una relatrice ONU parla
di “economia del genocidio”, si tratta di trarne le conclusioni pratiche. Se “il
genocidio continua perché è redditizio”, la solidarietà internazionale con la
resistenza palestinese lo deve trasformare in un pessimo affare.
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: prepariamoci alla guerra
Prepariamoci alla guerra
Mentre i nostri occhi pieni di orrore sono per forza di cose puntati su Gaza, le
cancellerie d’Europa – in testa la Commissione europea – sembrano fare di tutto
per far precipitare la guerra contro la Russia. Nel giro di neanche un mese,
abbiamo assistito alla reintroduzione della leva militare in Germania (al
momento volontaria, ma con «opzione di obbligo» nel caso non si raggiunga un
numero sufficiente di arruolati); al clamore mediatico – dal chiaro linguaggio
bellicista – sull’incontro tra Putin, Xi Jinping e Kim Jong-un a Pechino; alla
fake news sul sabotaggio mai avvenuto all’aereo di Ursula von der Leyen nei
cieli della Bulgaria; alla circolare per la militarizzazione degli ospedali in
Francia (seguìta in questi giorni da un’analoga disposizione in Italia) e,
infine, all’episodio dei droni “russi” (virgolette d’obbligo, perché su questa
notizia sono più i dubbi che le certezze) in parte caduti e in parte abbattuti
dalla contraerea polacca all’interno dei propri confini. Nelle stesse ore in cui
il governo della Polonia convocava i vertici della NATO attivando l’articolo 4
dell’Alleanza, Ursula von der Leyen, nel suo quinto discorso sullo stato
dell’Unione Europea, pronunciava parole inequivocabili: «l’Europa deve
combattere» all’interno di «uno scontro per il nuovo ordine mondiale basato sul
potere», e rilanciava nuovamente la necessità di una «economia di guerra». Nello
stesso discorso, Von der Leyen ha dichiarato anche che il massacro a Gaza «non è
più accettabile» – come se lo fosse fino al giorno prima… – paventando delle
«sanzioni parziali» contro Israele. A strettissimo giro, è cominciata la
missione «Sentinella dell’Est», con lo schieramento di 40.000 soldati polacchi,
nonché di sistemi d’arma della NATO (aerei da bombardamento, fregate, radar),
sui confini russi e bielorussi, mentre viene ipotizzata una «no fly zone» sulla
parte occidentale dell’Ucraina. Da un lato e l’altro del fronte, entrambi i
contendenti stanno predisponendo e testando mezzi che possono essere armati con
testate nucleari (la Francia ha schierato in Polonia aerei Rafale, la Russia ha
simulato in Bielorussia il lancio di missili Iskander).
Come interpretare questo indubitabile crescendo di quelli che – comunque li si
voglia leggere – sono dei segnali, rivolti tanto alla popolazione europea quanto
ai vari gerarchi dello scacchiere internazionale (e ai “loro” popoli)? Se
sappiamo benissimo che nella società dello spettacolo il dominio persegue i
propri obiettivi facendo dell’organizzazione dell’apparenza una leva di
trasformazione della realtà, e che questa sequela di mosse potrebbe essere
finalizzata “soltanto” a riempire le casse dei produttori di armi e a rilanciare
il complesso scientifico-militare-industriale, sappiamo anche – come avvertiva
un vecchio situazionista – che non c’è illusione senza supporto reale.
Un’economia di guerra non può funzionare senza la guerra stessa, ovvero, nella
situazione attuale, senza rilanciarla e allargarla. Anche solo per il fatto che,
per poter essere prodotte a ciclo continuo, le armi devono essere via via
distrutte sui campi di battaglia.
Se a questo aggiungiamo che non sappiamo come reagirà il Cremlino davanti a
queste provocazioni, e che ogni guerra riapre sempre i conti lasciati in sospeso
nei conflitti passati (e infatti tutto il fronte orientale dell’Unione, da
Svezia e Finlandia alla Polonia a guida atlantista-nazionalista, passando per i
Paesi baltici, non vede l’ora di potersi scagliare contro la Russia – mentre la
Romania pacifista è già stata precettata), lo spettacolo della nuova “Grande
Guerra” potrebbe rovesciarsi in realtà da un giorno all’altro.
In questo contesto, che significa prepararsi? Innanzitutto sapere che la guerra
può effettivamente espandersi, e che non possiamo dare per scontato il suo
contenimento all’interno dell’Ucraina mentre tutto fa pensare il contrario. In
secondo luogo, sapere bene cosa dire e cosa fare in caso di allargamento del
conflitto, denunciando con fermezza le responsabilità sempre più flagranti dei
padroni di casa nostra: degli USA che l’hanno provocato; dell’Unione Europea
che, con la bava alla bocca, ne raccoglie il testimone; del governo italiano,
reggicoda di entrambi; della falsa opposizione, pacifista dell’ultim’ora o
realmente guerrafondaia. In terzo luogo, tenere bene a mente che chi varcherà
per primo il confine altrui, la NATO o la Federazione Russa, non deve fare per
noi alcuna differenza.
Solo con delle idee chiare è possibile evitare quell’effetto paralisi che ci ha
già còlti nel recente passato (con l’Emergenza Covid, con l’invasione russa
dell’Ucraina e, in misura fortunatamente minore, anche nella prima fase del
massacro dei palestinesi dopo il 7 ottobre), e che sarebbe ancora più
imperdonabile nel presente. Solo con le idee chiare si possono cogliere le
occasioni, senza regalare per l’ennesima volta ai nostri nemici quel tempo
prezioso che permetterebbe loro di seminare ancora una volta confusione e
divisioni attraverso un avvelenamento propagandistico che abbiamo già
conosciuto, e di dare un’ulteriore stretta securitaria e repressiva al fronte
interno.
Se ragionamenti come questi, per motivi che qui non ci interessa analizzare,
fanno un po’ fatica a muoversi negli attuali àmbiti “antagonisti”, teniamo
presente che non siamo soli. Là fuori c’è un mondo intero di sfruttati e
oppressi che negli ultimi cinque anni ha subito di tutto: restrizioni, terrore
televisivo in dosi inaudite, inoculazioni forzate, censura; che oggi boccheggia
sotto i colpi di inflazione, povertà e precarietà; e che soprattutto non vuole
la guerra.
Se questo mondo, in caso di escalation, scenderà nuovamente in strada, la
presenza di personaggi ambigui, quando non apertamente reazionari e razzisti,
non dovrà spaventarci. Mentre sappiamo per esperienza diretta che in giro non
mancano le persone di cuore che negli ultimi due anni hanno guardato a Gaza con
la nostra stessa angoscia, a tenere alla larga i vari Rizzo e Vannacci c’è una
parola di quattro sillabe: Palestina. Che basta e avanza a differenziare il
disfattismo internazionalista dal pacifismo reazionario: quello di chi è
contrario alla guerra solo quando pensa che possa arrivargli in casa, e per il
resto vuole che tutto continui come prima (e tanto meglio, come dice il premier
tedesco, se Israele fa il lavoro sporco per tutti noi). Da questo punto di
vista, non appare casuale che, nel discorso più bellicista della sua carriera,
la tecnocrate Von der Leyen abbia espresso per la prima volta una timidissima
condanna dell’operato di Israele. Senza neanche una mezza reprimenda verso un
genocidio che ormai solo i burocrati del suo stampo non chiamano per nome, come
sarebbe possibile legittimare un conflitto potenzialmente nucleare in nome dei
“valori” e della “libertà” occidentali? Nel frattempo si è visto in cosa
consisterebbero le fantozziane «sanzioni parziali» proposte dalla Commissione
Europea: ad Israele verrebbe negato soltanto il suo status di «partner
commerciale privilegiato» (ovvero, dovrebbe pagare le stesse tasse degli altri
Paesi extra-UE), e nella bozza della Commissione non c’è neanche l’ombra di un
divieto all’esportazione di armi e materiale bellico. A noi, e a chi si
ribellerà con noi, spetta ribadire che le mani che armano il genocidio e cercano
di incendiare la nuova Grande Guerra sono esattamente le stesse, con la
complicità della sinistra più o meno sionista e sempre con l’elmetto (PD, Avs,
Cgil), che da un lato cerca di «salvare Israele da se stesso» agitando la parola
d’ordine sempre più improponibile dei «due popoli due Stati» in Palestina, e
dall’altro soffia più di tutti sul fuoco della guerra alla Russia (quanto al
Movimento 5stelle, basta ricordare che ha votato fino a ieri l’invio di armi a
Kiev per smascherare la sua opposizione di facciata).
Mentre il grido “Blocchiamo tutto!” si alza dalle piazze per Gaza e dai porti
del Mediterraneo (e dalle manifestazioni francesi contro i piani di austerità),
fornendoci finalmente l’occasione per fare qualcosa di concreto contro i
massacratori sionisti – ma anche, indirettamente, contro i piani di repressione
e pacificazione del fronte interno; mentre le atrocità dell’IDF a Gaza City
potrebbero portare in strada anche chi finora non si è mosso; e mentre ci
prepariamo a una nuova mobilitazione per strappare Alfredo Cospito alla tortura
del 41-bis, non cessiamo né di agire né di pensare ai prossimi tornanti.
Mentre scendiamo in strada per la Palestina, creiamo le condizioni per poter
continuare a lottare, chiudendo la via alla guerra e rovesciandola contro i
padroni.
La realtà sta arrivando. Che ci trovi sulle barricate.
21 settembre 2025
assemblea Sabotiamo la guerra
Riprendiamo dal blog del collettivo Terra e Libertà un nuovo opuscolo che
ripercorre i legami storici di IBM con guerra, genocidi e apartheid, con
particolare attenzione al ruolo del colosso statunitense nell’olocausto nazista.
Link al testo sul blog di Terra e Libertà
Scarica l’opuscolo in pdf: ibm_def_lettura, ibm_def_stampa
Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che
è possibile ordinare copie del secondo numero scrivendo a disfare@autistici.org
(al prezzo di 4 euro a copia, 3 euro per i distributori dalle 3 copie in su).
Scarica l’articolo in formato pdf: disfare_2_terrorizzare_e_reprimere
Terrorizzare e reprimere
Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello
Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e
condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano
spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica
negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente
sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di
“terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella
stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con
l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il
terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui.
Rovesciamenti semantici
Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del
Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate
secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo
giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser,
creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col
significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico
di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e
l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1]. Formalmente
ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad
eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una
crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di
un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per
insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un
traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è
perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e
fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il
terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato
anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben
peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare.
Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in
due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza
perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una
fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine
dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti
colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero,
scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera
società[2].
L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il
fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico
costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È
quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento
semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono
dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni
asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di
sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo
aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la
popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni,
in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio,
combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una
modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima
guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare
tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato
governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire
esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza»,
inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi
abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in
Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col
pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso
legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso
sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel
dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come
nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60
sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con
finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a
commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere
del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo
utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai
governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari.
Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione
per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937,
secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i
cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate
personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della
popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di
qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il
terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati
equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata
coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu
sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario
Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione
legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto
all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica
condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in
piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George
Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione
inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la
distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da
un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera
dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a
tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso
Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica
come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come
combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la
distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale
imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva
del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi
possibili[4].
Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello
istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque
a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del
succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno
della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del
Novecento[5].
Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri
Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso
degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare,
da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna
sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà
sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale
dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà
sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà
come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione
nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente
vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni,
l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad
accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS
proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento
d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui
problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo
di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati
alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una
propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di
quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il
terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da
Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte
ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia.
Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del
terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986
con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere,
edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza
organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima.
Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come
una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale –
osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel
supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto
al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è
una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente
concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un
atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono
prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi
si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono
guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto
superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi.
Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e
d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu
dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i
mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto;
loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la
storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico
essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in
precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente
interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una
battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini
ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo
sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere
il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si
trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della
rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un
discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al
terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era
finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi
e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici
con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo
luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda
amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico
globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di
reazione.
Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento
europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di
terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7]. Inoltre,
nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente
ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle
motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione:
aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo,
moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani
dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione
Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che
imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione
quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale
decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva,
dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani
degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa
definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la
prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento
rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee
su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno
sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine
costituito.
Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore,
ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello
statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a
prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di
destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua
specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella
popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non
basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare
che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e
non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto.
Al di fuori dello Stato, il nulla
Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche
il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti
originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un
territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico
o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola,
della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende
il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno
quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale
rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e
monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre
l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino
all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a
questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma
anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea
regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di
intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma
razionale dell’arte di governo.
Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si
crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a
fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo
in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia
meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché
di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che
un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun
tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di
modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e
costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e
dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un
regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture
istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le
classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento
radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto
terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano
e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di
vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere
dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica,
sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad
un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti
terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente
immodificabile.
D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed
immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un
territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al
genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente
casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una
legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni
decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città,
terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti
effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali
non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato:
abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il
terrore.
Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella
statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma
prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto
– come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff
nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello
formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni
quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente
legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha
continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua
vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna
che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato
perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max
Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il
detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere
esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo
controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati,
siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per
garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare
una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo
volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni
ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault,
attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere.
Tiravento
[1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta
di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo
giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla
Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26
luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come
espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un
vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso
era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e
politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione
violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un
governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che
minaccia sistematicamente il popolo.
[2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque
pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i
quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura
che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli.
[3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il
1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba
essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba
essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento
specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se
con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con
spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere
qualcosa di nuovo, che resterà».
[4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra
mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti,
soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto
modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era
realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito
statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati
per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle
proprie terre da parte dei coloni.
[5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si
ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale»,
condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali,
razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale,
costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo
individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della
popolazione civile alla politica statale di oppressione».
[6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente
statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di
politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz,
capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi
sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush.
[7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo
autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle
ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e
legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale
risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto
commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia
della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione
in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni
separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato
a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici,
alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un
clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un
intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di
terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici.
[8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di
Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti
armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le
minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la
popolazione civile».
[9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes,
lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile
e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei
mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta
della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza
continua, in una situazione di guerra permanente.
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato,
almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo
Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di
massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista
californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di
Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato
un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un
metodo.
Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo
palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel
presente.
Il Metodo Giacarta
«Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di
programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise
omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una
cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di
sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El
Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua,
Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e
Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella
Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti
che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che
intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli
uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte
chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare.
Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal
più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se
consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione
indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo
particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto
l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano
portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono
condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano
nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al
progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è
l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista
indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi
dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano
cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore
di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio
affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e
giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella
vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il
mondo in cui viviamo oggi».
Una spietata efficacia
«L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati
Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena
sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse.
L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una
dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò
uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo.
Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le
dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo
impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale
indonesiana».
In poche parole
«”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da
Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero
arcipelago indonesiano intorno a lui”.
Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto.
Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”».
I numeri di un massacro
Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000»
e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce
che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza
collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri:
Messico 1965-1982: 1300
Honduras 1980-1993: 200
Nicaragua 1979-1989: 50 000
Guatemala 1954-1996: 200 000
Venezuela 1959-1970: 500-1500
El Salvador 1979-1992: 75 000
Colombia 1985-1995: 3000-5000
Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina,
Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80
0000
Iraq 1963 e 1978: 5000
Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un
avversario geopolitico degli Stati Uniti»)
Sudan 1971: un po’ meno di 100
Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000
Thailandia 1973: 3000
Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000
Taiwan 1947: 10 000
Filippine 1972-1986: 3250
Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000
Timor Est 1975-1999: 300 000
Indonesia 1965-1966: 1 000 000
«Giacarta sta arrivando»
O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse
città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A
incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la
sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y
Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe
finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando
migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere
interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri
militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla
CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori.
La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano
Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei
Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise
più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree
urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano
indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro
famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi
villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio,
ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio
anticomunista».
Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i
contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina,
Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo
anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro
organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e
guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta».
Perché «Giacarta»?
Operazione Annientamento
Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965
dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato
un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di
concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in
Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il
modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia
è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi
contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla
modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore
guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il
controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà
con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di
Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e
Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato».
Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la
presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte
contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle
donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di
propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del
1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere
il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e
poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari
golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente
ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione
dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro
organizzativo della modernizzazione.
«Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America
Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che
accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più
importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano
trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli
lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste,
allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste
ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford
organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i
quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei
locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas.
Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della
rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai
latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di
Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a
farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli
islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente
socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua
guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in
Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della
Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari
e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al
punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha
assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in
Vietnam.
La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione
raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese
latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli
assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato
semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una
militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a
Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega
comunista.
Silenzio
«Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero
allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante
comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto
del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri
presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di
avere qualche associazione con il Pki.
Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono
sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano
direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente.
Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di
costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono
i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano
diffusi ovunque.
Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano
soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di
piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti
“scomodi” che poi furono uccisi.
[…] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da
molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e
l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato
dalle cicatrici e smarrito».
Il Metodo Gaza
Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con
quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è
dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a
caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma
operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la
storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai
bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di
tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi
campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati
realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna
e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per
diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno
insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del
Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista»
più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il
selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione
storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo
della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi.
Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di
confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le
popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la
spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista»
come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del
Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco
avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è
un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni
Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a
dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di
quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana).
Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto
scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila)
e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve
sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono
con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e
antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta
e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo
contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica
conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a
Elon Musk e a Peter Thiel).
Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo
Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico»
riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti
giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per
scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA),
schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con
la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione
«antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato».
È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è
la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a
definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è
l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire
chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica
di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno
scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua
guerra psicologica.
Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni
trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi
nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e
con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo
capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto
del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia
un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili
del mondo.
L’ordine è già stato impartito
«Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è
scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and
Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia
Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le
insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria
e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura
imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione
del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la
resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su
decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina
come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto
dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico”
(meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano
impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta,
dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile
ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da
transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa
più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni
di palestinesi per fare una riviera di lusso.
La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere
rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel
e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono
stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in
quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a
dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i
beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso,
o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono
persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte».
«”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare
qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana».
Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e
l’infame violenza su cui sono stati costruiti.
Una credenza insostenibile
In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana
del suo libro, Bevins diceva:
«Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di
questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e
l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi
momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si
realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina,
resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che
una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di
credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i
cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi
hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata
possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo
negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali
uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia,
soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora».
Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza
possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di
quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale.
Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità
né all’orrore disarmato.