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L’occhio del nemico
Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”
Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che
incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che
pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo
sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande
capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare
un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone
“normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non
si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad
aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse
in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati
sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di
fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il
computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente
la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa
gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro
punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete».
Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come
consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo
come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura.
Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo
nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono
tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior
marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway,
che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato
contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono)
sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere
hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta
mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme
un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità
locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e
della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un
approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore
dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si
sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è
quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta
rigenerativa all’estrattivismo dei dati.
Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il
loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di
rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non
sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non
fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo
Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano
all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet
of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la
piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli
predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo
Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di
videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.
Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di
collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città
Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno
2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo
percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione
proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo
impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione
dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza
alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme
conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la
meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli
obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza
della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre
la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi
sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto
dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il
termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori,
può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori
dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la
sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA).
Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla
riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che
sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo
a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono
nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a
legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece,
giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina
IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa.
Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla
base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza
artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura
industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la
seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia
bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio
di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che
contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia,
agricoltura, ecologia.
Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza
artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza
bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona
bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia
portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi.
Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e
la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è
pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che
avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente
prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai
ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere
estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano
tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa
devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato
dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere
produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di
garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina
stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste
materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle
cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia
tecnologica.
Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo
per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici
e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di
computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può
esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che
muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono
sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei
lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri
della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo
sociale sempre più avanzate.
Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità
ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante.
L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è
volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua
dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i
conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano
dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche,
sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza
alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino.
In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli
ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il
genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite
l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno
incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la
morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la
digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del
ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto
della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al
servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere.
Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi
dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi
civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto
fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne
derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e
squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del
dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del
padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente.
Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico,
miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono
neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per
fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie
informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la
possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi
interni.
Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi
un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0
(estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi
di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per
metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari
motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per
essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria,
elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il
funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse
minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è
falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la
tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la
concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è
politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la
tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al
dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma
soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la
relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia
specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze,
infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman
definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una
nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia
l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un
dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la
locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente
insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per
permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei
processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e
l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito
il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la
circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale.
Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro
di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente
cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo
con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie
moderne.
La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della
società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e
indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in
particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che
generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il
progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di
accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della
struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un
flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la
diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi
dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo
minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che,
al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali
non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se
anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari
del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di
sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni
ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i
dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista
che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del
proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua
tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la
tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo
presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà
facile preda di ciarlatani come Giordano.
Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica
di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del
passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo
chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e
l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà
contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad
occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che
– riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le
utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto
nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione
ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni
chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più
moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si
perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle
tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream
sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una
discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro
e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non
potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di
rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono
inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili.
In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di
pensare che porta dritti fra le braccia del nemico.
Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune
dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che
solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale:
l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica
della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi
anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno
vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere
nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo
fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il
pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano
attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come
agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la
vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e
digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi
mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed
inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria,
possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e
materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è
una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il
nemico perché ormai si guarda il mondo come lui.
Rovereto, aprile 2025
Collettivo Terra e Libertà
[1]
https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/
[2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/
Tag - In primo piano
Riceviamo e diffondiamo questa utile panoramica delle riconversioni belliche, in
Italia e non solo:
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/
AL MERCATO DELLE RICONVERSIONI BELLICHE
Nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati
e la spartizione delle risorse, in un quadro che vede mutare gli assetti
geopolitici globali, si afferma la corsa al riarmo europeo. Mentre si cerca di
abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto, e cioè che in guerra ci siamo
già anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case; mentre gli Stati
europei – dai Paesi scandinavi alla Francia – forniscono ai loro cittadini
dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra
nucleare; e mentre alcune nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei
loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare… si sta affermando
l’idea che anche le aziende in crisi debbano essere riconvertite alla produzione
bellica.
Tra le prime, Volkswagen ha mostrato crescente interessamento. Pur riconoscendo
che una completa conversione alla produzione bellica richiederà anni, l’azienda
tedesca vuol tornare a fornire motori e trasmissioni per veicoli militari
collaborando con la conterranea Rheinmetall, come aveva già fatto durante la
seconda guerra mondiale quando collaborò coi nazisti.
Aziende come Rheinmetall, leader in Europa nella produzione di munizioni e
armamenti terrestri tra cui i carri armati Panther, e KNDS Group, joint venture
franco-tedesca specializzata in veicoli corazzati ed esplosivi con un fatturato
di 3 miliardi di euro, stanno già riconvertendo impianti civili, non solo
automobilistici, in linee di produzione bellica.
Il CEO di Rheinmetall, Armin Papperger, ha indicato che lo stabilimento di
Osnabrück di Volkswagen sarebbe “molto adatto” per la produzione di veicoli
blindati Lynx, a condizione di ricevere ordini per almeno 1.000 unità. Proprio
Rheinmetall ha realizzato una joint venture con l’italiana Leonardo per fornire
280 nuovi carri armati Panther e oltre mille veicoli blindati Lynx all’Esercito
italiano, una commessa da 23,2 miliardi di euro. Metà della produzione sarà
fatta da Leonardo in Italia. Parteciperà a questo progetto, con un contratto di
fornitura per circa il 15% del valore, anche Iveco Defence Vehicles (IDV)
controllata da Exor, la finanziaria olandese della famiglia Agnelli.
Leonardo e Rheinmetall vorrebbero partecipare al progetto per il futuro carro
armato pesante europeo, detto Mbt o Mgcs, un progetto lanciato da Francia e
Germania, che si scontra però con gli interessi anche della franco-tedesca KNDS,
holding che unisce la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann.
Un’altra società tedesca, la Helsoldt, che si occupa di elettronica per la
difesa, di cui è azionista Leonardo con il 22,8%, ha comprato una fabbrica di
elettrodomestici Bosch con 400 lavoratori annessi per riconvertirla.
La franco-tedesca KNDS, che produce il carro armato Leopard e il veicolo da
combattimento Puma, ha recentemente acquisito un’ex fabbrica ferroviaria a
Görlitz, in Germania, per espandere la sua capacità produttiva.
Anche l’ex insediamento Winchester di Anagni (Frosinone), nella Valle del Sacco
in Ciociaria, verrà riconvertita da KNDS Ammo Italy (ex Simmel Difesa) in una
fabbrica per produrre nitro-gelatina e polveri di lancio per proiettili. 11
nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri per potenziare la filiera
delle armi1. Il paradosso sta che fino ad ora nell’ex stabilimento laziale di
Anagni si provvedeva al disinnesco dei proiettili scaduti. Tra Anagni e la
vicina Colleferro – dove KNDS possiede già uno dei più importanti stabilimenti
per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe –
arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno. Nel 2023 vi
era stata la visita del commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton,
allo stabilimento dei Colleferro, che aveva espressamente richiesto di
incrementare la produzione per missili e proiettili con cui riempire gli
arsenali europei. La riconversione dello stabilimento di Anagni, che dovrebbe
iniziare la produzione a partire dalla primavera 2026, si inserisce pienamente
nel quadro del piano “ReArm EU” ma ha anche ricevuto un finanziamento europeo di
41 milioni di euro dopo l’approvazione dell’ASAP (Act Support Ammunition
Production)2. L’ASAP è la legge europea, varata nel maggio 2023 e confermata a
marzo 2024 con l’impegno di 500 milioni di euro del bilancio UE, per potenziare
la produzione di esplosivi, polvere da sparo e munizioni dopo l’invasione russa
dell’Ucraina. L’ASAP ha calcolato che entro la fine del 2025 saranno 2 milioni i
proiettili che dovranno essere prodotti all’anno dalle industrie europee. 4,300
tonnellate l’anno gli esplosivi.
Attraverso l’ASAP la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti
per sostenere l’industria bellica europea della produzione di polveri e
munizioni. In un primo tempo il maxiappalto riguardava solo le imprese europee,
ma a causa del mancato raggiungimento del numero previsto di munizioni da parte
dell’industria europea, ora i fondi UE possono essere usati per comprare
munizioni anche da Paesi terzi, con gli Stati Uniti ovviamente a farla da
padrone (con la seconda elezione di Trump, gli Stati Uniti non solo pretendono
che la UE acquisti il loro gas GNL ma anche le loro armi).
I 31 progetti industriali finanziati dall’UE coinvolgono Grecia, Francia,
Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania,
Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Oltre la KNDS Ammo Italy, tra questi 31
progetti finanziati dall’UE vi è anche quello presentato dalla bolognese
Baschieri&Pellagri, del gruppo della Fiocchi Munizioni Spa di Lecco. Il progetto
della Baschieri&Pellagri è stato finanziato con 3,7 milioni di euro e consiste
nella produzione di polvere da sparo per i proiettili.
Ritornando all’industria dell’automotive, non possiamo non citare il caso
dell’italo-olandese Stellantis (ex Fca-Fiat) del presidente John Elkann, della
famiglia Agnelli, che vive una crisi acuta, con un forte calo della produzione
automobilistica nazionale, e che potrebbe essere interessata da un piano di
riconversione sostenuto dai ministeri della Difesa e dell’Economia. Annunciato
dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, un piano per
rilanciare la filiera dell’auto prevede un finanziamento di 2,5 miliardi di euro
con fondi pubblici entro il 2027, con l’obiettivo di diversificare la produzione
coinvolgendo il settore auto nel cosiddetto “dual use”, ovvero l’utilizzo delle
stesse infrastrutture per scopi civili e militari.
Per Stellantis si parla di un ruolo di consulenza ingegneristica, ma forse anche
della riconversione di uno o più stabilimenti per la produzione di mezzi
militari o componentistica. Fra le ipotesi alla studio, per intercettare la
pioggia di miliardi del riarmo UE, c’è la riconversione dello stabilimento di
Termini Imerese (Palermo).
Per facilitare l’intesa il governo Meloni vuole superare il cosiddetto piano
green deal lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, almeno per quanto
riguarda il settore auto. Le regole europee oggi impongono la riduzione della
produzione delle auto a combustione per ridurre le emissioni di gas serra e
contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C rispetto ai livelli
preindustriali. Il che significa riconvertire il settore auto nell’elettrico,
settore nel quale l’Italia (ma anche la stessa Europa) è piuttosto indietro
rispetto a Paesi come la Cina. Anche i dazi minacciati da Trump sui prodotti
importati dai Paesi europei hanno giocato un ruolo sulla decisione di sospendere
le regole europee per il green deal, dato che tra i settori colpiti da questa
nuova guerra commerciale c’è senz’altro il mercato dell’automotive. Ma la vera
ragione della sospensione del green deal è un’altra. Come ha ricordato molto
chiaramente l’ex ministro dell’ambiente e della transizione ecologica nel
governo Draghi, Roberto Cingolani, oggi amministratore delegato della più grande
società bellica italiana, la Leonardo, società che stima ordini per 118 miliardi
fino al 2029 con l’obiettivo di raggiungere ricavi superiori a 26 miliardi entro
la fine del decennio, “il Green Deal era importante in tempi di pace, ora ci
sono altre priorità”.
Ricordiamo, sempre della famiglia Agnelli, anche il ruolo di Iveco Defense. Già
pienamente operativa nel settore militare, lo è ancora di più dopo un accordo
con Leonardo siglato a novembre 2024.
Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze
militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla
produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso. A ottant’anni dalla fine
della Seconda guerra mondiale, i nomi che ritornano sono sempre quelli: Famiglia
Agnelli, Volkswagen, Krupp.
Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il
pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di
lavoro. É la giustificazione che è stata usata, per esempio, a castelfranco
Veneto (Treviso) per la riconversione in industria bellica della Faber, che ha
cominciato a produrre bossoli e ogive, mentre prima produceva bombole d’ossigeno
e a gas.
A questo punto con buona probabilità anche i sindacati confederali
collaboreranno alla militarizzazione del lavoro, cosa che stanno già facendo nel
caso proprio della Faber, con la Fim Cisl di Treviso che ha sostenuto
apertamente il progetto di riconversione bellica, fino al punto di proporre la
riconversione ad uso militare anche delle vicine industrie della Berco, azienda
del gruppo tedesco dell’acciaio Thyssenkrupp (quest’ultimo attivo anche nel
settore bellico), che produce cingolati per trattori e che vuole ridimensionare,
con procedure di licenziamento aperte, le sedi produttive italiane di
Castelfranco Veneto, Copparo e Bologna. Secondo i giornali locali veneti gli
operai di Castelfranco Veneto, in cassa integrazione da molti mesi, sarebbero
persino favorevoli, pur di non perdere il posto di lavoro e mettere un pezzo di
pane a tavola. Dai cingolati per i trattori a quelli per i carri armati è un
attimo. Tra l’altro gli stabilimenti veneti sia della Berco che della Faber
nascono dallo scorporo dell’azienda bellica Simmel Difesa e le macchine per
produrre armamenti pare si trovino ancora all’interno degli stabilimenti.
Condotte come quelle della Cisl trevigiana non sono casi isolati. Già nel 2021 i
responsabili locali della Fiom-Cgil palermitana dichiararono che la costruzione
di navi da guerra, motovedette e portaerei nei Cantieri Navali di Fincantieri a
Palermo “avrebbe portato ulteriore lavoro, stabilità lavorativa e benefici
economici per tutta la città”. Sindacalisti per la guerra.
PiccoliFuochiVagabondi
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1 www.peacelink.it/disarmo/a/50660.html
2
https://defence-industry-space.ec.europa.eu/eu-defence-industry/asap-boosting-defence-production_en
Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento
Partiamo da un’immagine. La “piazza per l’Europa” scelta a Trento dal quotidiano
“Il Dolomiti” è tra le più piccole della città ed ha accessi molto stretti.
Insomma, se i Michele Serra nostrani non si aspettavano le folle, non
escludevano le contestazioni. Il risultato è stato qualche centinaio di persone
(300? 400?) che si sono parlate addosso letteralmente circondate dalla celere e
dai carabinieri in tenuta antisommossa. Perché a cinquecento metri di distanza è
stata lanciata una manifestazione inequivocabilmente contro il riarmo, contro
l’economia di guerra, per la fine del massacro in Ucraina e del genocidio in
Palestina, in solidarietà ai disertori ucraini e russi. Nonostante lo scarso
preavviso (e la tanta pioggia), poco meno di 300 persone sono partite in corteo,
passando dalle quattro strade attorno alla piazza dei guerrafondai (malamente)
mascherati, disturbando con gli interventi amplificati proprio le parole del
sindaco (neanche a farlo apposta). Le persone che passavano in centro si sono
accorte degli europeisti con l’elmetto solo per via della polizia, mentre gli
slogan e gli interventi che hanno sentito erano antimilitaristi,
internazionalisti, anticolonialisti: “Gaza nel cuore, Jenin nella memoria,
Intifada fino alla vittoria”, “Dalla von der Leyen a Michele Serra, cambiano le
forme, la sostanza è guerra”, “Lo chiede l’Europa, la riposta è no. Per le loro
guerre non mi arruolerò”, “Contro le guerre dei signori, siamo tutti disertori”,
“Non un soldo né un soldato per le guerre del governo, dell’UE e della NATO”…
La composizione del corteo – più variegata rispetto alle ultime manifestazioni a
fianco della resistenza palestinese – suggerisce un moto di risveglio di fronte
a piani di riarmo che non hanno precedenti negli ultimi decenni. Poco, troppo
poco. Ma le due piazze di sabato rappresentano un netto, necessario spartiacque.
E infatti chi si muove nelle orbite di PD, Cgil, Arci, Anpi o AVS, e magari si
considera antifascista e contro la guerra, non ha mosso un dito né una voce,
perché sa che schierarsi davvero contro i progetti imperialisti e contro i
complessi scientifico-militar-industriali significa oggi tagliare i ponti della
compatibilità politica. Non caso a lanciare il corteo è stato quel pezzo di
società che da 16 mesi si attiva senza se e senza ma contro il governo, contro
l’Europa, contro le collaborazioni trentine con il genocidio a Gaza.
Il piano von der Leyen arma un plurisecolare suprematismo colonialista che oggi
deve farsi la guerra anche al proprio interno. Il fatto che nelle risoluzioni
belliciste dell’UE non si parli più di “Occidente”, bensì di “Europa”, significa
che l’accordo sulla rapina delle masse palestinizzate del mondo non basta più; e
che la guerra coloniale torna indietro sotto forma di furia estrattivista, di
“monopoli radicali” e di fine delle pantomime democratiche. Se Volkswagen si
dichiara pronta a riconvertire i propri stabilimenti insieme a Rheinmetall, si
scopre per passaparola che Leonardo SpA sta contattando piccole aziende locali
per proporre la produzione di armamenti (c’è da scommettere che, in tal senso,
arriveranno a breve gli incentivi governativi sotto forma di sgravi fiscali).
Esattamente come cento anni fa, il partito unico della guerra mobilita gli
“intellettuali progressisti”, la sinistra del capitale e i sindacati di Stato
per arruolare o irretire chi potrebbe rompere le righe. La novità è che oggi a
schierarsi contro il riarmo UE (ma non quello nazionale) sono anche forze
reazionarie. Motivo in più per prendere l’iniziativa. Che il genocidio e le
guerra spacchino in due la società. Il 15 marzo ha creato solo le prime crepe.
Di seguito il volantino distribuito a Trento dall’Assemblea in solidarietà con
la resistenza palestinese:
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese.
Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra
Le “piazze per l’Europa” lanciate a Roma da “Repubblica” e qui a Trento dal
“Dolomiti” sono un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che è uno
degli elementi costitutivi della guerra al pari dell’artiglieria.
L’Europa come terra della libertà, della fratellanza tra i popoli e del Diritto
internazionale è un mito che gronda sangue. La storia delle classi dominanti
europee è quella del colonialismo e del suprematismo bianco, di cui gli stessi
Stati Uniti sono un prodotto. I «valori europei» dei quali si straparla in
queste piazze li vediamo a Gaza. Se tutto l’Occidente è schierato con il
colonialismo genocida israeliano (non una sanzione, non un embargo militare, non
una sola cessazione delle collaborazioni e degli scambi strategici… alla faccia
del Diritto internazionale!) è perché Israele compendia fino all’estremo la
storia europea e occidentale. In tal senso, l’unica differenza fra Trump-Musk e
von der Leyen è che il primo si dichiara esplicitamente suprematista, mentre la
seconda pratica il suprematismo senza dichiararlo.
Ma nelle “piazze per l’Europa” si va oltre l’ipocrisia. Ci si mobilita per la
guerra. Partiti, partitini e sindacati che vi partecipano sembrano in disaccordo
su alcuni aspetti (tra chi appoggia apertamente il piano di riarmo dei singoli
Stati e chi preferisce la «difesa comune europea»), ma sul rafforzamento
dell’industria bellica per continuare a depredare il resto del mondo sono tutti
d’accordo. Il punto è chi ci deve guadagnare.
Tutto ciò non c’entra nulla, sia chiaro, con la protezione della popolazione
ucraina. Massacrata e depredata sia dalla Russia sia da USA-NATO-UE, la gran
parte delle gente in Ucraina vuole il cessate il fuoco (come dimostra il livello
di massa raggiunto dalle diserzioni). Quello che l’UE non può accettare non è
certo l’invasione di un Paese sovrano (vogliamo parlare dell’Iraq, della Serbia,
dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, della Palestina, del Libano?),
peraltro ampiamente ricercata dal blocco occidentale con una serie di continue
provocazioni volte a far entrare Ucraina e Georgia nella NATO, ma solo di essere
tagliata fuori da un bottino su cui le sue classi dirigenti hanno scommesso
tutto. L’«orgoglio europeo» dei vari Michele Serra è il tentativo di rilanciare
una potenza imperialista europea in declino. Rilancio che passa oggi attraverso
l’economia di guerra – chiamata furbescamente «difesa» – quale ulteriore
concentrazione dei monopoli economici e finanziari, pagata come sempre da chi
sta in basso.
Viviamo in un’epoca che non permette alcuna pigrizia nel pensare. La guerra è
condotta, oltre che sui campi di battaglia e nelle retrovie, contro i nostri
cervelli. Se vogliamo opporci ai venti di guerra e di riarmo; se vogliamo
spezzare le collaborazioni nei nostri territori con il genocidio a Gaza e la
pulizia etnica in Cisgiordania, dobbiamo disintossicarci dalla propaganda e
contrapporle idee e princìpi ben saldi.
A volere la guerra è un’infima minoranza: quella che si arricchisce. Per tutti
gli altri un riarmo da 800 miliardi di euro significa salari miseri, bollette
alle stelle, sanità al collasso, scuole in cui si impara poco e si obbedisce
molto, criminalizzazione del dissenso, città militarizzate.
Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha
trascinato nella spirale della guerra.
Da perdere non abbiamo che una vita sempre più invivibile. E la nostra
disumanità.
Trento, 15 marzo 2025
Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese
(ci troviamo ogni lunedì, dalle ore 18,30, alla Talpa di via S. Martino a
Trento)
Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione
Cos’è la guerra? La si può definire senz’altro in tanti modi. Dal secondo
conflitto mondiale a oggi, essa è contemporaneamente – e indissociabilmente –
scontro di potenza tra gli Stati, artificializzazione dell’ecosfera e attacco
generalizzato a ogni forma di autonomia individuale-comunitaria. Se è nel solco
della Seconda Guerra mondiale che si appronta il mondo come laboratorio –
eugenetica, campi di prigionia e di sterminio, fusione di scienza, Stato e
industria, costruzione della bomba atomica, “modello IBM” e paradigma
cibernetico –, l’ulteriore sviluppo delle tecnologie convergenti fornisce oggi
alla macchina bellica una dimensione totale (terra, acqua, cielo, spazio
ultra-atmosferico, onde elettroniche, corpi e cervelli). Contrariamente alle
tante imbecillità profferite per anni sulla “fine dello Stato”, sulla fase
post-imperialista e sulla “microfisica dei poteri” che avrebbe abolito il
comando verticale e centralizzato, la contesa sulla definizione delle gerarchie
statali (e dei monopoli che queste difendono e da cui dipendono) ritorna in
tutta la sua brutalità. E “ritorna”, appunto, armata di tutto ciò che ha
accumulato nella storia. La guerra è anzi proprio il momento in cui si svela che
l’«accumulazione originaria» del capitale non è un evento, bensì una struttura.
L’economia di guerra serve ad allargare e a difendere con le armi vecchie e
nuove enclosures (terre, prodotti agricoli, fonti energetiche, “dati”, cavi
sottomarini, “minerali strategici”, sequenze di DNA, reti neurali…).
La guerra s’impone innanzitutto come parodia assassina della lotta di classe.
Non solo perché essa incorpora nei propri arsenali le vittorie contro i
salariati e i loro tentativi di emanciparsi dallo sfruttamento, ma perché si
basa sulla mistificazione totale del concetto di violenza. Si può forse dire, in
tal senso, che l’attuale incapacità di dar vita a un movimento disfattista
orientato a trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni, sia
direttamente proporzionale a quanta mistificazione è stata interiorizzata negli
ultimi decenni. Il vero dramma, infatti, non è tanto quello di uscire sconfitti
da un lungo ciclo di lotte, quanto quello di lasciarsi arruolare nel sistema di
valori del nemico. Senza una qualificazione etica e sociale delle tipologie di
violenza (violenza degli oppressori e violenza degli oppressi, violenza
coloniale e violenza anticoloniale, violenza indiscriminata e violenza
rivoluzionaria, violenza statale e violenza liberatrice) si è letteralmente
disarmati. La «guerra al terrore» con cui dal 2001 in poi gli USA e i loro
alleati (Stato d’Israele soprattutto) hanno esteso ulteriormente la loro
macchina bellica e predatrice – fusione tra Pentagono e piattaforme digitali,
sviluppo dei droni, giustificazione giuridica della «caccia al nemico
planetaria», ibridazione soldato-macchina ecc. – era stata condotta e vinta
prima sul piano interno grazie alla riqualificazione – mediatica, giudiziaria,
sociale – della sovversione armata (e a seguire di ogni conflitto reale) come
«terrorismo», cioè come violenza indiscriminata contro l’insieme dei cittadini.
Il genocidio a Gaza quale «diritto d’Israele all’autodifesa» e la resistenza
palestinese quale «barbarie» – il 7 ottobre come «pogrom», oppure, Gad Lerner
dixit, come equivalente della strage di Marzabotto – sono le espressioni più
ignobili di tale mistificazione. Nella violenza alle parole e alla loro storia
si riverbera sul piano dei concetti l’abisso senza fondo della corruzione
morale.
Oltre che tardiva, la constatazione di un Maurizio Lazzarato – «il pensiero
critico occidentale (Foucault, Negri-Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze
e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati,
lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non
avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per
intervenire» – confonde l’effetto con la causa. È la rimozione della violenza di
classe e della violenza rivoluzionaria – quando non, come nel caso di Negri, la
partecipazione attiva e premiata alla mistificazione sul concetto di
«terrorismo» – a spiegare l’imbroglio post-modernista più di quanto non sia il
contrario. Contro le sottili mistificazioni a cui è stato sottoposto lo stesso
pensiero benjaminiano, nelle Tesi sul concetto di storia è proprio la violenza
rivoluzionaria che secondo Benjamin può spezzare il continuum della catastrofe
storica, contrapponendo allo stato di eccezione fittizio (la dialettica tra
normalità ed emergenza, tra pace e guerra, tra il Diritto e la sua sospensione)
lo stato di eccezione effettivo (la fine dello Stato e del suo Diritto, della
sua guerra come della sua pace). Quando una guerra tra Stati e blocchi
capitalistici diventa una «resistenza popolare» (come se la lotta partigiana si
fosse basata sull’arruolamento forzato, come se usare una mitragliatrice contro
delle forze occupanti fosse la stessa cosa che lanciare un missile guidato da un
satellite contro una cittadina a centinaia di chilometri di distanza…); quando
la violenza di una popolazione imprigionata è paragonata alle stragi degli
eserciti di occupazione, il terreno è dissodato per ogni manipolazione.
L’appello lanciato da Michele Serra dalle colonne di “Repubblica” – a cui si
sono subito accodati PD, Cgil, Cisl, Uil… – allarga al piano internazionale una
mistificazione cominciata sul fronte interno. Se l’appoggio, malamente
mascherato dietro la «difesa dei valori dell’Europa», all’imperialismo e ai
piani di riarmo europei è «un capolavoro della propaganda, quel terreno infido
che giustamente è considerato uno degli elementi costitutivi della guerra, al
pari dell’artiglieria», lo stesso giornalista ci aveva già regalato in passato
un «capolavoro» non meno infido. Nel 2002, sempre sulle colonne di “Repubblica”,
Serra aveva scritto che gli spari delle nuove Brigate Rosse contro il
giuslavorista Marco Biagi (quella brava persona a cui dobbiamo la Legge 30, con
cui sono state rese ancora più precarie le condizioni di lavoro di milioni di
persone) avevano fatto riecheggiare per le strade felsinee il boato della bomba
esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. È difficile, benché la
concorrenza al riguardo sia sempre stata piuttosto agguerrita, immaginare un
livello di disonestà intellettuale e di falsificazione storica paragonabile.
L’uccisione di un consapevole servitore del capitale messa sullo stesso piano di
una strage fascista e di Stato che ha assassinato 85 ignari pendolari, ferendone
oltre 200. Una strage, tra l’altro, che aveva il significato materiale e
simbolico di suggellare nel sangue la sconfitta operaia alla FIAT avvenuta nello
stesso anno. Nemmeno i giornalacci più reazionari – nemmeno “Il Borghese” – sono
riusciti a raggiungere un tale Himalaya di infamia. Se un atto ben discriminato
di violenza di classe – quali che siano i giudizi sulle nuove Brigate Rosse,
sulle organizzazioni combattenti in genere, sull’“omicidio politico” – può
venire paragonato a una strage di gente comune, allora la prosecuzione della
guerra in Ucraina per non essere esclusi dalla sua spartizione può ben diventare
«difesa dei valori di libertà». E gli «antagonisti» che all’epoca si recarono ai
funerali di Biagi, oggi possono ben condividere le piazze con i reggicoda dei
guerrafondai. A conferma di come lo strabismo interessato sulle forme di
violenza sia la corruzione che contiene tutte le altre.
Resta di tragica attualità quello che la ventiquattrenne Simone Weil scriveva
nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933): «Il grande errore di quasi tutti gli
studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di
considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce
innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».
In attesa di ragionamenti più articolati, pubblichiamo questo volantino
distribuito durante il corteo a Rovereto del 22 febbraio. A fianco di un chiaro
posizionamento sul genocidio a Gaza e contro la militarizzazione del fronte
interno (dal DDL elmetto e manganello ai processi o inchieste per “terrorismo”
nei confronti di compagne e compagni), esso contiene – se così si può chiamare –
una proposta, tanto necessaria nella sua formulazione quanto difficile nella sua
declinazione pratica: spodestare con un movimento dal basso tutti coloro che
hanno scommesso sulla guerra in Ucraina: dai produttori di armi agli speculatori
sull’energia, dai giornalisti in divisa ai partiti – Fratelli d’Italia, PD,
Lega, 5 Stelle… – che sono saliti sul treno della distruzione-ricostruzione
bellica, treno dal quale il nuovo padrone Trump li sta scaraventando a terra per
andare da solo all’incasso. In tale direzione dovrebbero muovere i nostri sforzi
antimilitaristi, internazionalisti e disfattisti. Una direzione opposta, non c’è
bisogno di sottolinearlo, da quella di chi contrasta il DDL (ex) 1660
organizzando le piazze con i guerrafondai del PD, i loro reggicoda (Cgil, Arci)
e i loro collaboratori alternativi (AVS). Muti – dal primo all’ultimo – sulla
stretta di mano tra Matterella e Herzog, conferma e rinnovo, sui cadaveri e
sulle rovine di Gaza, dell'”amicizia tra Italia e Israele”. Che il genocidio e
la guerra spacchino in due la società!
Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione
Mentre il nostro amico e compagno Juan è sotto processo con l’accusa di «atto
con finalità di terrorismo» per un’azione che ha danneggiato l’ingresso della
Scuola di Polizia di Brescia nel 2015; mentre il partigiano palestinese Anan
Yaeesh si trova in carcere a Terni insieme a Juan con l’accusa di «terrorismo»
per aver partecipato alla resistenza contro soldati e coloni israeliani nei
territori occupati della Cisgiordania; mentre a 12 anarchici e anarchiche si
notifica l’ennesima inchiesta per «associazione con finalità di terrorismo»
condotta dalla Procura di Trento; mentre il governo Meloni vuole introdurre nel
Pacchetto Sicurezza il reato di «terrorismo della parola», Mattarella stringe la
mano del capo di Stato israeliano Isaac Herzog, rinnovando «l’amicizia tra
Italia e Israele». Herzog è lo stesso che aveva dichiarato – in una conferenza
stampa del 12 ottobre 2023, una settimana dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza
– che non c’erano palestinesi innocenti, che tutti gli abitanti della Striscia
erano complici, bambini compresi. Se la nozione di terrorismo ha ancora il
significato storico di violenza indiscriminata contro i civili, esiste oggi un
terrorismo più esplicito e feroce di quello compiuto dallo Stato d’Israele? Come
se non fosse bastato l’appoggio mediatico, economico, tecnologico e militare
fornito dalle istituzioni occidentali (e italiane) al genocidio del popolo
palestinese, l’amicizia rinnovata con Israele dopo l’assassinio di oltre
ventimila bambini a Gaza è un’infamia che niente e nessuno potrà mai cancellare.
Nelle parole della scrittrice palestinese Samah Jabr: «ferita, dolorante, in
lacrime e tradita, Gaza un giorno risorgerà dalle macerie e ci guarderà negli
occhi».
Poco dopo aver proposto di costruire a Gaza dei resort di lusso deportando più
di due milioni di palestinesi, Trump ha cominciato le trattative con Putin per
“congelare” il conflitto in Ucraina, tagliando fuori dai negoziati sia Zelenski
– prima servo utile, oggi ferro vecchio da rimpiazzare – sia l’Unione Europea,
le cui classi dirigenti avevano scommesso tutto sulla guerra contro la Russia.
Al punto che l’8 giugno 2023 l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi aveva
dichiarato al MIT di Boston: «Se Kiev non vince la guerra, sarà la fine
dell’Unione Europea». Per tre anni ci hanno raccontato che le sanzioni e l’invio
di armi in Ucraina avrebbero sconfitto la Russia (nascondendo, dietro la libertà
e il diritto all’autodeterminazione dei popoli, gli interessi del complesso
scientifico-militar-industriale occidentale). Ora che il nuovo padrone
statunitense ha chiarito senza fronzoli che in realtà si trattava di una guerra
di potenza per ridefinire le sfere di influenza e di una guerra di rapina delle
gigantesche ricchezze minerarie ucraine, traiamo delle conclusioni dal discorso
di Draghi. Hanno voluto la guerra (costata agli ucraini centinaia di migliaia di
morti e alle classi sfruttate europee miseria e militarizzazione sociale). E
l’hanno persa. Da chi si è arricchito con gli armamenti a chi continua a
speculare sull’energia, da Fratelli d’Italia al PD…, dobbiamo spodestarli tutti
con un vasto movimento dal basso. E poi?
Per quanto ci riguarda, per non sprofondare in una nuova guerra mondiale o in
una società-macchina del controllo totale, dobbiamo batterci per delle comunità
ecologiche, decentrate, basate sulla reciprocità delle decisioni e dei compiti,
in cui niente e nessuno – né uno Stato né un padrone né un computer – ci sgravi
del peso di pensare e di assumerci la responsabilità delle nostre azioni.
Rovereto, 22 febbraio 2025
anarchiche e anarchici
La pace della terra
Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza
dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era
questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della
terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa
salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In
genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da
un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai
boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La
«pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in
guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza,
andò perduto con il Rinascimento.
Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in
Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace,
economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione.
Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»:
che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in
cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che
la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il
tentativo stesso di esportarla significa guerra.
Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto
immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite
più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta
leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce
iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della
mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesti
tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno
portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi
della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e
distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza.
Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso
tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali
e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal
Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso
l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo
viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono
più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori
d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la
“bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto
reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i
data center e sottratta ai campi.
Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono
curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci
vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti
viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo»
(Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per
passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte
automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto
di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit
8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri
ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi
assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione
necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i
suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in
Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a
raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro
territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i
droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un
sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana?
Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina
con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso
a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui
ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di
sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce
l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema
aristotelico e marxiano, ma come un certo modo – localmente radicato, basato
sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di
affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (mangiare, stare al caldo,
crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro
punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è
la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi
non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione
che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle
monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi
comunitari.
La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci
nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la
ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi
dell’autonomia.
Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a
Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di
diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue»
va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi
mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa
amministra.
Vale per Monza, vale per Manhattan
Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di
quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di
vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di
messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole
“deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali
dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un
consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe
gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale
d’inizio di una più ampia guerra di classe».
Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era
l’ammazzato.
Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore
delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente
sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il
gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%,
seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese
celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese –
attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure
mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.
Quel “deny” è una risposta automatica per un sacco di gente e ogni giorno.
Lontano dai quartieri di lusso, in quegli ectoplasmi che non sono né campagne né
città, ma hinterland in mezzo al deserto, commesse, pulitori, operai, rider
fanno la fila per entrare in farmacie indistinguibili dai supermercati, con la
guardia armata all’entrata, in cui tutto – persino il dentifricio – è chiuso a
chiave dietro il vetro. Finita la fila, un addetto «che emana quel sottile
sentore di ammoniaca che fa pensare a una malattia endocrina» comunica che il
farmaco prescritto dal medico non può essere consegnato perché manca
l’autorizzazione preventiva da parte della compagnia assicurativa. Aggiungiamoci
anche il sentimento di essere delle cavie per l’industria farmaceutica (e per
Big data). Pensiamo per esempio alle terapie digitali, la cui
commercializzazione è stata autorizzata dalla Food and Drugs Administration nel
2017. A spingere la gente a ingerire farmaci-software dotati di nano-sensori
attraverso i quali il “tele-medico” può “monitorare” l’attività neuropsichica e
metabolica, è spesso il ricatto di evitare in tal modo una polizza assicurativa
più cara. In maniera più prosaica, dei dipendenti pubblici si trovano costretti
ad indossare un fit bit (un orologio digitale che misura il numero di passi),
altrimenti la UnitedHealthcare di turno può decidere di non assicurare chi ha
una vita considerata non sana sulla base dei dati forniti da quel fit bit…
Nella gioia per la morte di Thompson c’è tutto questo: cure negate, certo, ma
anche umiliazioni garantite da guardie armate, possibilità chiuse a chiave,
passeggiate obbligatorie, e una miseria che sa di ammoniaca.
Se poi il vendicatore è un giovane bianco, di bell’aspetto e di famiglia
benestante, laureatosi in una prestigiosa università, a cui si attribuiscono «un
manifesto politico anticapitalista», delle simpatie per Ted Kaczynski e dei modi
piuttosto gentili («Questi parassiti la devono pagare. Mi scuso per i traumi
provocati, ma andava fatto»), la sua «brutale onestà» (altra espressione
attribuita a Mangione) comunica un senso di riscatto e di speranza perché spezza
la più potente – se non la sola rimasta – ideologia contemporanea:
l’inevitabilismo.
Mettiamoci ora dal lato dei capitalisti, degli amministratori delegati e dei
tecnocrati. Al loro sentimento di costituire una razza superiore non
contribuiscono soltanto l’istruzione, i privilegi quotidiani e l’appartenenza a
una ristretta gated community. A un simile darwinismo sociale – lo stesso che ha
prodotto, storicamente, l’eugenetica – oggi si aggiunge qualcosa di inedito. La
possibilità di raggiungere, se non l’immortalità, una vita aumentata. Nel mondo
del transumanesimo realmente esistente, questa upper class spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea – che le si vende cara – di vivere fino a 120 anni. Questa nuova razza di
signori è pervasa quindi dal terrore di incidenti che possano ridurre il suo
capitale biologico, e possiede allo stesso tempo il potere di costruire una
società panottica a misura delle proprie paranoie. Per questi gated dreams, il
fantasma col cappuccio che si è materializzato in Avenue of the Americas, a
Manhattan, il 4 dicembre scorso, è un incubo umano, troppo umano.
Osservando quanto un solo gesto abbia polarizzato le passioni di un’intera
società, c’è di che riflettere. Se il giudizio di fatto è persino banale, quello
di valore non lo è affatto. Su questo abbiamo letto soprattutto formule
cautelative, distinguo, precisazioni (non richieste) di non voler fare né
apologie né istigazioni. E poi le immancabili tirate contro l’“individualismo” e
il “terrorismo”, oppure versioni “antagoniste” dell’inevitabilismo: morto un
amministratore delegato se ne fa un altro.
Per noi vale l’esatto opposto. L’azione violenta, quando è ben discriminata, va
sempre difesa. Poco importa che sia individuale o collettiva. Se, come in questo
caso, è addirittura cristallina, la difesa diventa essa stessa uno strumento di
propaganda rivoluzionaria.
È vero che a Thompson succederà un altro Ceo. Ma si può ripetere oggi quello che
l’anarchico Galleani diceva di Umberto I (il paragone non sembri esagerato,
perché il potere dei Thompson non è affatto inferiore). Il re ammazzato insegna
al suo successore se non altro la moderazione. La qual cosa va a pro di tutti
gli sfruttati. E sembra proprio questo il caso. «Appena il Ceo è stato
assassinato, Anthem Blue Cross (un’altra compagnia assicurativa) ha
immediatamente fatto marcia indietro su una nuova clausola che avrebbe messo a
carico degli assicurati eventuali tempi “extra” di anestesia». Le formule
“deny”, “delay”, “defend” si sono fatte magicamente meno arroganti, migliorando
un poco la salute degl’individui e della classe. Poteva riuscirci anche l’azione
collettiva? In astratto, sì. Nel concreto: quale?
Se ci auguriamo con tutto il cuore che i tre spari di Midtown Manhattan siano
davvero una «specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe»,
possiamo dire di Mangione quello che diciamo sempre dei nostri compagni
incarcerati: «Se è innocente, merita la nostra solidarietà. Se è colpevole, la
merita ancora di più». Anzi, per una volta, rinunciamo volentieri alle nostre
formule. Nega, difendi, detronizza. Mangione Libero!
Nocciola
Ad avvisarci dell’inizio della distruzione di massa non saranno le trombe del
Giudizio universale, ma qualche nomignolo elaborato dalla macchina
dell’eufemismo burocratico.
Se c’è un elemento che tutti i complessi scientifico-militar-industriali hanno
in comune è senz’altro l’ignobile creatività nel nascondere o banalizzare i
propri programmi, le proprie macchine, le proprie mosse sul quadrante dei
comandi.
«Soluzione finale della questione ebraica», prima di diventare
l’espressione-simbolo della produzione industriale di cadaveri, è stato
l’eufemismo con cui mascherarla. Nella macchina burocratica nazista, a cui IBM
ha fornito l’efficienza delle schede perforate, gli internati da avviare alle
camere a gas erano definiti «musulmani», mentre Sonderkommando («unità
speciale») era il nome per designare il gruppo di deportati costretti a
recuperare i capelli e gli eventuali denti d’oro dai corpi gassati («Aver
concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del
nazionalsocialismo», scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati). L’assassinio
di oltre duecentomila «improduttivi», «pesi morti della società» o «vite indegne
di essere vissute» è sgorgato da un programma che stava tutto in un sostantivo,
una lettera e un numero: Aktion T4 (come noto, T4 era l’abbreviazione di
Tiergartenstraße 4, via e numero civico di Berlino al cui indirizzo era situato
il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil-und Anstaltspflege,
la Fondazione di Beneficenza per la Salute e l’Assistenza sociale).
Come non ricordare, poi, i nomignoli con cui sono stati chiamati gli ordigni
atomici del Progetto Manhattan (alla cui produzione, giova ricordarlo, hanno
lavorato quasi seicentomila persone tenute all’oscuro di cosa stessero
fabbricando)? La bomba fatta esplodere il 16 luglio 1945 ad Alamogordo si
chiamava Gadget (così, come un orologio o un fermacarte), mentre il linguaggio
scelto per il test nucleare era iperbolico e biblico (Trinity). Almeno
duecentomila giapponesi furono disintegrati tra il 6 agosto (Hiroshima) e il 9
agosto 1945 (Nagasaki) da Little boy (60 kg di uranio-235) e da Fat man (6,4 kg
di plutonio-239).
Se il modello di ogni complesso scientifico-militar-industriale è stato forgiato
durante la Seconda guerra mondiale – vero e proprio laboratorio di cui il
presente è ancora un’appendice –, il suo sviluppo non ha fatto che
generalizzarne gergo. Non è forse degno di questa storia il calcolo scientifico
delle kilocalorie necessarie alla mera sopravvivenza della popolazione di Gaza?
(«Le formule numeriche contenenti le soglie massime e minime sono ciò che i
militari chiamano lo “spazio di respiro”, il tempo rimanente prima che le
persone inizino a morire di fame», scrive Eyal Weizman ne Il minore dei mali
possibili). Solo dei violentatori della lingua al servizio del dominio possono
chiamare «Arcobaleno», «Prime Piogge», «Piogge Estive», «Nuvole di Autunno»,
«Inverno Caldo», «Sorgere dell’Alba» delle operazioni di bombardamento, come è
accaduto con quelle realizzate dall’IDF contro gli abitanti di Gaza tra il 2004
e il 2022. Oppure chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di
bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto
d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal
2006 sempre contro i gazawi. O ancora dare il nome di Havatzalot («Gigli») a un
programma accademico-militare incentrato sull’intelligence di guerra e sul
combattimento tattico.
E non è forse in perfetta continuità con il Progetto Manhattan chiamare Habsora
(«Vangelo»), Lavender («Lavandaia») e Were is Daddy? («Dov’è paparino?») i
programmi di Intelligenza Artificiale con cui lo Stato d’Israele sta compiendo
il primo genocidio automatizzato della storia?
In risposta alle inutili (sul piano militare) e irresponsabili (sul piano delle
conseguenze per l’intera umanità) provocazioni da parte della NATO attraverso il
lancio di missili occidentali direttamente sul territorio russo, il complesso
scientifico-militar-industriale che fa capo al Cremlino ha scagliato contro uno
stabilimento militare ucraino un missile ipersonico. Questa “tipologia di arma”
viaggia alla velocità di 2,5 chilometri al secondo ed è in grado di colpire ogni
obiettivo in pochi minuti nel raggio di 5 mila chilometri, senza che l’apparato
militare della NATO – almeno nel Vecchio Continente – possa intercettarlo. Cosa
ancora più inquietante, questi missili, che l’esercito russo sta producendo in
serie, sono fabbricati per trasportare diverse testate atomiche. Quello
realizzato il 21 novembre scorso, insomma, è stato un vero e proprio test
balistico nucleare senza bombe atomiche. Un avvertimento al servo (il governo
ucraino) perché il padrone (la NATO) intenda. Un piano inclinato verso la guerra
nucleare, i cui mezzi di mutua distruzione (nella scommessa che l’altro si fermi
prima…) sono in realtà Mezzi assoluti, dal momento che qualsiasi nozione di Fine
presuppone ancora un mondo dove poter perseguire degli obiettivi. La dottrina
della “deterrenza nucleare” è allo stesso tempo l’apice della razionalità
strumentale (e della sua costitutiva amoralità) e la sua disintegrazione per
eccesso di potenza. Qualche analista militare (che epoca generosa per simili
professioni) ha paragonato il lancio del missile IRBM (balistico a raggio
intermedio) e MIRV (a testata multipla) al primo algoritmo di un programma
automatico. Si chiamava “Minaccia di Apocalisse” o “Inizio dell’Inferno”? No, si
chiamava Orešnik. «Nocciola».
Vari scribacchini dei media occidentali hanno parlato di bluff. Un missile che
viaggia a dieci volte la velocità del suono e che solo per un calcolo nella
logica della potenza non trasporta testate atomiche sarebbe una minaccia più o
meno retorica. Nei giorni successivi, infatti, sono stati lanciati contro il
territorio russo altri missili a lunga gittata di produzione occidentale (che
possono essere azionati, come quelli sganciati in precedenza, solo da personale
della NATO), nonostante il Cremlino si fosse già dichiarato “in diritto” di
colpire direttamente i Paesi che pianificano simili operazioni.
L’unica variabile che ci può salvaguardare dal fatto che in questo poker tra le
potenze qualcuno finisca per andare a vedere, è il crollo generalizzato del
fronte ucraino per l’insubordinazione del materiale umano e proletario da
mandare nel tritatutto della guerra. L’unica “linea rossa” che ci può
preservare dalla distruzione di massa è un movimento sociale e internazionale
contro tutti i complessi scientifico-militar-industriali, le loro Unità
Speciali, i loro Gadget, i loro Gigli, i loro Vangeli e le loro Nocciole.
Riceviamo e diffondiamo la traduzione dell’ultimo opuscolo del gruppo anarchico
“Assembly” di Kharkov:
opuscolo_diserzioneAssembly
Il 5 ottobre a Roma: un segnale
Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco
trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei.
Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti
statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre
nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un
cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo
uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo
scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni
vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della
resistenza palestinese.
È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un
ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale.
Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito.
Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati
verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile:
fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in
piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della
partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via
preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare
i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via
intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di
ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della
guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i
dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La
tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del
DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani,
sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le
manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo
spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano
letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200
black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita
alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca.
Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero –
come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per
tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo
accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di
specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha.
Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.