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Motivazioni
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante
dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che
servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi;
dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco;
di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice
«se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me»
Primo Levi, I sommersi e i salvati
«Il progetto è già attivo e attualmente in corso. Non ci si può ritirare a meno
di fornire delle motivazioni». È in questo modo che l’Università di Trento e
nello specifico il DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienze
dell’Informazione), attraverso le dichiarazioni del senato accademico, si
giustifica di fronte al fatto di non voler recidere alcun contratto con IBM
Israel, colosso tecnologico fondamentale allo Stato di Israele
nell’identificazione e la classificazione (con finalità di genocidio) dei
palestinesi.
Ora, non sono certo nuove le collaborazioni dell’Università di Trento con
l’industria e la ricerca belliche, ed in particolare con lo Stato di Israele, le
sue università e le sue aziende. Ma che, con un genocidio in corso, tali
personaggi non riescano proprio a trovare delle motivazioni per smettere di
esserne complici, ci sembra superi ogni misura umana. O meglio, ci sembra
esattamente conseguente alla “banalità del male” che pervade ormai ogni ambito
del complesso scientifico-militare-industriale e dei suoi collaboratori. È però
una seconda affermazione del senato ad essere forse ancora più emblematica, la
“seconda ragione” per cui non è da discutere la collaborazione in corso, e che
non si vergogna a definire “ragione di volontà”. «Sono presenti diversi accordi
con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti
umani e bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria», ci
spiegano. Sorprendendoci per l’insolita chiarezza (ma che mondo è quello che
vanifica persino il bisogno di lavarsi le mani sporche di sangue?) cogliamo
l’occasione per provare a tornare su alcuni ragionamenti.
Potrebbe sbalordire il fatto che IBM, per mezzo delle schede perforate del suo
fondatore Herman Hollerith, fu l’azienda fondamentale al Reich nazista per il
censimento degli ebrei e dunque al funzionamento dei campi di concentramento e
di sterminio. Ma se si prova a prendere in mano alcuni dei documenti che
certificano la nascita e la storia dello Stato d’Israele fin dall’immediato
dopoguerra, risulta invece tutto mostruosamente ordinario. I colpi di Stato
appoggiati da Israele, al fianco degli Stati Uniti, in mezzo mondo; la fornitura
di armamenti a dittature dichiaratamente naziste (come l’Argentina di Juan
Perón, che tra le altre cose torturò e uccise molti ebrei), ma anche al Cile di
Pinochet, al Sudafrica dell’Apartheid, al Guatemala di Ríos Montt*;
l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza testate sui palestinesi. Questa
è stata “l’accumulazione originaria” di Israele.
Il ruolo della Ricerca allora, come ci suggerisce il senato accademico, non è
quello di chiedersi quale fine possa avere un determinato studio o una
determinata collaborazione, bensì quello di mantenere un Sistema. Non importa se
a pagare il prezzo di una «firma che costa poco» siano donne, bambini, uomini,
popolazioni, interi territori. Ciò che non si deve interrompere per nessun
motivo è l’avanzare imperterrito della macchina del progresso tecno-scientifico.
Perché hanno ragione: bloccare certi accordi significa bloccare gran parte della
ricerca universitaria.
Allora forse bisognerebbe chiedersi in che tipo di mondo stiamo vivendo.
Riconoscere che se alla “Libertà di Ricerca” qui è legata la possibilità di
vivere o di morire altrove, il Sistema stesso che ne garantisce l’esistenza è il
cancro che ha costretto da tempo «la coscienza al bando», contribuendo con la
sua logica dell’efficacia alla “cosificazione” dell’essere umano.
Per provare ad interrompere questa marcia verso l’abisso bisogna allora
anzitutto mollare la presa («Ero troppo occupato ad affrontare il problema
tecnico dei miei forni per accorgermi di tutti quei cadaveri» dichiarò un
“lavoratore” nazista durante il processo di Auschwitz). Comprendere che la
guerra ha le sue retrovie e le sue zone grigie, con la primaria funzione di
essere vergognose fabbriche dell’obbedienza. La conoscenza tecno-scientifica è
un muro che divide il mondo poiché «qualunque potere si sostiene con strumenti
che hanno in ogni situazione una portata determinata» (Simone Weil), laddove il
ruolo dello Stato diviene fondamentale all’organizzazione e al mantenimento
dell’apparato, anche attraverso la pacificazione sociale e gli attacchi
repressivi.
Dunque agli Eichmann del nuovo millennio, a questa obbedienza cadaverica
(Kadavergehorsam la definì lo stesso Eichmann al processo di Gerusalemme),
possiamo solo dire che la loro mancanza di motivazioni per smettere di sostenere
un genocidio è il motivo stesso per cui sono i nostri nemici.
Agli incerti che ancora non riescono a sentire il ticchettìo e vedono “nel
migliore dei mondi possibili”, rappresentato oggi dall’“unica democrazia del
Medio-Oriente”, un inevitabile male minore, possiamo consigliare di guardare
altrove.
Un altrove che esiste nella forza straordinariamente umana della resistenza.
Nell’attacco alla mostruosa sicurezza che alimenta la catastrofe del presente.
Nella possibilità di guardare oltre i muri di cinta di una Società disumana.
Nella volontà di scavalcarli, quei muri, per provare a mettere qualcosa di
stra-ordinario «nel più ordinario dei giorni», quello nel quale «i subordinati
firmano tutto perché una firma costa poco».
Ecco dove noi preferiamo cercare le nostre motivazioni.
* Per approfondire si può leggere Laboratorio Palestina, di Antony Loewenstein
(Tratto dal foglio anarchico “Foravia”, numero 10, luglio 2025″)
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Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia
GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso
e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non
conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu, L’arte della guerra
«Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa
comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più
coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è
finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE
Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati
appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le
spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da
500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18
marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche
costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite
del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la
difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è
strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm
Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto
di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE).
Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo
anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di
infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti
senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia
di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e
sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150
miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che
questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra
eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano
operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la
Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente
di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del
parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di
utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di
coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati
ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei,
ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il
quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli
Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura
militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del
cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi
delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la
guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per
trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella
re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da
Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a
danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano
(anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle
misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in
Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa
nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente
reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori
attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e
sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni
esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia
patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di
mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda)
dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare?
Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune
coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato
che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e
tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e
dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe
dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una
accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle
e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e
soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di
pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente
contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno
di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della
tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta
2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale
dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli
americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare
l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in
Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto
Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come
le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod,
sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e
nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è
sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e
assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più
del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate
di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte
orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia
russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è
quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino
crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti
temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei
possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta
giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un
aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che
ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni
analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di
ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo
sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle
importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla
trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase
digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti
militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a
stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo
alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire
2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo
ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta
della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe
concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I
disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono
verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali
britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer,
lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali
nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di
titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko
(Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa
13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande
non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria
del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di
mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo
per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque
dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness
(cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con
l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei
padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica
Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò
un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato
cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale
di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari,
con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo,
equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo
principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al
mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma
anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il
rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni
agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende
agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital”
degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di
confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania,
tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di
controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo
stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo
fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi
chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato
al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi
definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti
cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più
antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni)
lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai
neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come
possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose,
indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra
della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato
controllato da nessuno.
Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si
incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali:
quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un
mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli
controllato dallo Stato turco.
Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in
quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche.
Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati
rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi
del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale.
La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente
questi obiettivi.
Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per
aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad
esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare
affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di
entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare
che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto
da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari,
aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di
Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di
casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi
dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente
sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo
sfruttamento dei fondali di questo pelago.
L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare
gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro.
Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in
fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la
Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il
99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400
cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il
controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica
orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza
degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare,
capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e
classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra
Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse,
tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino
al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo
(genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra
classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina
della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare
dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per
l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e,
soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e
provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di
più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità
insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”,
ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi
contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi
(sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe
stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di
dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo
(dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet
sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di
produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e
i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare
detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali
(come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di
valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi
totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan,
Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab
al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo
Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla
Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri
padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e
capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella
rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina
questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a
questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di
capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei
territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni
a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o
semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro
caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri
padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più
sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero
spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile
conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo
utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le
possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della
storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya).
Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa
nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le
occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del
Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni
territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del
capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto
più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità
soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree
rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione
situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in
sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di
cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte
politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di
Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei
territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata
dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa
maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in
un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità,
purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri
nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la
Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della
rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come
nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di
contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente
esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno
aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli
Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i
loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le
possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo
interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica
la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle
lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola
in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e
frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più
facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto
occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza
post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno
presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che
si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo
specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia.
Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due
blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli
avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo
di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione.
Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante,
invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le
contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui
degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori
e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una
città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente
per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i
prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo
più», commenta un tassista di Bucarest.
Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto
di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei
capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per
rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si
sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra
prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è
fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta
passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e
borghesie europee con la classe dominante statunitense.
“Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase
celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del
padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire
dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto
agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli
avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico.
Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini
alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del
continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato
slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più
della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e,
paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi
sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea.
Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in
maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump).
L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente
l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio
del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione
di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali
del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora
funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e
Ungheria.
Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo
repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi,
accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio
continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”,
e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per
la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta”
sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4
anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo
europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui
rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad
occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono
cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al
conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico)
fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti
compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed
energetico.
L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per
l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della
dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli
States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni
verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una
fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati
Uniti.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando
l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico:
il padronato mandarino.
La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra
sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con
la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano
imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA
abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese,
che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato
statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della
strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che
serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno
per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che
caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia,
si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di
Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la
guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran.
Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto
riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato
sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra
Stato indiano e statunitense.
La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA
è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato
pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese
(fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un
eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana
cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale.
Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di
Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe
significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e
scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a
partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro
l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi
climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il
conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano
internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del
carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al
consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi
strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe.
Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che
abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle
rotte che attraversano il Mar Artico.
La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi,
statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci.
Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e
petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni
un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a
che fare con un fattore: il cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto
l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e
militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”.
La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal
militarismo statunitense.
L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a
nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più
navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento
delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari.
Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati
“materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio.
Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza
degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo
scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa
all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità
alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i
fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici
si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della
pesca di Nuuk.
La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei
suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno
scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato
dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le
proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e
delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze
sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese.
La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione
strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle
riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di
risorse ittiche e minerali rari.
Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico,
coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei
fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della
società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti
questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data
la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica
digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che
«puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il
flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali
sottomarine».
La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già
quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale
dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento
dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con
una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala
commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la
distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso
dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così
l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra
al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più
palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni
proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo
è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane?
Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun
fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a
warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese
per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo.
L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5%
del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme
all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti
che articolano il riarmo europeo.
Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e
capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione
della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi
a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e
la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza
tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la
rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni
sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il
mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un
nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può
essere alle porte.
Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere.
«Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi
dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori.
E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo
desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di
libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati,
ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni
altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
Gaza non è un’ingiustizia a fianco di altre, bensì l’orrore che le contiene e le
compendia tutte. Il genocidio in corso ricapitola la violenza fondativa di ogni
Stato e ci mostra in diretta l’«accumulazione originaria» del capitale –
l’esproprio coloniale della terra, la guerra alla sussistenza, la violenza
sistematica contro le donne e i bambini, la streghizzazione dei refuseniks e dei
non-allineati, lo sviluppo delle tecno-scienze, l’esperimento permanente sul
materiale umano –, equipaggiata di tutti gli strumenti che un Progetto Manhattan
fattosi mondo ha elaborato dal 1945 ad oggi. A Gaza possiamo vedere nitidamente
che «il nemico è la nuova potenza che dispone degli antichi emblemi» (Karl
Kraus). Se volessimo riassumere tutto ciò in una sigla: International Business
Machines (IBM). Il colosso statunitense dell’informatica – il cui programma
completo si chiama niente meno che Smart Planet – raccoglie e gestisce i dati
biometrici del popolo palestinese per conto dello Stato israeliano, dopo aver
fornito le proprie schede perforate alla macchina di sterminio nazista.
L’esistenza stessa di IBM Israel tradisce ignominiosamente la memoria della
Shoah nel perfezionamento high tech di una nuova Nakba.
Gaza è il simbolo concreto di tutte le oppressioni, ma anche l’equivalente
generale delle resistenze. È la vita che si sostiene con il niente che trova, è
lotta armata, Sumud, memoria storica e poesie di lancinante bellezza. Nelle
testimonianze da Gaza incontriamo sconosciuti Ungaretti che si appoggiano a
«brandelli di muri« (dei loro famigliari non è rimasto nemmeno tanto) o ad
«alberi mutilati», sconosciuti Picasso che rappresentano, insieme a quello
umano, lo strazio degli asini, sconosciute Rosa Luxemburg che soffrono nel
vedere picchiare quegli animali mansueti quando, esausti, non riescono più ad
avanzare sotto il peso di case racchiuse nei bagagli, sconosciute Ingeborg
Bachmann che non rinunciano alla magia delle parole nemmeno dentro la «linea del
fuoco».
Quello in solidarietà con la resistenza palestinese è, con tutte le sue
insufficienze, il più vasto movimento internazionale degli ultimi decenni. Non
c’è continente in cui masse di diseredati o minoranze più o meno numerose non si
sentano coinvolte. Anche quando non incide direttamente sulle vite quotidiane di
milioni di persone, il dolore che si leva dalla Striscia non può non penetrare
nella sostanza psichica dell’umanità.
Si tratta di un terribile banco di prova della nostra reale consistenza e
insieme un anticipo delle capacità disfattiste di fronte alla guerra prossima
ventura.
Quando persino una relatrice dell’ONU parla di «economia del genocidio»,
elencando aziende le cui sedi e i cui addentellati sono ovunque, non si può
certo dire che manchi il «materiale infiammabile» per agire in modo diretto e
risoluto. E chi, con un minimo di buona fede, potrebbe dire «non sono questi i
mezzi»? Quando tutti gli Stati – tanto in ambito NATO come in quello dei BRICS –
sono complici o al meglio spettatori passivi; quando il Diritto internazionale è
una barzelletta insanguinata; quando anche coloro che praticano l’azione diretta
nonviolenta diventano un’«organizzazione terroristica» (come nel caso della
messa al bando di Palestine Action in Gran Bretagna); quando si ammazzano i
bambini in fila per un po’ d’acqua.
Quale che sia l’angolo d’attacco che consideriamo prioritario, non vedere nel
genocidio dei palestinesi il cuore di un mondo senza cuore è una distrazione
dello sguardo o una pigrizia dell’anima.
Vogliamo lottare contro il razzismo di Stato? Gaza.
Vogliamo contrastare l’economia di guerra e la militarizzazione sociale? Gaza.
Non vogliamo separare emancipazione femminile e resistenza anticoloniale? Gaza.
Vogliamo metterci di traverso rispetto alla furia estrattivista ed ecocida del
capitalismo? Gaza.
Vogliamo combattere la tortura del carcere e il carcere come tortura,
solidarizzando con le compagne e i compagni prigionieri? Gaza.
Vogliamo opporci alle smart city e alla società dei varchi? Gaza.
Ci battiamo per un’agricoltura contadina contro le nuove enclosures genetiche e
digitali? Gaza.
Siamo inorriditi dal cibo in laboratorio e dalla riproduzione artificiale
dell’umano? Gaza.
Cerchiamo un nesso tra la profilazione di massa e lo sterminio algoritmico?
Gaza.
Odiamo gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Peter Thiel e il neo-feudalesimo che ci
stanno apparecchiando? Gaza.
Nella solidarietà attiva e internazionalista con gli oppressi palestinesi, come
anarchiche e anarchici, in particolare, abbiamo l’occasione di rievocare e
attualizzare le pagine migliori della nostra storia.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’Indonesia a
Cuba, quelle anarchiche sono state le idee rivoluzionarie più influenti nei
movimenti anticoloniali.
Anarchiche e anarchici furono tra i primi a ribellarsi, nel 1896 in Italia,
contro l’aggressione imperialista all’Abissinia al grido di «Viva Menelik!»,
«Abbasso Crispi!», «Via dall’Africa!», contribuendo a un moto popolare che ha
bloccato i treni militari, assaltato le caserme, liberato i coscritti. E lo
stesso avvenne nel 1911 con l’occupazione coloniale della Libia, quando la
campagna per liberare Augusto Masetti (il soldato anarchico che sparò al
colonnello Stroppa urlando «Abbasso la guerra, viva l’anarchia!») fu un fulgido
esempio di agitazione antimilitarista. Per non parlare del ruolo decisivo
giocato durante la «settimana rossa», che è stata anche e soprattutto
un’insurrezione contro i signori dello sfruttamento e della guerra. Durante la
disfatta di Caporetto del 1917, provocata dal più vasto «sciopero militare»
della storia italiana, il movimento anarchico spinse – tra l’immobilismo e
l’ignavia del Partito socialista (con l’eccezione della sua Federazione
giovanile) – per trasformare la rivolta dei fanti contadini e operai in
insurrezione contro la guerra e contro lo Stato. Persino durante l’occupazione
dannunziana di Fiume, Malatesta e altri compagni tentarono – kairós impervio
come pochi altri – di guadagnare al movimento proletario «quel vago
sovversivismo ancora incerto tra la nostalgia della trincea e il richiamo della
barricata». E anche durante la rivolta di Ancona del 1920, scoppiata per
impedire le partenze coatte dei soldati verso l’Albania, anarchiche e anarchici
diedero il loro generoso appoggio.
Allargando lo sguardo, non molti sanno che la rivolta libertaria e
antiburocratica del Maggio francese fece esplodere quella rottura con i
sindacati e il Partito comunista maturata durante la guerra d’Algeria, un’atroce
campagna coloniale disertata da centinaia di migliaia di giovani e sostenuta dal
PCF e dalla CGT.
E potremmo parlare dell’anima internazionalista e libertaria dei Gari, del
Movimento 2 giugno, delle Rote Zora…
Quelle idee, quei sentimenti, quelle storie possono oggi darsi appuntamento
pubblico e segreto con un «comunismo dello spirito» che raramente nella storia
recente è stato così universale.
Gaza è il nome proprio della rabbia, del bisogno di riscatto, del desiderio di
giustizia. Invoca amore e chiede vendetta.
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”,
dell’estate 2025.
Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires:
disfare@autistici.org
* 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su)
* 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards)
* 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de
3 exemplaires)
Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale
Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del
Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
Nel più ordinario dei giorni
Per scrivere una poesia non politica
devo ascoltare gli uccelli
e per sentire gli uccelli
bisogna far tacere gli aerei da caccia.
(Marwan Makhoul, Versi senza casa)
Apocalisse non è
l’immane violenza.
Quella è già qui
nel più ordinario dei giorni.
Apocalisse è
non produrre né maneggiare
oggetti che incorporano
il sudore e il sangue degli schiavi
la materia estratta a forza dalle viscere della Terra
la distanza orbitale dei satelliti
i cavi che cingono il Pianeta
il lavoro invisibile di milioni di donne.
Apocalisse è
rendere commensurabili
gesti e conseguenze,
prodotti e mondo.
Nella quiete dei laboratori si trasformano
«aree di smercio in campi di battaglia,
perché questi a loro volta divengano aree di smercio».
La quiete dei magazzini
«lavora sul corpo e sulla psiche delle vittime.
Non fa in tempo a impacchettare un’impresa
che già si accinge a nuove confezioni,
non lascia finire una guerra senza gettare le basi
dei campi di concentramento
che fioriranno nelle successive».
Apocalisse non è
l’immane violenza.
Quella è già qui
nel più ordinario dei giorni.
Non arriverà alcun salvatore
perché
nostro padre che è nei cieli,
è soltanto un aereo da caccia,
nient’altro
tranne colui che sta a bordo,
che è venuto a cacciarci
e ha centrato la nostra sottomissione
(Marwan Makhoul, New Gaza).
Apocalisse non è
il trionfo della Giustizia nella Storia.
L’apocalisse
– rottura dell’ordito storico,
rivelazione della sua infamia –
è da sempre il respiro della creatura calpestata.
Avremmo bisogno oggi
di un’apocalisse anders (cioè diversa).
Di un nuovo pauperismo
che si prefigga,
nella società della dismisura,
un obiettivo terra-terra,
il compimento di una promessa ben poco eroica.
Non dire più, come Élisée Reclus al fratello Élie,
poco prima di smettere di insegnare ai figli
di un proprietario di schiavi nella Louisiana:
«Anch’io tengo in mano la frusta».
Per una finalità così modesta,
per un’aspirazione tanto umile,
bisogna interrompere il mondo.
Forse non diventeremo migliori,
ma almeno smetteremo
di produrre e maneggiare,
nel più ordinario dei giorni,
oggetti che siano più disumani di noi.
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: iran israele definitivo-1
FIN QUANDO CI SARA’ UNO STATO NON CI SARA’ MAI PACE
Presa di posizione dell’assemblea “Sabotiamo la guerra” sulla guerra
Israele-Iran
L’attacco sferrato da Israele all’Iran la notte tra il 12 e il 13 giugno
rappresenta una svolta drammatica verso la mondializzazione della guerra. Dopo
oltre tre anni di guerra tra NATO e Federazione Russia in Ucraina, dopo due anni
di genocidio in corso a Gaza, le forti tensioni in Asia Occidentale sfociano in
una nuova guerra fra potenze regionali, entrambe in possesso di armi altamente
tecnologiche, entrambe dotate di una industria nucleare, e che si è
immediatamente aperta con uno spregiudicato quanto criminale attacco proprio
contro le strutture nucleari iraniane.
Da una parte, vi è l’Iran che non dispone di armi atomiche né esistono prove che
le stia costruendo e che si sottopone ai controlli delle agenzie internazionali.
Dall’altra, Israele, che possiede armi atomiche senza dichiararle, non rispetta
trattati né accetta controlli e compie abitualmente attacchi militari senza
porsi alcun limite etico.
Se il diritto internazionale e le organizzazioni che lo rappresentano hanno
avuto la funzione di garantire l’ordine mondiale, cioè precisi rapporti di forza
e di dominio tra gli Stati, oggi, il fatto che vengano messi in discussione, in
primis da Israele e dagli Stati uniti, è un chiaro segnale della crisi globale,
della rottura dei precedenti equilibri e di ritorno alla guerra come mezzo di
risoluzione delle rivalità interstatali.
L’Iran è stato attaccato poco dopo essersi sottoposto a controlli dei suoi
impianti nucleari e durante le trattative con gli Stati Uniti in merito
all’arricchimento dell’uranio. Risulta evidente l’intento di Israele di fare
fallire le trattative e ogni ipotesi di risoluzione politica dei dissidi.
I Paesi alleati hanno immediatamente operato per respingere il contrattacco
iraniano, abbattendo decine di razzi e droni, mentre si corre il serio pericolo
di una partecipazione diretta dei Paesi occidentali (a partire dagli USA) nei
bombardamenti. Il che rappresenterebbe un’ulteriore drammatica precipitazione
della crisi.
Gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno condotto la cosiddetta “guerra
infinita”, una serie ininterrotta di guerre, attacchi militari e operazioni di
destabilizzazione (dall’attacco all’Iraq al cambio di regime in Siria).
Attualmente i loro obiettivi si espandono su diversi fronti: quello Russo,
quello dell’intera Asia Occidentale e, in prospettiva, quello
dell’Indo-Pacifico. I conflitti in corso si stanno estendendo e ne nascono di
nuovi, in una tendenza verso la guerra mondiale che allo stato dell’arte appare
inarrestabile. Sullo sfondo si profilano tensioni sia politiche che militari fra
gli Stati Uniti e la Cina.
Nel mentre, all’interno dei Paesi occidentali e in particolar modo proprio
all’interno della potenza dominante nordamericana, sono in corso gravissime
crisi sociali che talvolta sembrano assumere i connotati della guerra civile.
Sappiamo che storicamente gli Stati risolvono le loro più gravi crisi interne
con la guerra.
Tornando alle vicende di questi giorni. La responsabilità di questa nuova e
gravissima esclation risiede nell’iniziativa criminale dello Stato di Israele.
Un’entità fondata sul colonialismo di insediamento, sul suprematismo razzista,
sul fanatismo religioso, sulla militarizzazione della società, avanguardia nelle
tecnologie di controllo e nella sua sperimentazione sulla popolazione
palestinese colonizzata, deportata e sterminata. Nell’azione del 7 ottobre 2023,
fra le varie contraddizioni che ha aperto, c’è sicuramente quella di aver
smascherato il vero volto di questa entità. Israele sta mettendo in atto un
genocidio, ma non riesce a sconfiggere la resistenza di un popolo,
contraddizione che prova a sublimare rilanciando con sempre nuove avventure:
dall’invasione del Libano alle innumerevoli provocazioni anche a carattere
terroristico, fino agli eventi di venerdì notte.
Bisogna quindi ribadire con forza che a Gaza è in corso un genocidio: dobbiamo
fare in modo che questa nuova guerra non serva a nasconderne il compimento.
Israele è, da un lato, la punta di lancia dell’imperialismo occidentale e
l’attore che da decenni svolge il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti e
dell’Europa; contemporaneamente, però, la sua leadership politica fuori
controllo è in grado di condizionare a suo vantaggio le politiche delle potenze
occidentali. I nostri governanti sono pienamente corresponsabili delle atrocità
commesse da Israele, senza il sostegno di queste potenze Israele non potrebbe
condurre le proprie avventure militari e forse nemmeno sopravvivere.
L’opposizione intransigente al progetto sionista non ci porta però a sostenere
la repubblica islamica dell’Iran. Una potenza regionale, con una oligarchia di
petrolieri e un’industria, anche militare, molto sviluppata. Non parliamo
“semplicemente” di un’odiosa teocrazia, che tortura e impicca gli oppositori e
opprime in particolar modo le donne, elemento che ama sottolineare la propaganda
liberale occidentale. Parliamo di un regime che mette il suo potere oscurantista
al servizio della propria borghesia per reprimere nel terrore le lavoratrici e i
lavoratori.
Si pensi, per fare un esempio fra i tantissimi che potremmo citare – che in
qualche modo ci parla tanto della misoginia quanto del classismo all’interno del
regime – al caso della sindacalista Sharifeh Mohammadi, condannata a morte per
la sua attività di coordinamento con gli scioperi radicali che sempre più spesso
negli ultimi anni hanno attraversato il Paese.
Dal 2005 oltre 500 sindacalisti sono stati arrestati, imprigionati, o in alcuni
casi condannati a morte ed espulsi per aver creato un’organizzazione sindacale
indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e
degli standard internazionali sul lavoro.
In una guerra fra tali odiosi regimi, gli unici eroi sono i disertori.
Come anarchici e rivoluzionari ci auguriamo la caduta del governo teocratico
iraniano, un regime oppressivo che è sorto soffocando nel sangue una generazione
di compagni rivoluzionari. Allo stesso tempo sappiamo che un regime deve cadere
sotto i colpi dell’insurrezione autenticamente popolare, mentre i cambi di
regime progettati e attuati dai capitalisti occidentali, come la storia recente
insegna, non fanno che sostituire un oppressore con un oppressore ancora più
feroce e asservito alle potenze straniere, trasformando interi paesi in inferni
sulla terra. Tenendo presente tutto ciò, invitiamo tutti i rivoluzionari e le
persone di buona volontà a guardare con gli occhi ben aperti a un possibile
sommovimento in Iran (che è al momento il principale obiettivo strategico di
Israele), stando ben attenti a distinguere il grano dal loglio e a non abboccare
a quelle false flag che sono da oltre un decennio le principali armi del soft
power occidentale per corrompere e cooptare il dissenso, portandolo sul terreno
altamente compatibile dei “diritti” liberali. In ogni caso, se anche si
producesse un autentico moto di classe (non impossibile in un Paese in cui gli
ayatollah sono andati al potere incarcerando e impiccando i rivoluzionari),
questo non dovrebbe spostare di un millimetro la nostra opposizione
intransigente al Sistema-Israele e a tutto l’imperialismo occidentale che lo
nutre.
In generale, in una guerra tra Stati, tanto più se questi sono potenze regionali
con importanti alleati internazionali, gli oppressi non hanno alleati né amici
tra i governanti, ma sono solo carne da cannone per le loro sporche guerre.
Convinti che fin quando ci sarà uno Stato non ci sarà mai pace, la nostra
posizione rimane quella internazionalista: contro ogni Stato, a partire dal
nostro. Quindi, dal nostro lato del fronte, non vogliamo sottacere le
responsabilità del governo e dei padroni italiani, che hanno le mani sporche del
sangue palestinese. Non possiamo dimenticare che la marina militare italiana
dirige l’operazione Aspide, coordinando una coalizione a cui partecipano sette
Paesi dell’Unione Europea: il compito di questa missione è contrastare l’azione
yemenita che, attaccando le navi, è riuscita a lungo a bloccare un’importante
via di comunicazione commerciale e a recare un fortissimo danno all’economia
mondiale, mettendo in atto una delle più efficaci forme di sostegno e
solidarietà alla popolazione di Gaza.
Il governo italiano offre a Israele un appoggio politico incondizionato.
L’esercito italiano e quello israeliano sono sempre più integrati, i militari si
addestrano reciprocamente, l’industria bellica italiana è il terzo esportatore
verso Israele (dopo Stati Uniti e Germania), mentre l’Italia compra dall’alleato
sionista sistemi d’arma ad alta tecnologia. Finanche le amenità del Bel Paese
sono uno dei luoghi prescelti da Israele per la “decompressione” dei propri
militari dopo i combattimenti.
I servizi segreti italiani condividono informazioni e tecnologie con gli
apparati israeliani, come dimostra da ultimo il caso Paragon. Non dimentichiamo
peraltro come la magistratura italiana sia schierata a supporto della
repressione israeliana. Come dimostra lo scandaloso processo in corso all’Aquila
contro Annan Yaeesh che vorrebbe far passare la resistenza armata palestinese,
legittima anche per il diritto internazionale, per terrorismo. L’Italia supporta
la logistica militare di Israele, come avviene con l’approdo nei porti italiani,
ad esempio delle navi ZIM, e la ricerca tecnologica finalizzata alla supremazia
militare, come avviene in numerosi atenei.
Ormai nei mezzi di comunicazione di massa italiani è quasi impossibile ricevere
informazioni che non siano sfacciata propaganda di guerra. Questi mezzi di
comunicazione sono parte integrante della macchina bellica, affermazione che è
rafforzata dalla considerazione che nell’attuale strategia di guerra occidentale
sempre più frequentemente lo spettacolo determina le scelte sul campo.
Nonostante una propaganda martellante gli sfruttati sono generalmente contrari
alla guerra, in particolare il genocidio di Gaza ha profondamente scosso
l’opinione pubblica; ma non basta una ribellione delle coscienze. Peraltro la
classi più povere delle società occidentali stanno già pagando a caro prezzo il
costo della guerra: dall’inflazione alla repressione. Di recente, il capo della
NATO Rutte ha affermato che se gli europei non vogliono tagliare la loro spesa
sanitaria a favore di quella militare (l’obiettivo dichiarato è di raggiungere
il 5% del PIL!) allora dovranno imparare a parlare russo. D’altro canto, le
politiche repressive sempre più efferate dei nostri governanti, di cui il
pacchetto sicurezza di recente approvazione (dove si reprimono i blocchi
stradali, i picchetti sindacali, le proteste in carcere, anche in forma
pacifica, e si introduce il cosiddetto “terrorismo della parola”) è soltanto il
più recente e probabilmente non definitivo approdo, vanno lette a tutti gli
effetti come delle vere e proprie politiche di guerra, anche alla luce di quelle
tensioni sociali di cui si faceva cenno.
Nei prossimi mesi sarà importante per anarchici e solidali saper collegare la
resistenza contro questa offensiva (così come la solidarietà con i nostri
compagni in varie forme perseguitati) alla lotta complessiva contro la guerra,
di cui queste operazioni sono la manifestazione sul fronte interno.
La propaganda sempre più faziosa e pervasiva, il cablaggio tecnologico delle
facoltà critiche, le sconfitte storiche del movimento operaio, una certa
predilezione per l’autoisolamento da parte delle minoranze agenti, al momento
pesano sul senso di impotenza e rassegnazione. Lo stesso livello tecnologico
della guerra guerreggiata – si pensi al confronto aeronautico e balistico tra
Israele e Iran, per non parlare delle tecnologie messe in campo da NATO e Russia
in Ucraina – spinge verso un sentimento di ineluttabilità, nell’impossibilità
per le umane forze degli sfruttati di fare qualcosa per fermarli. Eppure la
variante umana e di classe è determinante.
Sono le braccia dei portuali a caricare le armi sulle navi dirette a Israele:
quelle braccia, come ci hanno mostrato in Marocco, a Marsiglia, a Genova,
possono decidere di fermarsi. Sono i corpi dei proletari russi e ucraini a
venire gettati nelle trincee, a massacrarsi vicendevolmente per gli interessi
delle classi dirigenti russe e statunitensi (mentre Putin e Trump dialogano
amabilmente al telefono); eppure quei corpi possono disertare, e lo fanno a
decine di migliaia.
La resistenza armata del popolo palestinese, che non ha amici tra le grandi
potenze, riesce con la propria volontà e la propria azione ad opporsi ad una
delle più terribili e avanzate macchine belliche presenti sula terra. Israele ha
un dominio tecnologico esorbitante, eppure vediamo come i combattenti
palestinesi riciclano le bombe inesplose del nemico per farne degli ordigni
artigianali. La fantasia degli oppressi non conosce confini. E gli oppressi,
come diceva Errico Malatesta, sono sempre in condizione di legittima difesa, i
mezzi da adoperare, purché coerenti con i fini dell’uguaglianza e della libertà
per tutti gli esseri umani, sono solo una questione d’opportunità.
Dal nostro lato dei molteplici fronti, lottiamo per la disfatta del nostro
campo: per la sconfitta della NATO, per la distruzione del sionismo.
Trasformiamo la guerra dei padroni in guerra contro i padroni!
Assemblea “Sabotiamo la guerra”
«Un progetto esplicitamente apocalittico»
Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al
capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli
Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A
parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista
fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus
statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus
Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo
che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti
sono un progetto esplicitamente apocalittico».
Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che
consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata
sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella
rivoluzionaria.
Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di
apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene
insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve
interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La
distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non
assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe,
eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso
si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo
uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa
tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo
nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e
nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine
“intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi
all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che
tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento
che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della
materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente
apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma
la sua interruzione e il suo disvelamento.
Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che
«l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto
il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il
punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale
della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra
il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per
andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce
al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che
s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione
nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e
l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore.
Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per
tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata
letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo
si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben
presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli
anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la
promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della
rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a
leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli
abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui
esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani
in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel
linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto
apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale,
se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai
santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come
ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è
semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala
a pioli.
«Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in
spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta
la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il
tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico
è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo
cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci),
sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente
immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente
raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice
ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre
vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero
dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del
capitale.
O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita.
Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in
un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare.
L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento
rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento
internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi
ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente
apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo
importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con
il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro
partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non
può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa
vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non
solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli
nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di
terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente,
«oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono
stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e
d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e
«Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la
polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il
fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla
violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non
è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica
pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa
mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di
apocalittico.
Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della
modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri
colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce
con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica)
– è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo,
perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua
incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo
di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha
accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i
pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli
Untermenschen del presente e del futuro.
Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una
tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse
verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole
sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche,
Frammenti postumi 1887-1888).
Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che
sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e
per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti»
russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti
contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e
gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e
rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow,
cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora
sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma
per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco.
E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo
partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce
dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti
rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.
Cosa fare, nella sezione “semi-liberi” di un carcere, contro l’orrore di Gaza?
Il nostro amico e compagno Massimo ha deciso di partecipare allo sciopero
generale “Fermiamo il genocidio” (proclamato nella provincia di Trento da due
sindacati di base per il prossimo 30 maggio). Nel suo caso, uno sciopero “un po’
paradossale”, perché consiste nel rimanere in carcere invece di uscire per
lavorare. Il testo che segue ne spiega le ragioni.
Preferisco di no
Benché nella mia esistenza non abbia trascorso che una manciata di anni recluso,
si tratta comunque di molto più tempo di quello che ho passato lavorando come
salariato. Di conseguenza, tra i metodi di lotta che ho praticato non rientrava
fino ad oggi lo sciopero, se non nella forma indiretta dell’appoggio solidale. I
casi della vita (e della repressione) fanno sì che in questo momento io sia
contemporaneamente un lavoratore dipendente e un detenuto in semi-libertà (o
semi-prigionia). Mi trovo quindi nella situazione un po’ paradossale di poter
scioperare, scegliendo di non uscire dal carcere per farlo.
Lo sciopero generale “Fermiamo il genocidio” indetto a livello provinciale dai
sindacati di base Cub Trento e Sbm per venerdì 30 maggio me ne dà l’occasione.
L’orrore di Gaza, la cui violenza genocida sta oggi assumendo i caratteri della
vera e propria soluzione finale, è un pungolo fisso che sento nel costato e
nello spirito. Da quando sono qui non ho smesso di chiedermi cosa posso fare che
abbia un minimo di senso. Non perché m’illuda di poter mettere chissà quale peso
sulla bilancia della storia, ma perché non posso accettare che la
normalizzazione del massacro guadagni terreno nella mia coscienza. Rinunciare a
qualche ora di “libertà”, standomene in carcere con indosso una maglietta sulla
resistenza palestinese e una kefiah, mi accomunerà se non altro a quei milioni
di persone nel mondo che non sanno esattamente cosa fare ma che non possono far
finta di niente.
Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh ha scritto, nella sua potente e
commovente dichiarazione, di sentirsi un privilegiato rispetto al suo popolo
stretto tra le bombe, la fame e la violenza assassina dei coloni. Se è un
“privilegio” per un palestinese la prigionia nella sezione di Alta Sorveglianza
di Terni – la stessa in cui è rinchiuso il mio amico e compagno Juan –, la mia
condizione è allora un doppio privilegio. Se sono convinto che senza azioni
diffuse e risolute non si può spezzare l’infame complicità dello Stato e del
capitalismo italiani (delle loro fabbriche di armi, delle loro banche, dei loro
porti, della loro logistica, dei loro centri di ricerca, delle loro università)
con il regime sionista, mi piace la proposta di uno sciopero economico, sociale
e umano, perché la non-collaborazione individuale e collettiva è parte
necessaria di un movimento internazionalista di solidarietà. L’anarchico
francese Albert Libertad lo chiamava, più di un secolo fa, «sciopero dei gesti
inutili». Se generalizzato, lo sciopero dalle attività anti-ecologiche e
anti-sociali su cui si fondano e con cui si riproducono lo Stato e il capitale
potrebbe sfidare il più oppressivo dei regimi. Il punto è che nella storia la
non-collaborazione non è mai riuscita a sottrarre così tanta legna da spegnere
il fuoco del potere – di qui la necessità di altre pratiche di resistenza e di
lotta. Ad ogni modo, l’espressione «preferisco di no» è il lievito di ogni
rivolta morale – sempre possibile, anche quando si è all’angolo (o in una
cella).
Nel ringraziare chi ha proclamato lo sciopero, e nello stringere idealmente la
mano a tutti quelli che il 30 maggio cercheranno di essere sabbia e non olio
negli ingranaggi automatizzati del genocidio, posso solo dire che la mia
“libertà” oggi vale ben poco senza la liberazione del popolo palestinese, la cui
indomita resistenza perfora i muri (persino quelli delle carceri).
Servano le sbarre a ricordarmi la sua prigionia. Possano queste mie povere
parole servire come monito a non cedere al comfort della rassegnazione. Come
occasione, anche, perché «possiamo intanto che abbiamo cuore».
«Durano i sentimenti / più del tuo corpo / e del mio»
Francesca Matteoni
«A dire che non siamo che occasioni, contenitori provvisori di qualcosa che
comunque esisteva, esiste ed esisterà: prima, durante e dopo di noi, che
possiamo. Ma possiamo intanto che abbiamo cuore»
Maria Grazia Calandrone
Carcere di Trento, 14 maggio 2025
Massimo Passamani
Riportiamo di seguito il testo d’indizione dello sciopero, anche per rendere più
comprensibili alcuni riferimenti contenuti nella “dichiarazione” di Massimo:
UNO SCIOPERO PER GAZA
Non ci sono più parole. Siamo di fronte al piano esplicito, formale, dichiarato,
di soluzione finale della questione palestinese. Dopo 19 mesi di violenza
genocida ed ecocidia contro gli abitanti e la terra di Gaza, il Gabinetto di
guerra israeliano ha approvato il piano di invasione del 90% della Striscia. Si
chiama «Operazione Carri di Gedeone».
Più di due milioni di palestinesi verrebbero sfollati a forza e rinchiusi nel
restante 10%, un territorio grande come Mantova, una città di quarantamila
abitanti. Intanto continua il blocco di cibo e acqua, con immagini strazianti di
bambini scheletrici che si aggirano tra cumuli di macerie. Alla morte o
deportazione dei gazawi si aggiunge l’intento esplicito di annettere la
Cisgiordania, cioè di realizzare il «Grande Israele» senza più tracce del popolo
palestinese. Il tutto con la complicità dell’intero Occidente (governo italiano
compreso). Il parlamentare del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) Moshe
Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14: «Sì, farò morire di
fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere». Queste, invece, le
parole del dissidente israeliano Gideon Levy: «Non esiste più “permesso” e
“proibito” riguardo alla malvagità di Israele nei confronti dei palestinesi. È
permesso uccidere decine di prigionieri e far morire di fame un intero popolo.
Un tempo ci vergognavamo di tali azioni; la perdita della vergogna sta ora
smantellando ogni barriera rimanente».
Di fronte a un tale orrore che si compie in diretta, continuare la nostra vita
quotidiana come se nulla fosse ci è semplicemente insopportabile. E sappiamo di
essere in tanti a provare un sentimento simile di angoscia, di impotenza, di
rabbia. Per questo lanciamo uno sciopero generale per l’intera giornata di
venerdì 30 maggio.
Uno sciopero che non sia solo astensione del lavoro – un’astensione che vorremmo
la più ampia possibile e in grado di incidere sull’economia –, ma astensione da
tutto quell’insieme di gesti che riproducono la normalità sociale: fare la
spese, prendere un mezzo di trasporto, andare al bar, in banca, alla posta,
prelevare dal bancomat, collegarsi a Internet ecc. Insomma, uno sciopero
economico, sociale e umano affinché pensieri e gesti siano rivolti, almeno per
un giorno, unicamente al popolo palestinese, alla sua indicibile sofferenza e
alla sua indomita resistenza. Per questo stiamo pensando anche a un momento in
un cui trovarsi collettivamente per leggere riflessioni, appelli, poesie e altre
testimonianze da Gaza e per raccogliere fondi per la sua popolazione. Usciamo
dalla logica delle parrocchie politiche con uno sforzo comune: diffondiamo il
senso della giornata del 30, partecipiamo e invitiamo a partecipare. In gioco,
insieme alle sorti di un intero popolo, è ciò che rimane della nostra umanità.
Trento, 9 maggio 2025
CUB Trento e SBM
(Ci facciamo promotori dello sciopero perché come organizzazioni sindacali ci
sentiamo in dovere di farlo e per dare copertura a chi, in tempo di genocidio,
sa da che parte della storia collocarsi)
Riceviamo e diffondiamo:
Scarica in formato pdf:
occhiodelnemico_lettura
occhiodelnemico_stampa
L’occhio del nemico
Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”
Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che
incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che
pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo
sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande
capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare
un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone
“normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non
si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad
aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse
in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati
sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di
fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il
computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente
la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa
gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro
punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete».
Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come
consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo
come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura.
Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo
nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono
tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior
marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway,
che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato
contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono)
sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere
hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta
mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme
un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità
locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e
della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un
approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore
dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si
sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è
quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta
rigenerativa all’estrattivismo dei dati.
Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il
loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di
rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non
sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non
fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo
Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano
all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet
of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la
piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli
predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo
Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di
videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.
Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di
collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città
Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno
2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo
percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione
proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo
impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione
dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza
alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme
conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la
meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli
obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza
della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre
la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi
sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto
dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il
termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori,
può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori
dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la
sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA).
Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla
riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che
sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo
a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono
nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a
legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece,
giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina
IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa.
Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla
base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza
artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura
industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la
seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia
bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio
di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che
contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia,
agricoltura, ecologia.
Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza
artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza
bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona
bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia
portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi.
Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e
la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è
pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che
avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente
prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai
ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere
estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano
tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa
devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato
dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere
produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di
garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina
stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste
materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle
cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia
tecnologica.
Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo
per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici
e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di
computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può
esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che
muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono
sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei
lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri
della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo
sociale sempre più avanzate.
Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità
ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante.
L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è
volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua
dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i
conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano
dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche,
sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza
alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino.
In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli
ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il
genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite
l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno
incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la
morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la
digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del
ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto
della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al
servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere.
Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi
dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi
civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto
fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne
derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e
squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del
dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del
padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente.
Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico,
miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono
neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per
fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie
informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la
possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi
interni.
Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi
un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0
(estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi
di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per
metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari
motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per
essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria,
elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il
funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse
minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è
falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la
tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la
concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è
politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la
tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al
dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma
soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la
relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia
specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze,
infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman
definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una
nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia
l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un
dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la
locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente
insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per
permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei
processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e
l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito
il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la
circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale.
Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro
di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente
cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo
con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie
moderne.
La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della
società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e
indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in
particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che
generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il
progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di
accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della
struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un
flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la
diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi
dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo
minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che,
al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali
non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se
anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari
del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di
sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni
ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i
dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista
che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del
proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua
tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la
tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo
presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà
facile preda di ciarlatani come Giordano.
Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica
di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del
passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo
chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e
l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà
contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad
occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che
– riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le
utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto
nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione
ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni
chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più
moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si
perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle
tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream
sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una
discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro
e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non
potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di
rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono
inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili.
In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di
pensare che porta dritti fra le braccia del nemico.
Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune
dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che
solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale:
l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica
della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi
anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno
vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere
nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo
fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il
pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano
attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come
agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la
vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e
digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi
mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed
inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria,
possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e
materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è
una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il
nemico perché ormai si guarda il mondo come lui.
Rovereto, aprile 2025
Collettivo Terra e Libertà
[1]
https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/
[2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/
Riceviamo e diffondiamo questa utile panoramica delle riconversioni belliche, in
Italia e non solo:
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/
AL MERCATO DELLE RICONVERSIONI BELLICHE
Nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati
e la spartizione delle risorse, in un quadro che vede mutare gli assetti
geopolitici globali, si afferma la corsa al riarmo europeo. Mentre si cerca di
abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto, e cioè che in guerra ci siamo
già anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case; mentre gli Stati
europei – dai Paesi scandinavi alla Francia – forniscono ai loro cittadini
dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra
nucleare; e mentre alcune nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei
loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare… si sta affermando
l’idea che anche le aziende in crisi debbano essere riconvertite alla produzione
bellica.
Tra le prime, Volkswagen ha mostrato crescente interessamento. Pur riconoscendo
che una completa conversione alla produzione bellica richiederà anni, l’azienda
tedesca vuol tornare a fornire motori e trasmissioni per veicoli militari
collaborando con la conterranea Rheinmetall, come aveva già fatto durante la
seconda guerra mondiale quando collaborò coi nazisti.
Aziende come Rheinmetall, leader in Europa nella produzione di munizioni e
armamenti terrestri tra cui i carri armati Panther, e KNDS Group, joint venture
franco-tedesca specializzata in veicoli corazzati ed esplosivi con un fatturato
di 3 miliardi di euro, stanno già riconvertendo impianti civili, non solo
automobilistici, in linee di produzione bellica.
Il CEO di Rheinmetall, Armin Papperger, ha indicato che lo stabilimento di
Osnabrück di Volkswagen sarebbe “molto adatto” per la produzione di veicoli
blindati Lynx, a condizione di ricevere ordini per almeno 1.000 unità. Proprio
Rheinmetall ha realizzato una joint venture con l’italiana Leonardo per fornire
280 nuovi carri armati Panther e oltre mille veicoli blindati Lynx all’Esercito
italiano, una commessa da 23,2 miliardi di euro. Metà della produzione sarà
fatta da Leonardo in Italia. Parteciperà a questo progetto, con un contratto di
fornitura per circa il 15% del valore, anche Iveco Defence Vehicles (IDV)
controllata da Exor, la finanziaria olandese della famiglia Agnelli.
Leonardo e Rheinmetall vorrebbero partecipare al progetto per il futuro carro
armato pesante europeo, detto Mbt o Mgcs, un progetto lanciato da Francia e
Germania, che si scontra però con gli interessi anche della franco-tedesca KNDS,
holding che unisce la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann.
Un’altra società tedesca, la Helsoldt, che si occupa di elettronica per la
difesa, di cui è azionista Leonardo con il 22,8%, ha comprato una fabbrica di
elettrodomestici Bosch con 400 lavoratori annessi per riconvertirla.
La franco-tedesca KNDS, che produce il carro armato Leopard e il veicolo da
combattimento Puma, ha recentemente acquisito un’ex fabbrica ferroviaria a
Görlitz, in Germania, per espandere la sua capacità produttiva.
Anche l’ex insediamento Winchester di Anagni (Frosinone), nella Valle del Sacco
in Ciociaria, verrà riconvertita da KNDS Ammo Italy (ex Simmel Difesa) in una
fabbrica per produrre nitro-gelatina e polveri di lancio per proiettili. 11
nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri per potenziare la filiera
delle armi1. Il paradosso sta che fino ad ora nell’ex stabilimento laziale di
Anagni si provvedeva al disinnesco dei proiettili scaduti. Tra Anagni e la
vicina Colleferro – dove KNDS possiede già uno dei più importanti stabilimenti
per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe –
arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno. Nel 2023 vi
era stata la visita del commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton,
allo stabilimento dei Colleferro, che aveva espressamente richiesto di
incrementare la produzione per missili e proiettili con cui riempire gli
arsenali europei. La riconversione dello stabilimento di Anagni, che dovrebbe
iniziare la produzione a partire dalla primavera 2026, si inserisce pienamente
nel quadro del piano “ReArm EU” ma ha anche ricevuto un finanziamento europeo di
41 milioni di euro dopo l’approvazione dell’ASAP (Act Support Ammunition
Production)2. L’ASAP è la legge europea, varata nel maggio 2023 e confermata a
marzo 2024 con l’impegno di 500 milioni di euro del bilancio UE, per potenziare
la produzione di esplosivi, polvere da sparo e munizioni dopo l’invasione russa
dell’Ucraina. L’ASAP ha calcolato che entro la fine del 2025 saranno 2 milioni i
proiettili che dovranno essere prodotti all’anno dalle industrie europee. 4,300
tonnellate l’anno gli esplosivi.
Attraverso l’ASAP la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti
per sostenere l’industria bellica europea della produzione di polveri e
munizioni. In un primo tempo il maxiappalto riguardava solo le imprese europee,
ma a causa del mancato raggiungimento del numero previsto di munizioni da parte
dell’industria europea, ora i fondi UE possono essere usati per comprare
munizioni anche da Paesi terzi, con gli Stati Uniti ovviamente a farla da
padrone (con la seconda elezione di Trump, gli Stati Uniti non solo pretendono
che la UE acquisti il loro gas GNL ma anche le loro armi).
I 31 progetti industriali finanziati dall’UE coinvolgono Grecia, Francia,
Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania,
Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Oltre la KNDS Ammo Italy, tra questi 31
progetti finanziati dall’UE vi è anche quello presentato dalla bolognese
Baschieri&Pellagri, del gruppo della Fiocchi Munizioni Spa di Lecco. Il progetto
della Baschieri&Pellagri è stato finanziato con 3,7 milioni di euro e consiste
nella produzione di polvere da sparo per i proiettili.
Ritornando all’industria dell’automotive, non possiamo non citare il caso
dell’italo-olandese Stellantis (ex Fca-Fiat) del presidente John Elkann, della
famiglia Agnelli, che vive una crisi acuta, con un forte calo della produzione
automobilistica nazionale, e che potrebbe essere interessata da un piano di
riconversione sostenuto dai ministeri della Difesa e dell’Economia. Annunciato
dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, un piano per
rilanciare la filiera dell’auto prevede un finanziamento di 2,5 miliardi di euro
con fondi pubblici entro il 2027, con l’obiettivo di diversificare la produzione
coinvolgendo il settore auto nel cosiddetto “dual use”, ovvero l’utilizzo delle
stesse infrastrutture per scopi civili e militari.
Per Stellantis si parla di un ruolo di consulenza ingegneristica, ma forse anche
della riconversione di uno o più stabilimenti per la produzione di mezzi
militari o componentistica. Fra le ipotesi alla studio, per intercettare la
pioggia di miliardi del riarmo UE, c’è la riconversione dello stabilimento di
Termini Imerese (Palermo).
Per facilitare l’intesa il governo Meloni vuole superare il cosiddetto piano
green deal lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, almeno per quanto
riguarda il settore auto. Le regole europee oggi impongono la riduzione della
produzione delle auto a combustione per ridurre le emissioni di gas serra e
contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C rispetto ai livelli
preindustriali. Il che significa riconvertire il settore auto nell’elettrico,
settore nel quale l’Italia (ma anche la stessa Europa) è piuttosto indietro
rispetto a Paesi come la Cina. Anche i dazi minacciati da Trump sui prodotti
importati dai Paesi europei hanno giocato un ruolo sulla decisione di sospendere
le regole europee per il green deal, dato che tra i settori colpiti da questa
nuova guerra commerciale c’è senz’altro il mercato dell’automotive. Ma la vera
ragione della sospensione del green deal è un’altra. Come ha ricordato molto
chiaramente l’ex ministro dell’ambiente e della transizione ecologica nel
governo Draghi, Roberto Cingolani, oggi amministratore delegato della più grande
società bellica italiana, la Leonardo, società che stima ordini per 118 miliardi
fino al 2029 con l’obiettivo di raggiungere ricavi superiori a 26 miliardi entro
la fine del decennio, “il Green Deal era importante in tempi di pace, ora ci
sono altre priorità”.
Ricordiamo, sempre della famiglia Agnelli, anche il ruolo di Iveco Defense. Già
pienamente operativa nel settore militare, lo è ancora di più dopo un accordo
con Leonardo siglato a novembre 2024.
Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze
militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla
produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso. A ottant’anni dalla fine
della Seconda guerra mondiale, i nomi che ritornano sono sempre quelli: Famiglia
Agnelli, Volkswagen, Krupp.
Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il
pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di
lavoro. É la giustificazione che è stata usata, per esempio, a castelfranco
Veneto (Treviso) per la riconversione in industria bellica della Faber, che ha
cominciato a produrre bossoli e ogive, mentre prima produceva bombole d’ossigeno
e a gas.
A questo punto con buona probabilità anche i sindacati confederali
collaboreranno alla militarizzazione del lavoro, cosa che stanno già facendo nel
caso proprio della Faber, con la Fim Cisl di Treviso che ha sostenuto
apertamente il progetto di riconversione bellica, fino al punto di proporre la
riconversione ad uso militare anche delle vicine industrie della Berco, azienda
del gruppo tedesco dell’acciaio Thyssenkrupp (quest’ultimo attivo anche nel
settore bellico), che produce cingolati per trattori e che vuole ridimensionare,
con procedure di licenziamento aperte, le sedi produttive italiane di
Castelfranco Veneto, Copparo e Bologna. Secondo i giornali locali veneti gli
operai di Castelfranco Veneto, in cassa integrazione da molti mesi, sarebbero
persino favorevoli, pur di non perdere il posto di lavoro e mettere un pezzo di
pane a tavola. Dai cingolati per i trattori a quelli per i carri armati è un
attimo. Tra l’altro gli stabilimenti veneti sia della Berco che della Faber
nascono dallo scorporo dell’azienda bellica Simmel Difesa e le macchine per
produrre armamenti pare si trovino ancora all’interno degli stabilimenti.
Condotte come quelle della Cisl trevigiana non sono casi isolati. Già nel 2021 i
responsabili locali della Fiom-Cgil palermitana dichiararono che la costruzione
di navi da guerra, motovedette e portaerei nei Cantieri Navali di Fincantieri a
Palermo “avrebbe portato ulteriore lavoro, stabilità lavorativa e benefici
economici per tutta la città”. Sindacalisti per la guerra.
PiccoliFuochiVagabondi
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1 www.peacelink.it/disarmo/a/50660.html
2
https://defence-industry-space.ec.europa.eu/eu-defence-industry/asap-boosting-defence-production_en