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Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento
Un piccolo spartiacque. Sul 15 marzo a Trento Partiamo da un’immagine. La “piazza per l’Europa” scelta a Trento dal quotidiano “Il Dolomiti” è tra le più piccole della città ed ha accessi molto stretti. Insomma, se i Michele Serra nostrani non si aspettavano le folle, non escludevano le contestazioni. Il risultato è stato qualche centinaio di persone (300? 400?) che si sono parlate addosso letteralmente circondate dalla celere e dai carabinieri in tenuta antisommossa. Perché a cinquecento metri di distanza è stata lanciata una manifestazione inequivocabilmente contro il riarmo, contro l’economia di guerra, per la fine del massacro in Ucraina e del genocidio in Palestina, in solidarietà ai disertori ucraini e russi. Nonostante lo scarso preavviso (e la tanta pioggia), poco meno di 300 persone sono partite in corteo, passando dalle quattro strade attorno alla piazza dei guerrafondai (malamente) mascherati, disturbando con gli interventi amplificati proprio le parole del sindaco (neanche a farlo apposta). Le persone che passavano in centro si sono accorte degli europeisti con l’elmetto solo per via della polizia, mentre gli slogan e gli interventi che hanno sentito erano antimilitaristi, internazionalisti, anticolonialisti: “Gaza nel cuore, Jenin nella memoria, Intifada fino alla vittoria”, “Dalla von der Leyen a Michele Serra, cambiano le forme, la sostanza è guerra”, “Lo chiede l’Europa, la riposta è no. Per le loro guerre non mi arruolerò”, “Contro le guerre dei signori, siamo tutti disertori”, “Non un soldo né un soldato per le guerre del governo, dell’UE e della NATO”… La composizione del corteo – più variegata rispetto alle ultime manifestazioni a fianco della resistenza palestinese – suggerisce un moto di risveglio di fronte a piani di riarmo che non hanno precedenti negli ultimi decenni. Poco, troppo poco. Ma le due piazze di sabato rappresentano un netto, necessario spartiacque. E infatti chi si muove nelle orbite di PD, Cgil, Arci, Anpi o AVS, e magari si considera antifascista e contro la guerra, non ha mosso un dito né una voce, perché sa che schierarsi davvero contro i progetti imperialisti e contro i complessi scientifico-militar-industriali significa oggi tagliare i ponti della compatibilità politica. Non caso a lanciare il corteo è stato quel pezzo di società che da 16 mesi si attiva senza se e senza ma contro il governo, contro l’Europa, contro le collaborazioni trentine con il genocidio a Gaza. Il piano von der Leyen arma un plurisecolare suprematismo colonialista che oggi deve farsi la guerra anche al proprio interno. Il fatto che nelle risoluzioni belliciste dell’UE non si parli più di “Occidente”, bensì di “Europa”, significa che l’accordo sulla rapina delle masse palestinizzate del mondo non basta più; e che la guerra coloniale torna indietro sotto forma di furia estrattivista, di “monopoli radicali” e di fine delle pantomime democratiche. Se Volkswagen si dichiara pronta a riconvertire i propri stabilimenti insieme a Rheinmetall, si scopre per passaparola che Leonardo SpA sta contattando piccole aziende locali per proporre la produzione di armamenti (c’è da scommettere che, in tal senso, arriveranno a breve gli incentivi governativi sotto forma di sgravi fiscali). Esattamente come cento anni fa, il partito unico della guerra mobilita gli “intellettuali progressisti”, la sinistra del capitale e i sindacati di Stato per arruolare o irretire chi potrebbe rompere le righe. La novità è che oggi a schierarsi contro il riarmo UE (ma non quello nazionale) sono anche forze reazionarie. Motivo in più per prendere l’iniziativa. Che il genocidio e le guerra spacchino in due la società. Il 15 marzo ha creato solo le prime crepe. Di seguito il volantino distribuito a Trento dall’Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese: Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra Le “piazze per l’Europa” lanciate a Roma da “Repubblica” e qui a Trento dal “Dolomiti” sono un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che è uno degli elementi costitutivi della guerra al pari dell’artiglieria. L’Europa come terra della libertà, della fratellanza tra i popoli e del Diritto internazionale è un mito che gronda sangue. La storia delle classi dominanti europee è quella del colonialismo e del suprematismo bianco, di cui gli stessi Stati Uniti sono un prodotto. I «valori europei» dei quali si straparla in queste piazze li vediamo a Gaza. Se tutto l’Occidente è schierato con il colonialismo genocida israeliano (non una sanzione, non un embargo militare, non una sola cessazione delle collaborazioni e degli scambi strategici… alla faccia del Diritto internazionale!) è perché Israele compendia fino all’estremo la storia europea e occidentale. In tal senso, l’unica differenza fra Trump-Musk e von der Leyen è che il primo si dichiara esplicitamente suprematista, mentre la seconda pratica il suprematismo senza dichiararlo. Ma nelle “piazze per l’Europa” si va oltre l’ipocrisia. Ci si mobilita per la guerra. Partiti, partitini e sindacati che vi partecipano sembrano in disaccordo su alcuni aspetti (tra chi appoggia apertamente il piano di riarmo dei singoli Stati e chi preferisce la «difesa comune europea»), ma sul rafforzamento dell’industria bellica per continuare a depredare il resto del mondo sono tutti d’accordo. Il punto è chi ci deve guadagnare. Tutto ciò non c’entra nulla, sia chiaro, con la protezione della popolazione ucraina. Massacrata e depredata sia dalla Russia sia da USA-NATO-UE, la gran parte delle gente in Ucraina vuole il cessate il fuoco (come dimostra il livello di massa raggiunto dalle diserzioni). Quello che l’UE non può accettare non è certo l’invasione di un Paese sovrano (vogliamo parlare dell’Iraq, della Serbia, dell’Afghanistan, della Libia, della Siria, della Palestina, del Libano?), peraltro ampiamente ricercata dal blocco occidentale con una serie di continue provocazioni volte a far entrare Ucraina e Georgia nella NATO, ma solo di essere tagliata fuori da un bottino su cui le sue classi dirigenti hanno scommesso tutto. L’«orgoglio europeo» dei vari Michele Serra è il tentativo di rilanciare una potenza imperialista europea in declino. Rilancio che passa oggi attraverso l’economia di guerra – chiamata furbescamente «difesa» – quale ulteriore concentrazione dei monopoli economici e finanziari, pagata come sempre da chi sta in basso. Viviamo in un’epoca che non permette alcuna pigrizia nel pensare. La guerra è condotta, oltre che sui campi di battaglia e nelle retrovie, contro i nostri cervelli. Se vogliamo opporci ai venti di guerra e di riarmo; se vogliamo spezzare le collaborazioni nei nostri territori con il genocidio a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania, dobbiamo disintossicarci dalla propaganda e contrapporle idee e princìpi ben saldi. A volere la guerra è un’infima minoranza: quella che si arricchisce. Per tutti gli altri un riarmo da 800 miliardi di euro significa salari miseri, bollette alle stelle, sanità al collasso, scuole in cui si impara poco e si obbedisce molto, criminalizzazione del dissenso, città militarizzate. Prendiamo esempio dalla resistenza palestinese. Fermiamo e cacciamo chi ci ha trascinato nella spirale della guerra. Da perdere non abbiamo che una vita sempre più invivibile. E la nostra disumanità. Trento, 15 marzo 2025 Assemblea in solidarietà con la resistenza palestinese (ci troviamo ogni lunedì, dalle ore 18,30, alla Talpa di via S. Martino a Trento)
Rompere le righe
Stato di emergenza
In primo piano
Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione
Nella Serra in cui fiorisce ogni mistificazione Cos’è la guerra? La si può definire senz’altro in tanti modi. Dal secondo conflitto mondiale a oggi, essa è contemporaneamente – e indissociabilmente – scontro di potenza tra gli Stati, artificializzazione dell’ecosfera e attacco generalizzato a ogni forma di autonomia individuale-comunitaria. Se è nel solco della Seconda Guerra mondiale che si appronta il mondo come laboratorio – eugenetica, campi di prigionia e di sterminio, fusione di scienza, Stato e industria, costruzione della bomba atomica, “modello IBM” e paradigma cibernetico –, l’ulteriore sviluppo delle tecnologie convergenti fornisce oggi alla macchina bellica una dimensione totale (terra, acqua, cielo, spazio ultra-atmosferico, onde elettroniche, corpi e cervelli). Contrariamente alle tante imbecillità profferite per anni sulla “fine dello Stato”, sulla fase post-imperialista e sulla “microfisica dei poteri” che avrebbe abolito il comando verticale e centralizzato, la contesa sulla definizione delle gerarchie statali (e dei monopoli che queste difendono e da cui dipendono) ritorna in tutta la sua brutalità. E “ritorna”, appunto, armata di tutto ciò che ha accumulato nella storia. La guerra è anzi proprio il momento in cui si svela che l’«accumulazione originaria» del capitale non è un evento, bensì una struttura. L’economia di guerra serve ad allargare e a difendere con le armi vecchie e nuove enclosures (terre, prodotti agricoli, fonti energetiche, “dati”, cavi sottomarini, “minerali strategici”, sequenze di DNA, reti neurali…). La guerra s’impone innanzitutto come parodia assassina della lotta di classe. Non solo perché essa incorpora nei propri arsenali le vittorie contro i salariati e i loro tentativi di emanciparsi dallo sfruttamento, ma perché si basa sulla mistificazione totale del concetto di violenza. Si può forse dire, in tal senso, che l’attuale incapacità di dar vita a un movimento disfattista orientato a trasformare la guerra dei padroni in guerra ai padroni, sia direttamente proporzionale a quanta mistificazione è stata interiorizzata negli ultimi decenni. Il vero dramma, infatti, non è tanto quello di uscire sconfitti da un lungo ciclo di lotte, quanto quello di lasciarsi arruolare nel sistema di valori del nemico. Senza una qualificazione etica e sociale delle tipologie di violenza (violenza degli oppressori e violenza degli oppressi, violenza coloniale e violenza anticoloniale, violenza indiscriminata e violenza rivoluzionaria, violenza statale e violenza liberatrice) si è letteralmente disarmati. La «guerra al terrore» con cui dal 2001 in poi gli USA e i loro alleati (Stato d’Israele soprattutto) hanno esteso ulteriormente la loro macchina bellica e predatrice – fusione tra Pentagono e piattaforme digitali, sviluppo dei droni, giustificazione giuridica della «caccia al nemico planetaria», ibridazione soldato-macchina ecc. – era stata condotta e vinta prima sul piano interno grazie alla riqualificazione – mediatica, giudiziaria, sociale – della sovversione armata (e a seguire di ogni conflitto reale) come «terrorismo», cioè come violenza indiscriminata contro l’insieme dei cittadini. Il genocidio a Gaza quale «diritto d’Israele all’autodifesa» e la resistenza palestinese quale «barbarie» – il 7 ottobre come «pogrom», oppure, Gad Lerner dixit, come equivalente della strage di Marzabotto – sono le espressioni più ignobili di tale mistificazione. Nella violenza alle parole e alla loro storia si riverbera sul piano dei concetti l’abisso senza fondo della corruzione morale. Oltre che tardiva, la constatazione di un Maurizio Lazzarato – «il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri-Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire» – confonde l’effetto con la causa. È la rimozione della violenza di classe e della violenza rivoluzionaria – quando non, come nel caso di Negri, la partecipazione attiva e premiata alla mistificazione sul concetto di «terrorismo» – a spiegare l’imbroglio post-modernista più di quanto non sia il contrario. Contro le sottili mistificazioni a cui è stato sottoposto lo stesso pensiero benjaminiano, nelle Tesi sul concetto di storia è proprio la violenza rivoluzionaria che secondo Benjamin può spezzare il continuum della catastrofe storica, contrapponendo allo stato di eccezione fittizio (la dialettica tra normalità ed emergenza, tra pace e guerra, tra il Diritto e la sua sospensione) lo stato di eccezione effettivo (la fine dello Stato e del suo Diritto, della sua guerra come della sua pace). Quando una guerra tra Stati e blocchi capitalistici diventa una «resistenza popolare» (come se la lotta partigiana si fosse basata sull’arruolamento forzato, come se usare una mitragliatrice contro delle forze occupanti fosse la stessa cosa che lanciare un missile guidato da un satellite contro una cittadina a centinaia di chilometri di distanza…); quando la violenza di una popolazione imprigionata è paragonata alle stragi degli eserciti di occupazione, il terreno è dissodato per ogni manipolazione. L’appello lanciato da Michele Serra dalle colonne di “Repubblica” – a cui si sono subito accodati PD, Cgil, Cisl, Uil… – allarga al piano internazionale una mistificazione cominciata sul fronte interno. Se l’appoggio, malamente mascherato dietro la «difesa dei valori dell’Europa», all’imperialismo e ai piani di riarmo europei è «un capolavoro della propaganda, quel terreno infido che giustamente è considerato uno degli elementi costitutivi della guerra, al pari dell’artiglieria», lo stesso giornalista ci aveva già regalato in passato un «capolavoro» non meno infido. Nel 2002, sempre sulle colonne di “Repubblica”, Serra aveva scritto che gli spari delle nuove Brigate Rosse contro il giuslavorista Marco Biagi (quella brava persona a cui dobbiamo la Legge 30, con cui sono state rese ancora più precarie le condizioni di lavoro di milioni di persone) avevano fatto riecheggiare per le strade felsinee il boato della bomba esplosa alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980. È difficile, benché la concorrenza al riguardo sia sempre stata piuttosto agguerrita, immaginare un livello di disonestà intellettuale e di falsificazione storica paragonabile. L’uccisione di un consapevole servitore del capitale messa sullo stesso piano di una strage fascista e di Stato che ha assassinato 85 ignari pendolari, ferendone oltre 200. Una strage, tra l’altro, che aveva il significato materiale e simbolico di suggellare nel sangue la sconfitta operaia alla FIAT avvenuta nello stesso anno. Nemmeno i giornalacci più reazionari – nemmeno “Il Borghese” – sono riusciti a raggiungere un tale Himalaya di infamia. Se un atto ben discriminato di violenza di classe – quali che siano i giudizi sulle nuove Brigate Rosse, sulle organizzazioni combattenti in genere, sull’“omicidio politico” – può venire paragonato a una strage di gente comune, allora la prosecuzione della guerra in Ucraina per non essere esclusi dalla sua spartizione può ben diventare «difesa dei valori di libertà». E gli «antagonisti» che all’epoca si recarono ai funerali di Biagi, oggi possono ben condividere le piazze con i reggicoda dei guerrafondai. A conferma di come lo strabismo interessato sulle forme di violenza sia la corruzione che contiene tutte le altre. Resta di tragica attualità quello che la ventiquattrenne Simone Weil scriveva nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933): «Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».
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Il fanale oscuro
Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione
In attesa di ragionamenti più articolati, pubblichiamo questo volantino distribuito durante il corteo a Rovereto del 22 febbraio. A fianco di un chiaro posizionamento sul genocidio a Gaza e contro la militarizzazione del fronte interno (dal DDL elmetto e manganello ai processi o inchieste per “terrorismo” nei confronti di compagne e compagni), esso contiene – se così si può chiamare – una proposta, tanto necessaria nella sua formulazione quanto difficile nella sua declinazione pratica: spodestare con un movimento dal basso tutti coloro che hanno scommesso sulla guerra in Ucraina: dai produttori di armi agli speculatori sull’energia, dai giornalisti in divisa ai partiti – Fratelli d’Italia, PD, Lega, 5 Stelle… – che sono saliti sul treno della distruzione-ricostruzione bellica, treno dal quale il nuovo padrone Trump li sta scaraventando a terra per andare da solo all’incasso. In tale direzione dovrebbero muovere i nostri sforzi antimilitaristi, internazionalisti e disfattisti. Una direzione opposta, non c’è bisogno di sottolinearlo, da quella di chi contrasta il DDL (ex) 1660 organizzando le piazze con i guerrafondai del PD, i loro reggicoda (Cgil, Arci) e i loro collaboratori alternativi (AVS). Muti – dal primo all’ultimo – sulla stretta di mano tra Matterella e Herzog, conferma e rinnovo, sui cadaveri e sulle rovine di Gaza, dell'”amicizia tra Italia e Israele”. Che il genocidio e la guerra spacchino in due la società!  Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione Mentre il nostro amico e compagno Juan è sotto processo con l’accusa di «atto con finalità di terrorismo» per un’azione che ha danneggiato l’ingresso della Scuola di Polizia di Brescia nel 2015; mentre il partigiano palestinese Anan Yaeesh si trova in carcere a Terni insieme a Juan con l’accusa di «terrorismo» per aver partecipato alla resistenza contro soldati e coloni israeliani nei territori occupati della Cisgiordania; mentre a 12 anarchici e anarchiche si notifica l’ennesima inchiesta per «associazione con finalità di terrorismo» condotta dalla Procura di Trento; mentre il governo Meloni vuole introdurre nel Pacchetto Sicurezza il reato di «terrorismo della parola», Mattarella stringe la mano del capo di Stato israeliano Isaac Herzog, rinnovando «l’amicizia tra Italia e Israele». Herzog è lo stesso che aveva dichiarato – in una conferenza stampa del 12 ottobre 2023, una settimana dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza – che non c’erano palestinesi innocenti, che tutti gli abitanti della Striscia erano complici, bambini compresi. Se la nozione di terrorismo ha ancora il significato storico di violenza indiscriminata contro i civili, esiste oggi un terrorismo più esplicito e feroce di quello compiuto dallo Stato d’Israele? Come se non fosse bastato l’appoggio mediatico, economico, tecnologico e militare fornito dalle istituzioni occidentali (e italiane) al genocidio del popolo palestinese, l’amicizia rinnovata con Israele dopo l’assassinio di oltre ventimila bambini a Gaza è un’infamia che niente e nessuno potrà mai cancellare. Nelle parole della scrittrice palestinese Samah Jabr: «ferita, dolorante, in lacrime e tradita, Gaza un giorno risorgerà dalle macerie e ci guarderà negli occhi». Poco dopo aver proposto di costruire a Gaza dei resort di lusso deportando più di due milioni di palestinesi, Trump ha cominciato le trattative con Putin per “congelare” il conflitto in Ucraina, tagliando fuori dai negoziati sia Zelenski – prima servo utile, oggi ferro vecchio da rimpiazzare – sia l’Unione Europea, le cui classi dirigenti avevano scommesso tutto sulla guerra contro la Russia. Al punto che l’8 giugno 2023 l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi aveva dichiarato al MIT di Boston: «Se Kiev non vince la guerra, sarà la fine dell’Unione Europea». Per tre anni ci hanno raccontato che le sanzioni e l’invio di armi in Ucraina avrebbero sconfitto la Russia (nascondendo, dietro la libertà e il diritto all’autodeterminazione dei popoli, gli interessi del complesso scientifico-militar-industriale occidentale). Ora che il nuovo padrone statunitense ha chiarito senza fronzoli che in realtà si trattava di una guerra di potenza per ridefinire le sfere di influenza e di una guerra di rapina delle gigantesche ricchezze minerarie ucraine, traiamo delle conclusioni dal discorso di Draghi. Hanno voluto la guerra (costata agli ucraini centinaia di migliaia di morti e alle classi sfruttate europee miseria e militarizzazione sociale). E l’hanno persa. Da chi si è arricchito con gli armamenti a chi continua a speculare sull’energia, da Fratelli d’Italia al PD…, dobbiamo spodestarli tutti con un vasto movimento dal basso. E poi? Per quanto ci riguarda, per non sprofondare in una nuova guerra mondiale o in una società-macchina del controllo totale, dobbiamo batterci per delle comunità ecologiche, decentrate, basate sulla reciprocità delle decisioni e dei compiti, in cui niente e nessuno – né uno Stato né un padrone né un computer – ci sgravi del peso di pensare e di assumerci la responsabilità delle nostre azioni. Rovereto, 22 febbraio 2025 anarchiche e anarchici
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La pace della terra
La pace della terra Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La «pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza, andò perduto con il Rinascimento. Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione. Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»: che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il tentativo stesso di esportarla significa guerra. Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesti tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza. Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la “bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i data center e sottratta ai campi. Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo» (Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit 8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana? Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema aristotelico e marxiano, ma come un certo modo – localmente radicato, basato sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (mangiare, stare al caldo, crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi comunitari. La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi dell’autonomia. Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue» va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa amministra.
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Il fanale oscuro
Vale per Monza, vale per Manhattan
Vale per Monza, vale per Manhattan Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole “deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe». Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era l’ammazzato. Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese – attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi. Quel “deny” è una risposta automatica per un sacco di gente e ogni giorno. Lontano dai quartieri di lusso, in quegli ectoplasmi che non sono né campagne né città, ma hinterland in mezzo al deserto, commesse, pulitori, operai, rider fanno la fila per entrare in farmacie indistinguibili dai supermercati, con la guardia armata all’entrata, in cui tutto – persino il dentifricio – è chiuso a chiave dietro il vetro. Finita la fila, un addetto «che emana quel sottile sentore di ammoniaca che fa pensare a una malattia endocrina» comunica che il farmaco prescritto dal medico non può essere consegnato perché manca l’autorizzazione preventiva da parte della compagnia assicurativa. Aggiungiamoci anche il sentimento di essere delle cavie per l’industria farmaceutica (e per Big data). Pensiamo per esempio alle terapie digitali, la cui commercializzazione è stata autorizzata dalla Food and Drugs Administration nel 2017. A spingere la gente a ingerire farmaci-software dotati di nano-sensori attraverso i quali il “tele-medico” può “monitorare” l’attività neuropsichica e metabolica, è spesso il ricatto di evitare in tal modo una polizza assicurativa più cara. In maniera più prosaica, dei dipendenti pubblici si trovano costretti ad indossare un fit bit (un orologio digitale che misura il numero di passi), altrimenti la UnitedHealthcare di turno può decidere di non assicurare chi ha una vita considerata non sana sulla base dei dati forniti da quel fit bit… Nella gioia per la morte di Thompson c’è tutto questo: cure negate, certo, ma anche umiliazioni garantite da guardie armate, possibilità chiuse a chiave, passeggiate obbligatorie, e una miseria che sa di ammoniaca. Se poi il vendicatore è un giovane bianco, di bell’aspetto e di famiglia benestante, laureatosi in una prestigiosa università, a cui si attribuiscono «un manifesto politico anticapitalista», delle simpatie per Ted Kaczynski e dei modi piuttosto gentili («Questi parassiti la devono pagare. Mi scuso per i traumi provocati, ma andava fatto»), la sua «brutale onestà» (altra espressione attribuita a Mangione) comunica un senso di riscatto e di speranza perché spezza la più potente – se non la sola rimasta – ideologia contemporanea: l’inevitabilismo. Mettiamoci ora dal lato dei capitalisti, degli amministratori delegati e dei tecnocrati. Al loro sentimento di costituire una razza superiore non contribuiscono soltanto l’istruzione, i privilegi quotidiani e l’appartenenza a una ristretta gated community. A un simile darwinismo sociale – lo stesso che ha prodotto, storicamente, l’eugenetica – oggi si aggiunge qualcosa di inedito. La possibilità di raggiungere, se non l’immortalità, una vita aumentata. Nel mondo del transumanesimo realmente esistente, questa upper class spende milioni di dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con l’idea – che le si vende cara – di vivere fino a 120 anni. Questa nuova razza di signori è pervasa quindi dal terrore di incidenti che possano ridurre il suo capitale biologico, e possiede allo stesso tempo il potere di costruire una società panottica a misura delle proprie paranoie. Per questi gated dreams, il fantasma col cappuccio che si è materializzato in Avenue of the Americas, a Manhattan, il 4 dicembre scorso, è un incubo umano, troppo umano. Osservando quanto un solo gesto abbia polarizzato le passioni di un’intera società, c’è di che riflettere. Se il giudizio di fatto è persino banale, quello di valore non lo è affatto. Su questo abbiamo letto soprattutto formule cautelative, distinguo, precisazioni (non richieste) di non voler fare né apologie né istigazioni. E poi le immancabili tirate contro l’“individualismo” e il “terrorismo”, oppure versioni “antagoniste” dell’inevitabilismo: morto un amministratore delegato se ne fa un altro. Per noi vale l’esatto opposto. L’azione violenta, quando è ben discriminata, va sempre difesa. Poco importa che sia individuale o collettiva. Se, come in questo caso, è addirittura cristallina, la difesa diventa essa stessa uno strumento di propaganda rivoluzionaria. È vero che a Thompson succederà un altro Ceo. Ma si può ripetere oggi quello che l’anarchico Galleani diceva di Umberto I (il paragone non sembri esagerato, perché il potere dei Thompson non è affatto inferiore). Il re ammazzato insegna al suo successore se non altro la moderazione. La qual cosa va a pro di tutti gli sfruttati. E sembra proprio questo il caso. «Appena il Ceo è stato assassinato, Anthem Blue Cross (un’altra compagnia assicurativa) ha immediatamente fatto marcia indietro su una nuova clausola che avrebbe messo a carico degli assicurati eventuali tempi “extra” di anestesia». Le formule “deny”, “delay”, “defend” si sono fatte magicamente meno arroganti, migliorando un poco la salute degl’individui e della classe. Poteva riuscirci anche l’azione collettiva? In astratto, sì. Nel concreto: quale? Se ci auguriamo con tutto il cuore che i tre spari di Midtown Manhattan siano davvero una «specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe», possiamo dire di Mangione quello che diciamo sempre dei nostri compagni incarcerati: «Se è innocente, merita la nostra solidarietà. Se è colpevole, la merita ancora di più». Anzi, per una volta, rinunciamo volentieri alle nostre formule. Nega, difendi, detronizza. Mangione Libero!
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Nocciola
Nocciola Ad avvisarci dell’inizio della distruzione di massa non saranno le trombe del Giudizio universale, ma qualche nomignolo elaborato dalla macchina dell’eufemismo burocratico. Se c’è un elemento che tutti i complessi scientifico-militar-industriali hanno in comune è senz’altro l’ignobile creatività nel nascondere o banalizzare i propri programmi, le proprie macchine, le proprie mosse sul quadrante dei comandi. «Soluzione finale della questione ebraica», prima di diventare l’espressione-simbolo della produzione industriale di cadaveri, è stato l’eufemismo con cui mascherarla. Nella macchina burocratica nazista, a cui IBM ha fornito l’efficienza delle schede perforate, gli internati da avviare alle camere a gas erano definiti «musulmani», mentre Sonderkommando («unità speciale») era il nome per designare il gruppo di deportati costretti a recuperare i capelli e gli eventuali denti d’oro dai corpi gassati («Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo», scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati). L’assassinio di oltre duecentomila «improduttivi», «pesi morti della società» o «vite indegne di essere vissute» è sgorgato da un programma che stava tutto in un sostantivo, una lettera e un numero: Aktion T4 (come noto, T4 era l’abbreviazione di Tiergartenstraße 4, via e numero civico di Berlino al cui indirizzo era situato il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil-und Anstaltspflege, la Fondazione di Beneficenza per la Salute e l’Assistenza sociale). Come non ricordare, poi, i nomignoli con cui sono stati chiamati gli ordigni atomici del Progetto Manhattan (alla cui produzione, giova ricordarlo, hanno lavorato quasi seicentomila persone tenute all’oscuro di cosa stessero fabbricando)? La bomba fatta esplodere il 16 luglio 1945 ad Alamogordo si chiamava Gadget (così, come un orologio o un fermacarte), mentre il linguaggio scelto per il test nucleare era iperbolico e biblico (Trinity). Almeno duecentomila giapponesi furono disintegrati tra il 6 agosto (Hiroshima) e il 9 agosto 1945 (Nagasaki) da Little boy (60 kg di uranio-235) e da Fat man (6,4 kg di plutonio-239). Se il modello di ogni complesso scientifico-militar-industriale è stato forgiato durante la Seconda guerra mondiale – vero e proprio laboratorio di cui il presente è ancora un’appendice –, il suo sviluppo non ha fatto che generalizzarne gergo. Non è forse degno di questa storia il calcolo scientifico delle kilocalorie necessarie alla mera sopravvivenza della popolazione di Gaza? («Le formule numeriche contenenti le soglie massime e minime sono ciò che i militari chiamano lo “spazio di respiro”, il tempo rimanente prima che le persone inizino a morire di fame», scrive Eyal Weizman ne Il minore dei mali possibili). Solo dei violentatori della lingua al servizio del dominio possono chiamare «Arcobaleno», «Prime Piogge», «Piogge Estive», «Nuvole di Autunno», «Inverno Caldo», «Sorgere dell’Alba» delle operazioni di bombardamento, come è accaduto con quelle realizzate dall’IDF contro gli abitanti di Gaza tra il 2004 e il 2022. Oppure chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal 2006 sempre contro i gazawi. O ancora dare il nome di Havatzalot («Gigli») a un programma accademico-militare incentrato sull’intelligence di guerra e sul combattimento tattico. E non è forse in perfetta continuità con il Progetto Manhattan chiamare Habsora («Vangelo»), Lavender («Lavandaia») e Were is Daddy? («Dov’è paparino?») i programmi di Intelligenza Artificiale con cui lo Stato d’Israele sta compiendo il primo genocidio automatizzato della storia? In risposta alle inutili (sul piano militare) e irresponsabili (sul piano delle conseguenze per l’intera umanità) provocazioni da parte della NATO attraverso il lancio di missili occidentali direttamente sul territorio russo, il complesso scientifico-militar-industriale che fa capo al Cremlino ha scagliato contro uno stabilimento militare ucraino un missile ipersonico. Questa “tipologia di arma” viaggia alla velocità di 2,5 chilometri al secondo ed è in grado di colpire ogni obiettivo in pochi minuti nel raggio di 5 mila chilometri, senza che l’apparato militare della NATO – almeno nel Vecchio Continente – possa intercettarlo. Cosa ancora più inquietante, questi missili, che l’esercito russo sta producendo in serie, sono fabbricati per trasportare diverse testate atomiche. Quello realizzato il 21 novembre scorso, insomma, è stato un vero e proprio test balistico nucleare senza bombe atomiche. Un avvertimento al servo (il governo ucraino) perché il padrone (la NATO) intenda. Un piano inclinato verso la guerra nucleare, i cui mezzi di mutua distruzione (nella scommessa che l’altro si fermi prima…) sono in realtà Mezzi assoluti, dal momento che qualsiasi nozione di Fine presuppone ancora un mondo dove poter perseguire degli obiettivi. La dottrina della “deterrenza nucleare” è allo stesso tempo l’apice della razionalità strumentale (e della sua costitutiva amoralità) e la sua disintegrazione per eccesso di potenza. Qualche analista militare (che epoca generosa per simili professioni) ha paragonato il lancio del missile IRBM (balistico a raggio intermedio) e MIRV (a testata multipla) al primo algoritmo di un programma automatico. Si chiamava “Minaccia di Apocalisse” o “Inizio dell’Inferno”? No, si chiamava Orešnik. «Nocciola». Vari scribacchini dei media occidentali hanno parlato di bluff. Un missile che viaggia a dieci volte la velocità del suono e che solo per un calcolo nella logica della potenza non trasporta testate atomiche sarebbe una minaccia più o meno retorica. Nei giorni successivi, infatti, sono stati lanciati contro il territorio russo altri missili a lunga gittata di produzione occidentale (che possono essere azionati, come quelli sganciati in precedenza, solo da personale della NATO), nonostante il Cremlino si fosse già dichiarato “in diritto” di colpire direttamente i Paesi che pianificano simili operazioni.    L’unica variabile che ci può salvaguardare dal fatto che in questo poker tra le potenze qualcuno finisca per andare a vedere, è il crollo generalizzato del fronte ucraino per l’insubordinazione del materiale umano e proletario da mandare nel tritatutto della guerra. L’unica “linea rossa” che ci può preservare dalla distruzione di massa è un movimento sociale e internazionale contro tutti i complessi scientifico-militar-industriali, le loro Unità Speciali, i loro Gadget, i loro Gigli, i loro Vangeli e le loro Nocciole.
In primo piano
Il fanale oscuro
Il 5 ottobre a Roma: un segnale
Il 5 ottobre a Roma: un segnale Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei. Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della resistenza palestinese. È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale. Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito. Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile: fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani, sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200 black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca. Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero – come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha. Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.
Stato di emergenza
In primo piano
Quante altre volte ancora!? (Sull’alluvione in Romagna)
Riceviamo e pubblichiamo questo testo che arriva dalla Romagna. Parole chiare in una società per tre quarti annegata. QUANTE ALTRE VOLTE ANCORA!? Quante scene che abbiamo già visto, quanta sofferenza per la stessa gente che dal Maggio del 2023 cerca di riprendersi dalla batosta e per contro, quante chiacchiere di chi dovrebbe “amministrare il bene pubblico” e amministra solo la propria sete di potere, l’ampiezza delle proprie tasche. Di fronte a questa nuova piccola catastrofe staremo davvero ancora ad ascoltare i blaterii di un Mesumeci, di una Meloni o di Bonaccini?! Davvero ci berremo ancora le menzogne di questa gentaglia che cura solo ed esclusivamente il proprio interesse e quello della loro classe d’appartenenza, ossia i padroni?! Di fronte a questa nuova emergenza, che si inserisce in una quotidianità di terrorismo mediatico e di propaganda di guerra (guerra di eserciti ma anche guerra alle povere, guerra ai migranti, guerra alle diversità, guerra a chi lotta sul posto di lavoro…) ci affideremo a un assassino blaterante come il generale Figliuolo?! Lo scrivevamo e gridavamo l’anno scorso e lo grideremo per sempre: i morti e le devastazioni dell’alluvione in Romagna del 2023 così come quelli del settembre 2024, sono morti e devastazioni del capitalismo e della politica complcie che lo amministra e sostiene: non sono “calamità naturali”. Asfaltare la terra e inquinare i cieli e i mari produce calamità non-naturali: ricollegarsi agli equilibri della Terra, buttando al fuoco questo stile di vita imposto dal profitto capitalista, è l’unica soluzione che si intravede in un presente che alterna siccità e alluvioni, trombe d’aria e incendi (senza contare guerre, genocidi, miseria, epidemie). Non abbiamo nulla da domandare alle istituzioni, perché crediamo che non stiano sbagliando, che siano distratte o impreparate, crediamo invece che lucidamente prefiggano i proprio interessi e quelli dell’élite alla quale appartengono: perché, tra sfruttate, tra gente semplice, tra contadini e artigiane, tra esseri umani oppressi non riusciamo a fare lo stesso? Perché, anzi, ci incarogniamo col diverso, col migrante, con quello del Sud, con chi non lavora, con chi occupa una casa, adottando il punto di vista dei nostri padroni e carnefici?! Se vuoi tutelare un crinale o un fosso di scolo o una piana soggetta ad alluvioni, i saperi ruruali antichi e anche le conoscenze moderne ci dicono come fare, e si può fare. Basta volerlo. A chi servono invece se non agli imprenditori i nuovi mega poli commeriali a Forlì, a Bertinoro, a Cesena con il loro corollario di asfalto? A chi serve un nuovo mega allevamento-lager come quello Fileni in Valmarecchia? Con che coraggio una chiesa (orribile) di tonnellate di cemento a Coriano quartiere forlivese simbolo dell’alluvione del ‘23? O il progetto di torri eoliche (da 160 metri) sui crinali dell’Acquacheta e forse a Modigliana dove di vento non ce n’è, ma di soldi del PNRR sì, eccome?! Non sono sviste, sono scelte intenzionali, sarebbe bene che ce lo mettessimo in testa: Stato e padroni se ne fregano di noi sottoposte, se non quando c’è da raschiare il fondo dell’urna elettorale. Se non fermiamo da noi queste mostruosità, se non fermiamo gli assassini dell’ambiente (e quindi di animali anche umani) la rivolta della Terra ci spazzerà via tutti. E l’anno scorso l’unica forza che davvero abbia risollevato i cuori allagati della gente, ancor prima che spalare il fango dalle strade, è stata la solidarietà attiva e autorganizzta della gente (non la malefica e classista burocrazia degli “aiuti”): attività che protezione civile, forze dell’ordine e politici hanno tentato di ostacolare in ogni modo, perché se ci autorganizziamo, chi ha più bisogno di Stato, governi e sbirri, che ci tengono alla catena?! È una questioni di sopravvivenza, ma ci interroga anche sul significato che diamo alla vita: supermercati, autostrade (il Passante di Mezzo di Bologna, per esempio), caserme, laboratori, server, autosaloni, antenne, condomini (tutta roba che consuma suolo e risorse) tratteggiano un mondo fatto ad immagine e somiglianza dei cadaveri in smoking che dominano questa società alla deriva. Laddove foreste, boschi, prati, feste, piazze piene, falò, fiumi, mari, condivisione, solidarietà, arte, amicizia, non hanno bisogno di infrastrutture mortifere per dispiegarsi, basta disertare il capitalismo, disubbidire all’autorità, riscoprire il valore e la bellezza della dignità nella rivolta, nell’autogestione, nell’autonomia. SOLIDARIETÀ ATTIVA E MUTUO AIUTO, PRIMA DI TUTTI VERSO I MENO PRIVILEGIATI, VERSO LE FASCE RESE DEBOLI DALLA SOCIETÀ DEL DENARO! DISERTIAMO LE MENZOGNE DELLE ISTITUZIONI: AUTOGESTIONE NELLA CURA DELLE VALLATE, DELLE PIANE, DELLE STRADE! FERMIAMO IL CAPITALISMO CHE CONDUCE LA TERRA ALLA DEVASTAZIONE E TRASFORMA LE NOSTRE ESISTENZE IN SPIETATE CORSE DI PLASTICA E ALIENAZIONE!  Alcuni Anarchiche della Romagna
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