La pace della terra
Pax, pace, significava la protezione dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza
dalla violenza della guerra. La pace proteggeva i contadini e i monaci. Era
questo il significato di Gottesfrieden (pace di Dio), di Landfrieden (pace della
terra). Questa pace proteggeva il bue e il chicco di grano sulla spiga. Essa
salvaguardava il granaio d’emergenza, il seme e il periodo del raccolto. In
genere, la «pace della terra» proteggeva i valori d’uso dell’ambiente da
un’interferenza violenta. Essa assicurava l’accesso all’acqua e al pascolo, ai
boschi e al bestiame a coloro che non avevano altri mezzi di sussistenza. La
«pace della terra» era perciò qualcosa di diverso da una tregua fra parti in
guerra. Questo significato della pace, legato essenzialmente alla sussistenza,
andò perduto con il Rinascimento.
Così scriveva Ivan Illich ne «La pace dei popoli» (1980), un testo contenuto in
Nello specchio del passato. Le radici storiche delle moderne ovvietà: pace,
economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione.
Considerazioni da cui deriva un «assioma fondamentale»:
che la guerra tende ad eguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in
cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò segue che
la pace non è esportabile: inevitabilmente si deteriora nel trasporto, il
tentativo stesso di esportarla significa guerra.
Le riflessioni che Illich ha disseminato nella sua vasta opera – tanto
immaneggiabile per l’industrialismo marxista quanto edulcorata dalle decrescite
più o meno felici – forse trovano solo oggi l’ora della loro compiuta
leggibilità. Ora che le «istituzioni debilitanti» (la medicina che produce
iatrogenesi sociale, il sistema dei trasporti che provoca la paralisi della
mobilità, l’istruzione di massa che genera ignoranza specializzata, le protesti
tecnologiche che atrofizzano le capacità con la pretesa di migliorarle) stanno
portando un attacco ultimativo all’umano in quanto tale e ai cicli vitali stessi
della specie. La guerra termonucleare sulle cui soglie ci aggiriamo inerti e
distratti è il prodotto incrementale della secolare guerra alla sussistenza.
Come se il sistema tecno-capitalista fosse sul punto di rovesciarci addosso
tutto quello di cui ci ha espropriato, prima trasformando le facoltà individuali
e comunitarie in merci e servizi, per poi espellerci da noi stessi e dal
Pianeta. In un mondo-laboratorio che procede lugubre e festante verso
l’abolizione delle umili verità coestensive alla condizione umana – il cibo
viene dalla terra, la vita nasce da un grembo –, i «monopoli radicali» non sono
più l’interferenza accentratrice e violenta del valore di scambio sui valori
d’uso, bensì la loro confisca: il seme del grano reso sterile e brevettabile, la
“bistecca” costruita con le cellule staminali del bue, il periodo del raccolto
reso permanente dalla biologia di sintesi e dal freezer, l’acqua usata per i
data center e sottratta ai campi.
Se è vero che siamo sempre più incarcerati dentro «sistemi che ci vogliono
curare dalla vita e dalle sue caratteristiche e non dalle malattie, che ci
vogliono curare dalla nostra fisicità e finitezza fino a fare di noi dei morti
viventi, dei morti che vengono tenuti in vita da un sistema assicurativo»
(Franco La Cecla, Ivan Illich e l’arte di vivere), come non vedere che per
passare dall’amministrazione della sopravvivenza sorvegliata alla morte
automatizzata basta «una sola mossa sul quadrante dei comandi»? Da questo punto
di vista, l’orrore di Gaza è una brutale concrezione del mondo. Mentre Unit
8200, il reparto dell’intelligence israeliana «composto per il 60% da ingegneri
ed esperti tech», stabilisce grazie ai programmi dell’IA quali e quanti gazawi
assassinare, altre «unità» burocratico-militari negano l’autorizzazione
necessaria a far entrare a Gaza i prodotti agricoli con la motivazione che i
suoi abitanti potrebbero trasformarli in strumenti di combattimento. Mentre in
Cisgiordania si assassinano i contadini palestinesi che si ostinano a
raccogliere le olive nonostante il controllo panottico-coloniale dei loro
territori, a qualche decina di chilometri i pompelmi vengono raccolti con i
droni. Non abbiamo qui l’immagine plastica dello scontro tra la sussistenza e un
sistema-laboratorio vòlto a sradicare ogni grumo di resistenza umana?
Fondendo l’esperienza sul campo nel Sud del mondo, in Africa e in America Latina
con le lezioni di Edward P. Thompson e Ivan Illich, alcune ecofemministe (penso
a The Subsistence Perspective di Maria Mies e Veronika Benholdt-Thomsen, di cui
ancora non esiste una traduzione italiana) hanno parlato di «economia morale di
sussistenza». La forza di una tale prospettiva sta nel fatto che non concepisce
l’emancipazione come «superamento della necessità», secondo lo schema
aristotelico e marxiano, ma come un certo modo – localmente radicato, basato
sulla reciprocità sociale e di genere, ecologicamente non distruttivo – di
affrontare quel tessuto di necessità quotidiane (mangiare, stare al caldo,
crescere i figli ecc.) che non può essere abolito da alcun macchinismo. Altro
punto di forza – e di controtendenza rispetto alle filosofie post-moderniste – è
la critica delle tecnoscienze in quanto patriarcato oggettivato (nei paradigmi
non meno che negli strumenti). Il punto debole, invece, consiste nell’illusione
che la sussistenza possa guadagnare progressivamente terreno ai danni delle
monocolture industriali e mentali grazie alla moltiplicazione degli esempi
comunitari.
La chance di non soccombere al sistema di nocività che ci ingloba (e ci
nutre) sta invece, a mio avviso, nell’intreccio tra un nuovo luddismo e la
ricerca testarda della coerenza tra i fini dell’emancipazione e i mezzi
dell’autonomia.
Se l’urgenza più stringente è oggi senz’altro quella di fermare il genocidio a
Gaza e la corsa verso la distruzione di massa, perché tutto ciò sia «qualcosa di
diverso da una tregua fra parti in guerra», la «turbina alimentata col sangue»
va individuata e attaccata in ciò che ha di indicibile: l’orrore di cui i suoi
mezzi smisurati sono gravidi sgorga direttamente dalla vita diminuita ch’essa
amministra.
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Vale per Monza, vale per Manhattan
Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di
quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di
vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di
messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole
“deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali
dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un
consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe
gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale
d’inizio di una più ampia guerra di classe».
Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era
l’ammazzato.
Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore
delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente
sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il
gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%,
seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese
celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese –
attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure
mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.
Quel “deny” è una risposta automatica per un sacco di gente e ogni giorno.
Lontano dai quartieri di lusso, in quegli ectoplasmi che non sono né campagne né
città, ma hinterland in mezzo al deserto, commesse, pulitori, operai, rider
fanno la fila per entrare in farmacie indistinguibili dai supermercati, con la
guardia armata all’entrata, in cui tutto – persino il dentifricio – è chiuso a
chiave dietro il vetro. Finita la fila, un addetto «che emana quel sottile
sentore di ammoniaca che fa pensare a una malattia endocrina» comunica che il
farmaco prescritto dal medico non può essere consegnato perché manca
l’autorizzazione preventiva da parte della compagnia assicurativa. Aggiungiamoci
anche il sentimento di essere delle cavie per l’industria farmaceutica (e per
Big data). Pensiamo per esempio alle terapie digitali, la cui
commercializzazione è stata autorizzata dalla Food and Drugs Administration nel
2017. A spingere la gente a ingerire farmaci-software dotati di nano-sensori
attraverso i quali il “tele-medico” può “monitorare” l’attività neuropsichica e
metabolica, è spesso il ricatto di evitare in tal modo una polizza assicurativa
più cara. In maniera più prosaica, dei dipendenti pubblici si trovano costretti
ad indossare un fit bit (un orologio digitale che misura il numero di passi),
altrimenti la UnitedHealthcare di turno può decidere di non assicurare chi ha
una vita considerata non sana sulla base dei dati forniti da quel fit bit…
Nella gioia per la morte di Thompson c’è tutto questo: cure negate, certo, ma
anche umiliazioni garantite da guardie armate, possibilità chiuse a chiave,
passeggiate obbligatorie, e una miseria che sa di ammoniaca.
Se poi il vendicatore è un giovane bianco, di bell’aspetto e di famiglia
benestante, laureatosi in una prestigiosa università, a cui si attribuiscono «un
manifesto politico anticapitalista», delle simpatie per Ted Kaczynski e dei modi
piuttosto gentili («Questi parassiti la devono pagare. Mi scuso per i traumi
provocati, ma andava fatto»), la sua «brutale onestà» (altra espressione
attribuita a Mangione) comunica un senso di riscatto e di speranza perché spezza
la più potente – se non la sola rimasta – ideologia contemporanea:
l’inevitabilismo.
Mettiamoci ora dal lato dei capitalisti, degli amministratori delegati e dei
tecnocrati. Al loro sentimento di costituire una razza superiore non
contribuiscono soltanto l’istruzione, i privilegi quotidiani e l’appartenenza a
una ristretta gated community. A un simile darwinismo sociale – lo stesso che ha
prodotto, storicamente, l’eugenetica – oggi si aggiunge qualcosa di inedito. La
possibilità di raggiungere, se non l’immortalità, una vita aumentata. Nel mondo
del transumanesimo realmente esistente, questa upper class spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea – che le si vende cara – di vivere fino a 120 anni. Questa nuova razza di
signori è pervasa quindi dal terrore di incidenti che possano ridurre il suo
capitale biologico, e possiede allo stesso tempo il potere di costruire una
società panottica a misura delle proprie paranoie. Per questi gated dreams, il
fantasma col cappuccio che si è materializzato in Avenue of the Americas, a
Manhattan, il 4 dicembre scorso, è un incubo umano, troppo umano.
Osservando quanto un solo gesto abbia polarizzato le passioni di un’intera
società, c’è di che riflettere. Se il giudizio di fatto è persino banale, quello
di valore non lo è affatto. Su questo abbiamo letto soprattutto formule
cautelative, distinguo, precisazioni (non richieste) di non voler fare né
apologie né istigazioni. E poi le immancabili tirate contro l’“individualismo” e
il “terrorismo”, oppure versioni “antagoniste” dell’inevitabilismo: morto un
amministratore delegato se ne fa un altro.
Per noi vale l’esatto opposto. L’azione violenta, quando è ben discriminata, va
sempre difesa. Poco importa che sia individuale o collettiva. Se, come in questo
caso, è addirittura cristallina, la difesa diventa essa stessa uno strumento di
propaganda rivoluzionaria.
È vero che a Thompson succederà un altro Ceo. Ma si può ripetere oggi quello che
l’anarchico Galleani diceva di Umberto I (il paragone non sembri esagerato,
perché il potere dei Thompson non è affatto inferiore). Il re ammazzato insegna
al suo successore se non altro la moderazione. La qual cosa va a pro di tutti
gli sfruttati. E sembra proprio questo il caso. «Appena il Ceo è stato
assassinato, Anthem Blue Cross (un’altra compagnia assicurativa) ha
immediatamente fatto marcia indietro su una nuova clausola che avrebbe messo a
carico degli assicurati eventuali tempi “extra” di anestesia». Le formule
“deny”, “delay”, “defend” si sono fatte magicamente meno arroganti, migliorando
un poco la salute degl’individui e della classe. Poteva riuscirci anche l’azione
collettiva? In astratto, sì. Nel concreto: quale?
Se ci auguriamo con tutto il cuore che i tre spari di Midtown Manhattan siano
davvero una «specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe»,
possiamo dire di Mangione quello che diciamo sempre dei nostri compagni
incarcerati: «Se è innocente, merita la nostra solidarietà. Se è colpevole, la
merita ancora di più». Anzi, per una volta, rinunciamo volentieri alle nostre
formule. Nega, difendi, detronizza. Mangione Libero!
Nocciola
Ad avvisarci dell’inizio della distruzione di massa non saranno le trombe del
Giudizio universale, ma qualche nomignolo elaborato dalla macchina
dell’eufemismo burocratico.
Se c’è un elemento che tutti i complessi scientifico-militar-industriali hanno
in comune è senz’altro l’ignobile creatività nel nascondere o banalizzare i
propri programmi, le proprie macchine, le proprie mosse sul quadrante dei
comandi.
«Soluzione finale della questione ebraica», prima di diventare
l’espressione-simbolo della produzione industriale di cadaveri, è stato
l’eufemismo con cui mascherarla. Nella macchina burocratica nazista, a cui IBM
ha fornito l’efficienza delle schede perforate, gli internati da avviare alle
camere a gas erano definiti «musulmani», mentre Sonderkommando («unità
speciale») era il nome per designare il gruppo di deportati costretti a
recuperare i capelli e gli eventuali denti d’oro dai corpi gassati («Aver
concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del
nazionalsocialismo», scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati). L’assassinio
di oltre duecentomila «improduttivi», «pesi morti della società» o «vite indegne
di essere vissute» è sgorgato da un programma che stava tutto in un sostantivo,
una lettera e un numero: Aktion T4 (come noto, T4 era l’abbreviazione di
Tiergartenstraße 4, via e numero civico di Berlino al cui indirizzo era situato
il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil-und Anstaltspflege,
la Fondazione di Beneficenza per la Salute e l’Assistenza sociale).
Come non ricordare, poi, i nomignoli con cui sono stati chiamati gli ordigni
atomici del Progetto Manhattan (alla cui produzione, giova ricordarlo, hanno
lavorato quasi seicentomila persone tenute all’oscuro di cosa stessero
fabbricando)? La bomba fatta esplodere il 16 luglio 1945 ad Alamogordo si
chiamava Gadget (così, come un orologio o un fermacarte), mentre il linguaggio
scelto per il test nucleare era iperbolico e biblico (Trinity). Almeno
duecentomila giapponesi furono disintegrati tra il 6 agosto (Hiroshima) e il 9
agosto 1945 (Nagasaki) da Little boy (60 kg di uranio-235) e da Fat man (6,4 kg
di plutonio-239).
Se il modello di ogni complesso scientifico-militar-industriale è stato forgiato
durante la Seconda guerra mondiale – vero e proprio laboratorio di cui il
presente è ancora un’appendice –, il suo sviluppo non ha fatto che
generalizzarne gergo. Non è forse degno di questa storia il calcolo scientifico
delle kilocalorie necessarie alla mera sopravvivenza della popolazione di Gaza?
(«Le formule numeriche contenenti le soglie massime e minime sono ciò che i
militari chiamano lo “spazio di respiro”, il tempo rimanente prima che le
persone inizino a morire di fame», scrive Eyal Weizman ne Il minore dei mali
possibili). Solo dei violentatori della lingua al servizio del dominio possono
chiamare «Arcobaleno», «Prime Piogge», «Piogge Estive», «Nuvole di Autunno»,
«Inverno Caldo», «Sorgere dell’Alba» delle operazioni di bombardamento, come è
accaduto con quelle realizzate dall’IDF contro gli abitanti di Gaza tra il 2004
e il 2022. Oppure chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di
bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto
d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal
2006 sempre contro i gazawi. O ancora dare il nome di Havatzalot («Gigli») a un
programma accademico-militare incentrato sull’intelligence di guerra e sul
combattimento tattico.
E non è forse in perfetta continuità con il Progetto Manhattan chiamare Habsora
(«Vangelo»), Lavender («Lavandaia») e Were is Daddy? («Dov’è paparino?») i
programmi di Intelligenza Artificiale con cui lo Stato d’Israele sta compiendo
il primo genocidio automatizzato della storia?
In risposta alle inutili (sul piano militare) e irresponsabili (sul piano delle
conseguenze per l’intera umanità) provocazioni da parte della NATO attraverso il
lancio di missili occidentali direttamente sul territorio russo, il complesso
scientifico-militar-industriale che fa capo al Cremlino ha scagliato contro uno
stabilimento militare ucraino un missile ipersonico. Questa “tipologia di arma”
viaggia alla velocità di 2,5 chilometri al secondo ed è in grado di colpire ogni
obiettivo in pochi minuti nel raggio di 5 mila chilometri, senza che l’apparato
militare della NATO – almeno nel Vecchio Continente – possa intercettarlo. Cosa
ancora più inquietante, questi missili, che l’esercito russo sta producendo in
serie, sono fabbricati per trasportare diverse testate atomiche. Quello
realizzato il 21 novembre scorso, insomma, è stato un vero e proprio test
balistico nucleare senza bombe atomiche. Un avvertimento al servo (il governo
ucraino) perché il padrone (la NATO) intenda. Un piano inclinato verso la guerra
nucleare, i cui mezzi di mutua distruzione (nella scommessa che l’altro si fermi
prima…) sono in realtà Mezzi assoluti, dal momento che qualsiasi nozione di Fine
presuppone ancora un mondo dove poter perseguire degli obiettivi. La dottrina
della “deterrenza nucleare” è allo stesso tempo l’apice della razionalità
strumentale (e della sua costitutiva amoralità) e la sua disintegrazione per
eccesso di potenza. Qualche analista militare (che epoca generosa per simili
professioni) ha paragonato il lancio del missile IRBM (balistico a raggio
intermedio) e MIRV (a testata multipla) al primo algoritmo di un programma
automatico. Si chiamava “Minaccia di Apocalisse” o “Inizio dell’Inferno”? No, si
chiamava Orešnik. «Nocciola».
Vari scribacchini dei media occidentali hanno parlato di bluff. Un missile che
viaggia a dieci volte la velocità del suono e che solo per un calcolo nella
logica della potenza non trasporta testate atomiche sarebbe una minaccia più o
meno retorica. Nei giorni successivi, infatti, sono stati lanciati contro il
territorio russo altri missili a lunga gittata di produzione occidentale (che
possono essere azionati, come quelli sganciati in precedenza, solo da personale
della NATO), nonostante il Cremlino si fosse già dichiarato “in diritto” di
colpire direttamente i Paesi che pianificano simili operazioni.
L’unica variabile che ci può salvaguardare dal fatto che in questo poker tra le
potenze qualcuno finisca per andare a vedere, è il crollo generalizzato del
fronte ucraino per l’insubordinazione del materiale umano e proletario da
mandare nel tritatutto della guerra. L’unica “linea rossa” che ci può
preservare dalla distruzione di massa è un movimento sociale e internazionale
contro tutti i complessi scientifico-militar-industriali, le loro Unità
Speciali, i loro Gadget, i loro Gigli, i loro Vangeli e le loro Nocciole.
Riceviamo e diffondiamo la traduzione dell’ultimo opuscolo del gruppo anarchico
“Assembly” di Kharkov:
opuscolo_diserzioneAssembly
Il 5 ottobre a Roma: un segnale
Odiamo la retorica, la radicalità puramente fraseologica, lo sciocco
trionfalismo, ma anche gli inutili piagnistei.
Mentre continuano i massacri a Gaza e in Cisgiordania; mentre i bombardamenti
statunitensi-israeliani si allargano al Libano, allo Yemen, alla Siria; mentre
nello scontro globale ogni cosa può diventa uno strumento di morte (persino un
cerca-persone – il che significa: più siamo controllabili, più diventiamo
uccidibili); mentre si procede a passi spediti verso l’economia di guerra e lo
scontro tra NATO e Russia travolge ogni “linea rossa”, il ministro degli Interni
vieta una manifestazione contro il genocidio in corso e a sostegno della
resistenza palestinese.
È evidente a chiunque che accettare anche questo avrebbe significato un
ulteriore passo verso quell’angolo in cui è confinato il conflitto sociale.
Migliaia di persone – in buona parte giovani e giovanissimi – lo hanno capito.
Per questo erano in piazza Ostiense, con il cuore a Gaza e gli occhi ben puntati
verso quel dispiegamento di divise e mezzi il cui messaggio era inequivocabile:
fine delle pantomime democratiche, in guerra non si manifesta. Ed erano in
piazza nonostante l’allarmismo mediatico, i controlli addirittura prima della
partenza dei pullman, i posti di blocco, i fermi e i numerosi fogli di via
preventivi. Ci si poteva accontentare di essersi presi la piazza e di ascoltare
i piagnistei sulla violazione della Costituzione, la liberà di espressione e via
intristendosi? A nostro avviso, no. Di fronte a un tale concentrato di
ingiustizia – quei cordoni di blindati e uniformi erano a protezione della
guerra, dei massacri e delle lucrose collaborazioni tra il governo italiano e i
dispensatori industriali di morte – era giusto che la rabbia tracimasse. La
tecnica poliziesco-mediatica dell’accerchiamento – anticipazione plastica del
DDL elmetto-manganello – è stata bucata dalla determinazione di giovani,
sconosciute, compagni, che hanno affrontato con coraggio e generosità le
manganellate, gli idranti, i gas lacrimogeni, permettendo che qualche corteo
spontaneo avesse poi davvero corso (mentre gli estenuanti negoziati stavano
letteralmente facendo girare in tondo dentro il recinto). Se la solfa dei “200
black bloc infiltrati” è la tecnica di divisione da sempre prediletta, riferita
alla composizione di chi era nelle prime file ieri suona addirittura grottesca.
Basta un colpo di reni per uscire dall’angolo? Sicuramente no, ma è anche vero –
come diceva quel tale – che le lotte sono fatte per un quarto di realtà e per
tre quarti di fantasia e sentimento. L’accettazione del recinto l’avremmo
accusata nei corpi e nello spirito, regalando al nemico (di classe e, ormai, di
specie e della Terra) un’onnipotenza che non ha.
Ieri in piazza è circolata, assieme ai gas Cs, aria buona. Bene così.
Riceviamo e pubblichiamo questo testo che arriva dalla Romagna. Parole chiare in
una società per tre quarti annegata.
QUANTE ALTRE VOLTE ANCORA!?
Quante scene che abbiamo già visto, quanta sofferenza per la stessa gente che
dal Maggio del 2023 cerca di riprendersi dalla batosta e per contro, quante
chiacchiere di chi dovrebbe “amministrare il bene pubblico” e amministra solo la
propria sete di potere, l’ampiezza delle proprie tasche.
Di fronte a questa nuova piccola catastrofe staremo davvero ancora ad ascoltare
i blaterii di un Mesumeci, di una Meloni o di Bonaccini?!
Davvero ci berremo ancora le menzogne di questa gentaglia che cura solo ed
esclusivamente il proprio interesse e quello della loro classe d’appartenenza,
ossia i padroni?!
Di fronte a questa nuova emergenza, che si inserisce in una quotidianità di
terrorismo mediatico e di propaganda di guerra (guerra di eserciti ma anche
guerra alle povere, guerra ai migranti, guerra alle diversità, guerra a chi
lotta sul posto di lavoro…) ci affideremo a un assassino blaterante come il
generale Figliuolo?!
Lo scrivevamo e gridavamo l’anno scorso e lo grideremo per sempre: i morti e le
devastazioni dell’alluvione in Romagna del 2023 così come quelli del settembre
2024, sono morti e devastazioni del capitalismo e della politica complcie che lo
amministra e sostiene: non sono “calamità naturali”.
Asfaltare la terra e inquinare i cieli e i mari produce calamità non-naturali:
ricollegarsi agli equilibri della Terra, buttando al fuoco questo stile di vita
imposto dal profitto capitalista, è l’unica soluzione che si intravede in un
presente che alterna siccità e alluvioni, trombe d’aria e incendi (senza contare
guerre, genocidi, miseria, epidemie).
Non abbiamo nulla da domandare alle istituzioni, perché crediamo che non stiano
sbagliando, che siano distratte o impreparate, crediamo invece che lucidamente
prefiggano i proprio interessi e quelli dell’élite alla quale appartengono:
perché, tra sfruttate, tra gente semplice, tra contadini e artigiane, tra esseri
umani oppressi non riusciamo a fare lo stesso?
Perché, anzi, ci incarogniamo col diverso, col migrante, con quello del Sud, con
chi non lavora, con chi occupa una casa, adottando il punto di vista dei nostri
padroni e carnefici?!
Se vuoi tutelare un crinale o un fosso di scolo o una piana soggetta ad
alluvioni, i saperi ruruali antichi e anche le conoscenze moderne ci dicono come
fare, e si può fare. Basta volerlo.
A chi servono invece se non agli imprenditori i nuovi mega poli commeriali a
Forlì, a Bertinoro, a Cesena con il loro corollario di asfalto? A chi serve un
nuovo mega allevamento-lager come quello Fileni in Valmarecchia? Con che
coraggio una chiesa (orribile) di tonnellate di cemento a Coriano quartiere
forlivese simbolo dell’alluvione del ‘23?
O il progetto di torri eoliche (da 160 metri) sui crinali dell’Acquacheta e
forse a Modigliana dove di vento non ce n’è, ma di soldi del PNRR sì, eccome?!
Non sono sviste, sono scelte intenzionali, sarebbe bene che ce lo mettessimo in
testa: Stato e padroni se ne fregano di noi sottoposte, se non quando c’è da
raschiare il fondo dell’urna elettorale.
Se non fermiamo da noi queste mostruosità, se non fermiamo gli assassini
dell’ambiente (e quindi di animali anche umani) la rivolta della Terra ci
spazzerà via tutti.
E l’anno scorso l’unica forza che davvero abbia risollevato i cuori allagati
della gente, ancor prima che spalare il fango dalle strade, è stata la
solidarietà attiva e autorganizzta della gente (non la malefica e classista
burocrazia degli “aiuti”): attività che protezione civile, forze dell’ordine e
politici hanno tentato di ostacolare in ogni modo, perché se ci autorganizziamo,
chi ha più bisogno di Stato, governi e sbirri, che ci tengono alla catena?!
È una questioni di sopravvivenza, ma ci interroga anche sul significato che
diamo alla vita: supermercati, autostrade (il Passante di Mezzo di Bologna, per
esempio), caserme, laboratori, server, autosaloni, antenne, condomini (tutta
roba che consuma suolo e risorse) tratteggiano un mondo fatto ad immagine e
somiglianza dei cadaveri in smoking che dominano questa società alla deriva.
Laddove foreste, boschi, prati, feste, piazze piene, falò, fiumi, mari,
condivisione, solidarietà, arte, amicizia, non hanno bisogno di infrastrutture
mortifere per dispiegarsi, basta disertare il capitalismo, disubbidire
all’autorità, riscoprire il valore e la bellezza della dignità nella rivolta,
nell’autogestione, nell’autonomia.
SOLIDARIETÀ ATTIVA E MUTUO AIUTO, PRIMA DI TUTTI VERSO I MENO PRIVILEGIATI,
VERSO LE FASCE RESE DEBOLI DALLA SOCIETÀ DEL DENARO!
DISERTIAMO LE MENZOGNE DELLE ISTITUZIONI: AUTOGESTIONE NELLA CURA DELLE VALLATE,
DELLE PIANE, DELLE STRADE!
FERMIAMO IL CAPITALISMO CHE CONDUCE LA TERRA ALLA DEVASTAZIONE E TRASFORMA LE
NOSTRE ESISTENZE IN SPIETATE CORSE DI PLASTICA E ALIENAZIONE!
Alcuni Anarchiche della Romagna
Riceviamo e diffondiamo questo importante contributo del gruppo anarchico
“Assembly” di Kharkov, ringraziando chi ce...
Questo testo si ricollega, aggiornandoli, alle analisi e ai ragionamenti
sviluppati nella serie Apocalisse o...
«Mentre fuma ancora la piaga aperta di Hiroshima» «L’8 agosto 1945 rimarrà per
alcuni una...
Riceviamo da compagne e compagni di Torino la traduzione di questo testo scritto
da “Assembly”,...