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Ubu Re nell’èra della tecnocrazia
Se è di un’evidenza abbacinante la natura suprematista e colonialista del “piano Trump” per Gaza, forse l’aggettivo più corretto per definire il discorso con cui il presidente degli Stati Uniti lo ha annunciato è «ubuesco». Soltanto la penna di un Alfred Jarry, infatti, avrebbe potuto descrivere un potere a tal punto mostruoso nei mezzi e grottesco nelle pretese. Alcune frasi di Ubu Roi – l’opera teatrale che l’autore francese scrisse nel 1896 – si sarebbero incastonate alla perfezione nella conferenza di Trump. L’immobiliarista statunitense, con a fianco il suo amico genocida, ha promesso una vita piena di prosperità a una popolazione che vive in un carcere di massima sicurezza, in mezzo a una distesa di rovine, tra la fame e le bombe. Non diversamente da Ubu Re, che annunciava tronfio : «Va bene, acconsento a espormi per voi. […] Grazie a me, avrete di che cenare. […] Sono dispostissimo a diventare un sant’uomo, voglio essere vescovo e vedere il mio nome sul calendario». Se la patafisica fondata da Jarry era «la scienza delle soluzioni immaginarie», noi viviamo nell’epoca in cui la tecnoscienza, togliendo ogni misura storica ai problemi, può offrire delle soluzioni eterne. Proprio così. In poche ore (72, per la precisione) ci si può avviare, se tutti fanno quello che dice Padre Ubu, verso una «pace eterna» in grado di risolvere per sempre un conflitto che va avanti da «due-tremila anni». Millennio più, millennio meno. Per vendere una soluzione eterna, il problema deve ben essere millenario. Circoscriverlo storicamente al progetto sionista, alla Dichiarazione Balfour, alla nascita dello Stato israeliano o alla «linea verde» oltrepassata da Israele nel 1967, non permetterebbe alla tecnoscienza delle soluzioni immaginarie di girare a pieno regime. Un immobiliarista che agisce per conto di Dio, un Padrone delle Finanze attorniato da transumanisti che vogliono colonizzare Marte, non è tenuto nemmeno a precisare tra chi e chi sarebbe in corso questo conflitto da «due-tremila anni». Ubu Re (quello di Jarry): «Dovete convincervi che se siete ancora vivi […], lo dovete alla virtù magnanima del Padrone delle Finanze, che si è affannato, sfacchinato e sgolato a recitare paternostri per la vostra salvezza […]. Abbiamo persino spinto oltre la nostra dedizione, perché non abbiamo esitato a salire su una roccia altissima affinché le nostre preghiere avessero meno strada da fare per giungere sino al cielo». Come noto, non ci sono Soluzioni senza un Piano. «Gaza sarà riqualificata a beneficio della popolazione». Ci penserà il Consiglio di Amministrazione. «Questo organismo [il Board of Peace] si baserà sui migliori standard internazionali per creare una governance moderna ed efficiente al servizio della popolazione di Gaza e che favorisca l’attrazione di investimenti». Il Piano «sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti e miracolose città moderne del Medio Oriente». Se la pace è «eterna», le città non possono essere niente meno che «miracolose». Altro che quartieri pieni di strade e vicoli o villaggi circondati dagli uliveti. «Sarà istituita una zona economica speciale con tariffe di accesso preferenziali da negoziare con i paesi partecipanti». «La Nuova Gaza sarà pienamente impegnata a costruire un’economia prospera». Ubu Re (quello di Jarry): «Vi conduco verso una felicità che adesso non sareste nemmeno in grado di sognare. Solo io lo so». Io e altre «brave persone» – Erdogan, Tony Blair, il monarca dell’Arabia Saudita – le cui soluzioni non sono state meno eterne per i curdi, gl’iracheni e gli yemeniti. (Ed è certo solo un caso che Tony Blair sia anche consulente di British Petroleum, la multinazionale inglese intenzionata a sfruttare i giacimenti di gas al largo di Gaza.) Maurice Genevoix, nel suo Un Jour (1976), aveva già aggiornato il ritratto dei tiranni ubueschi nell’èra della tecnocrazia: «saltimbanchi, persone designate per la loro pura omni-incompetenza, buoni a nulla con poteri mostruosi». Per concludere: «È il mondo alla rovescia, c’è da disperarsi». I buoni a nulla hanno oggi poteri ancora più mostruosi. Il potere di far sorgere «città miracolose» su decine di migliaia di cadaveri e sull’immane devastazione prodotti dal primo genocidio automatizzato della storia. Sicuri che i sopravvissuti – quelli che l’unità 8200 dell’esercito israeliano non ha trasformato in «spazzatura» algoritmica – sapranno cogliere «l’opportunità di costruire una Gaza migliore», grazie a un «comitato palestinese tecnocratico e politico». Un massacro tecnologicamente organizzato non può che avere una soluzione «tecnocratica». Messianico il primo, eterna la seconda. È un Piano mostruoso. Infatti anche le tecnocrazie russa e cinese sono d’accordo. Circondati da specialisti omni-incompetenti di tutto ciò che è umano, di ciò che richiede soluzioni storiche e sociali commisurate a problemi storici e sociali, gli Ubu Re osano annunciare – Himalaya di infamia e di stupidità – che tra gli sterminatori e gli sfuggiti allo sterminio ci sarà una «convivenza pacifica», e che la vita futura di questi ultimi sarà «prospera» per gentile concessione dei suoi colonizzatori e di chi li ha sostenuti, finanziati e armati. Mentre i commentatori stipendiati e i saltimbanchi politici scommettono sulla ubuizzazione dei nostri cervelli («È fattibile il piano Trump?», chiede l’elegante presentatrice all’immancabile esperto), c’è un unico argine agli ubueschi deliri di un potere insaziabile: la rivolta degli oppressi. La cui sacrosanta violenza potrà mantenere la misura della libertà solo conservando intatto il disgusto verso i mezzi mostruosi e disumani dei propri oppressori.
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Il fanale oscuro
Impressioni di settembre
La giornata del 22 settembre è stata un’importante boccata d’aria, come se finalmente fosse saltato il tappo. Non avevamo dubbi sul fatto che a rimettere in moto la rabbia sociale sarebbe stata la Palestina e non la politica interna. Per esempio, il “blocchiamo tutto per Gaza” ha sfidato il decreto sicurezza più di quanto non abbiano fatto finora le piazze organizzate su quel terreno specifico di contestazione. Il ciclo storico di guerra in cui siamo entrati colloca le vite e quindi le iniziative di lotta su un piano necessariamente internazionale, di cui il fronte interno è il riflesso. Se le idee spesso divergono, c’è qualcosa di universale nei sentimenti. Che l’emozione contro il genocidio stesse crescendo era palpabile: lo sciopero generale le ha fornito l’occasione di esprimersi. Quel sentimento si è tradotto in partecipazione di massa anche per la parziale e opportunistica legittimazione – sul piano umanitario – da parte di mass media e mondo culturale, grazie al coinvolgimento che ha suscitato la Global Sumud Flotilla. Il ponte tra il sostegno a distanza e la partecipazione diretta ai blocchi è avvenuto grazie ai portuali di Genova. Sono state le loro dichiarazioni – e la storia da cui provengono – a incrinare il recupero politico-umanitario-spettacolare operato sulla Flotilla e a trasformare uno sciopero in un movimento reale. Ha detto bene una scrittrice palestinese, parlando di una flottiglia per i ritardatari. Se però tra questi ultimi ci sono migliaia di giovani e di giovanissimi, il ritardo può assumere la dimensione di un nuovo inizio. Si tratta dunque di spingere il più in avanti possibile la marea, cogliendo fino in fondo la frattura che si è aperta (e che non è detto che rimanga aperta a lungo). Da questo punto di vista, la valutazione del 22 settembre cambia se lo si osserva dal punto di vista sociale oppure se ci si concentra sui gruppi che hanno mantenuto costante l’iniziativa a fianco della resistenza palestinese in questi due anni. Le iniziative a nostro avviso più significative sono state i blocchi dei porti, perché hanno unito precisione strategica e partecipazione di massa – di lì passano le forniture belliche al sistema genocida israeliano, lì si organizza la logistica di guerra –, mentre gli altri blocchi sono stati più generici. Che di fronte a un genocidio si debba fermare tutto è un’indicazione importante, sentita e facilmente riproducibile, anche nelle piccole realtà. Ma ad essa va aggiunta la capacità di colpire in modo più preciso la macchina delle collaborazioni (fabbriche, centri di ricerca, banche, assicurazioni, aziende). La mancanza di tale aggiunta denota una certa arretratezza dei gruppi più organizzati, a cui lo sciopero del 22 settembre ha fornito un’occasione in buona parte non còlta. Se lo “stato di agitazione permanente” continuerà, come sembra, a creare momenti di incontro e di rottura, è necessario saper dare nome, cognome e indirizzo a chi si arricchisce con lo sterminio del popolo palestinese. Unendo al “blocchiamo tutto” (che permette una partecipazione più ampia) il “mandiamo in pezzi la macchina globale del genocidio”. Se persino una relatrice ONU parla di “economia del genocidio”, si tratta di trarne le conclusioni pratiche. Se “il genocidio continua perché è redditizio”, la solidarietà internazionale con la resistenza palestinese lo deve trasformare in un pessimo affare.
Stato di emergenza
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Prepariamoci alla guerra
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: prepariamoci alla guerra Prepariamoci alla guerra Mentre i nostri occhi pieni di orrore sono per forza di cose puntati su Gaza, le cancellerie d’Europa – in testa la Commissione europea – sembrano fare di tutto per far precipitare la guerra contro la Russia. Nel giro di neanche un mese, abbiamo assistito alla reintroduzione della leva militare in Germania (al momento volontaria, ma con «opzione di obbligo» nel caso non si raggiunga un numero sufficiente di arruolati); al clamore mediatico – dal chiaro linguaggio bellicista – sull’incontro tra Putin, Xi Jinping e Kim Jong-un a Pechino; alla fake news sul sabotaggio mai avvenuto all’aereo di Ursula von der Leyen nei cieli della Bulgaria; alla circolare per la militarizzazione degli ospedali in Francia (seguìta in questi giorni da un’analoga disposizione in Italia) e, infine, all’episodio dei droni “russi” (virgolette d’obbligo, perché su questa notizia sono più i dubbi che le certezze) in parte caduti e in parte abbattuti dalla contraerea polacca all’interno dei propri confini. Nelle stesse ore in cui il governo della Polonia convocava i vertici della NATO attivando l’articolo 4 dell’Alleanza, Ursula von der Leyen, nel suo quinto discorso sullo stato dell’Unione Europea, pronunciava parole inequivocabili: «l’Europa deve combattere» all’interno di «uno scontro per il nuovo ordine mondiale basato sul potere», e rilanciava nuovamente la necessità di una «economia di guerra». Nello stesso discorso, Von der Leyen ha dichiarato anche che il massacro a Gaza «non è più accettabile» – come se lo fosse fino al giorno prima… – paventando delle «sanzioni parziali» contro Israele. A strettissimo giro, è cominciata la missione «Sentinella dell’Est», con lo schieramento di 40.000 soldati polacchi, nonché di sistemi d’arma della NATO (aerei da bombardamento, fregate, radar), sui confini russi e bielorussi, mentre viene ipotizzata una «no fly zone» sulla parte occidentale dell’Ucraina. Da un lato e l’altro del fronte, entrambi i contendenti stanno predisponendo e testando mezzi che possono essere armati con testate nucleari (la Francia ha schierato in Polonia aerei Rafale, la Russia ha simulato in Bielorussia il lancio di missili Iskander). Come interpretare questo indubitabile crescendo di quelli che – comunque li si voglia leggere – sono dei segnali, rivolti tanto alla popolazione europea quanto ai vari gerarchi dello scacchiere internazionale (e ai “loro” popoli)? Se sappiamo benissimo che nella società dello spettacolo il dominio persegue i propri obiettivi facendo dell’organizzazione dell’apparenza una leva di trasformazione della realtà, e che questa sequela di mosse potrebbe essere finalizzata “soltanto” a riempire le casse dei produttori di armi e a rilanciare il complesso scientifico-militare-industriale, sappiamo anche – come avvertiva un vecchio situazionista – che non c’è illusione senza supporto reale. Un’economia di guerra non può funzionare senza la guerra stessa, ovvero, nella situazione attuale, senza rilanciarla e allargarla. Anche solo per il fatto che, per poter essere prodotte a ciclo continuo, le armi devono essere via via distrutte sui campi di battaglia. Se a questo aggiungiamo che non sappiamo come reagirà il Cremlino davanti a queste provocazioni, e che ogni guerra riapre sempre i conti lasciati in sospeso nei conflitti passati (e infatti tutto il fronte orientale dell’Unione, da Svezia e Finlandia alla Polonia a guida atlantista-nazionalista, passando per i Paesi baltici, non vede l’ora di potersi scagliare contro la Russia – mentre la Romania pacifista è già stata precettata), lo spettacolo della nuova “Grande Guerra” potrebbe rovesciarsi in realtà da un giorno all’altro. In questo contesto, che significa prepararsi? Innanzitutto sapere che la guerra può effettivamente espandersi, e che non possiamo dare per scontato il suo contenimento all’interno dell’Ucraina mentre tutto fa pensare il contrario. In secondo luogo, sapere bene cosa dire e cosa fare in caso di allargamento del conflitto, denunciando con fermezza le responsabilità sempre più flagranti dei padroni di casa nostra: degli USA che l’hanno provocato; dell’Unione Europea che, con la bava alla bocca, ne raccoglie il testimone; del governo italiano, reggicoda di entrambi; della falsa opposizione, pacifista dell’ultim’ora o realmente guerrafondaia. In terzo luogo, tenere bene a mente che chi varcherà per primo il confine altrui, la NATO o la Federazione Russa, non deve fare per noi alcuna differenza. Solo con delle idee chiare è possibile evitare quell’effetto paralisi che ci ha già còlti nel recente passato (con l’Emergenza Covid, con l’invasione russa dell’Ucraina e, in misura fortunatamente minore, anche nella prima fase del massacro dei palestinesi dopo il 7 ottobre), e che sarebbe ancora più imperdonabile nel presente. Solo con le idee chiare si possono cogliere le occasioni, senza regalare per l’ennesima volta ai nostri nemici quel tempo prezioso che permetterebbe loro di seminare ancora una volta confusione e divisioni attraverso un avvelenamento propagandistico che abbiamo già conosciuto, e di dare un’ulteriore stretta securitaria e repressiva al fronte interno. Se ragionamenti come questi, per motivi che qui non ci interessa analizzare, fanno un po’ fatica a muoversi negli attuali àmbiti “antagonisti”, teniamo presente che non siamo soli. Là fuori c’è un mondo intero di sfruttati e oppressi che negli ultimi cinque anni ha subito di tutto: restrizioni, terrore televisivo in dosi inaudite, inoculazioni forzate, censura; che oggi boccheggia sotto i colpi di inflazione, povertà e precarietà; e che soprattutto non vuole la guerra. Se questo mondo, in caso di escalation, scenderà nuovamente in strada, la presenza di personaggi ambigui, quando non apertamente reazionari e razzisti, non dovrà spaventarci. Mentre sappiamo per esperienza diretta che in giro non mancano le persone di cuore che negli ultimi due anni hanno guardato a Gaza con la nostra stessa angoscia, a tenere alla larga i vari Rizzo e Vannacci c’è una parola di quattro sillabe: Palestina. Che basta e avanza a differenziare il disfattismo internazionalista dal pacifismo reazionario: quello di chi è contrario alla guerra solo quando pensa che possa arrivargli in casa, e per il resto vuole che tutto continui come prima (e tanto meglio, come dice il premier tedesco, se Israele fa il lavoro sporco per tutti noi). Da questo punto di vista, non appare casuale che, nel discorso più bellicista della sua carriera, la tecnocrate Von der Leyen abbia espresso per la prima volta una timidissima condanna dell’operato di Israele. Senza neanche una mezza reprimenda verso un genocidio che ormai solo i burocrati del suo stampo non chiamano per nome, come sarebbe possibile legittimare un conflitto potenzialmente nucleare in nome dei “valori” e della “libertà” occidentali? Nel frattempo si è visto in cosa consisterebbero le fantozziane «sanzioni parziali» proposte dalla Commissione Europea: ad Israele verrebbe negato soltanto il suo status di «partner commerciale privilegiato» (ovvero, dovrebbe pagare le stesse tasse degli altri Paesi extra-UE), e nella bozza della Commissione non c’è neanche l’ombra di un divieto all’esportazione di armi e materiale bellico. A noi, e a chi si ribellerà con noi, spetta ribadire che le mani che armano il genocidio e cercano di incendiare la nuova Grande Guerra sono esattamente le stesse, con la complicità della sinistra più o meno sionista e sempre con l’elmetto (PD, Avs, Cgil), che da un lato cerca di «salvare Israele da se stesso» agitando la parola d’ordine sempre più improponibile dei «due popoli due Stati» in Palestina, e dall’altro soffia più di tutti sul fuoco della guerra alla Russia (quanto al Movimento 5stelle, basta ricordare che ha votato fino a ieri l’invio di armi a Kiev per smascherare la sua opposizione di facciata). Mentre il grido “Blocchiamo tutto!” si alza dalle piazze per Gaza e dai porti del Mediterraneo (e dalle manifestazioni francesi contro i piani di austerità), fornendoci finalmente l’occasione per fare qualcosa di concreto contro i massacratori sionisti – ma anche, indirettamente, contro i piani di repressione e pacificazione del fronte interno; mentre le atrocità dell’IDF a Gaza City potrebbero portare in strada anche chi finora non si è mosso; e mentre ci prepariamo a una nuova mobilitazione per strappare Alfredo Cospito alla tortura del 41-bis, non cessiamo né di agire né di pensare ai prossimi tornanti. Mentre scendiamo in strada per la Palestina, creiamo le condizioni per poter continuare a lottare, chiudendo la via alla guerra e rovesciandola contro i padroni. La realtà sta arrivando. Che ci trovi sulle barricate. 21 settembre 2025 assemblea Sabotiamo la guerra
Rompere le righe
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Terrorizzare e reprimere (da disfare 2)
Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che è possibile ordinare copie del secondo numero scrivendo a disfare@autistici.org (al prezzo di 4 euro a copia, 3 euro per i distributori dalle 3 copie in su). Scarica l’articolo in formato pdf: disfare_2_terrorizzare_e_reprimere Terrorizzare e reprimere Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di “terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui. Rovesciamenti semantici Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser, creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1].   Formalmente ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare. Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero, scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera società[2]. L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni, in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio, combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza», inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60 sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari. Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937, secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi possibili[4]. Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del Novecento[5]. Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare, da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni, l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia. Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986 con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere, edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima. Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale – osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi. Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto; loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di reazione. Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7].  Inoltre, nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione: aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo, moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva, dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine costituito. Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore, ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto. Al di fuori dello Stato, il nulla Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola, della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma razionale dell’arte di governo. Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica, sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente immodificabile.   D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città, terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato: abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il terrore. Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto – come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati, siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault, attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere. Tiravento [1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26 luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che minaccia sistematicamente il popolo. [2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli. [3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il 1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere qualcosa di nuovo, che resterà». [4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti, soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle proprie terre da parte dei coloni. [5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale», condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali, razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale, costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della popolazione civile alla politica statale di oppressione». [6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz, capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush. [7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici, alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici. [8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la popolazione civile». [9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes, lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza continua, in una situazione di guerra permanente.  
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Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato, almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un metodo. Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel presente. Il Metodo Giacarta «Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua, Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare. Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il mondo in cui viviamo oggi». Una spietata efficacia «L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse. L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo. Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale indonesiana». In poche parole «”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero arcipelago indonesiano intorno a lui”. Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto. Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”». I numeri di un massacro Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000» e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri: Messico 1965-1982: 1300 Honduras 1980-1993: 200 Nicaragua 1979-1989: 50 000 Guatemala 1954-1996: 200 000 Venezuela 1959-1970: 500-1500 El Salvador 1979-1992: 75 000 Colombia 1985-1995: 3000-5000 Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80 0000 Iraq 1963 e 1978: 5000 Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un avversario geopolitico degli Stati Uniti») Sudan 1971: un po’ meno di 100 Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000 Thailandia 1973: 3000 Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000 Taiwan 1947: 10 000 Filippine 1972-1986: 3250 Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000 Timor Est 1975-1999: 300 000 Indonesia 1965-1966: 1 000 000 «Giacarta sta arrivando» O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori. La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio, ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio anticomunista». Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina, Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta». Perché «Giacarta»? Operazione Annientamento Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965 dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato». Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del 1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro organizzativo della modernizzazione. «Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste, allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas. Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in Vietnam. La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega comunista. Silenzio «Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di avere qualche associazione con il Pki. Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente. Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque. Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi. […] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato dalle cicatrici e smarrito». Il Metodo Gaza Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista» più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi. Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista» come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana). Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila) e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a Elon Musk e a Peter Thiel). Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico» riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA), schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione «antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato». È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua guerra psicologica. Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili del mondo. L’ordine è già stato impartito «Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico” (meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta, dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni di palestinesi per fare una riviera di lusso. La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso, o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte». «”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana». Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e l’infame violenza su cui sono stati costruiti. Una credenza insostenibile In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana del suo libro, Bevins diceva: «Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina, resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia, soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora». Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale. Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità né all’orrore disarmato.
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Qui il pdf: Motivazioni Motivazioni La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me» Primo Levi, I sommersi e i salvati «Il progetto è già attivo e attualmente in corso. Non ci si può ritirare a meno di fornire delle motivazioni». È in questo modo che l’Università di Trento e nello specifico il DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione), attraverso le dichiarazioni del senato accademico, si giustifica di fronte al fatto di non voler recidere alcun contratto con IBM Israel, colosso tecnologico fondamentale allo Stato di Israele nell’identificazione e la classificazione (con finalità di genocidio) dei palestinesi. Ora, non sono certo nuove le collaborazioni dell’Università di Trento con l’industria e la ricerca belliche, ed in particolare con lo Stato di Israele, le sue università e le sue aziende. Ma che, con un genocidio in corso, tali personaggi non riescano proprio a trovare delle motivazioni per smettere di esserne complici, ci sembra superi ogni misura umana. O meglio, ci sembra esattamente conseguente alla “banalità del male” che pervade ormai ogni ambito del complesso scientifico-militare-industriale e dei suoi collaboratori. È però una seconda affermazione del senato ad essere forse ancora più emblematica, la “seconda ragione” per cui non è da discutere la collaborazione in corso, e che non si vergogna a definire “ragione di volontà”. «Sono presenti diversi accordi con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti umani e bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria», ci spiegano. Sorprendendoci per l’insolita chiarezza (ma che mondo è quello che vanifica persino il bisogno di lavarsi le mani sporche di sangue?) cogliamo l’occasione per provare a tornare su alcuni ragionamenti. Potrebbe sbalordire il fatto che IBM, per mezzo delle schede perforate del suo fondatore Herman Hollerith, fu l’azienda fondamentale al Reich nazista per il censimento degli ebrei e dunque al funzionamento dei campi di concentramento e di sterminio. Ma se si prova a prendere in mano alcuni dei documenti che certificano la nascita e la storia dello Stato d’Israele fin dall’immediato dopoguerra, risulta invece tutto mostruosamente ordinario. I colpi di Stato appoggiati da Israele, al fianco degli Stati Uniti, in mezzo mondo; la fornitura di armamenti a dittature dichiaratamente naziste (come l’Argentina di Juan Perón, che tra le altre cose torturò e uccise molti ebrei), ma anche al Cile di Pinochet, al Sudafrica dell’Apartheid, al Guatemala di Ríos Montt*; l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza testate sui palestinesi. Questa è stata “l’accumulazione originaria” di Israele. Il ruolo della Ricerca allora, come ci suggerisce il senato accademico, non è quello di chiedersi quale fine possa avere un determinato studio o una determinata collaborazione, bensì quello di mantenere un Sistema. Non importa se a pagare il prezzo di una «firma che costa poco» siano donne, bambini, uomini, popolazioni, interi territori. Ciò che non si deve interrompere per nessun motivo è l’avanzare imperterrito della macchina del progresso tecno-scientifico. Perché hanno ragione: bloccare certi accordi significa bloccare gran parte della ricerca universitaria. Allora forse bisognerebbe chiedersi in che tipo di mondo stiamo vivendo. Riconoscere che se alla “Libertà di Ricerca” qui è legata la possibilità di vivere o di morire altrove, il Sistema stesso che ne garantisce l’esistenza è il cancro che ha costretto da tempo «la coscienza al bando», contribuendo con la sua logica dell’efficacia alla “cosificazione” dell’essere umano. Per provare ad interrompere questa marcia verso l’abisso bisogna allora anzitutto mollare la presa («Ero troppo occupato ad affrontare il problema tecnico dei miei forni per accorgermi di tutti quei cadaveri» dichiarò un “lavoratore” nazista durante il processo di Auschwitz). Comprendere che la guerra ha le sue retrovie e le sue zone grigie, con la primaria funzione di essere vergognose fabbriche dell’obbedienza. La conoscenza tecno-scientifica è un muro che divide il mondo poiché «qualunque potere si sostiene con strumenti che hanno in ogni situazione una portata determinata» (Simone Weil), laddove il ruolo dello Stato diviene fondamentale all’organizzazione e al mantenimento dell’apparato, anche attraverso la pacificazione sociale e gli attacchi repressivi. Dunque agli Eichmann del nuovo millennio, a questa obbedienza cadaverica (Kadavergehorsam la definì lo stesso Eichmann al processo di Gerusalemme), possiamo solo dire che la loro mancanza di motivazioni per smettere di sostenere un genocidio è il motivo stesso per cui sono i nostri nemici. Agli incerti che ancora non riescono a sentire il ticchettìo e vedono “nel migliore dei mondi possibili”, rappresentato oggi dall’“unica democrazia del Medio-Oriente”, un inevitabile male minore, possiamo consigliare di guardare altrove. Un altrove che esiste nella forza straordinariamente umana della resistenza. Nell’attacco alla mostruosa sicurezza che alimenta la catastrofe del presente. Nella possibilità di guardare oltre i muri di cinta di una Società disumana. Nella volontà di scavalcarli, quei muri, per provare a mettere qualcosa di stra-ordinario «nel più ordinario dei giorni», quello nel quale «i subordinati firmano tutto perché una firma costa poco». Ecco dove noi preferiamo cercare le nostre motivazioni. * Per approfondire si può leggere Laboratorio Palestina, di Antony Loewenstein (Tratto dal foglio anarchico “Foravia”, numero 10, luglio 2025″)
Rompere le righe
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Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
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Rompere le righe
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Il nome proprio
Gaza non è un’ingiustizia a fianco di altre, bensì l’orrore che le contiene e le compendia tutte. Il genocidio in corso ricapitola la violenza fondativa di ogni Stato e ci mostra in diretta l’«accumulazione originaria» del capitale – l’esproprio coloniale della terra, la guerra alla sussistenza, la violenza sistematica contro le donne e i bambini, la streghizzazione dei refuseniks e dei non-allineati, lo sviluppo delle tecno-scienze, l’esperimento permanente sul materiale umano –, equipaggiata di tutti gli strumenti che un Progetto Manhattan fattosi mondo ha elaborato dal 1945 ad oggi. A Gaza possiamo vedere nitidamente che «il nemico è la nuova potenza che dispone degli antichi emblemi» (Karl Kraus). Se volessimo riassumere tutto ciò in una sigla: International Business Machines (IBM). Il colosso statunitense dell’informatica – il cui programma completo si chiama niente meno che Smart Planet – raccoglie e gestisce i dati biometrici del popolo palestinese per conto dello Stato israeliano, dopo aver fornito le proprie schede perforate alla macchina di sterminio nazista. L’esistenza stessa di IBM Israel tradisce ignominiosamente la memoria della Shoah nel perfezionamento high tech di una nuova Nakba. Gaza è il simbolo concreto di tutte le oppressioni, ma anche l’equivalente generale delle resistenze. È la vita che si sostiene con il niente che trova, è lotta armata, Sumud, memoria storica e poesie di lancinante bellezza. Nelle testimonianze da Gaza incontriamo sconosciuti Ungaretti che si appoggiano a «brandelli di muri« (dei loro famigliari non è rimasto nemmeno tanto) o ad «alberi mutilati», sconosciuti Picasso che rappresentano, insieme a quello umano, lo strazio degli asini, sconosciute Rosa Luxemburg che soffrono nel vedere picchiare quegli animali mansueti quando, esausti, non riescono più ad avanzare sotto il peso di case racchiuse nei bagagli, sconosciute Ingeborg Bachmann che non rinunciano alla magia delle parole nemmeno dentro la «linea del fuoco». Quello in solidarietà con la resistenza palestinese è, con tutte le sue insufficienze, il più vasto movimento internazionale degli ultimi decenni. Non c’è continente in cui masse di diseredati o minoranze più o meno numerose non si sentano coinvolte. Anche quando non incide direttamente sulle vite quotidiane di milioni di persone, il dolore che si leva dalla Striscia non può non penetrare nella sostanza psichica dell’umanità. Si tratta di un terribile banco di prova della nostra reale consistenza e insieme un anticipo delle capacità disfattiste di fronte alla guerra prossima ventura. Quando persino una relatrice dell’ONU parla di «economia del genocidio», elencando aziende le cui sedi e i cui addentellati sono ovunque, non si può certo dire che manchi il «materiale infiammabile» per agire in modo diretto e risoluto. E chi, con un minimo di buona fede, potrebbe dire «non sono questi i mezzi»? Quando tutti gli Stati – tanto in ambito NATO come in quello dei BRICS – sono complici o al meglio spettatori passivi; quando il Diritto internazionale è una barzelletta insanguinata; quando anche coloro che praticano l’azione diretta nonviolenta diventano un’«organizzazione terroristica» (come nel caso della messa al bando di Palestine Action in Gran Bretagna); quando si ammazzano i bambini in fila per un po’ d’acqua. Quale che sia l’angolo d’attacco che consideriamo prioritario, non vedere nel genocidio dei palestinesi il cuore di un mondo senza cuore è una distrazione dello sguardo o una pigrizia dell’anima. Vogliamo lottare contro il razzismo di Stato? Gaza. Vogliamo contrastare l’economia di guerra e la militarizzazione sociale? Gaza. Non vogliamo separare emancipazione femminile e resistenza anticoloniale? Gaza. Vogliamo metterci di traverso rispetto alla furia estrattivista ed ecocida del capitalismo? Gaza. Vogliamo combattere la tortura del carcere e il carcere come tortura, solidarizzando con le compagne e i compagni prigionieri? Gaza. Vogliamo opporci alle smart city e alla società dei varchi? Gaza. Ci battiamo per un’agricoltura contadina contro le nuove enclosures genetiche e digitali? Gaza. Siamo inorriditi dal cibo in laboratorio e dalla riproduzione artificiale dell’umano? Gaza. Cerchiamo un nesso tra la profilazione di massa e lo sterminio algoritmico? Gaza. Odiamo gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Peter Thiel e il neo-feudalesimo che ci stanno apparecchiando? Gaza. Nella solidarietà attiva e internazionalista con gli oppressi palestinesi, come anarchiche e anarchici, in particolare, abbiamo l’occasione di rievocare e attualizzare le pagine migliori della nostra storia. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’Indonesia a Cuba, quelle anarchiche sono state le idee rivoluzionarie più influenti nei movimenti anticoloniali. Anarchiche e anarchici furono tra i primi a ribellarsi, nel 1896 in Italia, contro l’aggressione imperialista all’Abissinia al grido di «Viva Menelik!», «Abbasso Crispi!», «Via dall’Africa!», contribuendo a un moto popolare che ha bloccato i treni militari, assaltato le caserme, liberato i coscritti. E lo stesso avvenne nel 1911 con l’occupazione coloniale della Libia, quando la campagna per liberare Augusto Masetti (il soldato anarchico che sparò al colonnello Stroppa urlando «Abbasso la guerra, viva l’anarchia!») fu un fulgido esempio di agitazione antimilitarista. Per non parlare del ruolo decisivo giocato durante la «settimana rossa», che è stata anche e soprattutto un’insurrezione contro i signori dello sfruttamento e della guerra. Durante la disfatta di Caporetto del 1917, provocata dal più vasto «sciopero militare» della storia italiana, il movimento anarchico spinse – tra l’immobilismo e l’ignavia del Partito socialista (con l’eccezione della sua Federazione giovanile) – per trasformare la rivolta dei fanti contadini e operai in insurrezione contro la guerra e contro lo Stato. Persino durante l’occupazione dannunziana di Fiume, Malatesta e altri compagni tentarono – kairós impervio come pochi altri – di guadagnare al movimento proletario «quel vago sovversivismo ancora incerto tra la nostalgia della trincea e il richiamo della barricata». E anche durante la rivolta di Ancona del 1920, scoppiata per impedire le partenze coatte dei soldati verso l’Albania, anarchiche e anarchici diedero il loro generoso appoggio. Allargando lo sguardo, non molti sanno che la rivolta libertaria e antiburocratica del Maggio francese fece esplodere quella rottura con i sindacati e il Partito comunista maturata durante la guerra d’Algeria, un’atroce campagna coloniale disertata da centinaia di migliaia di giovani e sostenuta dal PCF e dalla CGT. E potremmo parlare dell’anima internazionalista e libertaria dei Gari, del Movimento 2 giugno, delle Rote Zora… Quelle idee, quei sentimenti, quelle storie possono oggi darsi appuntamento pubblico e segreto con un «comunismo dello spirito» che raramente nella storia recente è stato così universale. Gaza è il nome proprio della rabbia, del bisogno di riscatto, del desiderio di giustizia. Invoca amore e chiede vendetta.
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Il fanale oscuro
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra”
Riceviamo e diffondiamo: È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”, dell’estate 2025. Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires: disfare@autistici.org * 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su) * 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards) * 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de 3 exemplaires) Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
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