Riprendiamo dal blog del collettivo Terra e Libertà un nuovo opuscolo che
ripercorre i legami storici di IBM con guerra, genocidi e apartheid, con
particolare attenzione al ruolo del colosso statunitense nell’olocausto nazista.
Link al testo sul blog di Terra e Libertà
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Diffondiamo un articolo pubblicato sul secondo numero di disfare. Ricordiamo che
è possibile ordinare copie del secondo numero scrivendo a disfare@autistici.org
(al prezzo di 4 euro a copia, 3 euro per i distributori dalle 3 copie in su).
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Terrorizzare e reprimere
Per dispiegarsi compiutamente e senza remore di sorta, la forza coercitiva dello
Stato democratico necessita di argomentazioni almeno parzialmente plausibili e
condivisibili da parte della cosiddetta “opinione pubblica”. Queste si basano
spesso sul rovesciamento semantico di determinati concetti, affinché la carica
negativa scaturente dal rovesciamento di tali elementi ricada interamente
sull’individuo o sul gruppo da reprimere. È il caso, ad esempio, del concetto di
“terrorismo”. A dispetto della sua origine, ancora oggi pietrificata nella
stessa radice della parola (terror), esso oggi ha poco a che vedere con
l’imposizione del terrore sulla popolazione, ma sembra piuttosto riguardare il
terrore che gli Stati hanno delle popolazioni e degli individui.
Rovesciamenti semantici
Il termine “terrorismo” venne coniato a partire dall’esperienza del Regime del
Terrore, instauratosi nella Francia del 1793, a forza di teste ghigliottinate
secondo le decisioni del Comitato di Salute Pubblica, organo del governo
giacobino allora in carica. I neologismi francesi terrorisme e terroriser,
creati a partire dal latino terror, iniziano a circolare in Europa proprio col
significato – tuttora attestato nei vocabolari – di «azione del potere politico
di incutere terrore nei confronti dei cittadini, attraverso la costrizione e
l’uso illegittimo, indiscriminato e imprevedibile della forza»[1]. Formalmente
ristretto a un periodo di emergenza, il terrore per sua natura tende ad
eternarsi e a divenire definitivo, senza possibilità di mutamento, con una
crescita esponenziale di eccessi e di atti di barbarie. Si tratta in sostanza di
un sistema tirannico che agisce contro il popolo, spargendo trappole per
insidiare ogni passo del cittadino, introducendo una spia in ogni casa, un
traditore in ogni famiglia, un assassino in ogni tribunale. Questo sistema è
perciò un’arte, «l’arte del terrore», praticata da un potere arbitrario e
fortemente concentrato nelle mani di poche persone. Per questa ragione, il
terrore si attaglia meglio a una monarchia, ma in verità può essere praticato
anche da una repubblica: in questo secondo caso, tuttavia, esso si dimostra ben
peggiore, perché rende il popolo indifferente alla libertà e anzi la fa odiare.
Il risultato consiste comunque ineluttabilmente nel dividere l’intera società in
due classi distinte: una minoranza persecutrice che fa paura e una maggioranza
perseguitata che ha paura. Si delineava così, per la prima volta, una
fondamentale presa d’atto: l’esistenza di una divaricazione tra il fine
dichiarato del terrore, ossia punire talune persone o certi gruppi ritenuti
colpevoli di attentare al regime o alla vita sociale, e il fine vero,
scientemente attuato, quello di controllare, mediante la paura, l’intera
società[2].
L’origine del concetto di terrore e terrorismo, dunque, tradisce chiaramente il
fatto di riferirsi ad un metodo di governo, adottato da un regime politico
costituito, rivolto alla repressione del dissenso e al controllo sociale. È
quindi connaturato allo Stato stesso. Col passare degli anni, un capovolgimento
semantico avvenne con il colonialismo europeo. Le potenze europee si servirono
dello stigma legato all’impiego del termine terrorismo contro quelle popolazioni
asiatiche e africane che provavano a ribellarsi alle politiche coloniali di
sterminio e depredazione delle risorse. In alcuni casi l’accusa di terrorismo
aprì la strada a veri e propri genocidi, come avvenne in Namibia per la
popolazione Herero trucidata dall’esercito tedesco[3]. Dietro a simili azioni,
in cui l’intera popolazione, senza alcuna distinzione tra, ad esempio,
combattenti e civili, veniva colpita, stava la concezione e teorizzazione di una
modalità di conflitto integrale ed assoluto. Una modalità che con la prima
guerra mondiale diventerà prassi. Nel 1914, il generale e teorico militare
tedesco Colmar von der Goltz (all’epoca più letto di Clausewitz), nominato
governatore del Belgio, sostenne con chiarezza la necessità di punire
esemplarmente gli atti ostili «non solo per la colpa ma anche per l’innocenza»,
inaugurando la consuetudine di colpire per chilometri i villaggi e i luoghi
abitati attorno alla zona di un attentato. Sorte analoga spettò ai Mau Mau in
Kenya, massacrati dagli inglesi durante gli anni ’50 del secolo scorso. Col
pretesto della lotta al terrorismo divenne possibile anche in questo caso
legittimare metodi terroristici come i campi di concentramento e l’uso
sistematico dell’elettrochoc. Anche il colonialismo italiano non fu da meno nel
dispensare campi di concentramento, stupri di massa e gas nervino in Africa come
nei Balcani. A tal riguardo, possiamo di sfuggita segnalare il processo del
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tenutosi nel 1940 contro 60
sloveni. Essi erano significativamente accusati di un reato associativo con
finalità terroristiche in quanto partecipanti «ad associazioni tendenti a
commettere attentati contro l’integrità e unità dello stato». Col trascorrere
del tempo, dunque, i diversi Stati europei operarono un progressivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, che da metodo di governo
utilizzato verso i governati si trasformava in metodo di lotta adottato dai
governati stessi contro le istituzioni e i suoi funzionari.
Ne rappresenta un emblematico esempio la definizione adottata dalla Convenzione
per la prevenzione e repressione del terrorismo, elaborata a Ginevra nel 1937,
secondo cui sono terroristici: «i fatti criminali diretti contro uno Stato e i
cui fini o la cui natura è atta a provocare il terrore presso determinate
personalità, gruppi di persone o il pubblico». Dal terrore generalizzato della
popolazione, sotteso alla nozione primigenia di terrorismo, allo spavento di
qualche personaggio c’è evidentemente un abisso, eppure in questa definizione il
terrore di determinate personalità e quello del pubblico sono considerati
equivalenti. È poi particolarmente significativo che tale definizione sia stata
coniata proprio nel medesimo anno in cui la cittadina basca di Guernica fu
sottoposta a un bombardamento a tappeto a opera dello squadrone volontario
Condor della Luftwaffe (l’aviazione tedesca), supportato dall’aviazione
legionaria italiana. La stampa mondiale diede da subito grande risalto
all’accaduto, sottolineando il carattere terroristico dell’azione bellica
condotta a sostegno delle forze franchiste in lotta contro i repubblicani, in
piena guerra civile spagnola. Il corrispondente del New York Times, George
Steer, mise l’accento proprio sull’intento deliberato di colpire la popolazione
inerme. Scopo dell’azione era «la demoralizzazione della popolazione civile e la
distruzione della culla del popolo basco». Con una simile azione, preceduta da
un analogo raid distruttivo contro la vicina cittadina di Durango ad opera
dell’aviazione legionaria italiana, si inaugurava l’epoca dei bombardamenti a
tappeto contro la popolazione civile, una manifestazione di quella che lo stesso
Steer aveva chiamato la «guerra moderna»: un modo di pensare l’attività bellica
come evento totale. Una volta superata una concezione limitata della guerra come
combattimento regolato fra opposte forze armate e una volta annullata la
distinzione classica fra militari e civili – inevitabile corollario del graduale
imporsi, a partire dagli inizi dell’Ottocento, dell’idea di Nazione – si faceva
del nemico un’entità unica, da colpire in modo indiscriminato, con tutti i mezzi
possibili[4].
Nonostante il progressivo rovesciamento semantico operato a livello
istituzionale, l’originaria concezione del termine terrorismo riusciva comunque
a mantenere talvolta una certa persistenza, senza dubbio in conseguenza del
succedersi di determinati eventi e processi storici, come ad esempio il fenomeno
della decolonizzazione sviluppatosi in Africa durante gli anni ’60 del
Novecento[5].
Tutelare la tranquillità dei pubblici poteri
Nei paesi dell’Europa Occidentale, ed in Italia in particolare, sarà nel corso
degli anni ’70 ed ’80 del Novecento che si compirà il deciso e definitivo
rovesciamento semantico del concetto di terrorismo, con lo scopo di contrastare,
da parte dell’ordine statale, l’insorgenza politica e sociale interna
sviluppatasi in quel medesimo periodo. A partire da tale data, terrorista sarà
sempre e solo chi svolge un’attività finalizzata ad un cambiamento radicale
dell’ordine costituito, cioè tende all’eversione dello Stato. Inoltre, sarà
sempre durante gli anni ’80 che il ribaltato concetto di terrorismo assurgerà
come nuovo termine chiave del lessico politico statale. Infatti, con l’elezione
nel 1981 alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan, riprese decisamente
vigore, proseguendo nel solco già tracciato da precedenti amministrazioni,
l’iniziativa politico-ideologica antisovietica, sostenuta dalla tendenza ad
accrescere fortemente il budget militare e ad attaccare ideologicamente l’URSS
proprio mediante la denuncia del terrorismo come merce sovietica, strumento
d’aggressione ai danni del «mondo libero»[6]. La sottocommissione del Senato sui
problemi del terrorismo e della sicurezza fu un organo fondamentale nel processo
di reificazione del terrorismo, e cioè nella produzione di discorsi finalizzati
alla costruzione di un oggetto a sé stante, ridotto a essenza, dotato di una
propria peculiare autonomia dalla politica e dalla guerra. Nella retorica di
quella sottocommissione, e più in generale della nuova amministrazione, il
terrorismo andava concepito come un fenomeno guidato dall’alto, che promanava da
Stati sponsor che lo stesso Reagan, con un termine destinato ad essere più volte
ripreso in seguito, chiamò Stati canaglia.
Nell’alimentare il processo di autonomia discorsiva della tematica del
terrorismo, un ulteriore punto di svolta sul piano concettuale si ebbe nel 1986
con la pubblicazione del libro Il Terrorismo. Come l’Occidente può vincere,
edito da Benjamin Netanyahu e contenente gli atti di una seconda conferenza
organizzata dal Jonathan Institute di Gerusalemme, cinque anni dopo la prima.
Nella sua introduzione Netanyahu descriveva la situazione politica mondiale come
una lotta in corso tra civiltà e barbarie: nella comunità internazionale –
osservava – c’è un sufficiente consenso circa il ruolo di URSS e OLP nel
supporto al terrorismo internazionale e anche una discreta sensibilità rispetto
al pericolo incarnato dalla Repubblica islamica dell’Iran, ma ciò che manca è
una risposta comune ai terroristi e ai loro sponsor, a causa di un’insufficiente
concettualizzazione del fenomeno. È assurdo – egli affermava – paragonare un
atto terroristico con le perdite di civili in guerra: queste ultime sono
prodotte da atti casuali e involontari, laddove invece nel caso dei terroristi
si tratta di «scelte volute e calcolate». I terroristi di conseguenza non sono
guerriglieri, soldati irregolari che combattono contro forze nemiche molto
superiori, ma impuniti che attaccano obiettivi indifesi.
Fu Edward Said a intuire immediatamente la portata del mutamento concettuale e
d’impostazione contenuto in quelle tesi. Per Said, la definizione di Netanyahu
dipendeva da un assioma a priori: «Noi non siamo mai terroristi; sono loro, i
mussulmani e i comunisti che lo sono […] non importa che cosa abbiano fatto;
loro lo sono e lo saranno sempre». Questa nuova visione tendeva ad obliterare la
storia e la stessa temporalità, nel tentativo di «creare un nemico
essenzializzato, isolato dal tempo, dalla causalità, dalle azioni compiute in
precedenza e quindi a disegnarlo come ontologicamente e gratuitamente
interessato a scatenare il caos». Netanyahu – osservava Said – combatte una
battaglia basata su una visione del mondo che stabilisce che certi fini
ideologici e religiosi richiedano determinati mezzi, tali da comportare lo
sgretolamento di ogni inibizione morale. La giustificazione spuria di combattere
il terrorismo legittima cioè ogni atto di violenza commesso in suo nome. Non si
trattava di un mero dibattito fra intellettuali: nel 1984, al momento della
rielezione di Reagan, il segretario di Stato George Shultz aveva tenuto un
discorso alla sinagoga newyorkese di Park Avenue, incentrato sulla lotta al
terrorismo, in cui aveva proclamato che il tempo della difesa passiva era
finito. Quello che occorreva adesso era un’attiva capacità di colpire per primi
e anche di esercitare pronte ritorsioni, rispondendo agli attacchi terroristici
con la flessibilità necessaria, in una varietà di modalità belliche, scegliendo
luoghi e tempi in cui attaccare. Forte di questa tesi, la seconda
amministrazione Reagan adottò il terrorismo così inteso come nuovo nemico
globale e lo considerò un incentivo per giustificare il terrore come arma di
reazione.
Sul piano istituzionale e formale, sarà poi la risoluzione del parlamento
europeo del 30 gennaio 1997 ad adottare ufficialmente una definizione di
terrorismo in linea con il già menzionato rovesciamento semantico[7]. Inoltre,
nell’indeterminatezza di quali atti concreti siano terroristici, è il movente
ideologico che diventa fondamentale. Non è un caso che l’elenco delle
motivazioni terroristiche segua un ordine crescente di psicologizzazione:
aspirazioni separatistiche, concezioni ideologiche estremiste, fanatismo,
moventi irrazionali e soggettivi. In un crescendo esponenziale, all’indomani
dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, l’Unione
Europea ha avvertito l’esigenza di elaborare una disciplina sul terrorismo che
imponesse maggiori obblighi agli Stati membri. Veniva così adottata la decisione
quadro 2002/475/GAI (Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE). Tale
decisione quadro verrà recepita, ed anzi aggravata nella sua valenza repressiva,
dal codice penale italiano con l’introduzione, avvenuta nel 2005, all’indomani
degli attentati alla metropolitana di Londra, dell’art. 270 sexies. Anche questa
definizione si orienta verso la sostanziale tutela dei pubblici poteri. Per la
prima volta però essi sono tutelati non solo da un loro potenziale rovesciamento
rivoluzionario, ma addirittura da possibili influenze e controversie temporanee
su questioni specifiche. In ultima analisi, anche una vertenza sindacale, uno
sciopero, potrebbe essere considerato come un atto terroristico contro l’ordine
costituito.
Il diritto internazionale, svalutando progressivamente l’elemento del terrore,
ha oggi due pesi e due misure per il terrorismo non statale e per quello
statale. Nel primo caso si può essere considerati terroristi persino a
prescindere dall’elemento del terrore, poiché si valorizza la finalità di
destabilizzazione del sistema politico statale o di contrasto di una sua
specifica decisione. Nel secondo caso, il terrore ingenerato manu militari nella
popolazione, attraverso ad esempio un bombardamento aereo di una città, non
basta da solo a qualificare come terrorista uno Stato, perché bisogna dimostrare
che tale stato di terrore fosse il movente principale dell’azione militare[8], e
non un semplice effetto collaterale di tale azione, ancorché previsto e voluto.
Al di fuori dello Stato, il nulla
Il rovesciamento semantico del concetto di terrorismo ha quindi provocato anche
il concomitante rovesciamento del termine indiscriminato. Se infatti
originariamente era lo Stato che terrorizzava l’intera popolazione di un
territorio attraverso atti violenti indiscriminati in vista di un fine politico
o ideologico, ora questi atti vengono addossati ad una parte, grande o piccola,
della popolazione stessa nei riguardi dello Stato. In tal modo, lo Stato prende
il posto della popolazione, sicché gli atti violenti indiscriminati risulteranno
quelli diretti contro gli apparati istituzionali. Dietro ad un tale
rovesciamento emerge l’assunto che la società sia un tutto organico e
monolitico, ed essa coincida necessariamente con lo Stato. Si va ben oltre
l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale, giungendo fino
all’assorbimento ed all’assimilazione del corpo sociale nello Stato. In base a
questo assunto, lo Stato diviene principio di intelligibilità di ciò che è, ma
anche di ciò che deve essere. Lo Stato diviene fondamentalmente l’idea
regolatrice di quella forma di pensiero, di riflessione, di calcolo e di
intervento che prende il nome di politica: la politica come mathesis, come forma
razionale dell’arte di governo.
Per edificare e rendere evidente la razionalità e necessità dello Stato, gli si
crea un mito fondante, gli si inventa una tradizione. Sarà il giusnaturalismo a
fornirgliela, nel corso del XVII secolo, proprio in quello stesso arco di tempo
in cui si andava sviluppando ed imponendo nelle scienze una filosofia
meccanicistica[9]. Poco importa che una simile teorizzazione non abbia alcunché
di reale, relativamente alla ipotizzata condizione dello stato di natura, e che
un tale mito fondante non si sia mai verificato in alcun luogo ed in alcun
tempo. La sua rilevanza sta nel fatto che ha avuto – ed ha – la forza di
modificare e modellare la realtà stessa, imprimendo e trasmettendo valori e
costumi funzionali a concetti asimmetrici quali quelli di obbedienza e
dipendenza, su cui lo Stato basa la sua ragion d’essere. In tal modo, un
regicidio, o una qualsiasi azione contro delle personalità o delle strutture
istituzionali, non sarà più diretta a terrorizzare unicamente i regnanti e le
classi dominanti, come sarebbe nelle intenzioni di chi auspica un cambiamento
radicale dell’ordine sociale, bensì potrà essere ascritta quale atto
terroristico indiscriminato, in quanto regnanti e classi dominanti rappresentano
e coincidono con l’intera società. Addirittura, come abbiamo già avuto modo di
vedere, anche una controversia su una questione specifica, tendente ad esprimere
dissenso verso particolari atti riguardanti la sfera economica, politica,
sociale e ambientale, come ad esempio una vertenza sindacale o l’opposizione ad
un progetto infrastrutturale, potranno essere considerati come atti
terroristici, perché tendenti a modificare l’ordine costituito intrinsecamente
immodificabile.
D’altro canto, quale logica conseguenza dell’idea della necessità ed
immutabilità dell’ordinamento statale, un bombardamento a tappeto su un
territorio densamente popolato attuato da uno Stato (ogni riferimento al
genocidio che si sta realizzando nella striscia di Gaza non è per niente
casuale), non sarà considerato un atto terroristico indiscriminato, bensì una
legittima e mirata azione di guerra. Un’azione chirurgica, come da alcuni
decenni va tanto di moda designare i bombardamenti aerei sulle città,
terminologia e concetto che tende a celare e porre in secondo piano i cosiddetti
effetti collaterali, ossia i previsti e voluti massacri di civili, senza i quali
non sarebbe possibile pervenire al reale e principale obiettivo desiderato:
abbattere il morale della popolazione, ossia, ancora una volta, seminare il
terrore.
Nonostante tutti i rovesciamenti semantici descritti, in definitiva quella
statale è la forma archetipica di terrorismo. Il terrorismo è insomma
prevalentemente una pratica di governo. E ciò è sostanzialmente dovuto al fatto
– come efficacemente dimostra il politologo tedesco Ekkehart Krippendorff
nell’opera Lo Stato e la guerra – che lo Stato, soprattutto a partire da quello
formatosi nell’era moderna (XVII secolo) e nelle sue successive declinazioni
quali lo Stato di diritto, lo Stato costituzionale, ecc., è intrinsecamente
legato alla guerra, è essenzialmente uno Stato militare, e le guerre che esso ha
continuamente condotto non sono un fatto secondario, bensì fanno parte della sua
vera essenza. L’apparato militare e coercitivo, strumento di guerra sia esterna
che interna, è la quintessenza dello Stato. Senza tale apparato, lo Stato
perderebbe la sua ragion d’essere. Non è un caso che nel 1919 il sociologo Max
Weber, nel saggio La politica come vocazione, abbia descritto lo Stato come il
detentore del monopolio della violenza. E questa violenza può e deve essere
esercitata sia all’esterno che all’interno del territorio posto sotto il suo
controllo, quindi anche – e aggiungerei soprattutto – contro i propri governati,
siano essi definiti come cittadini, sudditi, schiavi, prigionieri, ecc. Per
garantire la propria sicurezza, lo Stato ha bisogno di effettuare ed organizzare
una sempre più capillare opera di disciplinamento dei propri cittadini al suo
volere, per giungere a quell’acritico consenso generale essenziale ad ogni
ordine costituito. Sorvegliare e punire, come direbbe Michel Foucault,
attualmente declinato nel più consono ed effettivo terrorizzare e reprimere.
Tiravento
[1] Fu il deputato montagnardo Jean-Lambert Tallien, protagonista della caduta
di Robespierre, nonostante fosse stato un suo funzionario incaricato dal governo
giacobino della repressione a Bordeaux, in un importante discorso tenuto alla
Convenzione l’11 Fruttidoro (28 agosto 1794), un mese dopo il 9 Termidoro (26
luglio 1794), a svolgere una prima analisi critica del terrore inteso non come
espressione di un’unica volontà individuale, malefica e mostruosa, ma come un
vero e proprio sistema di governo. Nel suo intervento Tallien (il cui discorso
era stato scritto per lui da Pierre-Louis Roederer, un giurista, economista e
politico moderato) asseriva che il terrore non era il prodotto dell’azione
violenta di una folla in preda alle emozioni, bensì il calcolo deliberato di un
governo assoluto, autocratico, che non rende conto a nessuno dei suoi atti e che
minaccia sistematicamente il popolo.
[2] La spirale di violenza e di paura, una volta innescata, diviene dunque
pervasiva e non risparmia nessuno, neppure i membri dell’apparato repressivo, i
quali diventano essi stessi prigionieri del meccanismo, consapevoli che la paura
che instillano può in ogni momento rivolgersi contro di loro, e raggiungerli.
[3] Il Generale Lothar von Trotha, responsabile del genocidio, commesso fra il
1904 e il 1907, scrisse: «Io credo che la nazione come tale (gli Herero) debba
essere annientata, o, se questo non è possibile con misure tattiche, debba
essere espulsa dalla regione con mezzi operativi ed un ulteriore trattamento
specifico.[…] L’esercizio della violenza fracasserà il terrorismo e, anche se
con raccapriccio, fu ed è la mia politica. Distruggo le tribù africane con
spargimento di sangue e di soldi. Solo seguendo questa pulizia può emergere
qualcosa di nuovo, che resterà».
[4] Il terreno di coltura di una tale concezione era stata la prima guerra
mondiale, ma senza dubbio essa affondava le sue radici in periodi antecedenti,
soprattutto nell’esperienza coloniale tardo ottocentesca, come si è già avuto
modo di accennare. Durante la guerra civile americana, in particolare, si era
realizzata una sorta di circolarità fra i metodi usati dall’esercito
statunitense per sconfiggere il blocco degli Stati confederati e quelli adottati
per piegare la resistenza delle popolazioni “indiane” all’occupazione delle
proprie terre da parte dei coloni.
[5] In una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 dicembre 1972 si
ribadiva solennemente «la legittimità dei movimenti di liberazione nazionale»,
condannando «gli atti di terrorismo statale, compiuti dai regimi coloniali,
razzisti e stranieri». Ed il Comitato speciale per il terrorismo internazionale,
costituito con la suddetta risoluzione, affermava poi che «il terrorismo
individuale è effetto di quello statale, costituendo una risposta violenta della
popolazione civile alla politica statale di oppressione».
[6] Tesi condivisa dal circolo più stretto dei consiglieri del presidente
statunitense, tra cui vi erano esponenti di punta di una nuova generazione di
politici conservatori, come Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Paul Wolfowitz,
capace di orientare la politica estera americana nell’epoca di Reagan e che poi
sarebbe divenuta egemone al tempo delle presidenze dei Bush.
[7] Questi rappresentanti dei governi occidentali, sentendosi in fondo
autorizzati dal crollo dell’Unione Sovietica a teorizzare la fine delle
ideologie non capitalistiche e il conseguente esaurirsi della possibilità e
legittimità di qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria di cambiamento, in tale
risoluzione affermavano che «costituisce atto di terrorismo ogni delitto
commesso da singoli individui o gruppi attraverso la violenza o la minaccia
della stessa e rivolto contro un paese, le sue istituzioni, la sua popolazione
in generale o contro specifici individui, il quale, motivato da aspirazioni
separatistiche, da concezioni ideologiche estremiste o dal fanatismo, o ispirato
a moventi irrazionali e soggettivi, mira a sottomettere i poteri pubblici,
alcuni individui o gruppi sociali o, più in generale, l’opinione pubblica ad un
clima di terrore». In ultima analisi, in una simile risoluzione, grazie ad un
intenzionale mescolamento di elementi originari ed attuali della nozione di
terrorismo, la tranquillità tutelata è unicamente quella dei poteri pubblici.
[8] Infatti, secondo i Protocolli Aggiuntivi del 1977 alle Convenzioni di
Ginevra del 12 agosto 1949 relative alla protezione delle vittime dei conflitti
armati internazionali e non, sono vietati soltanto «gli atti di violenza o le
minacce di violenza il cui fine principale sia di diffondere il terrore tra la
popolazione civile».
[9] In particolare, ciò si attuerà attraverso le riflessioni di Thomas Hobbes,
lo Stato diviene fonte del diritto e della morale, il suo potere è indivisibile
e congloba in sé anche l’autorità religiosa. Lo Stato è quindi il migliore dei
mondi possibili, anzi è l’unico mondo possibile, è la ratio unica ed assoluta
della civiltà, senza di esso gli esseri umani vivrebbero nell’insicurezza
continua, in una situazione di guerra permanente.
Qui in pdf: Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza
Nel 2021 è uscito in Italia, tradotto da Einaudi, un libro importante, passato,
almeno negli ambiti sovversivi, per lo più inosservato. Si tratta de Il Metodo
Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di
massa che hanno plasmato il nostro presente. In questo testo, il giornalista
californiano Vincent Bevins dimostra, in modo ampio e accurato, che il colpo di
Stato realizzato in Indonesia nel 1965 con l’appoggio degli Stati Uniti è stato
un episodio centrale della Guerra fredda perché ha rappresentato, appunto, un
metodo.
Leggere il libro di Bevins mentre si sta compiendo il genocidio del popolo
palestinese toglie alla lettura ogni distanza storica, scaraventandoci nel
presente.
Il Metodo Giacarta
«Negli anni tra il 1954 e il 1990 emerse in tutto il mondo una rete informale di
programmi anticomunisti di sterminio appoggiati dagli Stati Uniti che commise
omicidi di massa in almeno ventitré paesi. Non ci fu un piano d’insieme, né una
cabina di regia in cui fu orchestrato tutto, ma penso che i programmi di
sterminio in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, El
Salvador, Filippine, Guatemala, Honduras, Indonesia, Iraq, Messico, Nicaragua,
Paraguay, Sri Lanka, Sudan, Taiwan, Thailandia, Timor Est, Uruguay, Venezuela e
Vietnam fossero collegati tra loro e abbiano avuto un ruolo cruciale nella
Guerra fredda. (E non includo gli interventi militari diretti né gli innocenti
che persero la vita in guerra come “danni collaterali”). Gli uomini che
intenzionalmente hanno giustiziato dissidenti e civili indifesi imparavano gli
uni dagli altri; adottavano metodi già applicati in altri paesi; a volte
chiamavano persino le loro operazioni come altri programmi che volevano emulare.
Ho trovato prove che legano indirettamente la metafora “Giacarta”, tratta dal
più grande e importante di questi programmi, ad almeno undici paesi (dodici, se
consideriamo lo Sri Lanka, dove il governo applicò quella che chiamò “soluzione
indonesiana”). Ma anche i regimi che non furono mai influenzati da questo
particolare linguaggio avevano visto molto chiaramente che cosa aveva fatto
l’esercito indonesiano e il successo e il prestigio che le loro azioni avevano
portato al loro paese in Occidente. E anche se alcuni di questi programmi furono
condotti malamente e spazzarono via spettatori innocenti che non costituivano
nessuna minaccia, in effetti riuscirono a eliminare i veri oppositori al
progetto globale guidato dagli Stati Uniti. Ancora una volta, l’Indonesia è
l’esempio più importante. Senza lo sterminio del Pki [Partito comunista
indonesiano], il paese non sarebbe passato da Sukarno a Suharto. Anche nei paesi
dove il destino dei governi non era in bilico, gli omicidi di massa mostravano
cosa sarebbe successo a chi opponeva resistenza: una forma efficace di terrore
di Stato che venne applicata anche nelle regioni circostanti. […] Voglio
affermare che questa rete informale di programmi di sterminio, organizzata e
giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella
vittoria degli Stati Uniti e che quella violenza ha profondamente influenzato il
mondo in cui viviamo oggi».
Una spietata efficacia
«L’Indonesia divenne davvero un “partner docile e compiacente” degli Stati
Uniti, cosa che spiega come mai oggi così tanti americani abbiano a malapena
sentito parlare di quel paese. Ma a quel tempo le cose erano molto diverse.
L’annientamento del terzo partito comunista del mondo e il sorgere di una
dittatura fanaticamente anticomunista scosse violentemente l’Indonesia e provocò
uno tsunami che arrivò in quasi ogni angolo del globo.
Nel lungo periodo, la forma dell’economia globale cambiò per sempre. Inoltre, le
dimensioni della vittoria anticomunista e la spietata efficacia del metodo
impiegato ispirarono programmi di sterminio che presero nome dalla capitale
indonesiana».
In poche parole
«”Per di più abbiamo avuto tutti il capitalismo americanocentrico voluta da
Washington. Basta guardarsi intorno”, ha detto indicando la sua città e l’intero
arcipelago indonesiano intorno a lui”.
Come abbiamo fatto a vincere, ho chiesto.
Winarso smette di muoversi: “Ci avete ammazzati”».
I numeri di un massacro
Da sola, la mappa intitolata «I programmi di sterminio anticomunista, 1945-2000»
e pubblicata come Appendice al libro di Bevins racconta una storia così feroce
che lascia semplicemente allibiti quanto poco sia presente nella coscienza
collettiva. Ecco i luoghi, le date, i numeri:
Messico 1965-1982: 1300
Honduras 1980-1993: 200
Nicaragua 1979-1989: 50 000
Guatemala 1954-1996: 200 000
Venezuela 1959-1970: 500-1500
El Salvador 1979-1992: 75 000
Colombia 1985-1995: 3000-5000
Paesi membri dell’Operazione Condor (l’Alleanza anticomunista tra Argentina,
Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay), Anni Settanta-Ottanta: 60 000-80
0000
Iraq 1963 e 1978: 5000
Iran 1988: 9 000 («l’unico caso in cui le violenze sono state compiute da un
avversario geopolitico degli Stati Uniti»)
Sudan 1971: un po’ meno di 100
Sri Lanka 1987-1990: 40 000-60 000
Thailandia 1973: 3000
Corea del Sud 1948-1950: 100 000-200 000
Taiwan 1947: 10 000
Filippine 1972-1986: 3250
Vietnam, Operazione Phoenix 1968-1972: 50 000
Timor Est 1975-1999: 300 000
Indonesia 1965-1966: 1 000 000
«Giacarta sta arrivando»
O semplicemente «GIACARTA» sono le scritte che, nel 1972, appaiono in diverse
città del Cile e che i militanti di sinistra si vedono recapitare per posta. A
incaricarsi dell’operazione sono il gruppo fascista Pátria y Libertad e la
sezione cilena dell’organizzazione anticomunista brasiliana Tradición, Família y
Propriedad – base sociale del golpe militare in Brasile del 1964 –, entrambe
finanziate dalla CIA. L’11 settembre 1973 avviene il colpo di Stato. Quando
migliaia di “rossi” vengono radunati allo Estadio Nacional, per essere
interrogati, torturati e uccisi, a presiedere le operazioni ci sono consiglieri
militari brasiliani. La Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet creata dalla
CIA, assassina in pochi giorni tremila oppositori.
La violenza contro indigeni e dissidenti in Guatemala viene promossa dalla Mano
Blanca (organizzazione razzista e ferocemente anticomunista) con l’appoggio dei
Berretti verdi nord-americani. «Dal 1978 al 1983 l’esercito guatemalteco uccise
più di duecentomila persone. Circa un terzo di loro, soprattutto nelle aree
urbane, furono portate via e fatte “sparire”. La maggior parte degli altri erano
indigeni maya massacrati all’aperto nei campi e sulle montagne dove le loro
famiglie avevano vissuto per generazioni». Nel 1982 vengono sterminati interi
villaggi. «In Indonesia l’omicidio di massa potrebbe non essere stato genocidio,
ma solo omicidio di massa anticomunista. In Guatemala fu genocidio
anticomunista».
Nel 1979, per stroncare il Nicaragua sandinista gli Stati Uniti dispiegano i
contras, forze anticomuniste finanziate dalla CIA e addestrate da Argentina,
Guatemala e Cile come proseguo dell’Operazione Condor (con cui «il fanatismo
anticomunista conquistò il continente» latino-americano). In un incontro
organizzato dall’ambasciatore USA in Spagna, le squadre speciali argentine e
guatemalteche parlano ancora di «Piano Giacarta».
Perché «Giacarta»?
Operazione Annientamento
Operasi Penumpasan. Così si chiama l’operazione lanciata l’8 ottobre 1965
dall’esercito indonesiano contro i comunisti. In circa sei mesi viene sterminato
un milione di persone e altrettante vengono rinchiuse nei campi di
concentramento. Preparato dalla CIA fin dal 1958 sul modello del golpe in
Guatemala, il colpo di Stato del generale Suharto ricalca fin nei dettagli il
modo con cui si è imposta l’anno precedente la dittatura in Brasile. L’ideologia
è quella fornita dalla «teoria della modernizzazione», secondo la quale in certi
contesti è l’esercito che deve rimuovere, con la forza, ciò che si oppone alla
modernizzazione capitalistica di un Paese. È l’esercito modernizzatore
guatemalteco che nel 1954 permette, con un colpo di Stato, di assicurare il
controllo sulla produzione agricola alla United Fruit Company. Lo stesso avverrà
con l’ITT nel Cile del generale Pinochet, così come, nel 1976, dopo il colpo di
Stato del generale Videla, in Argentina, dove «l’azienda automobilista Ford e
Citibank collaborarono alla sparizione di lavoratori appartenenti al sindacato».
Ma il modello che segue il generale Suharto per «estirpare dalle radici» la
presenza comunista (parliamo, tra il Pki, il sindacato operaio, il fronte
contadino, l’organizzazione studentesca e il Gerwani, cioè il movimento delle
donne, di qualcosa come dieci milioni di persone) si ispira, nelle tecniche di
propaganda, a quelle sperimentate dalla CIA nel colpo di Stato in Brasile del
1964. S’inventa un piano segreto comunista per attaccare l’esercito e assumere
il potere, con tanto di streghe comuniste che evirano nel sonno gli ufficiali e
poi ballano nude attorno ai cadaveri mutilati. Si erige un monumento ai militari
golpisti uccisi dai comunisti, si producono film da proiettare ufficialmente
ogni anno e si trasforma la giornata delle forze armate nella celebrazione
dell’annientamento dei nemici della nazione. Si trasforma l’esercito nel centro
organizzativo della modernizzazione.
«Un anno dopo un colpo di Stato nella nazione più importante dell’America
Latina, parzialmente ispirato da una leggenda sui soldati comunisti che
accoltellano generali nel sonno, il generale Suharto racconta alla nazione più
importante del Sud-est asiatico che comunisti e soldati di sinistra avevano
trascinato via i generali dalle proprie case nel cuore della notte per ucciderli
lentamente a coltellate, e poi entrambe le dittature militari anticomuniste,
allineate con Washington per decenni, celebrano l’anniversario di queste
ribellioni in modo molto simile». A partire dal 1958, la Fondazione Ford
organizza viaggi di studio negli Stati Uniti a giovani ufficiali indonesiani, i
quali vengono addestrati, tra un corso sull’economia americana e le serate nei
locali di spogliarello, nelle basi militari del Kansas.
Erano, il Brasile del 1964 e l’Indonesia del 1965, Paesi sul bordo della
rivoluzione? Nient’affatto. Nel primo caso, qualche timida riforma sgradita ai
latifondisti, nel secondo caso un governo messosi a capo, con il congresso di
Bandung del 1955, dei Paesi appena usciti dal gioco coloniale o intenzionati a
farlo, un governo – quello di Sukarno – appoggiato dai nazionalisti, dagli
islamici e anche dal Pki, partito la cui strategia era totalmente
socialdemocratica. Paesi non abbastanza allineati con Washington e con la sua
guerra al comunismo. Bevins sostiene che i colpi di Stato in Brasile e in
Indonesia, con il loro effetto domino, sono stati gli eventi decisivi della
Guerra fredda, la quale non si è giocata tanto e soltanto con i missili nucleari
e con il napalm, ma con le politiche di sterminio nelle colonie o ex colonie. Al
punto che la vittoria degli USA in Indonesia (e a Timor Est, dove Suharto ha
assassinato un terzo della popolazione) ha controbilanciato la sconfitta in
Vietnam.
La differenza tra il Brasile e l’Indonesia è che quando, a modernizzazione
raggiunta, le rispettive dittature militari si sono concluse, nel Paese
latino-americano la «riconciliazione nazionale» ha dovuto fare i conti con gli
assassinati e i desaparecidos, mentre lo sterminio indonesiano è stato
semplicemente rimosso, con un’intera popolazione letteralmente streghizzata. Una
militante novantenne, sopravvissuta alla detenzione e alla tortura, racconta a
Bevins che per gli abitanti del quartiere in cui vive lei è ancora una strega
comunista.
Silenzio
«Lo scopo delle violenze era il loro silenzio. Le forze armate non sovraintesero
allo sterminio di ogni singolo comunista, presunto comunista o simpatizzante
comunista del paese: sarebbe stato quasi impossibile, visto che circa un quarto
del paese aveva una qualche affiliazione con il Pki. Una volta che i massacri
presero piede diventò estremamente difficile trovare qualcuno che ammettesse di
avere qualche associazione con il Pki.
Circa il quindici per cento delle persone prese prigioniere furono donne. Furono
sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere che scaturivano
direttamente dalla propaganda diffusa da Suharto con l’aiuto dell’Occidente.
Sumiyati, esponente di Gerwani, sfuggì alla polizia per due mesi prima di
costituirsi. Le fecero bere l’urina dei suoi aguzzini. Ad altre donne tagliarono
i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano
diffusi ovunque.
Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano
soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di
piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti
“scomodi” che poi furono uccisi.
[…] Gli Stati Uniti contribuirono all’operazione in ogni sua fase, a partire da
molto prima dell’inizio dei massacri, fino a che cadde l’ultima vittima e
l’ultimo prigioniero politico uscì di galera, decenni dopo, torturato, segnato
dalle cicatrici e smarrito».
Il Metodo Gaza
Dopo il crollo dell’URSS, il concetto di «comunismo» è stato sostituito con
quello di «terrorismo». Nella crociata mondiale «antiterrorista» che si è
dispiegata soprattutto dopo il 2001, un ruolo cruciale lo ha giocato, non a
caso, Israele. Se il concetto di «terrorismo» risale a Babeuf, il paradigma
operativo del ribelle come «terrorista» è infatti tipicamente coloniale. E la
storia insegna che tutto ciò che viene sperimentato nelle colonie – dai
bombardamenti aerei sui civili alla detenzione amministrativa, dalle tecniche di
tortura all’architettura dell’occupazione – prima o poi torna indietro. I primi
campi di concentramento (in senso letterale: campos de concentración) sono stati
realizzati dalla Spagna a Cuba nel 1896, replicati nelle Filippine (dalla Spagna
e in seguito dagli Stati Uniti) e poi in Sudafrica dall’impero Britannico, per
diventare l’emblema stesso del nazismo. I metodi impiegati in Algeria verranno
insegnati dalla polizia militare francese alle polizie militari e segrete del
Brasile, del Guatemala, del Cile, dell’Argentina… La repressione «anticomunista»
più feroce in America Latina avviene là dove il nemico della nazione e il
selvaggio anticivile si confondono: in Guatemala. Così come nella rimozione
storica dello sterminio in Indonesia e a Timor Est (qui viene eliminato un terzo
della popolazione) pesa il fatto che gli assassinati non fossero bianchi.
Lo spazio intermedio tra le colonie e il territorio nazionale sono le zone di
confine. Non a caso la violenza fascista, a Trieste e dintorni, colpì prima le
popolazioni slave e poi gl’italiani “rossi”, ebbe modalità a metà tra la
spedizione punitiva e le tecniche militari di guerra e creò lo «slavo-comunista»
come nemico nazionale, versione bianca dell’indigeno maya-comunista del
Guatemala (dove le pratiche di sterminio condotte dall’esercito guatemalteco
avvennero con l’addestramento e la supervisione di quello israeliano). E non è
un caso che i primi a sperimentare sulla propria pelle, nell’Italia degli anni
Sessanta, la tortura come metodo militare furono i secessionisti tirolesi (a
dirigere le operazioni contro i quali troviamo gli stessi personaggi di
quell’Ufficio Affari Riservati che ha pianificato la strage di Piazza Fontana).
Se la legislazione italiana «antiterrorismo», dal 1980 in avanti, ha fatto
scuola a livello internazionale (anticipando quella europea degli anni Duemila)
e il carcere di guerra 41 bis viene oggi studiato dallo Stato cileno, non deve
sorprendere che i più accaniti sostenitori di Netanyahu (gli altri lo sostengono
con maggiore discrezione) siano gli esponenti di quella destra anticomunista e
antisemita erede della Guardia di Ferro filonazista (Orban), del Metodo Giacarta
e dell’Operazione Condor (Bolsonaro e Milei) e dell’esercito quale baluardo
contro i froci e i rossi (Vannacci). Oppure afrikaner la cui potenza tecnologica
conferisce al loro suprematismo una dimensione addirittura cosmica (si pensi a
Elon Musk e a Peter Thiel).
Ma anche la sinistra istituzionale ha raccolto l’insegnamento del Metodo
Giacarta (non a caso Berlinguer giustificava il «compromesso storico»
riferendosi esplicitamente al colpo di Stato di Pinochet, come prima Togliatti
giustificò la «svolta di Salerno», operata in obbedienza a Mosca, per
scongiurare una «situazione alla greca», cioè lo scontro con la CIA),
schierandosi attivamente – con i questionari, con le denunce alla polizia, con
la «linea della fermezza» nel caso Moro – a fianco della repressione
«antiterrorista», fino all’immondo slogan «il proletariato salverà lo Stato».
È il colonialista a definire chi è l’indigeno; è l’inquisitore a stabilire chi è
la strega; è il suprematista bianco a stabilire chi è il negro; è l’antisemita a
definire chi è l’ebreo; è il sionista a stabilire chi è l’antisemita; è
l’anticomunismo a stabilire chi è il comunista; è l’antiterrorismo a stabilire
chi è il terrorista. Interrogarsi sulla sostanza sociale, politica o ontologica
di queste categorie di reietti è non solo fuorviante, ma comporta uno
scivolamento sul terreno del potere accusatore, della sua propaganda e della sua
guerra psicologica.
Mentre assistiamo al declino dell’impero statunitense, con le dichiarazioni
trumpiane di annessione del Canada e di conquista della Groenlandia, con le navi
nucleari statunitensi schierate nell’Indo-Pacifico e di fronte al Venezuela e
con il Pentagono ribattezzato senza fronzoli Dipartimento della Guerra, dobbiamo
capire che Gaza non è un orrore contro il quale richiamare dal basso al rispetto
del Diritto internazionale o alla democrazia, bensì un Metodo che compendia
un’intera storia di massacri, e che vale da monito per tutti i palestinizzabili
del mondo.
L’ordine è già stato impartito
«Ci ispiriamo alla strategia di Haussmann per la Parigi del XIX secolo» è
scritto nel documento Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and
Transformation (GREAT). Come noto, il barone von Haussmann distrusse la vecchia
Parigi dei vicoli e delle strade strette (che facilitavano le barricate e le
insurrezioni) e la riorganizzò su vasti boulevard che facilitavano la cavalleria
e lo spostamento delle truppe nell’area urbana. Ancora oggi, l’architettura
imperiale è parte integrante della contro-insurrezione, cioè della continuazione
del colonialismo nello spazio urbano. Senza distruggere le strade, i tunnel e la
resistenza di Gaza non si possono costruire i Poli tecnologici né edificare, su
decine di migliaia di cadaveri, gli hotel di lusso. Il terrorista – in Palestina
come in Occidente – è qualunque barbaro contrasti il destino manifesto
dell’impero. Il linguaggio sempre più esplicitamente religioso e “messianico”
(meglio sarebbe dire teocratico) ci informa che più gli obiettivi sembrano
impossibili, più i mezzi si fanno smisurati e totali. Oggi il Metodo Giacarta,
dotato di tutti gli strumenti che il complesso scientifico-miltare-industraile
ha approntato nel frattempo, è capeggiato da un immobiliarista e sostenuto da
transumanisti che hanno tutti i mezzi di potenza per i propri deliri. La cosa
più insensata è spiegare a Ubu Re che è folle pensare di deportare due milioni
di palestinesi per fare una riviera di lusso.
La solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese deve essere
rafforzata dalla consapevolezza che qualcosa di simile è già accaduto. Gli hotel
e i club di Bali, meta turistica e sessuale dei bianchi ricchi d’Occidente, sono
stati eretti letteralmente sull’Operazione Annientamento (che solo in
quell’isola indonesiana sterminò il cinque per cento della popolazione, vale a
dire ottantamila persone). La sabbia su cui sono stati costruiti i resort e i
beach club dove «i bianchi possono permettersi di comprare ospitalità di lusso,
o sesso, dalla gente del posto», è «la stessa sabbia dove i militari portarono
persone da Kerobokan, qualche chilometro a est, per ucciderle durante la notte».
«”Doveva ammazzare i comunisti, così gli investitori stranieri potevano portare
qui i loro capitali”, dice Ngurath Termana».
Che la rivolta in corso in Indonesia faccia saltare per aria quei resort e
l’infame violenza su cui sono stati costruiti.
Una credenza insostenibile
In un’intervista rilasciata a «Jacobin Italia» poco dopo la traduzione italiana
del suo libro, Bevins diceva:
«Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di
questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e
l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi
momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si
realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina,
resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che
una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di
credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i
cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi
hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata
possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dài, siamo
negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali
uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia,
soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora».
Se c’è un popolo che sa che dal nemico deve aspettarsi tutta la violenza
possibile, è quello palestinese. Una violenza sterminatrice che, a differenza di
quella dispiegata dall’Operazione Annientamento, avviene in diretta mondiale.
Siamo noi che, di fronte al Piano Gaza, non dobbiamo cedere né all’incredulità
né all’orrore disarmato.
Qui il pdf: Motivazioni
Motivazioni
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante
dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che
servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi;
dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco;
di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice
«se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me»
Primo Levi, I sommersi e i salvati
«Il progetto è già attivo e attualmente in corso. Non ci si può ritirare a meno
di fornire delle motivazioni». È in questo modo che l’Università di Trento e
nello specifico il DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienze
dell’Informazione), attraverso le dichiarazioni del senato accademico, si
giustifica di fronte al fatto di non voler recidere alcun contratto con IBM
Israel, colosso tecnologico fondamentale allo Stato di Israele
nell’identificazione e la classificazione (con finalità di genocidio) dei
palestinesi.
Ora, non sono certo nuove le collaborazioni dell’Università di Trento con
l’industria e la ricerca belliche, ed in particolare con lo Stato di Israele, le
sue università e le sue aziende. Ma che, con un genocidio in corso, tali
personaggi non riescano proprio a trovare delle motivazioni per smettere di
esserne complici, ci sembra superi ogni misura umana. O meglio, ci sembra
esattamente conseguente alla “banalità del male” che pervade ormai ogni ambito
del complesso scientifico-militare-industriale e dei suoi collaboratori. È però
una seconda affermazione del senato ad essere forse ancora più emblematica, la
“seconda ragione” per cui non è da discutere la collaborazione in corso, e che
non si vergogna a definire “ragione di volontà”. «Sono presenti diversi accordi
con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti
umani e bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria», ci
spiegano. Sorprendendoci per l’insolita chiarezza (ma che mondo è quello che
vanifica persino il bisogno di lavarsi le mani sporche di sangue?) cogliamo
l’occasione per provare a tornare su alcuni ragionamenti.
Potrebbe sbalordire il fatto che IBM, per mezzo delle schede perforate del suo
fondatore Herman Hollerith, fu l’azienda fondamentale al Reich nazista per il
censimento degli ebrei e dunque al funzionamento dei campi di concentramento e
di sterminio. Ma se si prova a prendere in mano alcuni dei documenti che
certificano la nascita e la storia dello Stato d’Israele fin dall’immediato
dopoguerra, risulta invece tutto mostruosamente ordinario. I colpi di Stato
appoggiati da Israele, al fianco degli Stati Uniti, in mezzo mondo; la fornitura
di armamenti a dittature dichiaratamente naziste (come l’Argentina di Juan
Perón, che tra le altre cose torturò e uccise molti ebrei), ma anche al Cile di
Pinochet, al Sudafrica dell’Apartheid, al Guatemala di Ríos Montt*;
l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza testate sui palestinesi. Questa
è stata “l’accumulazione originaria” di Israele.
Il ruolo della Ricerca allora, come ci suggerisce il senato accademico, non è
quello di chiedersi quale fine possa avere un determinato studio o una
determinata collaborazione, bensì quello di mantenere un Sistema. Non importa se
a pagare il prezzo di una «firma che costa poco» siano donne, bambini, uomini,
popolazioni, interi territori. Ciò che non si deve interrompere per nessun
motivo è l’avanzare imperterrito della macchina del progresso tecno-scientifico.
Perché hanno ragione: bloccare certi accordi significa bloccare gran parte della
ricerca universitaria.
Allora forse bisognerebbe chiedersi in che tipo di mondo stiamo vivendo.
Riconoscere che se alla “Libertà di Ricerca” qui è legata la possibilità di
vivere o di morire altrove, il Sistema stesso che ne garantisce l’esistenza è il
cancro che ha costretto da tempo «la coscienza al bando», contribuendo con la
sua logica dell’efficacia alla “cosificazione” dell’essere umano.
Per provare ad interrompere questa marcia verso l’abisso bisogna allora
anzitutto mollare la presa («Ero troppo occupato ad affrontare il problema
tecnico dei miei forni per accorgermi di tutti quei cadaveri» dichiarò un
“lavoratore” nazista durante il processo di Auschwitz). Comprendere che la
guerra ha le sue retrovie e le sue zone grigie, con la primaria funzione di
essere vergognose fabbriche dell’obbedienza. La conoscenza tecno-scientifica è
un muro che divide il mondo poiché «qualunque potere si sostiene con strumenti
che hanno in ogni situazione una portata determinata» (Simone Weil), laddove il
ruolo dello Stato diviene fondamentale all’organizzazione e al mantenimento
dell’apparato, anche attraverso la pacificazione sociale e gli attacchi
repressivi.
Dunque agli Eichmann del nuovo millennio, a questa obbedienza cadaverica
(Kadavergehorsam la definì lo stesso Eichmann al processo di Gerusalemme),
possiamo solo dire che la loro mancanza di motivazioni per smettere di sostenere
un genocidio è il motivo stesso per cui sono i nostri nemici.
Agli incerti che ancora non riescono a sentire il ticchettìo e vedono “nel
migliore dei mondi possibili”, rappresentato oggi dall’“unica democrazia del
Medio-Oriente”, un inevitabile male minore, possiamo consigliare di guardare
altrove.
Un altrove che esiste nella forza straordinariamente umana della resistenza.
Nell’attacco alla mostruosa sicurezza che alimenta la catastrofe del presente.
Nella possibilità di guardare oltre i muri di cinta di una Società disumana.
Nella volontà di scavalcarli, quei muri, per provare a mettere qualcosa di
stra-ordinario «nel più ordinario dei giorni», quello nel quale «i subordinati
firmano tutto perché una firma costa poco».
Ecco dove noi preferiamo cercare le nostre motivazioni.
* Per approfondire si può leggere Laboratorio Palestina, di Antony Loewenstein
(Tratto dal foglio anarchico “Foravia”, numero 10, luglio 2025″)
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia
GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso
e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non
conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu, L’arte della guerra
«Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa
comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più
coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è
finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE
Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati
appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le
spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da
500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18
marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche
costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite
del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la
difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è
strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm
Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto
di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE).
Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo
anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di
infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti
senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia
di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e
sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150
miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che
questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra
eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano
operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la
Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente
di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del
parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di
utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di
coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati
ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei,
ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il
quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli
Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura
militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del
cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi
delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la
guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per
trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella
re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da
Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a
danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano
(anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle
misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in
Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa
nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente
reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori
attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e
sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni
esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia
patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di
mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda)
dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare?
Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune
coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato
che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e
tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e
dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe
dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una
accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle
e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e
soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di
pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente
contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno
di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della
tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta
2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale
dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli
americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare
l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in
Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto
Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come
le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod,
sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e
nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è
sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e
assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più
del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate
di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte
orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia
russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è
quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino
crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti
temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei
possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta
giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un
aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che
ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni
analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di
ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo
sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle
importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla
trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase
digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti
militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a
stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo
alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire
2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo
ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta
della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe
concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I
disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono
verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali
britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer,
lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali
nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di
titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko
(Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa
13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande
non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria
del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di
mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo
per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque
dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness
(cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con
l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei
padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica
Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò
un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato
cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale
di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari,
con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo,
equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo
principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al
mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma
anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il
rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni
agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende
agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital”
degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di
confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania,
tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di
controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo
stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo
fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi
chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato
al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi
definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti
cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più
antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni)
lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai
neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come
possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose,
indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra
della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato
controllato da nessuno.
Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si
incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali:
quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un
mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli
controllato dallo Stato turco.
Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in
quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche.
Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati
rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi
del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale.
La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente
questi obiettivi.
Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per
aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad
esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare
affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di
entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare
che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto
da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari,
aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di
Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di
casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi
dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente
sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo
sfruttamento dei fondali di questo pelago.
L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare
gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro.
Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in
fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la
Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il
99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400
cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il
controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica
orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza
degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare,
capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e
classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra
Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse,
tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino
al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo
(genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra
classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina
della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare
dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per
l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e,
soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e
provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di
più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità
insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”,
ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi
contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi
(sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe
stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di
dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo
(dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet
sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di
produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e
i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare
detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali
(come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di
valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi
totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan,
Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab
al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo
Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla
Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri
padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e
capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella
rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina
questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a
questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di
capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei
territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni
a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o
semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro
caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri
padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più
sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero
spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile
conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo
utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le
possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della
storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya).
Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa
nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le
occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del
Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni
territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del
capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto
più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità
soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree
rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione
situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in
sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di
cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte
politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di
Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei
territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata
dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa
maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in
un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità,
purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri
nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la
Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della
rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come
nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di
contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente
esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno
aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli
Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i
loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le
possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo
interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica
la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle
lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola
in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e
frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più
facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto
occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza
post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno
presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che
si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo
specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia.
Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due
blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli
avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo
di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione.
Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante,
invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le
contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui
degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori
e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una
città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente
per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i
prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo
più», commenta un tassista di Bucarest.
Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto
di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei
capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per
rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si
sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra
prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è
fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta
passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e
borghesie europee con la classe dominante statunitense.
“Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase
celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del
padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire
dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto
agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli
avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico.
Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini
alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del
continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato
slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più
della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e,
paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi
sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea.
Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in
maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump).
L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente
l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio
del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione
di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali
del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora
funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e
Ungheria.
Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo
repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi,
accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio
continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”,
e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per
la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta”
sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4
anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo
europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui
rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad
occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono
cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al
conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico)
fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti
compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed
energetico.
L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per
l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della
dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli
States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni
verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una
fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati
Uniti.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando
l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico:
il padronato mandarino.
La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra
sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con
la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano
imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA
abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese,
che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato
statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della
strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che
serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno
per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che
caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia,
si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di
Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la
guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran.
Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto
riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato
sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra
Stato indiano e statunitense.
La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA
è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato
pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese
(fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un
eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana
cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale.
Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di
Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe
significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e
scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a
partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro
l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi
climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il
conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano
internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del
carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al
consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi
strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe.
Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che
abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle
rotte che attraversano il Mar Artico.
La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi,
statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci.
Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e
petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni
un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a
che fare con un fattore: il cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto
l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e
militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”.
La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal
militarismo statunitense.
L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a
nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più
navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento
delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari.
Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati
“materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio.
Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza
degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo
scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa
all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità
alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i
fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici
si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della
pesca di Nuuk.
La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei
suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno
scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato
dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le
proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e
delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze
sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese.
La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione
strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle
riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di
risorse ittiche e minerali rari.
Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico,
coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei
fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della
società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti
questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data
la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica
digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che
«puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il
flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali
sottomarine».
La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già
quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale
dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento
dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con
una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala
commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la
distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso
dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così
l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra
al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più
palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni
proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo
è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane?
Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun
fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a
warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese
per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo.
L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5%
del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme
all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti
che articolano il riarmo europeo.
Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e
capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione
della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi
a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e
la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza
tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la
rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni
sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il
mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un
nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può
essere alle porte.
Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere.
«Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi
dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori.
E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo
desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di
libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati,
ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni
altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
Gaza non è un’ingiustizia a fianco di altre, bensì l’orrore che le contiene e le
compendia tutte. Il genocidio in corso ricapitola la violenza fondativa di ogni
Stato e ci mostra in diretta l’«accumulazione originaria» del capitale –
l’esproprio coloniale della terra, la guerra alla sussistenza, la violenza
sistematica contro le donne e i bambini, la streghizzazione dei refuseniks e dei
non-allineati, lo sviluppo delle tecno-scienze, l’esperimento permanente sul
materiale umano –, equipaggiata di tutti gli strumenti che un Progetto Manhattan
fattosi mondo ha elaborato dal 1945 ad oggi. A Gaza possiamo vedere nitidamente
che «il nemico è la nuova potenza che dispone degli antichi emblemi» (Karl
Kraus). Se volessimo riassumere tutto ciò in una sigla: International Business
Machines (IBM). Il colosso statunitense dell’informatica – il cui programma
completo si chiama niente meno che Smart Planet – raccoglie e gestisce i dati
biometrici del popolo palestinese per conto dello Stato israeliano, dopo aver
fornito le proprie schede perforate alla macchina di sterminio nazista.
L’esistenza stessa di IBM Israel tradisce ignominiosamente la memoria della
Shoah nel perfezionamento high tech di una nuova Nakba.
Gaza è il simbolo concreto di tutte le oppressioni, ma anche l’equivalente
generale delle resistenze. È la vita che si sostiene con il niente che trova, è
lotta armata, Sumud, memoria storica e poesie di lancinante bellezza. Nelle
testimonianze da Gaza incontriamo sconosciuti Ungaretti che si appoggiano a
«brandelli di muri« (dei loro famigliari non è rimasto nemmeno tanto) o ad
«alberi mutilati», sconosciuti Picasso che rappresentano, insieme a quello
umano, lo strazio degli asini, sconosciute Rosa Luxemburg che soffrono nel
vedere picchiare quegli animali mansueti quando, esausti, non riescono più ad
avanzare sotto il peso di case racchiuse nei bagagli, sconosciute Ingeborg
Bachmann che non rinunciano alla magia delle parole nemmeno dentro la «linea del
fuoco».
Quello in solidarietà con la resistenza palestinese è, con tutte le sue
insufficienze, il più vasto movimento internazionale degli ultimi decenni. Non
c’è continente in cui masse di diseredati o minoranze più o meno numerose non si
sentano coinvolte. Anche quando non incide direttamente sulle vite quotidiane di
milioni di persone, il dolore che si leva dalla Striscia non può non penetrare
nella sostanza psichica dell’umanità.
Si tratta di un terribile banco di prova della nostra reale consistenza e
insieme un anticipo delle capacità disfattiste di fronte alla guerra prossima
ventura.
Quando persino una relatrice dell’ONU parla di «economia del genocidio»,
elencando aziende le cui sedi e i cui addentellati sono ovunque, non si può
certo dire che manchi il «materiale infiammabile» per agire in modo diretto e
risoluto. E chi, con un minimo di buona fede, potrebbe dire «non sono questi i
mezzi»? Quando tutti gli Stati – tanto in ambito NATO come in quello dei BRICS –
sono complici o al meglio spettatori passivi; quando il Diritto internazionale è
una barzelletta insanguinata; quando anche coloro che praticano l’azione diretta
nonviolenta diventano un’«organizzazione terroristica» (come nel caso della
messa al bando di Palestine Action in Gran Bretagna); quando si ammazzano i
bambini in fila per un po’ d’acqua.
Quale che sia l’angolo d’attacco che consideriamo prioritario, non vedere nel
genocidio dei palestinesi il cuore di un mondo senza cuore è una distrazione
dello sguardo o una pigrizia dell’anima.
Vogliamo lottare contro il razzismo di Stato? Gaza.
Vogliamo contrastare l’economia di guerra e la militarizzazione sociale? Gaza.
Non vogliamo separare emancipazione femminile e resistenza anticoloniale? Gaza.
Vogliamo metterci di traverso rispetto alla furia estrattivista ed ecocida del
capitalismo? Gaza.
Vogliamo combattere la tortura del carcere e il carcere come tortura,
solidarizzando con le compagne e i compagni prigionieri? Gaza.
Vogliamo opporci alle smart city e alla società dei varchi? Gaza.
Ci battiamo per un’agricoltura contadina contro le nuove enclosures genetiche e
digitali? Gaza.
Siamo inorriditi dal cibo in laboratorio e dalla riproduzione artificiale
dell’umano? Gaza.
Cerchiamo un nesso tra la profilazione di massa e lo sterminio algoritmico?
Gaza.
Odiamo gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Peter Thiel e il neo-feudalesimo che ci
stanno apparecchiando? Gaza.
Nella solidarietà attiva e internazionalista con gli oppressi palestinesi, come
anarchiche e anarchici, in particolare, abbiamo l’occasione di rievocare e
attualizzare le pagine migliori della nostra storia.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, dall’Indonesia a
Cuba, quelle anarchiche sono state le idee rivoluzionarie più influenti nei
movimenti anticoloniali.
Anarchiche e anarchici furono tra i primi a ribellarsi, nel 1896 in Italia,
contro l’aggressione imperialista all’Abissinia al grido di «Viva Menelik!»,
«Abbasso Crispi!», «Via dall’Africa!», contribuendo a un moto popolare che ha
bloccato i treni militari, assaltato le caserme, liberato i coscritti. E lo
stesso avvenne nel 1911 con l’occupazione coloniale della Libia, quando la
campagna per liberare Augusto Masetti (il soldato anarchico che sparò al
colonnello Stroppa urlando «Abbasso la guerra, viva l’anarchia!») fu un fulgido
esempio di agitazione antimilitarista. Per non parlare del ruolo decisivo
giocato durante la «settimana rossa», che è stata anche e soprattutto
un’insurrezione contro i signori dello sfruttamento e della guerra. Durante la
disfatta di Caporetto del 1917, provocata dal più vasto «sciopero militare»
della storia italiana, il movimento anarchico spinse – tra l’immobilismo e
l’ignavia del Partito socialista (con l’eccezione della sua Federazione
giovanile) – per trasformare la rivolta dei fanti contadini e operai in
insurrezione contro la guerra e contro lo Stato. Persino durante l’occupazione
dannunziana di Fiume, Malatesta e altri compagni tentarono – kairós impervio
come pochi altri – di guadagnare al movimento proletario «quel vago
sovversivismo ancora incerto tra la nostalgia della trincea e il richiamo della
barricata». E anche durante la rivolta di Ancona del 1920, scoppiata per
impedire le partenze coatte dei soldati verso l’Albania, anarchiche e anarchici
diedero il loro generoso appoggio.
Allargando lo sguardo, non molti sanno che la rivolta libertaria e
antiburocratica del Maggio francese fece esplodere quella rottura con i
sindacati e il Partito comunista maturata durante la guerra d’Algeria, un’atroce
campagna coloniale disertata da centinaia di migliaia di giovani e sostenuta dal
PCF e dalla CGT.
E potremmo parlare dell’anima internazionalista e libertaria dei Gari, del
Movimento 2 giugno, delle Rote Zora…
Quelle idee, quei sentimenti, quelle storie possono oggi darsi appuntamento
pubblico e segreto con un «comunismo dello spirito» che raramente nella storia
recente è stato così universale.
Gaza è il nome proprio della rabbia, del bisogno di riscatto, del desiderio di
giustizia. Invoca amore e chiede vendetta.
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito il secondo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo guerra”,
dell’estate 2025.
Per richiedere copie / To request copies / pour demander des exemplaires:
disfare@autistici.org
* 52 pagine, 4 euro a copia, 3 euro per i distributori (dalle 3 copie in su)
* 52 pages, 4 euros per copy, 3 euros for distributors (from 3 copies upwards)
* 52 pages, 4 euros par exemplaire, 3 euros pour les distributeurs (à partir de
3 exemplaires)
Scarica il pdf dell’editoriale: disfare_2_editoriale
Scarica il pdf dell’articolo “Processo alla resistenza palestinese” del
Collettivo Hurriya! Pisa sul caso di Anan Yaeesh: disfare_2_Anan
Nel più ordinario dei giorni
Per scrivere una poesia non politica
devo ascoltare gli uccelli
e per sentire gli uccelli
bisogna far tacere gli aerei da caccia.
(Marwan Makhoul, Versi senza casa)
Apocalisse non è
l’immane violenza.
Quella è già qui
nel più ordinario dei giorni.
Apocalisse è
non produrre né maneggiare
oggetti che incorporano
il sudore e il sangue degli schiavi
la materia estratta a forza dalle viscere della Terra
la distanza orbitale dei satelliti
i cavi che cingono il Pianeta
il lavoro invisibile di milioni di donne.
Apocalisse è
rendere commensurabili
gesti e conseguenze,
prodotti e mondo.
Nella quiete dei laboratori si trasformano
«aree di smercio in campi di battaglia,
perché questi a loro volta divengano aree di smercio».
La quiete dei magazzini
«lavora sul corpo e sulla psiche delle vittime.
Non fa in tempo a impacchettare un’impresa
che già si accinge a nuove confezioni,
non lascia finire una guerra senza gettare le basi
dei campi di concentramento
che fioriranno nelle successive».
Apocalisse non è
l’immane violenza.
Quella è già qui
nel più ordinario dei giorni.
Non arriverà alcun salvatore
perché
nostro padre che è nei cieli,
è soltanto un aereo da caccia,
nient’altro
tranne colui che sta a bordo,
che è venuto a cacciarci
e ha centrato la nostra sottomissione
(Marwan Makhoul, New Gaza).
Apocalisse non è
il trionfo della Giustizia nella Storia.
L’apocalisse
– rottura dell’ordito storico,
rivelazione della sua infamia –
è da sempre il respiro della creatura calpestata.
Avremmo bisogno oggi
di un’apocalisse anders (cioè diversa).
Di un nuovo pauperismo
che si prefigga,
nella società della dismisura,
un obiettivo terra-terra,
il compimento di una promessa ben poco eroica.
Non dire più, come Élisée Reclus al fratello Élie,
poco prima di smettere di insegnare ai figli
di un proprietario di schiavi nella Louisiana:
«Anch’io tengo in mano la frusta».
Per una finalità così modesta,
per un’aspirazione tanto umile,
bisogna interrompere il mondo.
Forse non diventeremo migliori,
ma almeno smetteremo
di produrre e maneggiare,
nel più ordinario dei giorni,
oggetti che siano più disumani di noi.
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: iran israele definitivo-1
FIN QUANDO CI SARA’ UNO STATO NON CI SARA’ MAI PACE
Presa di posizione dell’assemblea “Sabotiamo la guerra” sulla guerra
Israele-Iran
L’attacco sferrato da Israele all’Iran la notte tra il 12 e il 13 giugno
rappresenta una svolta drammatica verso la mondializzazione della guerra. Dopo
oltre tre anni di guerra tra NATO e Federazione Russia in Ucraina, dopo due anni
di genocidio in corso a Gaza, le forti tensioni in Asia Occidentale sfociano in
una nuova guerra fra potenze regionali, entrambe in possesso di armi altamente
tecnologiche, entrambe dotate di una industria nucleare, e che si è
immediatamente aperta con uno spregiudicato quanto criminale attacco proprio
contro le strutture nucleari iraniane.
Da una parte, vi è l’Iran che non dispone di armi atomiche né esistono prove che
le stia costruendo e che si sottopone ai controlli delle agenzie internazionali.
Dall’altra, Israele, che possiede armi atomiche senza dichiararle, non rispetta
trattati né accetta controlli e compie abitualmente attacchi militari senza
porsi alcun limite etico.
Se il diritto internazionale e le organizzazioni che lo rappresentano hanno
avuto la funzione di garantire l’ordine mondiale, cioè precisi rapporti di forza
e di dominio tra gli Stati, oggi, il fatto che vengano messi in discussione, in
primis da Israele e dagli Stati uniti, è un chiaro segnale della crisi globale,
della rottura dei precedenti equilibri e di ritorno alla guerra come mezzo di
risoluzione delle rivalità interstatali.
L’Iran è stato attaccato poco dopo essersi sottoposto a controlli dei suoi
impianti nucleari e durante le trattative con gli Stati Uniti in merito
all’arricchimento dell’uranio. Risulta evidente l’intento di Israele di fare
fallire le trattative e ogni ipotesi di risoluzione politica dei dissidi.
I Paesi alleati hanno immediatamente operato per respingere il contrattacco
iraniano, abbattendo decine di razzi e droni, mentre si corre il serio pericolo
di una partecipazione diretta dei Paesi occidentali (a partire dagli USA) nei
bombardamenti. Il che rappresenterebbe un’ulteriore drammatica precipitazione
della crisi.
Gli Stati Uniti negli ultimi trent’anni hanno condotto la cosiddetta “guerra
infinita”, una serie ininterrotta di guerre, attacchi militari e operazioni di
destabilizzazione (dall’attacco all’Iraq al cambio di regime in Siria).
Attualmente i loro obiettivi si espandono su diversi fronti: quello Russo,
quello dell’intera Asia Occidentale e, in prospettiva, quello
dell’Indo-Pacifico. I conflitti in corso si stanno estendendo e ne nascono di
nuovi, in una tendenza verso la guerra mondiale che allo stato dell’arte appare
inarrestabile. Sullo sfondo si profilano tensioni sia politiche che militari fra
gli Stati Uniti e la Cina.
Nel mentre, all’interno dei Paesi occidentali e in particolar modo proprio
all’interno della potenza dominante nordamericana, sono in corso gravissime
crisi sociali che talvolta sembrano assumere i connotati della guerra civile.
Sappiamo che storicamente gli Stati risolvono le loro più gravi crisi interne
con la guerra.
Tornando alle vicende di questi giorni. La responsabilità di questa nuova e
gravissima esclation risiede nell’iniziativa criminale dello Stato di Israele.
Un’entità fondata sul colonialismo di insediamento, sul suprematismo razzista,
sul fanatismo religioso, sulla militarizzazione della società, avanguardia nelle
tecnologie di controllo e nella sua sperimentazione sulla popolazione
palestinese colonizzata, deportata e sterminata. Nell’azione del 7 ottobre 2023,
fra le varie contraddizioni che ha aperto, c’è sicuramente quella di aver
smascherato il vero volto di questa entità. Israele sta mettendo in atto un
genocidio, ma non riesce a sconfiggere la resistenza di un popolo,
contraddizione che prova a sublimare rilanciando con sempre nuove avventure:
dall’invasione del Libano alle innumerevoli provocazioni anche a carattere
terroristico, fino agli eventi di venerdì notte.
Bisogna quindi ribadire con forza che a Gaza è in corso un genocidio: dobbiamo
fare in modo che questa nuova guerra non serva a nasconderne il compimento.
Israele è, da un lato, la punta di lancia dell’imperialismo occidentale e
l’attore che da decenni svolge il lavoro sporco per conto degli Stati Uniti e
dell’Europa; contemporaneamente, però, la sua leadership politica fuori
controllo è in grado di condizionare a suo vantaggio le politiche delle potenze
occidentali. I nostri governanti sono pienamente corresponsabili delle atrocità
commesse da Israele, senza il sostegno di queste potenze Israele non potrebbe
condurre le proprie avventure militari e forse nemmeno sopravvivere.
L’opposizione intransigente al progetto sionista non ci porta però a sostenere
la repubblica islamica dell’Iran. Una potenza regionale, con una oligarchia di
petrolieri e un’industria, anche militare, molto sviluppata. Non parliamo
“semplicemente” di un’odiosa teocrazia, che tortura e impicca gli oppositori e
opprime in particolar modo le donne, elemento che ama sottolineare la propaganda
liberale occidentale. Parliamo di un regime che mette il suo potere oscurantista
al servizio della propria borghesia per reprimere nel terrore le lavoratrici e i
lavoratori.
Si pensi, per fare un esempio fra i tantissimi che potremmo citare – che in
qualche modo ci parla tanto della misoginia quanto del classismo all’interno del
regime – al caso della sindacalista Sharifeh Mohammadi, condannata a morte per
la sua attività di coordinamento con gli scioperi radicali che sempre più spesso
negli ultimi anni hanno attraversato il Paese.
Dal 2005 oltre 500 sindacalisti sono stati arrestati, imprigionati, o in alcuni
casi condannati a morte ed espulsi per aver creato un’organizzazione sindacale
indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e
degli standard internazionali sul lavoro.
In una guerra fra tali odiosi regimi, gli unici eroi sono i disertori.
Come anarchici e rivoluzionari ci auguriamo la caduta del governo teocratico
iraniano, un regime oppressivo che è sorto soffocando nel sangue una generazione
di compagni rivoluzionari. Allo stesso tempo sappiamo che un regime deve cadere
sotto i colpi dell’insurrezione autenticamente popolare, mentre i cambi di
regime progettati e attuati dai capitalisti occidentali, come la storia recente
insegna, non fanno che sostituire un oppressore con un oppressore ancora più
feroce e asservito alle potenze straniere, trasformando interi paesi in inferni
sulla terra. Tenendo presente tutto ciò, invitiamo tutti i rivoluzionari e le
persone di buona volontà a guardare con gli occhi ben aperti a un possibile
sommovimento in Iran (che è al momento il principale obiettivo strategico di
Israele), stando ben attenti a distinguere il grano dal loglio e a non abboccare
a quelle false flag che sono da oltre un decennio le principali armi del soft
power occidentale per corrompere e cooptare il dissenso, portandolo sul terreno
altamente compatibile dei “diritti” liberali. In ogni caso, se anche si
producesse un autentico moto di classe (non impossibile in un Paese in cui gli
ayatollah sono andati al potere incarcerando e impiccando i rivoluzionari),
questo non dovrebbe spostare di un millimetro la nostra opposizione
intransigente al Sistema-Israele e a tutto l’imperialismo occidentale che lo
nutre.
In generale, in una guerra tra Stati, tanto più se questi sono potenze regionali
con importanti alleati internazionali, gli oppressi non hanno alleati né amici
tra i governanti, ma sono solo carne da cannone per le loro sporche guerre.
Convinti che fin quando ci sarà uno Stato non ci sarà mai pace, la nostra
posizione rimane quella internazionalista: contro ogni Stato, a partire dal
nostro. Quindi, dal nostro lato del fronte, non vogliamo sottacere le
responsabilità del governo e dei padroni italiani, che hanno le mani sporche del
sangue palestinese. Non possiamo dimenticare che la marina militare italiana
dirige l’operazione Aspide, coordinando una coalizione a cui partecipano sette
Paesi dell’Unione Europea: il compito di questa missione è contrastare l’azione
yemenita che, attaccando le navi, è riuscita a lungo a bloccare un’importante
via di comunicazione commerciale e a recare un fortissimo danno all’economia
mondiale, mettendo in atto una delle più efficaci forme di sostegno e
solidarietà alla popolazione di Gaza.
Il governo italiano offre a Israele un appoggio politico incondizionato.
L’esercito italiano e quello israeliano sono sempre più integrati, i militari si
addestrano reciprocamente, l’industria bellica italiana è il terzo esportatore
verso Israele (dopo Stati Uniti e Germania), mentre l’Italia compra dall’alleato
sionista sistemi d’arma ad alta tecnologia. Finanche le amenità del Bel Paese
sono uno dei luoghi prescelti da Israele per la “decompressione” dei propri
militari dopo i combattimenti.
I servizi segreti italiani condividono informazioni e tecnologie con gli
apparati israeliani, come dimostra da ultimo il caso Paragon. Non dimentichiamo
peraltro come la magistratura italiana sia schierata a supporto della
repressione israeliana. Come dimostra lo scandaloso processo in corso all’Aquila
contro Annan Yaeesh che vorrebbe far passare la resistenza armata palestinese,
legittima anche per il diritto internazionale, per terrorismo. L’Italia supporta
la logistica militare di Israele, come avviene con l’approdo nei porti italiani,
ad esempio delle navi ZIM, e la ricerca tecnologica finalizzata alla supremazia
militare, come avviene in numerosi atenei.
Ormai nei mezzi di comunicazione di massa italiani è quasi impossibile ricevere
informazioni che non siano sfacciata propaganda di guerra. Questi mezzi di
comunicazione sono parte integrante della macchina bellica, affermazione che è
rafforzata dalla considerazione che nell’attuale strategia di guerra occidentale
sempre più frequentemente lo spettacolo determina le scelte sul campo.
Nonostante una propaganda martellante gli sfruttati sono generalmente contrari
alla guerra, in particolare il genocidio di Gaza ha profondamente scosso
l’opinione pubblica; ma non basta una ribellione delle coscienze. Peraltro la
classi più povere delle società occidentali stanno già pagando a caro prezzo il
costo della guerra: dall’inflazione alla repressione. Di recente, il capo della
NATO Rutte ha affermato che se gli europei non vogliono tagliare la loro spesa
sanitaria a favore di quella militare (l’obiettivo dichiarato è di raggiungere
il 5% del PIL!) allora dovranno imparare a parlare russo. D’altro canto, le
politiche repressive sempre più efferate dei nostri governanti, di cui il
pacchetto sicurezza di recente approvazione (dove si reprimono i blocchi
stradali, i picchetti sindacali, le proteste in carcere, anche in forma
pacifica, e si introduce il cosiddetto “terrorismo della parola”) è soltanto il
più recente e probabilmente non definitivo approdo, vanno lette a tutti gli
effetti come delle vere e proprie politiche di guerra, anche alla luce di quelle
tensioni sociali di cui si faceva cenno.
Nei prossimi mesi sarà importante per anarchici e solidali saper collegare la
resistenza contro questa offensiva (così come la solidarietà con i nostri
compagni in varie forme perseguitati) alla lotta complessiva contro la guerra,
di cui queste operazioni sono la manifestazione sul fronte interno.
La propaganda sempre più faziosa e pervasiva, il cablaggio tecnologico delle
facoltà critiche, le sconfitte storiche del movimento operaio, una certa
predilezione per l’autoisolamento da parte delle minoranze agenti, al momento
pesano sul senso di impotenza e rassegnazione. Lo stesso livello tecnologico
della guerra guerreggiata – si pensi al confronto aeronautico e balistico tra
Israele e Iran, per non parlare delle tecnologie messe in campo da NATO e Russia
in Ucraina – spinge verso un sentimento di ineluttabilità, nell’impossibilità
per le umane forze degli sfruttati di fare qualcosa per fermarli. Eppure la
variante umana e di classe è determinante.
Sono le braccia dei portuali a caricare le armi sulle navi dirette a Israele:
quelle braccia, come ci hanno mostrato in Marocco, a Marsiglia, a Genova,
possono decidere di fermarsi. Sono i corpi dei proletari russi e ucraini a
venire gettati nelle trincee, a massacrarsi vicendevolmente per gli interessi
delle classi dirigenti russe e statunitensi (mentre Putin e Trump dialogano
amabilmente al telefono); eppure quei corpi possono disertare, e lo fanno a
decine di migliaia.
La resistenza armata del popolo palestinese, che non ha amici tra le grandi
potenze, riesce con la propria volontà e la propria azione ad opporsi ad una
delle più terribili e avanzate macchine belliche presenti sula terra. Israele ha
un dominio tecnologico esorbitante, eppure vediamo come i combattenti
palestinesi riciclano le bombe inesplose del nemico per farne degli ordigni
artigianali. La fantasia degli oppressi non conosce confini. E gli oppressi,
come diceva Errico Malatesta, sono sempre in condizione di legittima difesa, i
mezzi da adoperare, purché coerenti con i fini dell’uguaglianza e della libertà
per tutti gli esseri umani, sono solo una questione d’opportunità.
Dal nostro lato dei molteplici fronti, lottiamo per la disfatta del nostro
campo: per la sconfitta della NATO, per la distruzione del sionismo.
Trasformiamo la guerra dei padroni in guerra contro i padroni!
Assemblea “Sabotiamo la guerra”
«Un progetto esplicitamente apocalittico»
Leggendo questa espressione, è molto probabile che si pensi subito al
capitalismo nell’epoca della sua svolta tecno-totalitaria o alla tendenza degli
Stati verso la guerra mondiale. Invece è riferita all’esatto contrario. A
parlare è «CB», dell’università di Princeton, in occasione di un’intervista
fatta da «Endnotes» e «Megaphone» sul movimento per la Palestina nei campus
statunitensi: «Ho visto un cartello dell’accampamento di Toronto con l’Angelus
Novus di Klee e una citazione di Césaire che recitava: “L’unica cosa al mondo
che vale la pena di iniziare… la fine del mondo, ovviamente!”. Gli accampamenti
sono un progetto esplicitamente apocalittico».
Queste parole vanno prese sul serio, in senso letterale. Il luogo comune che
consiste nell’associare l’apocalisse (quella nucleare su tutte) alla smisurata
sete di potenza del dominio è sbagliato. L’unica vera apocalisse è quella
rivoluzionaria.
Senza addentrarsi in dotte ricostruzioni storico-teologiche, il concetto di
apocalisse – etimologicamente, l’atto di gettar via un velo che copre – tiene
insieme l’idea di fine del mondo e quella di rivelazione. La fine, cioè, deve
interrompere un continuum e allo stesso tempo disvelarne la struttura. La
distruzione nucleare del mondo non può essere apocalittica perché essa non
assegnerebbe alcun significato nascosto al tempo, ma lo annienterebbe,
eliminando, insieme all’umanità, la possibilità di ogni rivelazione. Lo stesso
si può dire dei vari scenari verso cui spinge lo sviluppo tecnologico. Prendiamo
uno dei tanti deliri prodotti dalla Silicon Valley: il datismo. Secondo questa
tecno-religione, l’homo sapiens è stato funzionale all’evoluzione del mondo
nella misura in cui ha primeggiato sulle altre forme di vita nella raccolta e
nell’elaborazione dei “dati”; la potenza illimitata delle macchine
“intelligenti”, diventando essa stessa il centro dell’evoluzione, conduce oggi
all’estinzione del suo intralcio evolutivo: l’essere umano. Non c’è bisogno che
tale profezia si realizzi compiutamente per definirla totalitaria, dal momento
che la concatenazione dei mezzi che impiega ha già un effetto sull’insieme della
materia-mondo. Ma nemmeno la macchinizzazione universale sarebbe propriamente
apocalittica. L’apocalisse non è il punto più alto di un processo cumulativo, ma
la sua interruzione e il suo disvelamento.
Per capirlo sarà utile un parallelo con la religione cristiana, dal momento che
«l’apocalittica neotestamentaria ha determinato attraverso le sue aporie tutto
il corso della nostra storia» (Sergio Quinzio, La croce e il nulla). Ecco il
punto cruciale: «Se non c’è catastrofe apocalittica, se non c’è rottura radicale
della realtà data, se non c’è abisso da attraversare, allora c’è continuità fra
il mondo il cui principio è Satana (Gv 12, 31; 16, 11), c’è graduale via per
andare dall’uno all’altro, c’è, in definitiva, omogeneità: la scala che conduce
al regno sta appoggiata al mondo». È nel differimento dell’apocalisse che
s’inserisce e s’inscrive l’idea moderna di progresso, di cui la distruzione
nucleare o il mondo transumano sono l’achèvement (il compimento e
l’estremizzazione), nient’affatto l’arresto rivelatore.
Senza la sua apocalittica (intesa sia come insieme delle scritture che hanno per
tema l’apocalisse sia come componente messianico-escatologica), affogata
letteralmente nel sangue, arsa viva o ridotta a precettistica, il cristianesimo
si rifugia nelle regioni dello spirito. Se il cristianesimo è diventato ben
presto – e poi in modo dominante – uno strumento di potere, è rimasto per secoli
anche la «religione degli schiavi». Per milioni di contadini e di poveri la
promessa del Regno è stata una speranza di riscatto e la legittimazione della
rivolta contro i ricchi. Se, negli Stati Uniti dell’Ottocento, insegnare a
leggere agli schiavi era un reato passibile di morte, è anche perché gli
abolizionisti sceglievano certe pagine della Bibbia come testi su cui
esercitarsi, cioè le pagine in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani
in quanto figli di Dio. Persino l’abolizionista ateo faceva ricorso a quel
linguaggio – «non si tiene in catene un figlio di Dio» – per l’effetto
apocalittico che sapeva produrre contro il regime schiavistico. Più in generale,
se il mondo è regno di Satana (nel Libro di Daniele Dio affida il governo ai
santi dopo l’apparizione della belva più feroce), l’idea di uscirne come
ricompensa personale è un escamotage; quella di uscirne progressivamente è
semplicemente un non-senso: tra il male e il bene non può esistere alcuna scala
a pioli.
«Il processo per il quale la volontà di redentrice concretezza si trasforma in
spiritualizzatrice fuga verso l’astratto è lo schema entro il quale si è svolta
la storia del moderno». Ecco l’aporia: se la linea evolutiva è ascendente, il
tempo salvifico è quello posto più in alto; se è discendente, il tempo salvifico
è la rottura apocalittica. La quale è sia un evento unico (perché il tempo
cristiano è una linea e non una ruota, come nella concezione ciclica dei Greci),
sia un evento «oggettivo, pubblico, terrestre, istantaneo e immediatamente
immanente» (contro l’idea di una salvezza interiore o gradualmente
raggiungibile). Per questo la Chiesa ha trasformato l’apocalittica in semplice
ammonimento morale. Ma così come il vino nuovo non può non rompere l’otre
vecchio (Mt 9, 16-17), la salvezza non può non distruggere-svelare il «mistero
dell’iniquità» – in termini materialistici: la violenza dello Stato e del
capitale.
O Gaza è un tassello – o un inciampo – in una linea evolutiva che va proseguita.
Oppure è il moto accelerato verso «un paesaggio di catastrofi contratto in
un’armonia infernale», che solo una rottura apocalittica può fermare.
L’apocalittica oggi può essere fatta propria unicamente da un movimento
rivoluzionario. E qui torniamo alla citazione iniziale. Il movimento
internazionale e internazionalista di solidarietà con gli oppressi palestinesi
ha due sole prospettive: rassegnarsi all’inconcludenza, o farsi «esplicitamente
apocalittico». Nulla meglio dei campus statunitensi lo rivela. È certo
importante e apprezzabile riuscire a spezzare le specifiche collaborazioni con
il genocidio israelo-statunitense di Gaza. Ma, come ha detto un altro
partecipante agli accampamenti, «un autentico disinvestimento dalla morte non
può avvenire all’interno di un regime necropolitico». Prima e al di là di cosa
vi si insegna e cosa vi si ricerca, resta il fatto che quelle università (e non
solo quelle) sono state fisicamente erette sulle terre strappate ai popoli
nativi con la violenza. «245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di
terra, destinati all’espansione delle università statunitensi». Globalmente,
«oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono
stati trasferiti alle università coloniali» (Maya Wind. Torri d’avorio e
d’acciaio). Per questo «RH» e «KG», intervistati sempre da «Endnotes» e
«Megaphone», concludono: «I nostri antagonisti sono l’amministrazione e la
polizia, il che è un sintomo delle più ampie contraddizioni sociali, ovvero il
fatto che siamo su una terra rubata e che l’intero paese è costruito solo sulla
violenza. Quindi dire che i nostri unici antagonisti sono gli amministratori non
è corretto. Il nostro antagonista è lo Stato». Ricapitolare, nella critica
pratica delle università, la violenza genocida su cui si fondano, significa
mettere in discussione almeno due secoli di storia, cioè operare qualcosa di
apocalittico.
Il colonialismo d’insediamento israeliano compendia l’intera storia della
modernità capitalistica. Dispiegandosi diversi decenni dopo gli altri
colonialismi d’insediamento, la sua violenza genocida – che Ilan Pappé definisce
con rara precisione «incrementale» (l’esatto opposto, si noti, di apocalittica)
– è allo stesso tempo in ritardo e in anticipo sui tempi storici. In ritardo,
perché il suo progetto coloniale è il solo ancora incompiuto (la sua
incompiutezza si chiama resistenza palestinese); in anticipo, perché, disponendo
di tutta la potenza che il complesso scientifico-militare-industriale ha
accumulato nel frattempo, esso è il laboratorio di ogni sperimentazione contro i
pellerossa del Medio Oriente e i palestinesi dell’Occidente, cioè contro gli
Untermenschen del presente e del futuro.
Eccoci qui: «tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una
tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse
verso la catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa, come un fiume che vuole
sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche,
Frammenti postumi 1887-1888).
Gaza diffonde oggi schegge di apocalisse, richiamando in vita coscienze che
sembravano sepolte. L’azione di Elias Rodriguez ricorda, per intensità etica e
per dedizione totale, quelle compiute dalle «nichiliste» e dai «nichilisti»
russi di fine Ottocento. E non a caso nelle rivolte in corso negli Stati Uniti
contro le deportazioni degli immigrati si vedono ovunque le kefiah. Le donne e
gli uomini che si mettono in mezzo per impedire le retate dell’ICE richiamano e
rinnovano la storia degli abolizionisti che si opponevano alle leggi Jim Crow,
cioè alla caccia armata agli schiavi fuggiaschi. Si tratta di piccole, e ancora
sotterranee, apocalissi storiche. Non lo diciamo per gusto dell’estremismo, ma
per cogliere la filologia delle lotte e della loro posta in gioco.
E proprio sul piano filologico ci teniamo a «correggere» la frase da cui siamo
partiti. L’apocalisse non può essere un «progetto», ma una via che si riconosce
dopo aver cominciato a percorrerla, cioè un abisso da attraversare. I progetti
rivoluzionari servono a preparare un minimo di bagaglio per la traversata.