
A Milano la battaglia per lo stadio Meazza non è ancora finita
NapoliMONiTOR - Monday, October 6, 2025
San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi. Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario.
Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni.
Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre – apparentemente RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti.
E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi, e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa.
Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80 milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di edifici di lusso sono immensi.
Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre (mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a protezione della controparte.
Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico effetto positivo da un certo punto di vista.
“La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”.
Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica – completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di potere e denaro.
Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione, l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello vagante del capitale.
La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie, come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)