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Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde
(foto di enzo morreale) Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est. Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici. Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa, evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno. Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta, costante e fuori dai riflettori. Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza un elicottero della polizia. Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel 2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila movimentati presso il nuovo terminal. Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi, ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’ (SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o sottoutilizzati”. La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.  Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa 217 milioni di euro per l’allestimento operativo. Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni. Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017: “Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione pubblica. In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto dell’industria. Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali. La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo. Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti, l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il comitato si batte ancora oggi. La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città, fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non balneabile. San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive, nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita grippiolo)
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #7. Il Sermig
(disegno di Adriana Marineo)   Queste cartografie aggregano voci enciclopediche per un archivio del terzo settore e dell’innovazione sociale. Nei contributi prevale un tono espositivo a cui si alternano spunti critici. L’ordine e i tempi delle uscite dipendono dalle energie a disposizione, dal tenore delle nostre ricerche, da eventi puntuali che notiamo in quartiere. Da tempo riflettiamo sul Sermig e sulla sua storia, ma non a caso proponiamo ora una voce specifica. Qualche giorno fa una straccivendola lungo la Dora è finita in questura a causa di una segnalazione alla polizia effettuata da un membro del Sermig. La donna aveva disposto i suoi oggetti in vendita accanto all’ingresso della struttura e questo, evidentemente, dava fastidio. È importante chiedersi perché un ente umanitario e filantropico non esiti a rivolgersi alla polizia e denunciare persone che potrebbero pagare un caro prezzo nel terribile sistema delle espulsioni di questo stato. Bene, non v’è nulla di cui stupirsi. Il Sermig è coinvolto da anni nel governo d’un quartiere da cui reietti e indisciplinati sono espulsi. * * * Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) fu fondato a Torino nel 1964 su iniziativa del bancario Ernesto Olivero insieme ad alcuni giovani cattolici: intendeva operare come gruppo missionario nel mondo. Presto il Sermig iniziò a occuparsi anche della povertà presente a Torino e dal gruppo originario nacque la Fraternità della Speranza, “una comunità di persone libere, unite dal Vangelo, che sceglie consapevolmente di mantenersi laica”. Dal 1983 la sede principale del Sermig è l’ex arsenale militare della città, in piazza Borgo Dora, ribattezzato Arsenale della Pace. La struttura è stata assegnata al Sermig in comodato dal Comune e trasformata in “casa di accoglienza per i poveri”. L’Arsenale di Borgo Dora offre oggi, fra gli altri servizi, un dormitorio maschile e una casa di accoglienza femminile, distribuzione di cibo e vestiti, visite mediche gratuite. L’orientamento imprenditoriale e il contributo dei volontari hanno permesso la ristrutturazione complessiva di un’area di 45.000 metri quadri: una cittadella della benevolenza nel quartiere della Dora. Successivamente, la Fraternità ha aperto a São Paulo in Brasile (1996) e in Giordania (2003) ulteriori strutture: i “progetti di sviluppo nel mondo” sono descritti come l’anima del Sermig, che vanta anche “missioni di pace” in molti paesi. Il principio cardine del Sermig, si legge nei loro documenti, è la “restituzione”: “trasformare beni, competenze, tempo, professionalità in opportunità per gli ultimi, per chi vive ai margini, per chi ha perso tutto”. Questo accade grazie al “contributo gratuito” dei volontari, che tengono in piedi l’impero di attività, progetti e servizi. Essi offrono la loro collaborazione senza chiedere rimborsi e pagandosi le spese. Accanto a questo “capitale umano”, la capacità finanziaria del Sermig si fonda principalmente sulle donazioni di persone fisiche, enti o aziende, ma anche sulla partecipazione a bandi o sulle richieste di contributi a enti pubblici o privati, come le fondazioni bancarie. Inoltre, il Sermig attua una politica che definisce “di autofinanziamento” fornendo servizi o vendendo prodotti. Per poter agire nel mondo la Fraternità della Speranza ha scelto di costituirsi in “emanazioni” che possono prendere la forma di ONLUS, associazioni del terzo settore, scuole ed enti di formazione, associazioni sportive e dilettantistiche, fondazioni. Tra queste figura l’Associazione Centro Come Noi S. Pertini che ha ricevuto, tra gli altri, finanziamenti dal bando Tonite. Le visite al Sermig di Mattarella, in veste di presidente della Repubblica, sono state numerose. Il presidente è venuto qui nel dicembre del 2019, poco dopo la cacciata dal quartiere di centinaia di straccivendoli, poi nel novembre del 2021 e nel luglio del 2024. L’ultima visita è avvenuta il 16 maggio di quest’anno: per un giorno intero la strada è stata chiusa al traffico, decine di agenti hanno presidiato l’ingresso e un graffito sulla facciata (“Palestina liberaci”) è stato rimosso con una mano di bianco. Nell’aprile del 2022 il presidente del Consiglio Mario Draghi ha visitato Torino e ha negoziato l’entità degli aiuti finanziari dello stato per contenere il debito della città. Dopo gli impegni istituzionali Draghi ha visitato due luoghi soltanto: il Sermig di Olivero e il centro direzionale Lavazza. Il Sermig appare come una struttura assistenziale dotata di notevole potere, apprezzata da istituzioni governative di vertice. Per descrivere il ruolo del Sermig nel quartiere è opportuno ricostruire il suo rapporto con straccivendoli e venditori poveri che, da decenni, si ritrovano il sabato nelle strade di Borgo Dora. Sin da inizio secolo gli straccivendoli disponevano le loro stuoie nel canale Molassi, una stretta via che separa la struttura principale dell’Arsenale da un complesso di laboratori artigianali gestito dal Sermig. Nell’aprile del 2018 il Sermig ha firmato una lettera assieme a un comitato di quartiere e altre associazioni di commercianti per affermare “la necessità e l’urgenza dello spostamento” del mercato dei poveri, definito come un “fenomeno esplosivo incontrollato e incontrollabile che da sempre funziona da catalizzatore di criticità devastanti”. Nel novembre dell’anno successivo, il mercato degli straccivendoli viene sgomberato con la violenza dalle forze dell’ordine.  Nonostante la repressione e l’esilio dei cenciaioli – relegati in un’area lontana, vicina al cimitero monumentale – nel quartiere è nato negli ultimi anni un nuovo, piccolo mercato informale dove alcuni venditori espongono oggetti raccattati nei bidoni, recuperati da solai e cantine. Gli straccivendoli si riuniscono la mattina vicino al ponte Carpanini, proprio davanti all’Arsenale del Sermig. Durante questa primavera la polizia municipale ha organizzato ronde e presidi sin dall’alba per impedire ai venditori di esporre la loro merce. Soltanto quando i vigili smettono di piantonare il marciapiede s’organizza un mercato di vestiti e oggetti ritrovati. Gli agenti spesso hanno un’aria arrogante, in altri casi appaiono a disagio per il compito assegnato. Alcuni di loro affermano di dover eseguire gli ordini: è il comando, dicono, che li manda su richiesta del Sermig e dell’associazione che gestisce il mercato degli antiquari in via Borgo Dora. Il Sermig si è rivelato negli anni un soggetto attivo nella repressione e nell’allontanamento dei cenciaioli più poveri. Persone senza casa, marginali, soggetti fragili sono graditi solo se possono essere parte del meccanismo di accoglienza della struttura: essi sono il carburante di un’industria della benevolenza caritatevole. Se i dannati della terra, tuttavia, sopravvivono ai confini del Sermig in autonomia, attraverso la vendita informale degli oggetti ritrovati, e senza adeguarsi ai progetti predisposti per loro, allora diventano un problema di ordine pubblico. I vertici dell’ente non hanno scrupoli a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sebbene siano consapevoli delle conseguenze tragiche che possono sortire da un controllo dei documenti. La storia del Sermig suggerisce così una riflessione sul ruolo del privato sociale nel governo della città: il terzo settore in questo caso non è soltanto complementare alle istituzioni repressive, ma può collaborare direttamente con esse per portare ordine e disciplina nel quartiere. (voce a cura di francesco migliaccio e stefania spinelli)
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Prendi i soldi e vai fuori dalle scatole. Così il comune di Napoli gestisce l’emergenza casa a Scampia e Bagnoli
(disegno di diego miedo) L’insufficienza delle risposte istituzionali è stata una costante durante questi ottanta giorni di crisi bradisismica, crisi iniziata con la scossa del 13 marzo ma che a livelli diversi di intensità dura da oltre tre anni. In questi anni il comune di Napoli non si è preoccupato di programmare un intervento emergenziale capace di mitigare gli effetti di quello che era ampiamente prevedibile potesse accadere: una scossa superiore ai quattro gradi di magnitudo e con un epicentro localizzato a Bagnoli più che a Pozzuoli. Quando questo è successo i danni sugli edifici sono stati rilevanti così come la risposta all’emergenza inconsistente. L’ex base Nato è stata aperta e dotata di un tendone per la prima accoglienza solo dopo e grazie alle proteste degli abitanti. Il tendone non è stato mai, in ogni caso, dotato di letti e materassini, così che le persone, a cominciare dagli anziani, i bambini e i disabili hanno dovuto dormire sulle sedie o per terra. Letti sono stati invece allestiti all’interno della municipalità, a poche centinaia di metri dall’epicentro della scossa, e nel pieno dell’abitato. Fin dall’inizio, a chi ha perso la casa è stato proposto di alloggiare in strutture alberghiere, grazie a un accordo con Federalberghi. Queste strutture si trovano in comuni limitrofi dalla parte opposta della città rispetto all’area flegrea. Persone che la mattina dovevano attraversare tutta Napoli in macchina per portare i bambini nelle diverse scuole della zona ovest, e poi raggiungere il proprio posto di lavoro, magari spostandosi di nuovo verso il centro città, hanno dovuto rinunciare alla sistemazione assegnatagli, perché tra traffico e lontananza avrebbero dovuto uscire tutte le mattine di casa non oltre le sei. Gli altri sono stati per tutto il tempo, e in molti casi ancora sono, a Casoria o Casavatore, con la valigia aperta sulla sedia e i pasti a orari obbligati e cadenzati.  Il Comune si è fatto vanto di aver sbloccato il Cas (Contributo autonomo di sistemazione), un sostegno economico per dare possibilità a chi non poteva o voleva stare negli alberghi di trovare un’altra casa. La cifra del Cas è clamorosamente insufficiente a trovare una sistemazione oggi a Napoli, tanto più con l’arrivo dell’estate e la mancata disponibilità dei proprietari di casa a sottoscrivere contratti di affitto senza nemmeno sapere fino a quando. Nulla è stato fatto dalle istituzioni locali e dalle autorità giudiziarie per impedire la speculazione che vede arrivare gli affitti a Licola, Giugliano, Lago Patria a costi paragonabili a quelli del centro storico di Napoli o del Vomero. I rappresentanti del Comune che si stanno occupando della questione (su tutti gli assessori Laura Lieto e Luca Trapanese) hanno detto che non intendono prorogare ulteriormente la permanenza degli sfollati nelle strutture alberghiere, che dovranno essere svuotate il 16 giugno. In particolare, l’assessore Lieto ha chiesto pazienza, sostenendo di aver risolto un problema simile ma con numeri più grandi, come quello delle Vele di Scampia. La verità è che l’assessore Lieto a Scampia non ha risolto un bel niente: il comune ha messo in mano ai circa cinquecento nuclei familiari sfollati i soldi del Cas, ma nel quartiere e nelle zone limitrofe nessuno è stato disposto ad affittare una casa ai profughi delle Vele. In molti sono andati a finire a Giugliano, Castel Volturno e ancora oltre, a trenta o quaranta chilometri dai luoghi dove hanno abitato tutta la vita; i loro figli sono stati costretti a lasciare le scuole di Scampia da un giorno all’altro; in tanti, dopo mesi di ricerca vana, sono ancora “appoggiati” a casa dei parenti; su questa situazione gli amministratori hanno semplicemente voltato la testa dall’altra parte.     Nel caso di Bagnoli, tra le domande di Cas inoltrate nei primi due mesi di crisi, soltanto un terzo è stata evasa dal Comune. Nel novero di quelle inevase ci sono anche quelle di diversi inquilini degli alberghi, che si troveranno tra poco più di dieci giorni a non avere né un tetto sulla testa né il sostegno economico istituzionale finalizzato a procurarselo. La rivendicazione dell’Assemblea popolare di Bagnoli (che di recente si è “federata” in un coordinamento che mette insieme i comitati da tutti i Campi Flegrei) è in ogni caso chiara: ogni proroga è una sconfitta! Basta alberghi, basta Cas, basta elemosina! Bisogna far tirare fuori al governo, con effetto immediato, i soldi per la messa in sicurezza, perché ognuno possa rientrare nella propria casa e restarci.  Altra grave responsabilità dell’amministrazione comunale è infatti quella di aver lavorato soltanto – quando era ormai troppo tardi – sull’emergenza. A dispetto degli ottimi rapporti con il governo (si veda la gestione della rigenerazione urbana dell’area ex Italsider e la candidatura della città a sede della Coppa America di vela), sindaco e assessori non hanno rilasciato una sola dichiarazione ufficiale contro il ridicolo decreto governativo che mette sul tavolo pochi spiccioli finalizzati a effettuare interventi solo sugli edifici sgomberati, mentre la popolazione chiede un investimento massiccio per l’adeguamento sismico dell’intero abitato, unica iniziativa che permetterebbe alla gente di Bagnoli, ormai stremata dalle scosse e dall’inerzia istituzionale, di continuare a vivere nel proprio territorio. Dalle istituzioni – dal comune alla Protezione civile – si chiede ai cittadini di “convivere con il terremoto”, ma non si agisce così come si fa in luoghi ben più sismici dei Campi Flegrei, dal Cile al Giappone, per far si che questa convivenza possa essere accettabile. Ormai è evidente, anche tra la popolazione, l’obiettivo di svuotare il quartiere e prepararlo alla speculazione all’orizzonte con Coppa America e rigenerazione urbana del Sito di interesse nazionale.  Va segnalato infine il paradossale caso dei cinque nuclei familiari che sono stati alloggiati dal comune nel centro giovanile di Marechiaro. Si tratta di nuclei con fragilità sociale ed economica, e con bambini anche molto piccoli. Queste famiglie sono state allontanate dal centro il 27 maggio, ma non è stata proposta loro alcuna alternativa. Tre su cinque non hanno neppure ricevuto il Cas e sono ora costrette a risolversi il problema da sole. L’assessore Trapanese ha liquidato la vicenda colpevolizzando gli sfollati, dicendo che “le domande presentano delle incoerenze e non è possibile soddisfarle”. In una nota trasmissione radio, si è espresso poi sulla gravissima situazione di una ragazza madre con due bambine disabili, annunciando che non ha alcuna intenzione di farla rientrare nel suo piccolo appartamento (di proprietà comunale) in quanto “occupante abusiva”: «Con i soldi che le daremo avrà la possibilità di trovare casa, magari non a Bagnoli. Si deve mettere un po’ a cercarla, c’è bisogno del contributo pratico di cercarsi una casa, come hanno fatto quelli di Scampia. […] Una situazione faticosissima che siamo riusciti a risolvere». Questa donna, così come gli sfollati del centro di Marechiaro, è stata ripetutamente minacciata dagli operatori dei servizi sociali rispetto al fatto che “se la situazione non si risolve vi toglieranno l’affido dei figli”. (riccardo rosa / luca rossomando)
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Il parco San Gennaro è ancora chiuso. Venerdì un corteo per il verde pubblico nel rione Sanità
(disegno di giancarlo savino) Del rione Sanità in questi ultimi anni si è spesso parlato a proposito del processo di rinascita dal basso guidato dal fitto tessuto di associazioni, cooperative e comunità parrocchiali che operano nel quartiere. Nonostante gli importanti segnali, il quartiere continua a essere attraversato da enormi contraddizioni. Lo testimoniano gli episodi di violenza che lo hanno segnato, anche in tempi recenti, e di cui si hanno continue avvisaglie. La fragilità sociale del quartiere è stata aggravata, negli ultimi quindici anni, dalla perdita di servizi fondamentali alla popolazione, come servizi sanitari (l’ospedale San Gennaro ridotto a presidio sanitario) e istituti scolastici, nonché dalle difficoltà sempre più insormontabili che incontra la popolazione – in particolare i giovani che giustamente aspirano a una vita indipendente – nel reperire alloggi a prezzi accessibili a causa della crisi abitativa generata dalla proliferazione incontrollata di case vacanza e bnb anche in questo quartiere. Soltanto grazie alle tenaci mobilitazioni di realtà civiche come la Rete Educativa Sanità e il Comitato per l’Ospedale San Gennaro gli effetti dei tagli alla spesa pubblica sui servizi sanitari e scolastici nel quartiere sono stati arginati almeno in parte, mentre la questione dell’accessibilità degli alloggi rimane ancora del tutto aperta. Ai piccoli passi in avanti ottenuti grazie alle mobilitazioni si accompagnano, tuttavia, persistenti segni di totale abbandono istituzionale. L’accesso al verde pubblico rimane negato agli abitanti del rione Sanità. Ciò è tanto più sorprendente in un tempo come il nostro segnato dal surriscaldamento globale, dunque dall’aumento delle temperature che grava in modo particolare sulle aree urbane più densamente popolate. Nelle città delle regioni più disparate del pianeta, le amministrazioni locali si sforzano di investire risorse crescenti nella cura e nell’ampliamento delle aree verdi, nella consapevolezza che la fruizione del verde sia decisiva per la salute fisica e mentale della popolazione e in particolare delle categorie più vulnerabili, come appunto i giovani, i bambini, ma anche gli anziani e le persone con disabilità. Ebbene, a dispetto di tutto ciò, un quartiere come il rione Sanità è da anni privato dell’unico vero spazio di verde pubblico presente al suo interno: il parco San Gennaro. Dopo l’inaugurazione nel 2008, il parco ha vissuto fasi alterne di aperture e chiusure, ma ormai da qualche anno la sua fruizione è negata al quartiere. Lo scorso anno sono stati stanziati dal Comune finanziamenti per seicentomila euro destinati al suo recupero. I lavori di riqualificazione avrebbero dovuto avviarsi già alla fine dell’estate scorsa, ma tutto è ancora fermo, mentre le istituzioni non danno informazioni certe né sull’andamento dei lavori né sui tempi di  riapertura del parco. Domani, venerdì 30 maggio, alle ore 10, il comitato civico che fin dall’istituzione del parco si batte per la sua apertura stabile ha chiamato il quartiere a una nuova mobilitazione per il diritto alla fruizione del verde pubblico. Già diverse scuole hanno aderito all’appello e si attende anche il contributo di realtà associative del quartiere. Non può esserci una rinascita del rione Sanità senza spazi adeguati di verde pubblico a libera e permanente disposizione dei giovani e di tutti i residenti. (ugo rossi)
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Coppa America a Bagnoli, un grimaldello per la speculazione
Fotogalleria di Gaia Del Piano Dopo vent’anni di patetici fallimenti un sindaco di Napoli riesce finalmente a portare a Bagnoli la Coppa America di vela, inaugurando una stagione di speculazioni che, in via di esaurimento lo spazio su terra, si apprestano ad assalire il mare e la costa. Gaetano Manfredi agisce ancora una volta più come un commissario straordinario dai pieni poteri che come un sindaco, nel senso che della candidatura napoletana nessuno ha saputo niente fino al momento dell’ufficialità, così che gli abitanti del quartiere dovranno infilare la supposta senza poter proferire parola. Per questo motivo stamattina cinquanta persone si sono presentate fuori al Castel dell’Ovo, dove si svolgeva la conferenza stampa di presentazione della kermesse, sottolineando che questo presunto successo viene proclamato con grande soddisfazione nel momento meno opportuno: durante la crisi bradisismica più violenta degli ultimi quarant’anni, che ha colpito come forse non mai il quartiere in termini di danni all’abitato e traumi alla popolazione. Più che alle regate, e all’ennesimo mega-evento che non serve a niente e a nessuno, il Comune farebbe meglio a pensare agli appartenenti alla sua comunità. Agli sfollati, per esempio, che ha tenuto per due mesi in alberghi dall’altra parte della città, e che dopodomani caccerà senza avergli proposto una soluzione alternativa; ai due terzi tra questi che hanno richiesto il sostegno all’affitto e non l’hanno ancora ricevuto, la maggior parte per colpa di risolvibili questioni burocratiche; ai cinque nuclei familiari dove abbondano i soggetti fragili, che sono stati dislocati in una struttura comunale e che da ieri sono tecnicamente “abusivi”, avendo ricevuto un sollecito di allontanamento volontario; a tutta la popolazione che sta rischiando di dover lasciare il quartiere, perché il governo – senza che da Palazzo San Giacomo si batta ciglio – ha stanziato risorse che non bastano nemmeno a intervenire sulla messa in sicurezza delle case, figuriamoci sul miglioramento sismico di tutti gli edifici, una condizione necessaria, come avviene in tante parti del mondo, per poter convivere con le scosse e perché Bagnoli non si svuoti. La priorità dell’amministrazione sono invece i milioni della Coppa America, milioni che finiranno nelle tasche dei soliti noti grossi imprenditori, senza lasciare nulla sul territorio. Anzi, questa coppa qualcosa lascia: la colmata. Solo oggi si spiega, dopo che è stata comunicata l’intenzione di alloggiare il villaggio per gli atleti sulla gigantesca colmata a mare, la fretta con cui il sindaco Manfredi e la premier Meloni hanno agito per cambiare numerose leggi e formalizzare la permanenza della struttura. Quando si diffuse la notizia, previdentemente scrivemmo: va bene, volete lasciare la colmata perché è troppo complicato e costosa toglierla? Non è vero, ma facciamo finta che lo sia. Il sindaco allora ci dia garanzie che quella colmata verrà utilizzata esclusivamente per una discesa a mare libera, pubblica e gratuita, e non per altro. Quelle garanzie non sono arrivate, e anzi dopo qualche mese è arrivata la notizia che la Coppa America sarà il primo esperimento per renderla una piazza per grandi eventi privati. La critica alla Coppa America a Bagnoli va ben oltre la critica ai grandi eventi, al loro battage pubblicitario e alla presunta utilità economica. A queste baggianate non crede più nessuno, tanto è vero che parlando con i bagnolesi (i cittadini “normali”, non gli attivisti o i militanti) di bradisismo, di emergenza casa, di svuotamento del quartiere, sono loro i primi a chiosare con un indignato: “…invece ‘e sorde p‘a Coppa America ‘e trovano!”. La gravità di questa iniziativa sta soprattutto nell’avviare una stagione di speculazioni a Bagnoli, che vanificheranno uno dei più grandi risultati ottenuti in trent’anni di lotta: la spiaggia per tutti a risarcimento di cento anni di inquinamento, malattie e morti. Mai come questa volta, i responsabili di questa porcata hanno un nome preciso. (riccardo rosa)
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Proteste e ricorsi. La battaglia per l’assistenza scolastica ai disabili in provincia di Caserta
(archivio disegni napolimonitor) Ho conosciuto S. in un pomeriggio di novembre a un evento in un centro sportivo della provincia casertana in occasione della presentazione di un progetto per l’autonomia di persone disabili. S. è una bambina, con fattezze già di adolescente, con disturbi dello spettro autistico. In quel pomeriggio, circondata da tanti ragazzi e ragazze, era in compagnia della mamma, che scoprii successivamente di una determinazione ed energia ineguagliabili, e di un’altra mamma, con il proprio figliolo disabile, che si rivelò molto legata alla famiglia di S. per le comuni battaglie che le avevano viste impegnate per il futuro dei piccoli. A quell’evento era intervenuta anche il ministro della disabilità Alessandra Locatelli, spegnendo con un nulla di fatto le speranze riposte dalla mamma di S. per un impegno concreto nel risolvere la situazione di tanti ragazzi disabili privati dell’assistenza scolastica con personale specializzato. Salutai S. e la mamma, che la portava verso l’uscita della manifestazione dove le aspettava il padre e conservai a lungo la sensazione di una fatica quotidiana sperimentata dai genitori di un soggetto autistico che non ha pause e chiama a una responsabilità poderosa, senza sconti. L’organizzazione carente delle politiche sociali nella città di Caserta ha garantito un’assistenza scolastica a S. e agli studenti come lei ad anno scolastico inoltrato, nel mese di febbraio. Le motivazioni addotte sono state il ritardo dei bandi per il conferimento del servizio a cooperative di operatori qualificati. Come ha stabilito una recente sentenza del Tar, le esigenze di bilancio non possono però considerarsi prevalenti rispetto al diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica degli studenti con disabilità: l’eventuale diminuzione delle ore di assistenza determina il risarcimento del danno. La figura dell’assistente alla comunicazione è importante per agevolare la frequenza e la permanenza dello studente, facilitarne la partecipazione alle attività didattiche in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Nel 2024 i genitori di S., come quelli di tanti altri alunni disabili dell’Ambito Sociale C01 di cui Caserta è l’ente capofila (gli altri comuni sono San Nicola La Strada, Casagiove e Castel Morrone), non hanno potuto che aspettare il ripristino del servizio, senza ricevere riscontri dall’amministrazione. Nel 2025 si assiste a una replica. Gli operatori delle cooperative non vengono pagati. Di proroga in proroga il servizio, iniziato a dicembre 2024, subisce due interruzioni per più di quindici giorni, una a gennaio e una a fine febbraio. Dal 14 marzo riprende con una proroga di venti giorni. Vincenzo Mataluna, direttore dell’Azienda speciale consortile, la cui creazione fu a suo tempo annunciata con grande clamore mediatico, dichiara che si sta provvedendo alla transizione delle risorse economiche dal Comune alla nuova azienda, che gestisce i servizi alla persona nell’ambito delle politiche sociali. “In realtà, l’Azienda non è operativa sul piano finanziario – dice Mataluna – e fino al 30 giugno è il Comune a svolgere la gestione dei servizi”. Il bando per assegnare il servizio non viene espletato e lunedì 7 aprile si registra un’altra interruzione. L’11 aprile, al termine di un presidio, la segreteria provinciale della Confederazione sindacati autonomi federati italiani incontra i funzionari competenti sulla questione, in presenza di una delegazione dei genitori. I funzionari mostrano una nuova determina con una proroga di dieci giorni del servizio. Questa proroga, però, non sarà accolta dalla cooperativa a causa di un numero già esorbitante di contratti temporanei che andrebbero convertiti a tempo indeterminato. Allo stesso tempo l’incontro fortuito dei familiari dei disabili, fuori al Comune, con l’assessore alle politiche sociali e vicesindaco rivela l’inerzia e l’inefficienza della macchina amministrativa. I genitori di S. ricorrono così a Osservatorio 182, un’associazione nata su iniziativa di diverse associazioni di familiari attive a livello nazionale con l’obiettivo di fornire assistenza legale a costo zero sui temi dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Con l’assistenza degli avvocati di Osservatorio 182 i genitori di S. ottengono un’ultima ordinanza del Tribunale amministrativo regionale che ordina al comune di Caserta “di provvedere al ripristino del servizio di assistenza specialistica, in favore della minore nel più breve tempo possibile”. Il 18 aprile, alla fine, il colpo di scena: il consiglio dei ministri “in considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata che compromettono il buon andamento dell’azione amministrativa” delibera “lo scioglimento del consiglio comunale di Caserta e l’affidamento della gestione, per diciotto mesi, a una commissione straordinaria”. La decisione segue a un’indagine sui rapporti tra esponenti della giunta e dirigenti del Comune accusati di aver concorso ad affidare appalti comunali in cambio di favori, soldi e voti a imprenditori ritenuti vicini al clan Belforte di Marcianise. La commissione straordinaria che dovrà gestire il Comune nei prossimi mesi non sarà decisiva nel risolvere i problemi nell’ambito delle politiche sociali, che si sommano a tanti altri che hanno decretato la prematura fine del governo cittadino. Se è vero che il corrente anno scolastico volge alla fine, si è rivelato fondamentale allora chiedere il risarcimento del danno all’ente e così provare a scoraggiare il ripetersi di una insufficiente gestione del servizio anche nel prossimo anno. Di recente, infatti, il Tar della Campania ha condannato il comune di Caserta al risarcimento di un danno subito da D., un bambino con disabilità, per la mancata assistenza prevista dal Piano educativo individualizzato. Il ricorso era stato presentato dagli avvocati di Osservatorio 182 in collaborazione con l’associazione Vorrei prendere il treno, entrambe attive in tutta Italia per la tutela dei diritti degli studenti con disabilità. Il Comune è stato quindi condannato a risarcire l’alunno con mille euro per ogni mese in cui l’assistenza è stata assente e con quattrocento euro per ogni mese in cui è stata erogata solo parzialmente. Una sentenza che riafferma un principio essenziale: il diritto all’inclusione scolastica non può essere ignorato, ritardato o ridotto. Ora la mamma di S. aspetta con fiducia la sentenza del Tar anche per il suo analogo ricorso. (mena moretta)
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #6. Community Land Trust
(disegno di adriana marineo) Sulle serrande chiuse davanti al giardino Maria Teresa di Calcutta, in corso Giulio Cesare, compaiono due scritte: “meno filantropi, più licantropi” e “Partito Democratico e Sinistra Ecologista: per ogni sgombero un bene comune”. Incalza da anni la repressione delle occupazioni nei quartieri a nord della Dora: l’asilo di via Alessandria è stato sgomberato nel 2019 e un’altra palazzina occupata poco lontano è stata circondata dalla polizia nel gennaio del 2021. E numerosi, solo nell’ultimo anno, sono gli interventi contro le occupazioni delle case popolari: questi sgomberi sono rivendicati dall’amministrazione attuale, guidata dai due partiti menzionati dal graffito. Appare il paesaggio contemporaneo delle politiche per la casa: assieme alle irruzioni di polizia nascono e si diffondono le soluzioni abitative sedicenti innovative, promosse dal terzo settore e dai capitali delle fondazioni bancarie. Forze diverse disegnano un presente dove è rimossa la possibilità di occupare la proprietà. Le serrande su cui compaiono le scritte appartengono al primo Community Land Trust in Italia. *   *   * C’è un palazzo di sei piani in corso Giulio Cesare, vicino alla scuola Parini e di fronte all’ingresso del giardino Madre Teresa di Calcutta. Il palazzo ora è vuoto, le persiane sono chiuse, ma voci in quartiere raccontano di un’occupazione informale sgomberata dalla polizia al tempo della pandemia. In strada, accanto al portone, ci sono un fast food e un bar che prepara frullati alla frutta. Il palazzo accoglierà il primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il CLT è una forma di proprietà che afferisce al diritto privato con il fine di rendere accessibile la piccola proprietà immobiliare alle classi sociali meno abbienti. Il CLT s’origina dalle pratiche abitative comunitarie negli Stati Uniti del secolo scorso ed è giunto in Europa come nuovo strumento delle politiche sociali innovative, ovvero iniziative dove gli interessi privati si armonizzano, almeno nelle intenzioni, con il beneficio pubblico. Alla base del CLT c’è un soggetto privato – un trust – che compra l’intera proprietà e rivende le unità immobiliari singole (gli appartamenti), mantenendo però il controllo del suolo. Un appartamento senza il valore del suolo è così acquistabile a un prezzo inferiore rispetto alle altre unità presenti nella medesima area. Gli acquirenti, in seguito, possono rivendere il loro appartamento soltanto al trust, che trattiene buona parte dell’incremento di valore immobiliare accumulato nel tempo. A sua volta il trust immetterà sul mercato la stessa unità, ma a un prezzo superiore adeguato all’inflazione e all’aumento dei prezzi avvenuto nell’area urbana. Il CLT controlla così il plusvalore immobiliare e al contempo promette prezzi delle case più bassi rispetto agli standard del quartiere. Il palazzo in corso Giulio Cesare è stato rilevato nel 2023 dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. La fondazione ha impiegato i fondi (circa mezzo milione di euro) raccolti dalla Compagnia di San Paolo, da enti privati e da singoli cittadini a cui è garantita la restituzione del prestito dopo due anni con il due per cento di interessi. Per governare il trust è stata costituita la Fondazione CLT Terreno Comune che, alla fine della ristrutturazione, venderà gli appartamenti a famiglie selezionate che rispettino criteri stringenti, fra cui quello di avere un unico reddito fra i 1300 e i 1500 euro mensili. Ogni famiglia accederà a un mutuo per acquistare l’appartamento. Il CLT è governato da un consiglio di amministrazione dove siedono rappresentanti dei proprietari, degli abitanti del quartiere e dei portatori di interesse pubblico che insistono sull’area. Il governo del CLT ha il compito, fra gli altri, di investire i capitali accumulati in interventi di rigenerazione dell’isolato, così da incrementare ulteriormente il valore e l’appetibilità del palazzo. I promotori del CLT in corso Giulio Cesare sostengono di aver creato uno strumento volto al contrasto della speculazione immobiliare e dell’esclusione abitativa. Le contraddizioni, tuttavia, appaiono a uno sguardo attento. Nonostante sia un progetto di inclusione sociale con ambizioni di gestione democratica, la selezione delle famiglie che hanno la possibilità di accedere al mutuo per acquistare gli appartamenti sarà appannaggio della stessa fondazione. Ancora una volta sono le classi dirigenti – borghesi, progressiste, bianche – a scegliere chi siano i meritevoli ad accedere ai progetti di innovazione sociale. La selezione, d’altra parte, deve essere ben ponderata: sarebbe spiacevole sfrattare una famiglia perché chi lavora ha perso un impiego precario e non può più pagare il mutuo. Inoltre questo modello non ostacola la rendita immobiliare, anzi la sostiene e fomenta. Le classi dirigenti progressiste si limitano a controllare la speculazione, promettendo di calmierare gli effetti più violenti e redistribuire i dividendi ai loro sostenitori. Più che lotta alla speculazione, il CLT sembra un governo del capitale immobiliare da parte di un soggetto privato e filantropico, capace di elaborare politiche sociali remunerative a del tutto inadeguate a rispondere alle esigenze delle classi sociali più povere e precarie. Un programma di ingegneria sociale governato dai buoni sentimenti di una borghesia convinta d’essere illuminata. (voce a cura di francesco migliaccio) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
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Casa a Napoli. Il Comune non rispetta gli impegni presi con gli abitanti di Taverna del Ferro
(disegno di ….) Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli. Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche” di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici, grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon Metro della Regione. Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”. Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione temporanea della durata di tre anni. Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il debito e pagare la tassa dei rifiuti. Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica. L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”. Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile – continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi assessori non gli diranno quel che si deve fare”. Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni. La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure, noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una copertura politica non si muovono”. Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
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Il fuoco fra le urla e i silenzi. Rivolte e solidarietà al CPR di Torino
(archivio disegni napolimonitor) Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a Torino il Cpr ha riaperto questa primavera. Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno. Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto esce e urla: «Ferma!». Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta brucerà. Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio, poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione. Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile, giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!». Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica, nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr. Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati, ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché i padroni non vogliono che esistano. Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura. Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile. Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina, tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino. Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato entrare, è lì come noi, come uno di noi. È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi! Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini. Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine blu. Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato. Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)
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