(disegno di federica pagano)
Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid
(2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è
stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente
classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della
città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del
welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è
trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata
quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che
garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici.
Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui
cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto
sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le
leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati
al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa
vita civile.
Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al
minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche
regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per
“sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che
imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto
edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di
consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto
che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la
Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola
autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per
ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che
consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico.
Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa
l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal
riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un
labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e
semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio
da parte dei capitali immobiliari.
DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO
Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti,
comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la
narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per
il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione
urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi
minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro
le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale,
contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di
migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata
di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in
relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della
concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato
dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più
al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti,
malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte.
A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di
inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro
interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli
abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di
concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia
perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa
volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione
ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive
pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove
di una politica deliberatamente classista ed escludente.
L’ARROCCAMENTO DEL POTERE
Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati
così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori,
informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente
costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di
incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia
negli investitori.
La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea e
bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici
coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la
“SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come
“interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che
estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano.
Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude
gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per
inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione
giudiziaria.
Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello
di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana
e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un
piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in
Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema
urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un
concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri
irregolari.
A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo
in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica
eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma
soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si
ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il
processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di
Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani,
manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano.
Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per
l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla
rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che
ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano.
In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per
concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo
abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un
vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un
incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e
le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che
rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a
loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con
buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai
grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa
popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per
l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi
di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal
ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su
un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre
all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per
estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca
europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso
truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi
pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento
in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere
l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e
che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito
sull’urbanistica e sui fatti di Milano.
I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando
chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli
acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando
l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia
dell’immagine milanese”.
Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche
qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il
conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio
sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di
partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle
informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo
sull’esaurimento delle energie di chi si oppone.
La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo
smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la
città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della
redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia
tozzi)
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(una storia disegnata di mattia vincenzo abbruzzese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di malov)
Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca,
studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di
dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione
intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il
rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240,
l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un
osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di
ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in
quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene
proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di
portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico
dell’ateneo.
Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un
percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel
corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta
una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la
ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione
concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20
marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come
giornata nazionale delle università.
Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università
svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture
straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però,
non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale
dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240
rischia di diventare irreparabile.
L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un
manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato
di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del
pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi
premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia
nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di
logiche di mercato e militari su didattica e ricerca.
Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20
marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al
mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte
sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e
invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In
seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della
Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra
ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a
cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello,
“ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il
personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza
tutele e prospettive di stabilizzazione.
Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno
complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi
storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto
“Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a
Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel
sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle
università telematiche.
Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università
– privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i
rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che
tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche
cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance
accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma
rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna.
“Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi
proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa
dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con
stati genocidi. Voi cosa dite?”.
Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea
precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti
dei rettori visibilmente imbarazzati.
La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla
riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge
infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta
per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che
senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina
accademica si fermerebbe.
Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una
posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione
dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva.
Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in
diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di
Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance
universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di
interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”.
Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha
tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di
mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove
sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui
avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco
Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia.
C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a
ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno
striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno
preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere,
la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e
cancellando l’evento in programma per la giornata.
Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato
accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e
governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle
decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A
partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono
costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora
molettieri)
(foto di massimo velo)
Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area
industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento
dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e
duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati
assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti
elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie
alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che
sono state invece messe in un angolo in pochi mesi.
Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici
talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per
mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa
arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e
Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano
il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale.
La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola
in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla
raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della
colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa
pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di
ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano
di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio
naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra.
Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le
strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la
possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due
chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore
amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione
come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che
ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di
servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città
possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione
dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno
all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né
progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere
lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a
metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico
condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a
iniziare.
La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti
universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito
carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler
essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più
importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito
al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la
comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per
denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi.
Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due
principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita
anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza
parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento.
Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili
cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è
inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa
ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le
cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una
buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a
una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un
lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un
ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa
dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali
altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo
pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature
residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa,
dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”?
Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta”
artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una
parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica
messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del
paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la
popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in
una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del
Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che
finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su
amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano,
cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il
disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo
rosa)
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
C’è una città che si mostra per ciò che è, e un’altra per ciò che vuole
sembrare. La mia mi sembra sempre più un collage di vecchi giornali e ritagli
sparsi, dentro il quale ognuno cerca il suo posto. Questa operazione significa,
però, anche restarsene un po’ ai margini a osservare. Di notte meglio che di
giorno.
La movida del centro di Napoli si muove tra le luci fredde delle insegne dei
locali e le strade strette che costeggiano i vecchi palazzi. Mi siedo al
tavolino di un bar in uno dei vicoletti più nascosti dei Quartieri. Il
chiacchiericcio delle persone si mescola al rumore dei motorini e all’odore di
spritz appena versati. Ragazzi con qualche battuta ci provano con le turiste: «È
la prima volta che siete a Napoli?», chiede uno. Un altro senza perdere tutto
quel tempo, gli sorride e dice: «You’re beautiful!».
Nicola ha ventiquattro anni, è uno studente universitario di San Giuseppe
Vesuviano, single e senza lavoro fisso. Parla di sé con naturalezza, come se
fosse abituato a raccontarsi. «Esco più per la compagnia che per il piacere di
andare in un posto preciso – mi dice –. Certo, abbiamo i nostri locali, quelli
dove ci sentiamo a casa, ma a Napoli è facile trovare qualcosa di interessante.
Quartieri Spagnoli e centro storico, ci si muove in base a chi trovi in giro. A
un certo punto ci siamo spostati qui perché anche le persone che conoscevamo, i
nostri amici storici, in provincia, hanno iniziato a fare lo stesso. A San
Giuseppe non c’è molto da fare».
Il suo legame con Napoli si è rafforzato dopo la pandemia. Dopo essersi sentito
intrappolato per mesi ha cominciato a spostarsi, trovando in città «un senso di
libertà che non avevo mai provato prima: è stato come se una casa crollata fosse
stata sostituita da una nuova».
Quando Nicola parla della sua esperienza in città, lo fa quasi sempre
sottintendendo la differenza rispetto alla realtà del suo paese. Napoli è il
luogo delle opportunità, dei legami facili, dei luoghi che non tradiscono. «È
bella perché è stimolante, succedono cose. C’è una fauna umana variegata, puoi
trovare chiunque, ed è questo che a me piace, la sua imprevedibilità. E poi non
serve spendere tanto per divertirsi: con venti euro fai una serata più che
dignitosa. La città ti sfotte ma non ti giudica: se facessi in provincia quello
che faccio a Napoli sarebbe diverso, mi sentirei sotto esame».
Con Nicola finiamo a parlare della Fomo (Fear of missing out), parola che
descrive uno stato psicologico non raro tra i ragazzi, ovvero la paura di
“perdersi qualcosa di importante”, eventi sociali, esperienze. I social network
hanno un ruolo di primo piano in questo, poiché l’effetto di ogni sensazione
viene amplificato dal confronto con quello che fanno gli altri. «Oggi ho
imparato a scegliere: se non ho voglia di uscire rimango a casa».
Anche l’appartenenza, l’intensità con cui ci si sente parte di qualcosa, sembra
in cambiamento. Non sempre ci si accorge, però, che per sentirsi dentro la città
– fatta anche dei suoi eventi e i suoi riti – c’è un prezzo da pagare:
partecipare. Ne parlo con Alessio, ventidue anni, che si è laureato con una
certa velocità e oggi vive e lavora nel centro storico. Lo incontro in piazza
San Domenico Maggiore, dove abita. Intorno a noi la gente si muove
freneticamente tra bar affollati e localini ma è come se ognuno restasse in un
proprio piccolo angolo. Sembra più difficile attaccare bottone con qualcuno.
«Scendo (è così che si dice a Napoli per far capire che si sta uscendo di casa
per divertirsi, o riempire il tempo, ndr) raramente la sera, al massimo una o
due volte a settimana. Prima anche tre o quattro volte, ma ora ho meno voglia,
mi sembra non ci sia molto da fare. Cerco posti nuovi, ma finisco sempre negli
stessi luoghi, anche perché i posti si assomigliano uno con l’altro». Anche
sulle persone che prima incontrava, ha cambiato prospettiva: «Prima mi sembrava
bello poter incontrare la gente sempre diversa che attraversa il centro, ma ora
mi rendo conto che siamo tutti uguali».
Alessio ritorna spesso sull’idea che non partecipare ad alcuni eventi
importanti, o non far parte di alcuni giri, sebbene allargati, ti releghi a una
sorta di invisibilità, dove la tua esperienza viene percepita come “opaca”
rispetto a chi invece ci è dentro fino al collo. «A volte uscire la sera ci
sembra più un obbligo che un piacere, un dover performare più che un momento di
svago».
La trasformazione che ha subito la vita notturna napoletana non è un fenomeno
improvviso. È il risultato di un graduale processo che, con l’esplosione del
turismo di massa e la consacrazione dell’immagine “pop” della città, ha
modellato una esteriorità sempre più attraente e superficiale. Questo processo
ha avuto bisogno di tempo (è evidente se ci si fa raccontare com’erano certi
luoghi di notte quindici o vent’anni fa), ma è diventato palese negli ultimi
cinque o sei anni, con l’imposizione di una Napoli “espositiva”, crocevia di
mode e tendenze che chi la attraversa non può ignorare.
Questa trasformazione è visibile tanto di giorno quanto di notte, seppure con
sfumature diverse. Napoli è oggi una città che respira a un ritmo frenetico. Le
strade sono animate dai turisti che si mescolano ai napoletani. Gli studenti
camminano verso l’università velocemente tra bancarelle di calamite e odore di
frittura. Si fanno strada tra gruppi di persone che scattano foto, mentre a
qualsiasi ora le pizzerie traboccano di gente, il rumore dei clacson e la puzza
di marmitta si mescolano con il rosso dei bus City Sightseeing. Non è solo
l’aspetto della città a essersi trasformato, ma la sua mappa urbana, la sua
economia, le relazioni. Una pressione invisibile ha finito per influenzare le
scelte quotidiane delle persone (dove abito, che posti frequento, come spendo il
mio stipendio) e le identità stesse, comprese quelle di chi vive la notte.
Gli eventi serali, per esempio, vengono venduti come accessibili e inclusivi, ma
è quasi un’operazione di empathy-washing. I locali notturni, infatti, dove anche
lo spazio vitale si paga in termini economici, si rivolgono a un pubblico
preciso, ammantando di un senso di comunità una realtà che spesso ti esclude se
non ne fai già parte (non è solo questione di poterti permettere economicamente
un certo tipo di esperienza, ma anche del tuo retroterra culturale). I profili
social di questo o di quel bar parlano di “famiglia”, di “comunità”, ma
l’immagine esterna è più quella di gruppetti e sette che non si incontrano mai.
Per Alessio è una questione di ripetitività delle pratiche, di un mondo che non
lascia più spazio all’imprevisto, di reti sociali e spazi in cui ci si impiglia,
nascondendo un vuoto di connessioni reali. Parlando un po’ qua e là con i miei
coetanei, la sensazione è quella di un’adesione a un gioco di società che
implica un riconoscimento, che diventa quasi una valuta, un mezzo per sentirsi
validi e validati. Il prezzo è dover essere sempre al passo con gli altri, o
forse anche più avanti, oltrepassandoli come se anche uscire fuori per una birra
fosse una competizione.
A un certo punto di questo lavoro, per esempio, ho cominciato a riflettere sulle
immagini della notte, sulle locandine e i manifesti che provano a venderci le
esperienze da consumare, modellando intorno a prodotti commerciali (la vendita
dell’esperienza) i nostri desideri. La grafica e la pubblicità degli eventi
della movida svolgono un ruolo fondamentale: le immagini e i colori, il tono, la
scelta di simboli e icone contribuiscono a costruire una proposta definita per
questo o quel gruppo. Se quelle che reclamizzano serate nei centri sociali,
grandi punti di aggregazione della zona, richiamano un messaggio politico e si
identificano per un’impronta visiva semplice, con illustrazioni chiare e
immediate, le serate di localini aggregatori di una gioventù con velleità
artistiche o intellettuali si distinguono per varietà di grafiche e stili
visivi. Si privilegia l’estetica ma il messaggio e le info risultano più
difficili da interpretare: la copertura visiva prende il sopravvento, facendo
apparire l’evento più come una questione stilistica che un’occasione di
incontro. Agli antipodi di questo approccio ci sono poi le locandine dei locali
(per lo più discoteche) della provincia: più semplici, con fotografie di dj o di
vecchie serate: sono chiare, dirette, puntano a mostrare l’esperienza, perché
contano in fondo anche loro sull’attrattività per un pubblico ben definito.
Diversa è infine la filosofia delle locandine tipiche degli eventi con secret
location (ti prenoti, lasci il numero di telefono, qualche ora prima ricevi un
messaggio con il luogo e ti presenti). Richiamano vagamente la cultura dei rave,
le grafiche sono accattivanti ma semplici, i testi criptici e le informazioni
arriveranno in un secondo momento. L’idea di “segretezza” è il punto di forza di
questo tipo di esperienza: crea un’aspettativa e un senso di curiosità che fanno
desiderare l’evento ma anche lì, per quanto una proposta del genere può
risultare eccitante per chiunque, si tende ad arrivarci tramite un contatto, una
persona che in qualche modo “bazzica” quel mondo, quei “giri”.
L’analisi dell’architettura visiva che ci guida nella scelta di un’esperienza
notturna meriterebbe spazi e tempi più approfonditi. Mentre lavoravo a
quest’inchiesta, però, sono rimasta affascinata dal rapporto tra l’estetica e la
creazione di una realtà stratificata, dove l’immagine ha un ruolo nel definire
il rapporto tra gli individui e la città. Mi rendo conto di stare anche io
dentro caselle e idee standardizzate che provengono da scelte di mercato e da
rappresentazioni costruite ad hoc. Studentessa, giornalista, ricercatrice. Ma in
fondo consumatrice senza possibilità di scelta della città come
prodotto. (serena bruno)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di adriana marineo)
Da più di un anno nei quartieri accanto alla Dora e in Barriera di Milano le
istituzioni hanno disposto presidi fissi di soldati. Aiutati dalla polizia, i
contingenti militari piantonano angoli di strade o piazze e s’aggirano in brevi
ronde. L’impiego dell’esercito in strada è stato richiesto da fazioni di diverso
colore politico: la ricerca del consenso incita promesse di sicurezza.
Da alcune settimane il lungofiume è divenuto una delle “zone a vigilanza
rafforzata” della città. Qui le forze dell’ordine possono fermare una persona
colpevole di reati in passato e intimare di allontanarsi dall’area per i due
giorni seguenti. Queste politiche della sicurezza blandiscono un elettorato
gravato da inquietudini e ossessioni. Eppure la sicurezza non genera soltanto
soluzioni di forza, o repressive, ma può essere anche il fine di progetti
sociali o culturali. È il caso, quest’ultimo, del progetto Tonite.
* * *
Tonite è un progetto finanziato da UIA (Urban Innovative Actions), ente
dell’Unione Europea creato per sostenere politiche sociali, e sperimentali, nei
centri urbani. All’inizio del 2020 UIA ha affidato cinque milioni di euro a un
partenariato: la Città di Torino era la capofila e ha collaborato con una
fondazione pubblico-privata (Piemonte Innova), aziende che forniscono servizi
digitali (Engineering, Espereal Technologies), agenzie dedite alla innovazione
sociale (Experientia, Social Fare), un network europeo che lavora sulla
prevenzione del crimine e la sicurezza urbana (EFUS, European Forum for Urban
Security). Tonite, infatti, è un progetto di sicurezza urbana nato con il fine
di realizzare azioni e infrastrutture utili a migliorare la “percezione di
sicurezza” e la “vivibilità” nelle ore notturne lungo la Dora. Si è concluso
nell’estate del 2023.
Un milione e mezzo di euro sono stati spesi per interventi di arredo urbano in
due luoghi specifici: il viale Ottavio Mai accanto al campus universitario, il
giardino Pellegrino gestito dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. Lungo
il viale è stata realizzata una nuova pavimentazione che ora accoglie sedute,
panchine e fioriere. Inoltre sono apparse nuove luminarie per garantire una
migliore illuminazione notturna. Nel giardino invece gli interventi hanno
riguardato il rinnovamento della pavimentazione e l’installazione di giochi per
bambini.
Un milione di euro è stato invece distribuito fra iniziative elaborate da
aziende, fondazioni, enti del terzo settore e istituzioni pubbliche vincitrici
di un bando promosso da Tonite. Ogni iniziativa poteva ricevere fino a
sessantamila euro e doveva intervenire sullo spazio pubblico – sempre il
lungofiume – per migliorare la percezione di sicurezza e rendere i quartieri di
Aurora, Borgo Rossini e Vanchiglia più attraenti.
Un laboratorio di intervento urbano afferente alla facoltà di architettura ha
abbellito con disegni il marciapiede antistante una scuola primaria. Una
casupola è stata costruita in Lungo Dora Savona per fornire servizi di
prossimità, poco oltre una locanda ha proposto esibizioni canore serali per
allietare i clienti ai tavoli. Piccoli spettacoli si sono tenuti nel giardino
Pellegrino e associazioni hanno portato un calcetto e un canestro da basket in
piazza Borgo Dora per far giocare i ragazzi. Un istituto superiore ha comprato
un proiettore per lanciare immagini serali lungo la Dora. Sono solo alcuni
esempi fra le diciannove iniziative finanziate dal bando.
Tonite è un progetto volto a favorire i consumi di classi abbienti in quartieri
ancora popolari, garantendo un’illuminazione delle strade e una migliore
“percezione della sicurezza”. Si manifesta così un’idea dolce e inclusiva della
sicurezza urbana, da ottenere senza violenza e repressione, ma grazie a
iniziative localizzate che favoriscano la “coesione sociale”. Certo le ambizioni
del progetto sono inconsistenti, effimere: Tonite si è concluso e quasi nulla
resta. La casupola lungo la Dora è sempre chiusa, i disegni sbiadiscono, i
presìdi urbani languono ed erano frequentati solo dagli operatori sociali,
esercenti e creativi coinvolti nel progetto, afferenti tutti a una ristretta
classe dirigente tinta di ideali progressisti. La Fondazione di Comunità di
Porta Palazzo, ad esempio, ha partecipato a ben tre iniziative finanziate dal
bando, oltre a beneficiare dei capitali per il rifacimento del giardino. Le
iniziative di Tonite si risolvono allora in concessioni di piccole regalie a una
esigua pletora di attivisti del terzo settore e professionisti della
partecipazione ai bandi.
Più interessante è osservare quello che Tonite non ha fatto: nessun progetto ha
tematizzato la violenza sistematica della polizia contro i reietti lungo il
fiume, nessuno ha menzionato gli sgomberi di straccivendoli e spazi occupati in
quartiere, nessuna voce s’è alzata contro lo sradicamento delle panchine
frequentate da persone indesiderabili perché povere. Tonite appare dunque
un’operazione sistematica di induzione all’oblio e un’occasione di propaganda:
il progetto è esistito più come spettacolo sui social network, meno in strada.
Così gli operatori sociali, gli artisti precari, gli intellettuali che si sono
prestati hanno svolto un lavoro comunicativo senza neppure ricevere adeguati
compensi: servi volontari per l’incubo della sicurezza. (voce a cura di
francesco migliaccio)
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QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
(disegno di otarebill)
È passato più di un mese da quando la ripresa degli sciami sismici ha
riacutizzato le preoccupazioni gli abitanti dell’area flegrea, che da due anni a
questa parte sentono sulla propria pelle “l’eterno ritorno” del bradisismo.
Nell’area compresa tra i comuni di Pozzuoli, Napoli e Bacoli, l’Ingv (Istituto
nazionale di geofisica e vulcanologia) ha registrato, tra il 16 ed il 18
febbraio, cinque terremoti di magnitudo maggiore di 3. Le scosse più
significative sono state di grado 3.9 nel pomeriggio del 16 e poco dopo la
mezzanotte del 17 febbraio. Quest’ultima ha creato notevole agitazione tra la
popolazione, paralizzato le strade puteolane in piena notte e costretto diverse
famiglie a passare più di una notte fuori casa o in auto.
In risposta alla preoccupazione dei cittadini, la Protezione Civile ha convocato
il 18 febbraio, a Monteruscello, un incontro pubblico a cui hanno preso parte il
direttore dell’Osservatorio Vesuviano (che fa parte dell’Ingv), i sindaci dei
comuni coinvolti, il prefetto di Napoli e la dirigenza della Protezione Civile
(il direttore generale Italo Giulivo e il capo dipartimento Fabio Ciciliano).
Proprio gli interventi di Giulivo e Ciciliano hanno provocato repliche accese da
parte dei tanti presenti. Il primo ha spiegato ai cittadini che nel caso della
precedente crisi bradisismica del maggio 2024 la Protezione Civile aveva avuto
difficoltà a trovare alberghi disponibili ad accogliere gli sfollati solo perché
«fortunatamente per voi, gli alberghi erano pieni di turisti». Anche le parole
di Ciciliano hanno destato una certa perplessità e innescato contestazioni. In
particolare Ciciliano ha affermato con una certa tranquillità, non certo d’aiuto
a una popolazione che vive in uno stato di tensione da oltre ventiquattro mesi,
che in caso di una scossa di quinto grado «cadono i palazzi e contiamo i morti».
Nei giorni successivi, gruppi di cittadini si sono così organizzati per
protestare: il 21 febbraio un centinaio di persone si sono date appuntamento al
consiglio comunale di Napoli per chiedere chiarimenti al sindaco e la
convocazione di un appuntamento informativo sul territorio (oltre che azioni
concrete per la messa in sicurezza degli edifici e dei loro abitanti). Domenica
23, un corteo ha sfilato per le strade di Pozzuoli, mettendo in risalto la
distanza tra le politiche istituzionali e le esigenze della popolazione. Per
rispondere ai dubbi dei cittadini è stato convocato al Maschio Angioino un
consiglio monotematico ad hoc nella giornata del 10 marzo (a Bagnoli, intanto,
si costituiva un’assemblea popolare, che ha occupato per quattro giorni la sede
della Municipalità, ha organizzato incontri con esperti e cittadini e ha
stilato, coinvolgendo attivamente gli abitanti del quartiere, un piano condiviso
per la gestione dell’emergenza).
Una delegazione di quest’assemblea ha quindi partecipato al consiglio comunale
di lunedì 10 marzo, in un Maschio Angioino blindato, e con gli agenti della
Digos a ratificare il paradosso di un incontro pubblico dove però non si poteva
entrare liberamente. Nella Sala dei Baroni è andata in scena una replica
dell’incontro del 18 febbraio, con la sola differenza che questa volta hanno
preso parola anche i presidenti delle municipalità coinvolte dall’emergenza
(Chiaia e Posillipo, Soccavo e Pianura, Bagnoli e Fuorigrotta) e le delegazioni
cittadine. Tra le novità emerse c’è stata la chiusura, avvenuta nella stessa
mattinata, dell’istituto alberghiero Rossini di via Terracina, nei cui piani
bassi sono stati riscontrati livelli anomali di anidride carbonica, legati
appunto ai movimenti di gas dovuti all’attività bradisismica.
Per il resto, il consiglio è stata la solita fiera delle belle parole senza
fatti concreti. Tutte le istituzioni hanno espresso la necessità di “continuare
a sensibilizzare la popolazione” partendo dalle scuole e dagli infopoint sul
territorio (pochi e malgestiti), cercando nell’ordine degli psicologi una sponda
per il supporto psicologico. In realtà appare, questo, uno dei punti più critici
della gestione del fenomeno in questi due anni, e l’elemento che ha creato la
vera frattura tra le istituzioni e le persone, lasciate sole sia nei momenti di
rallentamento delle scosse che in quelli in cui la cosiddetta emergenza (si può
definire tale un fenomeno naturale che si ripresenta cronicamente e per periodi
tutt’altro che brevi?) si fa più pressante, a cominciare dalle notti in cui
centinaia di cittadini si radunano sul vialone dell’ex base Nato di Bagnoli e, a
stento, vengono mandati a supportarli una o due pattuglie di vigili urbani.
Altro tema centrale è il sostegno economico per la messa in sicurezza degli
edifici. Dal consiglio è emersa la necessità di sollecitare il governo e l’Anci
(Associazione Nazionale Comuni Italiani, di cui il sindaco Manfredi è
presidente) per il potenziamento del Sisma bonus, che dovrebbe coprire – queste
le richieste della popolazione, fatte proprie da alcuni consiglieri di
opposizione – il cento per cento delle spese sostenute per la messa in sicurezza
statica degli edifici. Nemmeno meritevole di commento il giro di voci sulla
proposta del presidente della Svimez, l’associazione per lo sviluppo
dell’industria nel Mezzogiorno, Adriano Giannola, che aveva lanciato qualche
giorno fa l’idea di spostare fasce consistenti della popolazione in una nuova
città, idealmente da edificare lungo la Napoli-Bari, per ripopolare le aree
interne della Campania. L’idea dello sradicamento della popolazione come
soluzione al fenomeno bradisismico è l’ennesimo elemento che corre e ricorre
nella storia: già negli anni Settanta l’“emergenza” provocò lo sgombero del
Rione Terra e l’enorme speculazione edilizia con la costruzione del Rione
Toiano; lo sciame del biennio 1982-1984 portò invece circa ventimila puteolani a
Monteruscello, dove venne realizzato un insediamento satellite completamente
slegato dal tessuto originario degli abitanti.
La notazione forse più emblematica è che a reindirizzare la discussione su punti
concreti sono state le delegazioni di comitati cittadini, che hanno portato in
sala le problematiche della popolazione. In particolare, la giunta e la
Protezione Civile sono sembrate impreparate rispetto al necessario miglioramento
della condizione delle vie di fuga – malridotte e congestionate dal traffico
cittadino – e all’intervento per la messa in sicurezza sull’edilizia privata.
Gli attivisti dell’Assemblea Popolare della X Municipalità hanno chiesto che
venisse messo agli atti il piano elaborato durante la settimana di occupazione,
un piano che in realtà è un insieme di proposte di semplice buon senso e
pratiche di welfare, ma che tocca questioni clamorosamente ignorate finora dalle
istituzioni. Tuttavia, alle pratiche decisamente avanzate di partecipazione
della cittadinanza messe in campo in questi giorni, la politica ha risposto con
la solita desolante strafottenza: solo dopo le rumorose proteste di alcuni
attivisti il consiglio si è degnato di programmare un incontro sul territorio.
Il 28 aprile (…!). (francesco nunziante)
Ci è capitato non di rado, nel corso dei laboratori che da qualche anno
svolgiamo tra Villa Medusa e la redazione di questo giornale (siamo ragazzi e
ragazze tra i quindici e i venticinque anni, ma anche redattori e disegnatori di
Monitor) di trovarci a riflettere sul rapporto tra la città e i suoi abitanti
più giovani.
I bambini, gli adolescenti e i ragazzi – a diversi livelli, a seconda della
provenienza geografica, dello status sociale, del conto in banca della famiglia,
dei documenti posseduti o meno – sono tra quei soggetti che sempre più finiscono
ai margini della città. Questo accade perché minore è la nostra capacità di
spesa, perché spesso appariamo pericolosi a chi controlla politicamente e
militarmente lo spazio urbano, perché bassissimo è il livello di considerazione
verso i nostri problemi da parte di chi ci governa, perché più difficile è
evadere dai luoghi (fisici ma non solo) in cui siamo intrappolati. Alcuni tra
noi finiscono addirittura, nostro malgrado ovviamente, sottoterra: ammazzati
dalla polizia, da un proiettile vagante sparato dal Sistema, da una macchina che
sfreccia sul lungomare mentre attraversiamo sulle strisce pedonali.
Nel corso di alcuni incontri che abbiamo fatto quest’autunno è accaduto che, più
o meno in concomitanza, ci interrogassimo da un lato su come avremmo potuto fare
per costruire un’inchiesta collettiva, dall’altro sulle modalità “giuste” per
parlare della condizione dei ragazzi della città. A un certo punto abbiamo
deciso di unire le due cose.
Vi presentiamo quindi, oggi, un’inchiesta a puntate sui luoghi della notte a
Napoli. È una rappresentazione volutamente di parte, nella consapevolezza che
sarebbe stato impossibile racchiudere in una manciata di articoli, fumetti e
storie disegnate un universo complesso. Almeno, però, saremo noi a parlare, a
raccontarci, a descrivere i luoghi che frequentiamo, quello che facciamo quando
usciamo di casa, le strategie che abbiamo elaborato per trovare il meglio (o il
peggio) nel nostro presente, i sogni e gli incubi del futuro che ci
aspetta. (laboratorio di narrazione del territorio)
(una storia disegnata di ginevra naviglio)
(disegno di martina di gennaro)
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via
Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della
giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato
effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima
dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le
persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così
improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il
mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo
contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti
celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia.
«Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la
laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a
lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto
che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara
legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti
per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da
pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli
durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto
“Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato.
Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un
appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria
recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia,
critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela
dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud
Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era
critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un
anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a
collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a
scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era
uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare
attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di
essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un
gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo,
venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il
radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito
dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A
Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per
sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio.
Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso.
Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto
Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali
tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un
lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce
dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di
Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo
aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno,
ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano.
«Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro,
proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso
rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino
che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di
arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro
stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per
sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere:
ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a
sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate,
Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un
posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in
qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la
biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza
era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero
così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi
hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in
Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però,
un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza
nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un
anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene
assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità
di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un
lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie,
non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma
pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità
di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso
gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni
modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una
volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a
cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In
Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai
dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di
aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione,
anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli
procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di
San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo
e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei
cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è
sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in
uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma
arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui
risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e
poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo
portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva
perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa
contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani
finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un
letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare.
Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare
così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è
nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le
vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo
che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona
con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però
ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi
hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza
vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via,
che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così,
con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con
ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale,
passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a
riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi
secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento
davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere
le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa
dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così
sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire:
prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la
faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo
avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano
spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del
tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E
ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma
si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa
fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a
Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla
storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta
alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei
persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per
giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne
queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi,
lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid.
Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella
micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di
nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come
aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che
gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone
che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani,
volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare
mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di
sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano
disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto,
quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può
aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a
cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno
posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al
loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno
può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale.
Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la
prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una
stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero
contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche
in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato
da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo
qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un
chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro
scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza
successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa
albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure
con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si
attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una
soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di
lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di
rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione,
ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia,
bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di
uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che
indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa.
Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno
aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei
problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
(disegno di brochendors)
Sabato primo marzo 2025, Messina è stata attraversata dal Carnevale No Ponte.
Contro la costruzione di una grande opera figlia di “un’idea di progresso che se
ne infischia delle nostre vite: estrae valore dai territori a costo di
devastarli, li sottrae ai bisogni e ai desideri degli abitanti per far
guadagnare i pochi soliti noti”, come si scriveva nella chiamata al corteo.
Nella zona sud di Messina, all’altezza di Giampilieri, a novembre è stato aperto
un nuovo cantiere di raddoppiamento ferroviario, strettamente collegato al
futuro progetto di costruzione della grande opera. L’appalto di RFi è gestito
dal Consorzio Messina Catania Lotto Nord, di cui fa parte Webuild, la società a
cui sono stati affidati anche i lavori per il ponte sullo stretto. Nei cantieri
aperti precedentemente, quello tra Contesse e Villaggio Unrra e quello di Nizza
di Sicilia, sempre finalizzati al raddoppio della linea ferroviaria
Messina-Catania-Palermo, prima a ottobre e poi a febbraio sono state poste
sotto sequestro ampie zone per via della dannosa gestione dei materiali di
risulta scaturiti dagli scavi. Durante i lavori sono infatti emersi materiali
con elevate concentrazioni di arsenico, contenute naturalmente nei monti
Peloritani, che a causa dell’inadeguata copertura dei vasconi di stoccaggio da
parte della società competente del cantiere sono poi confluiti, complici le
piogge, all’interno del suolo e delle falde acquifere sottostanti. Le stesse che
portano acqua nelle case circostanti.
L’ombra del ponte è già qua. Per questo si è scesi in piazza, per ribaltare lo
scenario dell’estrazione che risucchia la vita, del progresso devastatore, dei
decreti legge che vorrebbero reprimere il dissenso. Si è scelto di farlo
sfruttando la complicità del Carnevale, “da sempre festa popolare, eretica,
liberatrice, che dissacra, rovescia e si fa beffe del potere: la festa del tempo
che tutto distrugge e rinnova”. Tra musica e colori, i muri hanno preso a
parlare, le voci dei manifestanti hanno gridato la loro opposizione a tutte le
forme di estrazione compulsiva e di progresso tecnologico che uccidono e
mortificano esseri umani in ogni angolo di mondo.
Quando il corteo ha raggiunto l’incrocio tra via XXIV maggio e viale Boccetta ci
si è trovati di fronte a uno schieramento della celere, posto a difesa del
tratto interdetto dalla questura di Messina per via della presenza della caserma
dei carabinieri, considerata come presunto obiettivo sensibile. È bastato il
lancio di un paio di petardi a scatenare la prima carica, nonostante il corteo
fosse rimasto all’interno del percorso prestabilito. Così di nuovo lungo viale
Boccetta. Un gruppo della celere si è distaccato per inseguire e menare a colpi
di manganello i manifestanti che transitavano sulla corsia del viale adiacente
all’incrocio con via Concezione, dove insiste l’ingresso della caserma. Una
ragazza è stata travolta e calpestata in questa intollerabile caccia agli esseri
umani. Ma tutto ciò non basta a descrivere la messa in scena dello spettacolo di
pratiche di militarizzazione e repressione di ogni forma di dissenso, figlie
degli ultimi decreti e dei progetti di “zone rosse”.
Passate circa due ore dall’arrivo a piazza Casa Pia, punto conclusivo del
corteo, l’ultimo gruppo di manifestanti, composto da una cinquantina di persone,
ha preso la via del ritorno verso casa. Parallelamente, si sono mossi una
ventina di uomini e donne della Digos, scortati da una camionetta della celere,
che erano rimasti lì ad aspettare lo scioglimento del gruppo per far partire una
randomica caccia all’uomo. Nel momento in cui, infatti, si è tentato uno
sparpagliamento in piazza Antonello, la Digos ha inseguito, subito raggiunta
dalla celere, un ragazzo che ha tentato di mettersi al riparo all’interno di
Galleria Vittorio Emanuele III. La galleria era stracolma di adolescenti che
trascorrevano lì il sabato sera. Il surreale slalom aperto dal ragazzo con la
Digos alle calcagna e seguito da compagni e compagne, accorse per difenderlo,
con la celere addosso si è bloccato su un ballatoio laterale della galleria.
Stretti tra i cancelli e il porticato, tra manganellate e colpi di scudo, si è
riusciti a liberare il compagno dalla presa della polizia e a lasciare la
galleria con un’unica voce: “tout le monde déteste la police”. I ragazzi e le
ragazze, assorte tra un hamburger e una birra, hanno assistito esterrefatti a
questo gratuito terrore seminato dalle forze dell’ordine. Qualcuno sarebbe
potuto cadere dal ballatoio, ci si sarebbe potuti rotolare l’una addosso
all’altra durante l’inseguimento, chiunque avrebbe potuto rimanere preda di un
attacco di panico vista la densità umana del luogo. Mi è rimasta impressa una
donna che si è schierata insieme a noi nel tentativo di fermare la celere dal
menare a caso e dal detenere il compagno, gridando “non toccate le ragazze, non
toccate i ragazzi”. Urlava anche che era la preside di una scuola, chissà se il
lunedì successivo ha raccontato questa storia ai suoi studenti.
Ci sono riusciti, poco dopo, su via XXIV Maggio, a catturare un compagno e una
compagna, cioè a fare i numeri che servivano per tenere vivo lo spettacolo della
criminalizzazione del dissenso. Siamo rimaste in presidio sotto la questura di
via Placida in attesa del loro rilascio, circondati da due cordoni della celere.
Le due compagne sono state rilasciate verso le tre di notte. Un labbro spaccato,
numerosi schiaffi e violenze verbali, una denuncia per resistenza e una per
detenzione di un coltellino svizzero.
Diffondiamo questo breve racconto affinché si possa conoscere sempre più la
violenza delle forze dell’ordine e l’opera di criminalizzazione messa in atto
dall’impianto statale tutto. (osservatorio stelle filanti)