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Rewind Roma, luglio 2025 # Brucia la città
(disegno di peppe cerillo) Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido, centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino. Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature: l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila appartamenti vuoti. Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio: fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi, centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo: settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili. All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel 2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche nell’ospedale Grassi di Ostia. Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb, trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani, chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’ Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”. Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin, mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro, difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo. Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele (UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega, con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza Capranica contro l’assedio della fame a Gaza. Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di “interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì dentro si era suicidato. Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro” (cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono. Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
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Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #8. Terra del Fuoco
(disegno di adriana marineo) Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom – spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco. *     *     * L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello – Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011 Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la candidatura a sindaco di Piero Fassino. Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti, complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato, mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano “clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano, attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in grado di garantire un ritorno economico. All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo. A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza” gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz. Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di “autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte. L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice” dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì. Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta. Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010 inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni. Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una “bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai “cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione, dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale. Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al raggruppamento temporaneo d’impresa  formato dalle stesse organizzazioni del progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa 1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli, via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano 41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della città. Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si costituisce parte civile. A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative, decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che, mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi quelli di TDF. Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico. Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati. La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo (2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”. Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno complessivo. (voce a cura di manuela cencetti) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
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Scugnizzo cup. Voci e immagini dal torneo dei quartieri di Napoli
Foto di Matteo Ciambelli Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori, corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni, cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura, in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine. Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno persone, tutto più tranquillo». Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha avuto grossa diffusione. La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte, acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate con la data della finale della Scugnizzo Cup. A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori: Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori evitati in due metri quadrati. Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson, circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo, vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per tenere i tifosi lontani dal campo. Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati. «Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono: «Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della partita abbraccia il padre. La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano. Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice, che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra, palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo, Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1), probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre importanti di serie A. La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene: capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai fuochi d’artificio. (davide schiavon)
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L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
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I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
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Cos’è veramente la Coppa America? Politici, imprenditori e loro lacchè lo spiegano meglio di tutti
(disegno di mario damiano) 15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa. 6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città catalana. Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro, mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare volontariato. Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per tutti. Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo. 11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla competizione. Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca. Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia libera.  Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone, sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti, associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura quadruplicare”. 20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come “contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma non ci sono i soldi per fare questo intervento”). Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali (lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle questioni non può neppure discuterne. 24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di “visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una “collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto “resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi, e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport. 1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio. Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però, rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo. Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto il mondo quello che sta succedendo qui”. 8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo, direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia, paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco (“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
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La “rigenerazione urbana” non risparmia nessuno. Il caso del giardino San Leonardo a Bologna
(disegno di otarebill) I protagonisti di questa storia sono un piccolo giardino, una prestigiosa università statunitense e un’amministrazione comunale. Cominciamo, come è giusto, dal giardino. TRACCE DI STORIA Da qualche anno porta il nome di don Tullio Contiero, un prete poco amato dalle gerarchie ecclesiastiche, chiamato a Bologna agli inizi degli anni Sessanta dal cardinale Giacomo Lercaro per occuparsi degli studenti universitari, per i quali organizzava ogni anno viaggi in Africa per far conoscere loro il sud del mondo e metterli di fronte alle responsabilità e alle contraddizioni dell’Occidente. Ma in realtà nessuno lo conosce con questo nome. Tutti continuano a chiamarlo come prima: giardino San Leonardo, dal nome della strada che lo costeggia. È nel centro di Bologna, nella zona universitaria, ma defilato rispetto ai grandi flussi che, a poche centinaia di metri, ne caratterizzano la vita quotidiana. È di piccole dimensioni (circa 1.500 mq), ma è molto amato dagli abitanti e dai frequentatori della zona, che se ne sono presi cura, nel tempo, anche attraverso comitati o gruppi informali. Non ha nulla di particolare, se non il fatto di rappresentare la “normalità”: uno spazio verde e tranquillo, dove le persone trascorrono del tempo in modo informale, senza essere attratti da attività o da luoghi di consumo. Troppo normale per resistere alla febbre della “rigenerazione” che sta dilagando in tutta la città. Ma prima di descrivere qual è la minaccia che incombe su questo piccolo lembo di terra, è bene ricordare qual è il contesto urbanistico e sociale in cui si trova. Si tratta, innanzitutto, di un esercizio di memoria che ci riporta al 1973, anno in cui il comune di Bologna, con la regia dell’architetto Pier Luigi Cervellati – all’epoca assessore all’urbanistica – adottò una variante al Piano per l’edilizia economica e popolare (Peep) che estese al centro storico gli interventi per quella tipologia abitativa, fino ad allora destinata alla periferia. Il piano coinvolse cinque comparti del centro e portò al risanamento – per iniziativa pubblica – di circa settecento alloggi, dove tornarono ad abitare gli stessi nuclei familiari che li occupavano in precedenza, quando erano fatiscenti. Furono anche realizzati centri civici, studentati, spazi per attività di quartiere, recuperando complessivamente circa 120 mila mq di superficie. (Per un approfondimento si rinvia a questo articolo dell’architetto Carlo De Angelis, che fu tra i protagonisti del piano). Era ben chiaro che i ceti popolari sarebbero stati progressivamente espulsi dal centro, e il piano mirava – al contrario – a farli rimanere dove erano sempre vissuti. Via San Leonardo era una delle strade comprese nel piano. ‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’ Finora – come è facile immaginare – non c’è stato grande dialogo tra questa strada che ancora oggi conserva un tessuto popolare e la limitrofa Johns Hopkins University, i cui master costano – come si può ricavare dal sito – tra 65 mila e 89 mila euro all’anno. Ma il muro che divide la strada e il suo giardino dalla sede bolognese della rinomata università che ha la casa madre a Baltimora sta per cadere, non solo metaforicamente. Ad aprire la breccia sarà una caffetteria. Questo è, infatti, il succo di una proposta avanzata dalla Johns Hopkins University, elaborata dallo studio Betarchitetti. Il Comune la accoglie nella cornice dei “patti di collaborazione”, una delle articolazioni del sistema di partecipazione costruito dall’amministrazione comunale con grande enfasi retorica che ne nasconde l’essenza: imbrigliare la partecipazione entro forme istituzionalizzate e centralizzate e distoglierla dalle questioni cruciali, discusse e decise al di fuori delle sedi istituzionali, al riparo da qualsiasi dibattito pubblico e rese note solo a cose fatte. Nel caso specifico si tratta di una evidente forzatura: come è possibile utilizzare questo strumento per autorizzare un intervento urbanistico su un intero comparto? Si tratta di una corsia preferenziale? O di un esperimento per introdurre senza far rumore una ulteriore forma di deregolamentazione? Ma torniamo alla caffetteria della Johns Hopkins. Il succo della proposta è tutta qui: l’università chiede di poterla espandere aprendola verso il giardino, in cambio si farà carico delle spese per la sua ristrutturazione. Come da copione, anche stavolta non mancherà l’abbattimento di alberi (in questo caso tre esemplari tutelati), un elemento che caratterizza tutti i progetti di “rigenerazione” in corso o in previsione in tutta la città e che sta assumendo dimensioni enormi e intollerabili, i cui effetti non saranno mitigati dalle promesse di “compensazione” tramite nuove piantumazioni. Ovviamente una richiesta del genere – che comporta la modifica della configurazione di uno spazio pubblico a favore di un interesse privato – va addolcita con qualche zolletta di zucchero. Ecco allora che si prospettano “eventi e festival” (in un fazzoletto di terra!). E poi la formula magica: “riconfigurazione del margine”. Abbassando il muro di contenimento del giardino – secondo i promotori – si otterrà una maggiore “permeabilità” rispetto al comparto oggetto dell’intervento, “favorendone il presidio sociale”. Per supportare queste affermazioni generiche e prive di sostanza non poteva mancare il richiamo alla “sicurezza”: la “permeabilità” servirebbe infatti a “far fronte all’annoso problema della mala frequentazione durante le ore notturne”. Quindi un bar, un muro più basso, una migliore illuminazione e – non poteva mancare – un impianto di videosorveglianza. Certi che la parola magica – “sicurezza” – rappresenti la chiave che apre tutte le porte (e non hanno tutti i torti, dal loro punto di vista, considerando il clima culturale e politico dominante, anche a livello locale), i redattori del progetto non si preoccupano delle evidenti contraddizioni. Se la “mala frequentazione” riguarda le ore notturne, come può la caffetteria garantire un presidio per scongiurarla? Se, come è scritto in un passaggio del progetto, “il rigido protocollo di sicurezza dell’università ha reso impensabile fino a ora favorire una permeabilità incontrollata degli accessi verso lo spazio pubblico”, cosa è cambiato ora? Forse la caffetteria non sarà aperta al pubblico (e quindi addio “presidio”?). Oppure dobbiamo aspettarci una caffetteria con “rigidi protocolli di sicurezza”? Una versione precedente del progetto conteneva una proposta lasciata cadere nella versione definitiva, che merita però di essere citata: “Si propone inoltre la possibilità di trasformare l’attuale unità abitativa di proprietà comunale [che si affaccia sul giardino, ndr] in una attività ristorativa a carattere sociale che possa fornire una cucina interculturale di tipo kosher. Questa attività sociale consoliderebbe il carattere interculturale del comparto […]. Tale operazione potrà essere effettuata previo ricollocamento della famiglia ospitata nell’immobile”. È un passaggio significativo, che illustra la protervia del soggetto privato che si spinge fino a invocare lo spostamento di un nucleo familiare insediato in un alloggio popolare per ricavarne un ristorante, e svela la vera natura del progetto. Il fatto che questa richiesta sia stata accantonata, infatti, non ne muta il significato: si tratta di un interesse privato su suolo pubblico. Tutto il resto è scenografia. PICCOLO E GRANDE Colpisce che nella relazione tecnica, nel paragrafo dedicato all’inquadramento storico e urbanistico, manchi qualsiasi riferimento al piano di edilizia popolare realizzato nel 1973. In sostanza, l’intervento proposto ignora completamente il contesto sociale nel quale va a incidere. Colpisce anche che il Comune non rilevi questa mancanza, che riguarda un aspetto di grande rilievo. Evidentemente l’amministrazione comunale ne ha perso la memoria, o forse non sa che farsene di una cultura urbanistica attenta ai bisogni sociali, al disegno complessivo della città e all’equilibrio tra interessi privati e interessi pubblici. Del nuovo giardino San Leonardo il Comune è molto soddisfatto. I toni del comunicato con cui lo annuncia alla città (senza alcun confronto preliminare con il quartiere e i suoi abitanti) sono entusiasti: “Il progetto punta ad aprire il giardino verso la città, mettendolo in relazione con le attività e i servizi circostanti, attraverso la riqualificazione dei margini, la riorganizzazione degli accessi e la valorizzazione delle connessioni urbane […]. Gradini, sedute, rampe e gradoni ridisegneranno il perimetro del giardino per renderlo più accessibile, vivibile e connesso al tessuto urbano, trasformandolo in uno spazio di relazione e incontro per residenti, studenti e cittadini”. Questo passaggio illustra bene quella che potremmo definire la neolingua della rigenerazione urbana. Si prende qualche termine dal lessico specialistico (riqualificazione, margini, connessioni…), lo si combina con qualche aggettivo comparativo che metta un po’ di enfasi nel discorso (più accessibile, più vivibile) e con qualche verbo che evoca il cambiamento (riorganizzare, trasformare), si condisce il tutto con una formula buona per tutti gli usi (spazio di relazione e incontro), e il gioco è fatto. Ma se si gratta sotto la superficie, quella frase non significa nulla. Dietro al vuoto del discorso pubblico, però, ci sono processi rilevanti che stanno trasformando il volto della città. Da questo punto di vista la vicenda del giardino San Leonardo non è importante solo di per sé, per chi ne ha cura e lo frequenta, per chi abita nei dintorni, ma è anche una spia estremamente significativa delle tendenze in atto. Nella dimensione micro si possono leggere con chiarezza le distorsioni in atto nella dimensione macro. I 1.500 mq del giardino non sono diversi – per esempio – dalle decine di ettari delle grandi caserme dismesse, né meno importanti. La logica che regola la loro trasformazione è la stessa, e il suo nucleo è la profonda alterazione del rapporto tra pubblico e privato. In questo passaggio d’epoca, che ha inizio almeno trent’anni fa e che ora giunge a piena maturazione, i poteri pubblici hanno abdicato al loro ruolo di regolazione delle trasformazioni urbane in relazione ai bisogni della collettività. Non sanno né vogliono indirizzare gli interessi privati verso una funzione sociale, anzi, li assecondano al punto di modellare gli spazi pubblici sulla base delle loro esigenze. Bologna è ricca di esempi di questa sistematica distruzione dello spazio pubblico – che assume forme diverse a seconda dei contesti. Il caso del giardino San Leonardo aggiunge a questo quadro un elemento specifico. Si tratta del fatto che – nella strategia dell’amministrazione comunale – la “rigenerazione” intesa nella sua accezione distorta deve riguardare anche le piccole aree, le zone interstiziali. Nulla deve sfuggire a questa ridefinizione dello spazio che è anche, necessariamente, una ridefinizione delle relazioni. I luoghi liberi, informali, dove non succede nulla di particolare perché vivono della ricchezza della quotidianità risultano d’intralcio a una visione dello spazio pubblico in cui i fattori dominanti sono il consumo, il controllo, l’organizzazione centralizzata di ciò che in quello spazio deve accadere. Ecco perché è così importante preservare la “normalità” di quel piccolo giardino. Se – partendo da lì – allarghiamo lo zoom, c’è la città intera, che vive ovunque le stesse tensioni. (mauro boarelli)
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Rewind Roma, giugno 2025 # Il comune rimpasta, la regione cala il cemento
(disegno di peppe cerillo) Il 1 giugno il Giro d’Italia raggiunge la capitale: sia a Roma che a Ostia la popolazione accoglie i ciclisti israeliani sventolando bandiere della Palestina. Il 2 le frecce tricolori sorvolano il centro della capitale, e le parate annunciano la nuova militarizzazione della vita pubblica, l’entrata in guerra, l’aumento della spesa militare, la difesa di uno stato genocida. Il 5, mentre in Senato si approva il Decreto Sicurezza (poi fortemente messo in discussione dalla Corte di Cassazione), c’è un tentativo di sgombero nel residence per l’emergenza abitativa di Val Cannuta: le famiglie che lo abitano occupano la strada e affrontano la polizia. Il 7 giugno scende in piazza per Gaza addirittura il Pd: è la più grande manifestazione dall’inizio del genocidio, ma dal palco parla anche chi si definisce “orgogliosamente sionista”. Nel frattempo, a Villa Pamphili viene trovato il cadavere di una bambina neonata, e il corpo di una donna rinchiuso in un sacco nero. Referendum dell’8 e 9, al seggio si presentano meno del venticinque per cento dei votanti romani, anche se le periferie danno miglior prova del centro. Lunedì 9 dei picchetti fermano due sfratti a Cinecittà Don Bosco e a Casalbruciato. Pomeriggio al Pantheon: presidio di solidarietà con la Freedom Flotilla, bloccata da Israele in acque internazionali. Il 10 il Comune annuncia l’acquisto futuro di ben mille e trecento case, di cui mille da Enasarco, ente previdenziale privatizzato che ne aveva più di diciassettemila a Roma. L’11 grande manifestazione antisionista a Garbatella. Nel frattempo, la giunta regionale approva l’ennesimo piano di sblocco della cementificazione. Sabato 14 un corteo di centinaia di migliaia di persone, forse un milione, sfila per il Pride, da piazza della Repubblica a Terme di Caracalla, anche con tante bandiere palestinesi: alle cinque si sospende la musica per cinque minuti, in ricordo delle vittime del genocidio. Nel pomeriggio c’è un presidio di solidarietà di alcune decine di persone davanti all’ambasciata iraniana a Roma, dopo i bombardamenti israeliani sull’Iran. Circa cinquecento persone manifestano per la Palestina anche in Tuscia, a Orvieto. Il 17 un nubifragio si abbatte su tutta Roma. Il 19 a Ostia va a fuoco il Village, lo stabilimento “sottratto ai clan”. Sempre a Ostia c’è un incidente mortale tra una moto, una smart e un motorino: i familiari delle persone coinvolte aggrediscono i medici dell’ospedale Grassi. Il 20 bruciano otto macchine sul lungotevere in zona Marconi. Sciopero generale: proteste sotto la sede di Leonardo sulla Tiburtina. Sabato 21 due grandi cortei contro guerra e riarmo, uno da piazza Vittorio, l’altro da Porta San Paolo. Il 23, alla vigilia di San Giovanni, cade una banda di trafficanti marocchini che spacciava il fumo per le strade di San Lorenzo: la banda contava sulla complicità di ben sette poliziotti del commissariato di zona, che da anni restituivano loro l’hashish sequestrato, falsificavano i documenti, e naturalmente incassavano i proventi. Due sono arrestati e gli altri cinque indagati. Il 24 il sindaco annuncia un “rimpasto di giunta” che riequilibra le varie correnti Pd: a guidare i progetti Pnrr per Torbellamonaca e Corviale mette una vecchia guardia del partito; l’assessore al personale diventa vice-capo di gabinetto; una consigliera (e presidente del Pd romano) si dimette per diventare capa della segreteria del sindaco, in barba a chi l’aveva votata per esercitare un altro ruolo. La notte un ragazzo di trentacinque anni in scooter viene travolto e ucciso da un’auto rubata, su viale Kant. Il 25 notte una bomba carta devasta una palestra di boxe a Ostia, forse una ritorsione dopo la sentenza del processo dell’ultrà Diabolik. Il 26 inizia il caldo estremo, e con il caldo gli incendi: brucia il pratone di Torrespaccata, una grossa area verde della periferia est, su cui ci sono forti mire speculative. Due incidenti durante la notte: muoiono un cinquantenne sullo scooter a Torvaianica e un motociclista di quarant’anni sulla Lauentina: diciassette morti sulle strade dall’inizio di giugno. Il 27 il Comune annuncia l’installazione di una ruota panoramica sul lungomare di Ostia. La Regione intanto approva una variazione del bilancio di oltre dodici milioni di euro, che però andranno solo all’efficientamento energetico delle proprietà Ater (non si sa se le case popolari, o solo gli uffici), per il trasporto disabili su gomma, e per la partecipazione all’iniziativa “Vie e cammini di San Francesco”. Il 28 pomeriggio un ragazzo del Bangladesh di ventisette anni viene accoltellato e ucciso durante un picnic, forse da un ladro, al parco della Montagnola. In tutto ciò, in Vaticano si continua a giubilare: tra il 23 e il 28 si celebrano il giubileo dei seminaristi, dei vescovi, dei presbiteri e delle Chiese Orientali. (stefano portelli)
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Una gatta blu a Scampia: (s)radicamenti, trasformazioni urbane, salute mentale #2
(disegno di martina di gennaro) (segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere, Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un regalo di ceramica». Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a Scampia. A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti. Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna. Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori, figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle foto dal telefono. Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco: mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta di Rosa è riuscita molto bene. O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO? Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli, aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –, niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia: perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro». Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente […]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona». Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona, perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si fa ogni giorno sui territori». Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”, dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni, come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria, l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del Gattablu. Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura: il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione, scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere. Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di “rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi. La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh… combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’ ‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che aiutiamo il quartiere…». Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro, un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata. Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è “itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno. Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno. Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie palestinesi. (maria reitano) In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio 2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23 aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e 11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta pubblicamente il 27 settembre 2024.
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