(incisione di felice pignataro)
Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato
un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera
di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta
antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una
contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente
contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un
comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato
emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta
per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti
della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un
gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per
stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della
democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale,
non solo locale.
*   *   *
Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il
dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025
mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere
considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto
gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli
adulti presenti.
Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla
scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna
scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto
antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli
studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant.
L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei
confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano
semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso
con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel
silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica.
In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è
uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle
aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così
violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e
degli studenti, lasciati soli.
Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza,
davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere
un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe
insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e
non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli
studenti che la frequentano.
Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade
mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione
vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico,
compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo.
Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha
accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di
tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera
comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è
avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché
fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se
dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e
della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti.
(alcuni genitori dell’einstein)
Tag - città
(disegno di otarebill)
Ayoub è seduto sulla bordura di porfido che delimita un angolo di verde, con i
gomiti sulle ginocchia. Claudia, accanto, ha un’espressione sconsolata che non
le è propria. Ha sfogato poco prima la sua indignazione, rovesciando con rabbia,
in mezzo alla strada, le merci che porta con il suo carrello trainato da una
bicicletta: i suoi dipinti colorati, qualche zaino, un paio di giacche pesanti.
Mentre si accendeva una sigaretta, nervosamente, l’abbiamo aiutata a raccogliere
le sue cose e spostarsi a margine della carreggiata. «Tu sei senza documenti?»,
chiede ora Claudia ad Ayoub, ottenendo un cenno affermativo in risposta. «Ma da
quanto è che sei qua? Solo due anni! Io da venti, venti anni!». «Vent’anni?»,
esclama lui sorridendo con disapprovazione: «Ah no, io me ne vado prima!».
È meta mattina, insieme a pochi amici ho raggiunto i venditori informali che il
sabato si raccolgono vicino alla Dora in occasione del Balon, e nonostante la
repressione. Ci sono volanti della polizia municipale in diversi angoli del
quartiere – agli ingressi del ponte, in cima alla salita verso corso Giulio
Cesare, accanto al marciapiede – e una ventina di agenti presidiano o
pattugliano la zona. Come accade ogni sabato ormai da alcuni mesi, impediscono
agli straccivendoli senza licenza di piazzare la loro merce.
Fino a qualche tempo fa un centinaio di ambulanti poveri esponeva su stuoie e
lenzuola scarpe vecchie e vestiti usati, oggetti trovati in giro, minutaglia
raccolta dai bidoni, recuperata da cantine e magazzini da sgomberare. La
presenza si estendeva libera e compatta dal ponte Carpanini sul lato sud della
Dora, sino in cima alla salita che si ricongiunge con corso Giulio Cesare e il
ponte Mosca.
STORIA DI UNA REPRESSIONE CICLICA
Da più di centocinquant’anni il Balon ospita venditori di oggetti usati, anche
molto poveri. Dal 2002 si creò una distinzione, un mercato di serie A e uno di
serie B, e fu deciso di spostare gli straccivendoli dal lungofiume all’area
vicina, ma più nascosta, di San Pietro in Vincoli e canale Molassi. Poi, nel
2019, il Movimento Cinque Stelle al governo della città impose con una delibera
comunale lo spostamento degli impresentabili più lontano, in via Carcano,
accanto al cimitero monumentale.
Per diversi mesi i venditori si opposero all’esilio, che avvenne solo a seguito
di uno sgombero violento della polizia e multe considerevoli. Già allora a Borgo
Dora la povertà rimossa riemergeva inesorabile, nonostante la delibera della
giunta e l’azione dispendiosa delle forze dell’ordine, mentre al mercato di via
Carcano si rendevano evidenti le conseguenze dell’esclusione. Per anni i segni
di quella violenza rimasero nel deserto urbano. Poi, due anni fa, furono le
gradinate del ponte Carpanini a prendere vita e accogliere nuovi mercanti
informali fino a che i contingenti di polizia municipale giunsero in forze per
sequestrare gli oggetti e vietare la vendita.
Ancora, più di un anno fa, è nato un nuovo mercato informale lungo la Dora. Lo
scorso autunno la polizia arrivava all’alba per presidiare la zona: solo per
poche ore però, così i venditori tornavano a disporre a metà mattinata. Ma
all’alba dello scorso 26 luglio, e nei sabati a seguire, le forze dell’ordine
sono giunte per rimanere fino al pomeriggio, rendendo impossibile agli
straccivendoli di lavorare. Li vediamo attendere a lungo con gli oggetti
raccolti in valigie e borsoni, aggrappandosi alla possibilità di fare il mercato
almeno qualche ora nel pomeriggio, anche se, quando il sole inizia a calare,
anche il passaggio di clienti si dirada.
Mi dà il capogiro cercare con la scrittura di mettere in fila e in ordine i
momenti: la repressione degli indesiderati appare una ruota che si ripete
monotona. Ma qualcosa ha avviato questo nuovo accanimento. Il 25 giugno e il 4
luglio giungono in consiglio comunale e di circoscrizione due interpellanze che
denunciano la presenza dei “venditori abusivi” nell’area del ponte Carpanini e
del Balon. Le presentano un consigliere della Lega e il gruppo consiliare
Fratelli d’Italia della Circoscrizione 7, appellandosi alla necessità di
“tutelare il decoro urbano, la legalità e la sicurezza”. Vi si legge che “la
presenza degli abusivi” che rappresenta “concorrenza sleale” verso i venditori
regolari del Balon, “rischia di compromettere in modo serio la vivibilità e
l’immagine della zona”.
Il 7 agosto i consiglieri della Lega presentano una mozione per l’istituzione di
presidi di sicurezza nelle zone di Aurora e Borgo Dora “soggette da anni a
fenomeni di microcriminalità, degrado urbano, spaccio e occupazioni abusive”,
individuando tra i punti di presidio strategici anche il ponte Carpanini,
“soprattutto nelle giornate del sabato”. La mozione richiede al presidente di
circoscrizione (afferente al Pd) di coinvolgere il tavolo della sicurezza per
istituire presidi di polizia, anche attraverso le risorse previste da un
emendamento regionale che destina fondi specifici al pagamento degli
straordinari della polizia locale. L’amministrazione della città anticipa le
richieste: già dal 26 luglio invia i contingenti di polizia municipale a
occupare il lungofiume.
È curioso notare che nello stesso periodo la destra si muove anche contro il
mercato in esilio di via Carcano. Con la legge regionale 9/2025, datata 8
luglio, la giunta Cirio impone ai mercatini sociali un tetto di dodici mercati
all’anno e promette sanzioni in caso di mancati controlli. Sarebbe la fine per i
mercanti allontanati al cimitero. La Città di Torino a settembre rinnova la
concessione all’associazione che gestisce quel mercato e concede le stesse
condizioni in vigore. Se la destra dimostra di non avere alcuna lettura della
città, ma solo fame di voti, la maggioranza Pd governa con efficacia la povertà
e soffoca o contiene gli ultimi.
PRESENZE SUL PONTE
Ritorno con la mente agli ultimi sabati trascorsi tra il ponte Carpanini e Borgo
Dora. Qualche straccivendolo ci saluta chiamando il nostro nome a gran voce
quando ci vede arrivare. Da qualche tempo, insieme ad alcuni amici, portiamo tè
caldo e caffè da condividere per colazione. In primavera il grande barilotto e i
termos finivano in fretta. Osservando le mosse del potere, con i bicchieri di
carta a scaldarci le mani, abbiamo imparato a conoscerci.
Alcuni, per me, sono vecchie conoscenze, incontrate un tempo in un centro diurno
per persone senza fissa dimora di questa città, che oggi ha chiuso. Dormono
ancora per strada, o occupano un posto letto più o meno temporaneamente nei
dormitori cittadini. Ci sono persone senza documenti, ma so che anche coloro che
sono in regola conoscono la marginalità, la precarietà abitativa, il lavoro nero
o lo sfruttamento. Qualcuno ha una famiglia, magari lontana, altri sono soli;
sono arrivati in città più di recente, o sono a Torino da tempo. Alcuni
aspettano per tutta la settimana che arrivi il sabato, per guadagnare quel poco
denaro che consente loro di sopravvivere e di concedersi un pacco di sigarette e
una bottiglia di birra.
Distinguo bene tra i ricordi recenti anche la presenza delle guardie. «Dovresti
vendere monili africani, basta con questi vestiti usati», dice un vigile a un
venditore. Gli agenti eseguono gli ordini, anche coloro che ci dicono che gli
dispiace impedire ai presenti la vendita di qualche scarpa vecchia: devono fare
il proprio lavoro. Un giorno, sorge un dissidio tra due venditori in attesa di
piazzare la stuoia, discutono sullo spazio da occupare. «Non potete fare un
sabato a testa?», dice un uomo in divisa. Ancora, dicono i vigili ai venditori:
è la legge, potete andare in via Carcano. Ma non sanno della separazione del
mercato a inizio secolo, e dello spostamento forzato sei anni fa? Non si rendono
conto che molti non possono permettersi di pagare uno stallo in via Carcano o
che è preclusa loro la possibilità stessa di mettere in atto quanto suggerito
per via delle leggi ostili di questo paese?
Per la seconda volta nell’arco della giornata, Claudia prova a esporre i suoi
oggetti per terra, ma è prontamente circondata da un numero impressionante di
divise. I vigili minacciano di sequestrare gli oggetti. «Lasciatela stare,
lasciate stare solo lei per favore, noi non ci mettiamo!», dice qualche suo
compagno di sventura. Ma i vigili si apprestano a mettere le mani sulle tele che
lei stessa dipinge, così si raccolgono i dipinti per lei, che deve cedere.
«Questo mercato che vedete – grida Claudia, la voce nitida – questo mercato che
vedete! Voi state tutti zitti, che ci sono cento famiglie che devono lavorare, e
voi state tutti zitti, sopra la loro merda! Dovete venire qua, appoggiare queste
persone e non stare zitti nel vostro borgo di merda!».
Il flusso degli avventori intanto scorre. Più avanti, in piazza Borgo Dora, nel
cuore del mercato, un coro anarchico intona canti della tradizione libertaria.
Al pomeriggio le strade della città si riempiranno per il corteo in solidarietà
alla Palestina. Sono lontani i tempi della resistenza del Balon e abbiamo
incassato il colpo di quella sconfitta. Comprendo che la repressione funziona
grazie all’indifferenza di tutti, e forse soprattutto alla paura, ricattabilità,
e isolamento dei venditori. Quali vie non abbiamo percorso? È giusto non
assumere alcun ruolo direttivo, ci ripetiamo, d’altronde sappiamo bene che non
siamo noi a rischiare. Allora siamo presenti, solo per accompagnarli, per non
lasciarli soli. Ma che cos’è che ci sfugge? (stefania spinelli)
(disegno di roberto-c.)
Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli
Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al
volume.
Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la
necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione
di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi
oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello
dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è
scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un
po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha
funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo
urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva
accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre,
marginale.
Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa
si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande
muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle
infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il
primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica
della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non
si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi
viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e
il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2
della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.
Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli
che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui
raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di
Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi
pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in
rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.
Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei
luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale,
ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale
dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’
tutti i contributi.
Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il
litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni
residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna
del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena
raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa
che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante
fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.
Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un
paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni
che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale
non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e
storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno
fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie
insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive,
rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi
ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.
Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una
traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge
speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero,
alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel
Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del
deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione,
che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed
economiche.
Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia
Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento
nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di
mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda
Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare.
Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti
diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo
gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela
Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi
essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri
esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che
l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle
parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici
che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli
con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso
e trascurato.
Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un
polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese
qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle
multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di
Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e
il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le
malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state
tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo
simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.
A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come
una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto
ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che
legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna
questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.
Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze
vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati
civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De
Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via
Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per
smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale
di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa
restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della
storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha
segnato la storia di questi luoghi.
Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia
ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali,
esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche,
stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura
collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità
a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che
attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa
condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha
prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno
spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e
riconoscimento.
(disegno di adriana marineo)
Palermo, martedì 18 marzo 2025. Per tutto il pomeriggio un elicottero sorvola
Ballarò. Pattuglie di carabinieri, polizia e vigili urbani battono le strade,
passano e ripassano accanto al campo di bocce di via Albergheria, davanti al
pensionato San Saverio, nei punti in cui si sono accese le vampe negli anni
passati. Di solito, il pomeriggio del 18 marzo si vedono ragazzini girare per il
quartiere spingendo cassonetti pieni di legna, cercando un posto dove
accatastarla. Oggi no. “St’annu, unn’a fannu fari a nuddu” (“quest’anno non la
fanno fare a nessuno”, la vampa), commentano alcuni parrocchiani sugli scalini
di San Giuseppe Cafasso, gli occhi in su a guardare gli elicotteri, le
conversazioni accompagnate dal rumore del flappeggio delle pale del rotore.
Alle 18 si alza una colonna di fumo bianco davanti al Civico. Un elicottero
della polizia staziona sopra l’ospedale. Un’ora prima non c’erano segni di
preparativi. Hanno rovesciato i cassonetti dell’immondizia e li hanno disposti
lungo due file; alcuni sono incendiati, l’immondizia all’interno brucia,
squagliando il polietilene insieme all’asfalto della strada. Nell’area del
parcheggio di via Carmelo Lazzaro, delimitata dai cassonetti, arde una piccola
vampa. Tra l’immondizia sono stati affastellati in fretta e furia alcuni
pannelli di compensato, gli unici pezzi di legno che i ragazzini sono riusciti a
trasportare senza farsi notare. Per il resto, le fiamme sono alimentate dalla
plastica. L’aria è irrespirabile.
Mi avvicino alla vampa, scatto una fotografia – l’unica della serata. Intorno al
fuoco non c’è nessuno. Il falò propiziatorio di legna vecchia, preparato e
acceso dai ragazzi all’imbrunire della vigilia della festa del santo, brucia
nonostante i divieti. Ma non c’è nessuno a scaldarsi e a mangiare intorno alle
fiamme, non ci sono adolescenti che giocano a saltarle e ad alimentarle con
altra legna. Il centro del rito si è spostato, il fuoco principale sarà un
altro, l’attenzione della gente del quartiere è rivolta a uno spettacolo
diverso.
Accanto ai cassonetti bruciati, è stata rovesciata una campana del vetro.
Diversi ragazzi camminano con bottiglie di vetro in mano, le trasportano ai lati
della strada, ammucchiandole tra le auto e i motorini, sul marciapiede. Molti
indossano il passamontagna, altri si coprono il volto con cappucci, fazzoletti,
bandane, sciarpe, magliette annodate dietro alla nuca. Si muovono veloci, si
chiamano a voce alta, osservano attenti quello che succede intorno. Scherzano
tra loro, giocano. Aspettano la polizia. La gente guarda la scena, appoggiata ai
muri delle case, alle saracinesche dell’edicola, davanti alle vetrine della
salumeria, della pizzeria, del centro scommesse, o in piccoli gruppi in mezzo
alla strada, sotto gli alberi dell’aiuola davanti al Civico.
Si sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi; i ragazzi si muovono compatti
verso le barricate in fiamme, si calano i passamontagna sul volto. Poco dopo,
arrivano due autoblindo della celere e un’autopompa dei vigili del fuoco. I
ragazzini gli tirano contro una grandinata di bottiglie, alcuni restando in
sella ai motorini accesi, suonando i clacson all’impazzata. Il vetro si schianta
contro l’asfalto, il parabrezza del blindato e le fiancate delle automobili
parcheggiate. I poliziotti scendono in tenuta antisommossa, sparano due
lacrimogeni sui ragazzini a pochi metri di distanza, che si disperdono. Alcuni
continuano a lanciare bottiglie: si staccano dal gruppo, corrono verso la
polizia, caricano il braccio e scagliano una bottiglia, poi ritornano nel
gruppo. I lanci si fanno più frequenti, le bottiglie volano più vicine agli
agenti, i ragazzini si avvicinano sempre di più, fanno a gara tra loro. Uno
arriva a pochi metri dalla fiancata dell’autoblindo aperto, prende la mira e
tira una bottiglia di birra vuota sugli agenti; tre di questi si staccano dal
cordone e partono all’inseguimento, appesantiti dall’equipaggiamento. Il
ragazzino resta a guardarli, aspetta che arrivino a pochi passi da lui, si gira
e corre veloce guadagnando terreno in pochi istanti.
Mi allontano per stare al riparo dalle bottiglie, mi sposto vicino a un gruppo
di adulti che osservano lo scontro da un’aiuola. Fanno il tifo per i ragazzi,
ridono della goffaggine della polizia. Inizio a sentirmi meno sconvolto dalla
scena, recupero in parte il senso del rito, della comunità che osserva i giovani
maschi esibire il proprio coraggio intorno alle fiamme. C’è qualcosa di
radicalmente diverso però: il gioco è diventato più pericoloso, le fiamme fanno
solo da contorno, la prova di iniziazione è molto più violenta. Sento che non
c’è controllo collettivo, gli adulti commentano spaesati: “Ai tempi i nuatri un
c’era tuttu stu finimunnu! Chisti parunu scene i guierra”. Qualcuno prende le
distanze, un esercente dice ai ragazzini di spostarsi dai tavolini del suo
locale.
I poliziotti si schierano su due fronti ai lati del furgone, gli scudi compatti
uno sull’altro. Gli assembramenti si sciolgono, si riformano rapidamente poco
lontano, al riparo da eventuali cariche. I ragazzi continuano a tirare
bottiglie, si muovono in continuazione tra i capannelli di persone, attraversano
la strada, girano intorno all’isolato, si confondono tra gli spettatori, poi
scattano di corsa, lanciano quello che trovano e tornano indietro. I poliziotti
rientrano dentro il mezzo che parte a sirene spiegate, sfonda la barricata di
cassonetti ancora in fiamme. Il fronte dei ragazzini si disperde veloce, alcuni
retrocedono su via Giuseppe Basile e dal centro della strada continuano a
lanciare bottiglie. La polizia spara due lacrimogeni sui ragazzi, nel frattempo
i vigili del fuoco azionano la pompa sui cassonetti, mentre volano ancora
bottiglie.
È buio ormai. Le fiamme si spengono, il rito si è consumato. Le macchine e i
motorini riprendono a circolare tra i resti carbonizzati, le persone si
allontanano. Pian piano, i ragazzini sciolgono i fazzoletti e tolgono i
passamontagna. L’elicottero della polizia si sposta finalmente, ci sono altri
fuochi accesi in altre periferie. La città continua altrove la sua guerra alle
vampe e ai bambini che le accendono.
QUINDICI ANNI DOPO
Quindici anni fa, quando lavoravo come operatore di un centro sociale allo Zen
2, avevo seguito i bambini del quartiere nella preparazione della vampa di San
Giuseppe. I preparativi erano iniziati a fine febbraio, ogni pomeriggio i
ragazzini giravano per le case, le botteghe e le officine, raccogliendo mobili
vecchi, persiane e porte dismesse, che accatastavano in una piramide al centro
dello sterrato davanti all’insula dove abitavano molti di loro. C’erano anche
ragazzine a raccogliere la legna e a giocare, a comporre insieme la piramide di
legno, ogni giorno più alta, ad arrampicarsi e a saltare giù dalla vetta a
turno, atterrando su un vecchio materasso. Dall’altro lato della strada, altri
facevano un’altra vampa. I due gruppi rivaleggiavano, si contendevano il legno
portato dagli Ape degli sbarazzi e dai furgoni dei giardinieri, che di solito
scaricavano vicino a quelli che gridavano più forte, o che erano più svelti a
vederli arrivare dallo stradone e a chiamarli. Poi, la sera del 18 marzo, gli
adulti accendevano le vampe, il quartiere scendeva in strada, o si affacciava al
balcone a guardarle. Arrivava la polizia, gli agenti scendevano dalle volanti,
controllavano, poi risalivano e se ne andavano. La vampa continuava a bruciare
fino a mezzanotte passata, con i bambini che giocavano tra i tizzoni
semi-consumati. Alla fine, avevano vinto entrambi i gruppi: ogni ragazzino del
quartiere, nei giorni seguenti, avrebbe detto che la sua vampa era più grande
dell’altra, oppure che squagghiò pi ultima, si è spenta dopo.
La stridente differenza tra i resoconti di due vampe a quindici anni di distanza
mostra quanto Palermo sia cambiata in questo lasso di tempo. Nei due piazzali
dello Zen dove i ragazzini facevano le vampe, ora ci sono un campo di calcetto e
un piccolo parco giochi progettato da Renzo Piano. A Ballarò, facciate diroccate
che venivano lambite dalle fiamme di San Giuseppe ora sono coperte da murales
d’artista alti quindici metri, meta di passeggiate artistiche e turismo
“alternativo”. A largo Gerbasi, dove i ragazzini dell’Albergheria montavano la
vampa nello slargo della strada non ancora asfaltata davanti all’Ex Karcere
(centro sociale occupato nel 2001, oggi in via San Basilio), ora c’è una ricca
residenza universitaria.
La turistificazione, il mercato, la politica hanno profondamente modificato
alcuni spazi urbani, specialmente nel centro storico. Le voragini lasciate dallo
spopolamento del secondo dopoguerra, dalla speculazione edilizia in periferia,
dai crolli dovuti all’abbandono, sono state in parte riempite, in parte
camuffate da qualcos’altro. Il controllo istituzionale sul territorio è
aumentato, quello mafioso è meno visibile, si è trasformato. Le narrative dei
luoghi sono cambiate drasticamente – basti pensare a Ballarò.
Per molte persone che ci abitano, la trasformazione è preferibile. Giovani
adulti cresciuti facendo le vampe dicono che ormai è tutto cambiato, che negli
ultimi anni le cataste di legna si fanno troppo alte, troppo vicine alle case e
alle macchine posteggiate, che si brucia troppa plastica, che i ragazzini di
oggi sono troppo esagerati, troppo violenti, troppo scafazzati, maleducati.
Meglio non farle più le vampe, ormai sono solo degrado.
Il discorso sulla trasformazione dei quartieri è delicato. Questo articolo non è
certamente un’ode nostalgica a un’antica tradizione. Le preoccupazioni e i
desideri degli abitanti che sperano nella riqualificazione urbana del centro
sono certamente legittimi, e se il rito delle vampe dovesse in futuro
estinguersi autonomamente, non ci sarebbe niente da aggiungere. Il punto è che
sta avvenendo l’esatto contrario: il fenomeno delle vampe a Palermo continua a
crescere, sebbene stia diventando qualcosa di molto diverso dalla festa
tradizionale, con significati rituali stravolti, inediti attori e nuovi scenari
urbani e digitali, modificate percezioni da parte degli spettatori.
Le violente trasformazioni del rito raccontano gli altrettanto violenti
cambiamenti della città, la disgregazione dei quartieri, l’indebolimento della
solidarietà e dei tradizionali strumenti di coesione delle classi popolari,
l’aumento del conflitto e della rabbia sociale e l’esponenziale aumento della
repressione istituzionale.
Protagonisti di questa storia sono i ragazzini dei quartieri popolari, nati
negli anni della crisi, cresciuti nella dissoluzione del welfare pubblico e di
quello mafioso, in famiglie sempre più precarie. La maggiore presenza dello
stato nei loro territori non ha determinato per loro maggiore protezione, ma
ulteriore destabilizzazione. La famiglia, la scuola, la chiesa cattolica, i
servizi sociali, le reti clientelari, il lavoro informale… tutte le istituzioni
preposte alla cura, alla riproduzione sociale, alla produzione, stanno vivendo
un periodo di forte crisi e di conseguente perdita di autorità. D’altra parte,
questi ragazzini hanno subito negli ultimi anni nuove e pesanti forme di
controllo, rafforzate dalle restrizioni pandemiche, che hanno determinato una
crescente e attiva presenza delle forze dell’ordine in quartieri come lo Zen e
Ballarò, in cui fino a dieci anni fa la polizia in genere neanche entrava e dove
invece adesso interrompe falò con gli elicotteri.
Le vampe di San Giuseppe sono esemplificative della nuova politica dello spazio
pubblico a Palermo: espressione di forte identità culturale delle classi
popolari, pratica di gestione autonoma dello spazio pubblico attraversata da
conflitti tra le diverse componenti sociali dei quartieri, non esente da
violenza e prevaricazioni, le vampe sono continuate attraverso i decenni nella
sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine, in zone marginali della città,
nel centro storico abbandonato e nelle periferie di edilizia popolare. Oggi, la
tolleranza è finita. Le vampe sono diventate oggetto di una vera e propria
guerra, che mobilita ingenti risorse e dispiega forze di polizia, vigili del
fuoco e tribunali per cercare di scongiurare la preparazione delle cataste di
legna, per spegnere i fuochi una volta accesi, e per indagare i responsabili
dopo.
I ragazzini resistono, sentono ancora forte il valore della prova del fuoco,
della manifestazione pubblica di coraggio, per strada e su TikTok. La
repressione esaspera il conflitto, lo scontro è inevitabile e, in quanto tale,
diventa il centro del rito; i ragazzini lo cercano, lo pianificano, lo
gestiscono; la polizia ne diventa coprotagonista in negativo, pupazzo di
carnevale in carne e ossa. Una forma tradizionale di appropriazione dello spazio
pubblico attraverso il rito si trasforma in tattica di guerriglia, irrisione del
potere attraverso la provocazione fisica, sovversione violenta dei divieti. E
come ogni rito, anche le vampe riescono nell’impresa di imporre l’ordine al
mondo, di dare agli esseri umani la parvenza del controllo sulle grandi forze
che regolano l’universo intorno a loro: ogni anno, i ragazzini, da soli riescono
ad accendere i fuochi, nonostante i divieti e gli elicotteri, gli idranti e i
mezzi blindati, le telecamere e i lacrimogeni. Per un fugace momento, il buio
della sera di fine inverno viene illuminato dalle fiamme. Anche se a bruciare è
più plastica che legno. Anche se il coraggio va mostrato a volto coperto. Anche
se comporterà denunce, arresti e processi. La festa del santo compie il prodigio
di coordinare il malcontento, di dare ai ragazzi le energie per sfidare il
potere e per tenere testa alla polizia; ma il meccanismo rituale intrappola il
conflitto sociale, gli impedisce di entrare nella storia, di formularsi
politicamente. Spentosi il fuoco delle vampe, si spegne la protesta.
La persistenza delle vampe di San Giuseppe è certamente una forma di resistenza
al controllo da parte dei ragazzi di quartiere, ma l’esercizio di tale
resistenza produce effetti disgreganti. Le comunità si spaccano, il pubblico si
allontana dagli attori, ne prende le distanze. Gli adulti partecipano meno. I
ragazzini sperimentano uno spazio di totale autonomia, ma perdono la protezione
dei grandi, che si divertono a guardarli far la guerra con la polizia, ma li
lasciano soli a giocare. La festa di passaggio non celebra nessun passaggio:
saltato il fuoco delle vampe non si diventa grandi. Il rito urbano di San
Giuseppe, sempre più legato alla marginalità, turba gli spettatori, anche coloro
che ne sono stati attori qualche anno fa, quando andavano in scena copioni
rituali meno violenti. La comunità degli adulti consuma lo spettacolo dei
ragazzini ribelli, ma non vi si rispecchia, non approva. La repressione esacerba
la violenza rituale, scaricandone la responsabilità sui ragazzini. È un gioco
troppo pericoloso, troppo crudele. Come nel film I miserabili di Ladj Ly, la
violenza collettiva dei ragazzini esprime la loro estrema vulnerabilità sociale,
la perdita del controllo da parte degli adulti, la deresponsabilizzazione delle
istituzioni di riferimento, che esercitano coercizione e controllo senza
assumersi alcuna responsabilità di cura.
UN PUGNO DI VANDALI
Una città in guerra con i ragazzini è una città malata. La guerra non si svolge
solo nelle piazze dei quartieri la sera del 18 marzo, continua nei social, sui
giornali e in televisione, si nutre di narrazioni che colpevolizzano i ragazzi e
invitano all’intervento deciso delle forze dell’ordine, circoscrivendo la
questione a un problema di ordine pubblico, di volgare vandalismo. Sulle pagine
online dei quotidiani locali, i commenti sono pressoché unanimi: si tratta di
delinquenti che meritano la galera, o forse sarebbe meglio prenderli a pietrate,
come fanno loro con poliziotti e vigili del fuoco. Sono ragazzi, quasi bambini,
ma questo elemento la stampa lo menziona di passaggio. Le vampe sono un uso
barbaro, inconcepibile in una città “moderna”, che solo l’arretratezza e
l’ignoranza di un pugno di vandali mantiene viva.
La condanna delle vampe è una delle contraddizioni amare di una città che per
alimentare il mercato turistico cavalca il mito della convivenza pacifica tra
arabi e normanni, patrimonializza le tradizioni folkloriche di un secolo fa, ma
disconosce ogni forma di cultura popolare contemporanea che manifesti conflitto
sociale anche in forma indiretta, bollandola come rozza, incivile, retrograda.
Pelle meridionale, maschere europee.
Le vampe, per San Giuseppe o per altri santi in altri momenti dell’anno, sono
una tradizione millenaria che continua in molti centri siciliani senza
richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli elementi sono gli stessi:
cataste di legna in spazi urbani, fuoco, ragazzini protagonisti, comunità in
festa. L’antropologia l’ha già raccontato. I lavori di Ignazio Buttitta (Le
fiamme dei santi, Meltemi, 1999), Orietta Sorgi e Nara Bernardi (Le vampe di
Palermo, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 1985) ricostruiscono la
storia millenaria della tradizione, il senso rituale del ciclo delle stagioni
della natura, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, del cosmo e della
società che si rinnova. Eppure, dire tutto questo oggi non basta a sovvertire i
discorsi dominanti. Le narrazioni ufficiali, nei rari casi in cui viene
riconosciuta la profondità storica e la ricchezza culturale del rito delle
vampe, leggono i fenomeni violenti degli ultimi anni come perdita dei valori,
secolarizzazione del rito, pretesto per fare casino. Esemplare, in tal senso,
l’immancabile servizio di Striscia la notizia sulle vampe, raccontate come
vandalismo “in nome della tradizione, ormai trasformata in distruzione”.
L’auspicio formulato dall’inviata nel 2022 è “più controllo” per evitare
devastazioni. La cronaca degli ultimi anni l’ha smentita: aumenta il
dispiegamento di polizia ma anche la violenza degli scontri, il volume delle
inchieste e i Daspo emanati ai ragazzini nei giorni successivi.
Le narrazioni ufficiali fanno eco alle azioni istituzionali, mirate a reprimere
i comportamenti illeciti senza farsi carico della responsabilità politica della
violenza. Due anni fa, il questore Laricchia, parlando alla festa della polizia
qualche settimana dopo San Giuseppe, fece “il punto sul crimine nel capoluogo
siciliano” denunciando la connessione tra traffico mafioso di stupefacenti,
diffusione del crack tra i giovanissimi, “atti di violenza inconsulta e fine a
sé stessa” e “azioni criminali” in occasione delle vampe, “branchi selvaggi” di
adolescenti e baby gang arabe. La droga non c’entra. La violenza delle vampe
sarà anche fine a sé stessa, ma non è inconsulta. È effetto della campagna di
criminalizzazione, legata al quadro più generale della nuova politica degli
spazi pubblici a Palermo, segnata dal crescente esercizio di controllo e da una
sempre maggiore intolleranza per le forme di socialità autonoma e popolare. A
farne le spese sono principalmente i ragazzini, dipinti come vandali
irredimibili e sempre più esposti alla violenza, con sempre minori protezioni.
(eugenio giorgianni)
(disegno di -rc)
San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla
notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita
dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi
Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per
arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante
procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di
buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo
di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi.
Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo
referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La
Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi
più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario.
Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e
la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi
protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora
corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni.
Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che
istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si
voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San
Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di
fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al
resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista
della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli
investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre –
apparentemente  RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una
serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva
composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata
operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli
asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si
battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti
più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a
niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno
rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti.
E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e
strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri
cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei
Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto
edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle
squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale
che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come
di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla
frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i
prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi,
e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre
cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa.
Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni
di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80
milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza
interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla
fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto
continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni
l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i
profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di
edifici di lusso sono immensi.
Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più
inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti
per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto
trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il
dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano
e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo
persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di
edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla
soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito
all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre
(mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a
protezione della controparte.
Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si
è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della
destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente
lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico
effetto positivo da un certo punto di vista.
“La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è
stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno
chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la
volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”.
Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È
una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della
vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica –
completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di
potere e denaro.
Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il
passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del
consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la
logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E
affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione,
l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida
del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello
vagante del capitale.
La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo
è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su
qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie,
come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)
(disegno di marta fogliano)
Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali.
Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro
all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale,
visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati
con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con
ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al
termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione
dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare
la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno
affrontando.
Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una
informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e
sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel
2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando
che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più
importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non
peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto
svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario
(lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal
governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato”
l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a
carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un
paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore,
ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera
da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per
i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e
lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai
cittadini.
All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale
la pena riportare alcuni punti emblematici.
1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto
turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi
lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio
per permettere il mantenimento della colmata a mare).
2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto
dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si
faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì
«dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa
due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà
inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti
gli effetti associazioni di diritto privato).
3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta
rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la
fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe
comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una
volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una
piscina naturale.
4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità
assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due
litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la
spiaggia libera) «si dovrà aspettare».
5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani»
(e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli
sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione).
Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è
comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei
consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande
occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre
sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il
rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici
“servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per
l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo
intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre
visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta
smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un
enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri
difensori di quel piano.
È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il
risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni
di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a
discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due
porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del
bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede
di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di
Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se
quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel
2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e
Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli
doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il
governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei
suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non
può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per
impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati.
Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon
senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del
dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali
presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da
svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti.
Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che
recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di
Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare,
Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano,
lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza
quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune
stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica
ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli.
Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e
Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare
intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in
mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della
colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica.
Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno
non va a votare. (riccardo rosa)
(archivio disegni napolimonitor)
C’è una pagina del libro di Galeano, Splendori e miserie del calcio, che tutti
gli appassionati dovrebbero conoscere a memoria. Parla di quella volta in cui il
suo amico e scrittore Osvaldo Soriano gli scrisse, raccontandogli di una strana
passeggiata. Insieme a un famoso attaccante del San Lorenzo de Almagro degli
anni Sessanta, José Sanfilippo, eroe della sua infanzia, Soriano si trovò a
camminare in mezzo agli scaffali di un supermercato negli anni dell’espansione
incontrollabile dei centri commerciali, verso la metà degli anni Novanta, nel
momento forse di maggiore dominazione culturale del modello consumistico
americano nel mondo.
Tra detersivi e prodotti per i pavimenti, salsicce e formaggi, Soriano racconta
come a un certo punto Sanfilppo, mentre la gente intorno cominciava a
incuriosirsi e a osservare con la stessa attenzione dello scrittore argentino
l’ex attaccante, lo invitò a fermarsi e osservare un punto in alto. «Pensa che
proprio qui insaccai quel gran tiro di punta a Roma nella partita contro il
Boca». Mentre il calciatore indicava il punto esatto in cui si era infilato un
pallone alle spalle di Antonio Roma, portiere del Boca Juniors, in un famoso
derby vinto dal San Lorenzo nel 1962, Soriano racconta che una donna
avvicinandosi confermò: «Fu il gol più rapido della storia».
Sanfilippo descrisse nei dettagli quel gol, come era maturato e quello che aveva
suggerito di fare a un compagno: «Appena comincia la partita mandami una palla
lunga in area». Quello era rimasto un po’ spiazzato, ma aveva eseguito la
consegna. La palla arrivò proprio dove doveva. «Me la mise qui! Il pallone
arrivò spiovente un po’ dietro i centrali, scattai ma andò a finire un po’ più
in là, dove adesso c’è il riso, vedi?».
Nonostante le scarpe eleganti e lo scomodo vestito blu, Sanfilippo si mise a
correre come un coniglio in mezzo agli scaffali e poi disse a Soriano: «La
lasciai cadere e… plum!». Fece finta di esplodere il sinistro e tutti voltarono
lo sguardo seguendo quel pallone immaginario che, sorvolando lamette da barba,
batterie stilo, e superando le casse, si insaccava come la prima volta. Cassiere
e clienti celebravano intanto gridando e spellandosi le mani per quel gol, come
se lo avessero visto realizzarsi di nuovo davanti ai loro occhi.
Questo testo descrive bene il dolore che abbiamo vissuto in tanti, troppe volte,
di fronte a cambiamenti urbanistici figli della speculazione e degli interessi
economici dei grandi colossi multinazionali. Proprio nel punto dove si trovavano
Sanfilippo e Soriano c’era infatti il campo storico del Club Atlético San
Lorenzo de Almagro, il Viejo Gasometro chiuso nel 1979 e infine sostituito da
uno dei primi e più grandi supermercati Carrefour di tutta Buenos Aires.
Fu il sindaco dell’allora giunta militare, Osvaldo Cacciatore, a firmare
l’ordine di esproprio del terreno, che sarebbe stato demolito poi nel 1983 e
all’inizio degli anni Novanta, in piena epoca Menem (il Berlusconi d’Argentina),
sostituito dal centro Carrefour. Erano ormai lontani i fasti degli anni Sessanta
e i gol di Sanfilippo, l’infanzia di Soriano e il boato delle tribune gremite.
Il Viejo Gasometro contava settantacinquemila posti ed era un luogo al quale i
tifosi del San Lorenzo erano affezionatissimi. La sua demolizione creò molte
proteste, che con il tempo non si sono placate. L’insistenza della tifoseria,
che non ha mai accettato di essere stata allontanata dal quartiere di Boedo, ha
dato in questo caso i suoi frutti: nel 2012 la hinchada azul-grana è riuscita a
imporre al comune di Buenos Aires l’approvazione di una legge grazie alla quale
Carrefour è stata costretta a restituire i terreni alla società del San Lorenzo,
che ne ha recuperato la proprietà. Grazie alla pressione dei tifosi e all’amore
per il luogo dove quella passione era nata, sta nascendo oggi un progetto di
ricostruzione dell’antico impianto, parte di una vera e propria operazione di
riappropriazione storica: “la vuelta a Boedo”.
Se la ricostruzione di uno stadio al posto di un centro commerciale avviene a
Buenos Aires, perché qualcosa di simile non dovrebbe poter accadere anche da
noi, dove il numero di piccoli impianti abbandonati lasciati all’incuria e
all’abbandono − si veda il caso dello storico campo della Roma a Testaccio − si
moltiplica anno dopo anno?
L’abbandono di vecchi impianti sportivi è sempre più evidente, ma lo è anche
l’attacco a quelli ancora in uso, sui quali si rivolge lo sguardo rapace della
speculazione. Poteva finire molto male, per esempio, l’esperienza di una delle
realtà di sport popolare della città di Roma, l’Atletico San Lorenzo. Nel cuore
del quartiere resiste però ancora oggi, quasi unico nel suo genere, un
bellissimo e ambitissimo campo di pozzolana. Il pericolo del suo smantellamento
a favore di una serie di campi di padel, per fortuna, è stato scongiurato, e
l’Atletico ha potuto continuare a svolgere la sua attività sul vecchio campo.
Non corre immediati pericoli di questo genere la Borgata Gordiani, che da
qualche anno investe in un progetto di sport popolare molte energie,
fronteggiando ostacoli di vario genere ben noti a chi prova a rimettere al
centro dell’attenzione la mancanza di spazi di socialità, sportivi o di altro
tipo, e si autorganizza sulla base di principi come quelli della solidarietà e
del mutualismo, costruendo percorsi politici capaci di disertare le violente e
ingiuste regole del mercato.
La disattenzione nei confronti dei dati su questo tema stupisce: non dovrebbe
destare molta preoccupazione il fatto che, nel nostro paese, la quantità di
metri quadrati di spazio pubblico a disposizione dei minori per l’attività
fisica sia tra le più basse in Europa? Secondo una recente ricerca di OpenPolis
e Con i bambini, a fronte di una superficie totale di circa ventisei milioni di
metri quadrati, i ragazzi nel nostro paese possono usufruire di uno spazio di
dieci metri a testa. A Roma, in particolare, così come nella maggior parte delle
città medio-grandi (da Bologna a Genova, da Milano a Reggio Calabria) lo spazio
garantito è di soltanto due metri quadrati, un numero clamorosamente più
piccolo, per esempio, rispetto a quello dei sessantasei di Ferrara, tra le città
più virtuose.
Ecco, più che dannarsi l’anima per costruirne uno nuovo, di stadio, forse
l’amministrazione capitolina dovrebbe mostrare uguale determinazione nel cercare
di restituire alla cittadinanza tutti quegli spazi sportivi oggi inaccessibili,
incoraggiando la pratica spontanea senza la quale il calcio non avrà altro
futuro se non quello di mero strumento di business. A discapito peraltro, sul
lungo periodo, di tutti quei progetti che faticosamente resistono e che provano
a dimostrare come sia possibile fare diversamente. (giovanni castagno)
(disegno di peppe cerillo)
Il mese inizia con un milione di giovani pellegrini affastellati sotto il sole
di agosto a Tor Vergata per il “Giubileo dei Giovani”: il Papa descrive l’evento
come il segno che “un altro mondo è possibile”, forse riferendosi all’esistenza
del regno dei cieli (tuttora non provata dalla scienza). Due pellegrine muoiono
tornando a casa, una ad Artena, l’altra a Madrid. Intanto, il 3 agosto un
detenuto viene trovato morto nella sua cella nel carcere di ReginaCoeli. Il 5
notte un’auto prende fuoco mentre era ferma a un distributore Gpl: si teme una
nuova esplosione come quella del 4 luglio sulla Casilina. Il 6 il Comune
sgombera venticinque persone che abitavano in un centro sportivo di Mostacciano
abbandonato da dieci anni, senza alcuna alternativa abitativa: grande
soddisfazione tra fascisti e leghisti. Due incidenti mortali sulle strade: un
cinquantenne perde il controllo dello scooter al Laurentino, e un commissario di
polizia in moto sull’Aurelia. Muore a ottant’anni “er Divino”, personaggio
storico della spiaggia di Capocotta.
Il 7 i carabinieri arrestano un uomo appena arrivato a Roma da Foggia, in fuga
dopo aver ucciso una donna. Un’altra donna muore travolta da un’auto a Pomezia.
Il prefetto Giannini durante un’audizione alla Commissione antimafia rivela che
le forze dell’ordine a Roma in due anni hanno sgomberato più di seicento case
popolari, quasi sempre occupate da donne sole con figli. Nessuna parola su dove
sono andate ad abitare queste persone dopo gli sgomberi. L’8 in un’audizione in
Comune il Comitato contro lo stadio di Pietralata denuncia che l’agronomo
incaricato di stabilire il valore dell’area ha avuto un compenso di oltre
centomila euro. Il Comune finalmente pubblica i dati sugli appalti per la
costruzione dell’inceneritore di Santa Palomba, ma in un formato
incomprensibile, per Carte in Regola è “da settimana enigmistica”. La notte un
uomo armato entra in un bar di Torbellamonaca per una rapina e spara al barista
e a due avventori del Bangladesh, per fortuna non li uccide. Il 9
l’amministrazione di Santa Marinella proibisce una manifestazione per la
Palestina, dichiarando il “rischio di antisemitismo”. Il 10 incendio in un
cantiere navale di Ostia. In serata centinaia di persone partecipano al presidio
al Pantheon contro il genocidio israeliano a Gaza, contro il collaborazionismo
del governo italiano e contro le menzogne dei media mainstream.
Lunedì 11 c’è una manifestazione sotto la Rai di viale Mazzini per il continuo
supporto della rete pubblica al genocidio in Palestina. Purtroppo il palazzo è
chiuso per lavori da inizio anno. Muore a Latina la nona vittima del virus West
Nile nel Lazio, un uomo di ottantacinque anni. Il 12 sulla sede del X Municipio
a Ostia si espone una bandiera palestinese, e il 13 un’altra bandiera
palestinese sventola dal quinto piano del V Municipio (Prenestino). Il 14
all’Alessandrino un bambino di quattro anni di una famiglia bangladese viene
investito mentre era in bici: viene ricoverato in condizioni gravi. Muore una
donna in moto, in un incidente a Grottaferrata. Un alto prelato dell’Opus Dei,
padre Mariano Fazio, viene incriminato formalmente per riduzione in schiavitù e
tratta di esseri umani. Secondo l’accusa, decine di ragazze sudamericane anche
di dodici o tredici anni sono state attirate a Roma con la promessa di una vita
migliore, poi “messe a servizio gratuito” per decine di ore al giorno per i
membri della setta cristiana.
Il 15 agosto, festa cristiana dell’ascensione della Madonna in cielo, un ragazzo
egiziano di diciannove anni cerca di impiccarsi nel carcere dedicato proprio a
lei (Regina Coeli). I secondini impediscono il suicidio, ma lo ributtano in
cella. Una ragazza di ventiquattro anni muore in un frontale tra due auto sulla
Salaria fuori Roma, e un uomo di sessantasette cadendo dal terrazzo condominiale
di un palazzo vicino piazza Fiume. Il 16 c’è un nuovo incendio in un cantiere
navale, questa volta a Fiumicino, e il 17 notte esplode una bomba carta
nell’androne di un palazzo di Ostia centro. Muore a ottantanove anni Pippo
Baudo, nella sua casa di Prati: la camera ardente sarà al Teatro delle Vittorie.
Il 18, in virtù del “decreto sicurezza”, un uomo albanese di cinquant’anni viene
arrestato per aver provato ad occupare una casa dell’Inps, vuota, a Prati
Fiscali. Il giudice ne richiede l’immediata liberazione, perché il fatto non è
grave. L’appartamento, pubblico, rimane vuoto.
Continuano le processioni giubilari, con migliaia di partecipanti: il 20 a Colle
Oppio sfilano i lefebvriani della Fraternità San Pio X, ultratradizionalisti e
antisemiti, scomunicati per non aver accettato il Concilio Vaticano II, poi
riabilitati nel 2009 da Ratzinger: non partecipano all’udienza papale del giorno
successivo, né visitano la tomba di papa Francesco. Il 21 – giorno dello
sciopero globale per Gaza – un temporale si abbatte sulla città. Tuoni, lampi,
stazioni metro chiuse, alberi caduti, due musei allagati (Macro e Galleria
d’Arte Moderna). Durante la notte ad Acilia qualcuno buca le ruote di più di
cinquanta macchine.
Il 22 a Marino presidio contro lo sgombero del centro sociale Ipò. Alla
FieradiRoma, grande incontro dei testimoni di Geova, con decine di migliaia di
partecipanti: il tema è “Adorazione pura”, per “offrire una guida a chi è alla
ricerca di speranza”. Nel frattempo a Ostia un imprenditore edile sessantenne
viene ferito da un colpo di pistola, forse sparato da un suo dipendente. Il 24
mattina, sempre a Ostia, una cabina crolla sulla spiaggia affollata di bagnanti.
L’erosione del suolo quest’anno ha eliminato quasi dieci metri di spiaggia. Nel
parco di Tor Tre Teste una donna di sessant’anni viene aggredita e violentata da
uno sconosciuto. Nella notte a Nettuno qualcuno spara con una pistola ad aria
compressa contro il centro d’accoglienza che ospita ottanta migranti: due di
loro sono feriti lievemente dai pallini di piombo.
Il 26 agosto un nuovo presidio per la Palestina riunisce più di un centinaio di
persone al Pantheon. La rete “Stop Rearm Europe” ottiene la sospensione della
fiera delle armi “Defence Summit” organizzata dal Sole 24 ore per l’11 settembre
(sic!) all’Auditorium di Roma. Due persone straniere senza casa si uccidono
buttandosi sotto a un treno lo stesso giorno: uno la mattina a Stazione
Trastevere, uno la sera a Ladispoli. Arrestato un muratore gambiano per lo
stupro a Tor Tre Teste. Il 28 altri due morti sulle strade: uno la mattina in un
incidente di moto sull’Aurelia verso Santa Severa, un altro la sera – un
diciottenne – alla Romanina. Scoppiano intanto due grossi incendi, uno a Tor di
Valle, vicino all’autostrada Roma-Fiumicino, e uno nella pineta di Ostia. Sempre
il 28, giornata di digiuno dei sanitari per Gaza.
Il mese si chiude con: un signore eritreo che si cambia il costume sulla
spiaggia coprendosi con un asciugamani, e i giornali lo trasformano in “uomo si
spoglia nudo in spiaggia”; e con l’ordine di sfratto definitivo per lo storico
Caffè Greco in via dei Condotti, attivo da duecentocinquanta anni e protetto da
vincolo. La proprietà del locale è dell’Ospedale Israelitico, che ha ordinato ai
gestori di andarsene. (stefano portelli)
(copertina di cyop&kaf)
Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città 
La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a
Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo
nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola.
Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli
studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della
lezione apportando ognuno le proprie competenze.
«Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere
di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a
partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza.
Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu
molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli
abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì
questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del
collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo
rivendicarli.
«L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti,
con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da
realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo
dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di
prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per
poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e
i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta.
Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti
avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i
compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i
presenti e le presenti, senza delega.
«Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di
far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come
prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e
dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere
interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di
termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di
lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando
poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche
culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano
assodati, non venivano capiti dagli abitanti.
«Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse
tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta,
decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la
possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte,
con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera.
Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli,
occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare
quello che emergeva.
«Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al
Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea,
faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi
allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che
caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice
ma al tempo stesso meno ricco.
«Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per
distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far
capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un
coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel
percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un
po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo…
«Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella
struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e
si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e
musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un
elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti
rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa
volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre
la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la
difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove
persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha
caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo.
«Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita
comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era
entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere
contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso
l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare
reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti
è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche
interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose.
«Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da
una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per
esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi,
capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di
sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti,
ricattabili sotto molti punti di vista.
«In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad
abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare
il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle
teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le
storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano
momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per
aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello
sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli
abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo,
non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine
delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova
colonizzazione.
«Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi
continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno
sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di
lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche
interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita
dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era
sempre quella di spostarsi tra le tematiche.
«Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a
reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in
parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di
riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono.
Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono
sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de
Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri
africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni
molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano
nell’altra per momenti di festa condivisi.
«Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno
all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti
singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era
una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli
abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia
felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età
che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini,
mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo.
«Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si
immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che
proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi
dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi
Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e
la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende
personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi.
«Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno
dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà
era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il
collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole
persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di
persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con
espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno
messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza
tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma
probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali…
«Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci
Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che
insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio,
che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più
politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto
che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata
avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati
episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il
collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova
struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli
abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione.
«Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore
autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli
appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per
l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere
entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario
e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine…
Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini
che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni
vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi
migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di
accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni,
uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a
situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad
altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si
vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti
di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi
doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me,
c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva
politica.
«Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di
rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no,
all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello
che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a
misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è
riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi
assembleari condivisi.
«Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte
del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è
spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere
parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere
questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che
porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo.
«A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del
quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti
collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze
linguistiche.
«In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata
riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo
un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in
contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto,
Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio
lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella
richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più
attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli
abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro
“scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato
tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e
isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera.
«In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee
erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di
preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti
insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è
uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di
decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano.
«Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva
di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze
che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore
passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”…
Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze
linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica
quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a
contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di
difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un
fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro…
«In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si
erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal
vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la
passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro
lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la
chiacchieravano in italiano.
«Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e
giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un
paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a
fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si
chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale,
quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di
negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di
rappresentarlo davanti agli altri.
«La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo
di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il
verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque
l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo
faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso
didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche
dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è
necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche
per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non
c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un
po’ tutti i presenti.
«Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia.
«Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al
Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto
ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali
sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare
avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho
sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so,
lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto
le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però
da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che
vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però
questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)
(disegno di ericailcane)
Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città
Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri
accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento
eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori,
le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei
solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della
Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di
Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione,
abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche,
pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere:
nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di
supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da
una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro
interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di
quale tipo.
Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione
urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication”
migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni
peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari,
l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi
per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in
categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che
questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare
dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia
per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso
degli eventi appare lineare e inesorabile.
Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono
meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che
possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate.
Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde
della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città
diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni:
l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione
commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro
simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore.
Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada
verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno
spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori
scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di
ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla
Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei
milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student
Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un
investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida:
camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili.
E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza,
inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è
la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di
capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza
pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni
di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o
inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro
in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di
riflessione e di organizzazione delle lotte in città.
La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai
minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il
fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari
di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in
alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul
ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono
dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste
occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private
dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci
ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani
pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal
comune e dalla questura.
L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei
patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune
attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni
comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo
spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole
opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti
appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è
manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e
informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada
accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo
pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi,
allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al
fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di
forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività
commerciali accanto alla Dora.
La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero
l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le
associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e
operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite,
un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli
eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le
varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione
sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende
il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria,
associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali
commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti
di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un
espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di
editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli
teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto
un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per
allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo
virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e
l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e
multiculturali.
Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da
violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali,
eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle
speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della
Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di
criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la
proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto
inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono
ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni.
Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni,
tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono
spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso
volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata
simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle
rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti.
Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in
un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti
europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi
confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi
appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di
rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i
gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti.
Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o
processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione:
nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono
legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione
tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come
gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa
ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo
esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e
frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la
città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori,
istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare
ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono
insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero
inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia.
Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o
espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le
categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo
schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono
nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati
in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare
scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un
nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza,
diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi
che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria
è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento,
cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le
tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure,
per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso
di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la
stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In
questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima
persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da
tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e
sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive
divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse
tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento
degli strumenti critici. (francesco migliaccio)