(foto di enzo morreale)
Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar
a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est.
Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri
di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici.
Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa,
evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container
accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine
del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla
spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno.
Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i
termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora
romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una
macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro
che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta,
costante e fuori dai riflettori.
Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in
città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che
depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga
foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza
un elicottero della polizia.
Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone
di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici
chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San
Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento
dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da
crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più
oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena
Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo
già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel
2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina
lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova
generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare
il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila
movimentati presso il nuovo terminal.
Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti
industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo
un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata
con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito
della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si
legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi,
ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata
eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’
(SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o
sottoutilizzati”.
La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il
Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero
indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e
depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè
il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una
parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per
motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.
Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la
concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il
progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa
217 milioni di euro per l’allestimento operativo.
Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel
progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti
i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni.
Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile
immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al
momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite
i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck
Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi
Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore
maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017:
“Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della
morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi
tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali
cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per
non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare
allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione
pubblica.
In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li
ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o
rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei
container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche
se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il
tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di
container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto
dell’industria.
Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da
privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce
in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di
merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali.
La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo
un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento
dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare
l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori
aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo.
Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a
fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non
trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait
Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie
all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti,
l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale
di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il
comitato si batte ancora oggi.
La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il
tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina
così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli
idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati
che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a
ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena
Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne
parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il
Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo
spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire
allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città,
fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non
balneabile.
San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute
intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta
incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive,
nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina
Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di
salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza
di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono
susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di
ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo
scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di
inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa
non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da
affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di
chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni
batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il
litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose
rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi
ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita
grippiolo)
Tag - città
(disegno di Adriana Marineo)
Queste cartografie aggregano voci enciclopediche per un archivio del terzo
settore e dell’innovazione sociale. Nei contributi prevale un tono espositivo a
cui si alternano spunti critici. L’ordine e i tempi delle uscite dipendono dalle
energie a disposizione, dal tenore delle nostre ricerche, da eventi puntuali che
notiamo in quartiere. Da tempo riflettiamo sul Sermig e sulla sua storia, ma non
a caso proponiamo ora una voce specifica. Qualche giorno fa una straccivendola
lungo la Dora è finita in questura a causa di una segnalazione alla polizia
effettuata da un membro del Sermig. La donna aveva disposto i suoi oggetti in
vendita accanto all’ingresso della struttura e questo, evidentemente, dava
fastidio. È importante chiedersi perché un ente umanitario e filantropico non
esiti a rivolgersi alla polizia e denunciare persone che potrebbero pagare un
caro prezzo nel terribile sistema delle espulsioni di questo stato. Bene, non
v’è nulla di cui stupirsi. Il Sermig è coinvolto da anni nel governo d’un
quartiere da cui reietti e indisciplinati sono espulsi.
* * *
Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) fu fondato a Torino nel 1964 su
iniziativa del bancario Ernesto Olivero insieme ad alcuni giovani cattolici:
intendeva operare come gruppo missionario nel mondo. Presto il Sermig iniziò a
occuparsi anche della povertà presente a Torino e dal gruppo originario nacque
la Fraternità della Speranza, “una comunità di persone libere, unite dal
Vangelo, che sceglie consapevolmente di mantenersi laica”. Dal 1983 la sede
principale del Sermig è l’ex arsenale militare della città, in piazza Borgo
Dora, ribattezzato Arsenale della Pace. La struttura è stata assegnata al Sermig
in comodato dal Comune e trasformata in “casa di accoglienza per i poveri”.
L’Arsenale di Borgo Dora offre oggi, fra gli altri servizi, un dormitorio
maschile e una casa di accoglienza femminile, distribuzione di cibo e vestiti,
visite mediche gratuite. L’orientamento imprenditoriale e il contributo dei
volontari hanno permesso la ristrutturazione complessiva di un’area di 45.000
metri quadri: una cittadella della benevolenza nel quartiere della Dora.
Successivamente, la Fraternità ha aperto a São Paulo in Brasile (1996) e in
Giordania (2003) ulteriori strutture: i “progetti di sviluppo nel mondo” sono
descritti come l’anima del Sermig, che vanta anche “missioni di pace” in molti
paesi.
Il principio cardine del Sermig, si legge nei loro documenti, è la
“restituzione”: “trasformare beni, competenze, tempo, professionalità in
opportunità per gli ultimi, per chi vive ai margini, per chi ha perso tutto”.
Questo accade grazie al “contributo gratuito” dei volontari, che tengono in
piedi l’impero di attività, progetti e servizi. Essi offrono la loro
collaborazione senza chiedere rimborsi e pagandosi le spese. Accanto a questo
“capitale umano”, la capacità finanziaria del Sermig si fonda principalmente
sulle donazioni di persone fisiche, enti o aziende, ma anche sulla
partecipazione a bandi o sulle richieste di contributi a enti pubblici o
privati, come le fondazioni bancarie. Inoltre, il Sermig attua una politica che
definisce “di autofinanziamento” fornendo servizi o vendendo prodotti. Per poter
agire nel mondo la Fraternità della Speranza ha scelto di costituirsi in
“emanazioni” che possono prendere la forma di ONLUS, associazioni del terzo
settore, scuole ed enti di formazione, associazioni sportive e dilettantistiche,
fondazioni. Tra queste figura l’Associazione Centro Come Noi S. Pertini che ha
ricevuto, tra gli altri, finanziamenti dal bando Tonite.
Le visite al Sermig di Mattarella, in veste di presidente della Repubblica, sono
state numerose. Il presidente è venuto qui nel dicembre del 2019, poco dopo la
cacciata dal quartiere di centinaia di straccivendoli, poi nel novembre del 2021
e nel luglio del 2024. L’ultima visita è avvenuta il 16 maggio di quest’anno:
per un giorno intero la strada è stata chiusa al traffico, decine di agenti
hanno presidiato l’ingresso e un graffito sulla facciata (“Palestina liberaci”)
è stato rimosso con una mano di bianco. Nell’aprile del 2022 il presidente del
Consiglio Mario Draghi ha visitato Torino e ha negoziato l’entità degli aiuti
finanziari dello stato per contenere il debito della città. Dopo gli impegni
istituzionali Draghi ha visitato due luoghi soltanto: il Sermig di Olivero e il
centro direzionale Lavazza. Il Sermig appare come una struttura assistenziale
dotata di notevole potere, apprezzata da istituzioni governative di vertice.
Per descrivere il ruolo del Sermig nel quartiere è opportuno ricostruire il suo
rapporto con straccivendoli e venditori poveri che, da decenni, si ritrovano il
sabato nelle strade di Borgo Dora. Sin da inizio secolo gli straccivendoli
disponevano le loro stuoie nel canale Molassi, una stretta via che separa la
struttura principale dell’Arsenale da un complesso di laboratori artigianali
gestito dal Sermig. Nell’aprile del 2018 il Sermig ha firmato una lettera
assieme a un comitato di quartiere e altre associazioni di commercianti per
affermare “la necessità e l’urgenza dello spostamento” del mercato dei poveri,
definito come un “fenomeno esplosivo incontrollato e incontrollabile che da
sempre funziona da catalizzatore di criticità devastanti”. Nel novembre
dell’anno successivo, il mercato degli straccivendoli viene sgomberato con la
violenza dalle forze dell’ordine.
Nonostante la repressione e l’esilio dei cenciaioli – relegati in un’area
lontana, vicina al cimitero monumentale – nel quartiere è nato negli ultimi anni
un nuovo, piccolo mercato informale dove alcuni venditori espongono oggetti
raccattati nei bidoni, recuperati da solai e cantine. Gli straccivendoli si
riuniscono la mattina vicino al ponte Carpanini, proprio davanti all’Arsenale
del Sermig. Durante questa primavera la polizia municipale ha organizzato ronde
e presidi sin dall’alba per impedire ai venditori di esporre la loro merce.
Soltanto quando i vigili smettono di piantonare il marciapiede s’organizza un
mercato di vestiti e oggetti ritrovati. Gli agenti spesso hanno un’aria
arrogante, in altri casi appaiono a disagio per il compito assegnato. Alcuni di
loro affermano di dover eseguire gli ordini: è il comando, dicono, che li manda
su richiesta del Sermig e dell’associazione che gestisce il mercato degli
antiquari in via Borgo Dora.
Il Sermig si è rivelato negli anni un soggetto attivo nella repressione e
nell’allontanamento dei cenciaioli più poveri. Persone senza casa, marginali,
soggetti fragili sono graditi solo se possono essere parte del meccanismo di
accoglienza della struttura: essi sono il carburante di un’industria della
benevolenza caritatevole. Se i dannati della terra, tuttavia, sopravvivono ai
confini del Sermig in autonomia, attraverso la vendita informale degli oggetti
ritrovati, e senza adeguarsi ai progetti predisposti per loro, allora diventano
un problema di ordine pubblico. I vertici dell’ente non hanno scrupoli a
chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sebbene siano consapevoli delle
conseguenze tragiche che possono sortire da un controllo dei documenti. La
storia del Sermig suggerisce così una riflessione sul ruolo del privato sociale
nel governo della città: il terzo settore in questo caso non è soltanto
complementare alle istituzioni repressive, ma può collaborare direttamente con
esse per portare ordine e disciplina nel quartiere. (voce a cura di francesco
migliaccio e stefania spinelli)
(disegno di diego miedo)
L’insufficienza delle risposte istituzionali è stata una costante durante questi
ottanta giorni di crisi bradisismica, crisi iniziata con la scossa del 13 marzo
ma che a livelli diversi di intensità dura da oltre tre anni. In questi anni il
comune di Napoli non si è preoccupato di programmare un intervento emergenziale
capace di mitigare gli effetti di quello che era ampiamente prevedibile potesse
accadere: una scossa superiore ai quattro gradi di magnitudo e con un epicentro
localizzato a Bagnoli più che a Pozzuoli. Quando questo è successo i danni sugli
edifici sono stati rilevanti così come la risposta all’emergenza inconsistente.
L’ex base Nato è stata aperta e dotata di un tendone per la prima accoglienza
solo dopo e grazie alle proteste degli abitanti. Il tendone non è stato mai, in
ogni caso, dotato di letti e materassini, così che le persone, a cominciare
dagli anziani, i bambini e i disabili hanno dovuto dormire sulle sedie o per
terra. Letti sono stati invece allestiti all’interno della municipalità, a poche
centinaia di metri dall’epicentro della scossa, e nel pieno dell’abitato.
Fin dall’inizio, a chi ha perso la casa è stato proposto di alloggiare in
strutture alberghiere, grazie a un accordo con Federalberghi. Queste strutture
si trovano in comuni limitrofi dalla parte opposta della città rispetto all’area
flegrea. Persone che la mattina dovevano attraversare tutta Napoli in macchina
per portare i bambini nelle diverse scuole della zona ovest, e poi raggiungere
il proprio posto di lavoro, magari spostandosi di nuovo verso il centro città,
hanno dovuto rinunciare alla sistemazione assegnatagli, perché tra traffico e
lontananza avrebbero dovuto uscire tutte le mattine di casa non oltre le sei.
Gli altri sono stati per tutto il tempo, e in molti casi ancora sono, a Casoria
o Casavatore, con la valigia aperta sulla sedia e i pasti a orari obbligati e
cadenzati.
Il Comune si è fatto vanto di aver sbloccato il Cas (Contributo autonomo di
sistemazione), un sostegno economico per dare possibilità a chi non poteva o
voleva stare negli alberghi di trovare un’altra casa. La cifra del Cas è
clamorosamente insufficiente a trovare una sistemazione oggi a Napoli, tanto più
con l’arrivo dell’estate e la mancata disponibilità dei proprietari di casa a
sottoscrivere contratti di affitto senza nemmeno sapere fino a quando. Nulla è
stato fatto dalle istituzioni locali e dalle autorità giudiziarie per impedire
la speculazione che vede arrivare gli affitti a Licola, Giugliano, Lago Patria a
costi paragonabili a quelli del centro storico di Napoli o del Vomero.
I rappresentanti del Comune che si stanno occupando della questione (su tutti
gli assessori Laura Lieto e Luca Trapanese) hanno detto che non intendono
prorogare ulteriormente la permanenza degli sfollati nelle strutture
alberghiere, che dovranno essere svuotate il 16 giugno. In particolare,
l’assessore Lieto ha chiesto pazienza, sostenendo di aver risolto un problema
simile ma con numeri più grandi, come quello delle Vele di Scampia. La verità è
che l’assessore Lieto a Scampia non ha risolto un bel niente: il comune ha messo
in mano ai circa cinquecento nuclei familiari sfollati i soldi del Cas, ma nel
quartiere e nelle zone limitrofe nessuno è stato disposto ad affittare una casa
ai profughi delle Vele. In molti sono andati a finire a Giugliano, Castel
Volturno e ancora oltre, a trenta o quaranta chilometri dai luoghi dove hanno
abitato tutta la vita; i loro figli sono stati costretti a lasciare le scuole di
Scampia da un giorno all’altro; in tanti, dopo mesi di ricerca vana, sono ancora
“appoggiati” a casa dei parenti; su questa situazione gli amministratori hanno
semplicemente voltato la testa dall’altra parte.
Nel caso di Bagnoli, tra le domande di Cas inoltrate nei primi due mesi di
crisi, soltanto un terzo è stata evasa dal Comune. Nel novero di quelle inevase
ci sono anche quelle di diversi inquilini degli alberghi, che si troveranno tra
poco più di dieci giorni a non avere né un tetto sulla testa né il sostegno
economico istituzionale finalizzato a procurarselo. La rivendicazione
dell’Assemblea popolare di Bagnoli (che di recente si è “federata” in un
coordinamento che mette insieme i comitati da tutti i Campi Flegrei) è in ogni
caso chiara: ogni proroga è una sconfitta! Basta alberghi, basta Cas, basta
elemosina! Bisogna far tirare fuori al governo, con effetto immediato, i soldi
per la messa in sicurezza, perché ognuno possa rientrare nella propria casa e
restarci.
Altra grave responsabilità dell’amministrazione comunale è infatti quella di
aver lavorato soltanto – quando era ormai troppo tardi – sull’emergenza. A
dispetto degli ottimi rapporti con il governo (si veda la gestione della
rigenerazione urbana dell’area ex Italsider e la candidatura della città a sede
della Coppa America di vela), sindaco e assessori non hanno rilasciato una sola
dichiarazione ufficiale contro il ridicolo decreto governativo che mette sul
tavolo pochi spiccioli finalizzati a effettuare interventi solo sugli edifici
sgomberati, mentre la popolazione chiede un investimento massiccio per
l’adeguamento sismico dell’intero abitato, unica iniziativa che permetterebbe
alla gente di Bagnoli, ormai stremata dalle scosse e dall’inerzia istituzionale,
di continuare a vivere nel proprio territorio. Dalle istituzioni – dal comune
alla Protezione civile – si chiede ai cittadini di “convivere con il terremoto”,
ma non si agisce così come si fa in luoghi ben più sismici dei Campi Flegrei,
dal Cile al Giappone, per far si che questa convivenza possa essere accettabile.
Ormai è evidente, anche tra la popolazione, l’obiettivo di svuotare il quartiere
e prepararlo alla speculazione all’orizzonte con Coppa America e rigenerazione
urbana del Sito di interesse nazionale.
Va segnalato infine il paradossale caso dei cinque nuclei familiari che sono
stati alloggiati dal comune nel centro giovanile di Marechiaro. Si tratta di
nuclei con fragilità sociale ed economica, e con bambini anche molto piccoli.
Queste famiglie sono state allontanate dal centro il 27 maggio, ma non è stata
proposta loro alcuna alternativa. Tre su cinque non hanno neppure ricevuto il
Cas e sono ora costrette a risolversi il problema da sole. L’assessore Trapanese
ha liquidato la vicenda colpevolizzando gli sfollati, dicendo che “le domande
presentano delle incoerenze e non è possibile soddisfarle”. In una nota
trasmissione radio, si è espresso poi sulla gravissima situazione di una ragazza
madre con due bambine disabili, annunciando che non ha alcuna intenzione di
farla rientrare nel suo piccolo appartamento (di proprietà comunale) in quanto
“occupante abusiva”: «Con i soldi che le daremo avrà la possibilità di trovare
casa, magari non a Bagnoli. Si deve mettere un po’ a cercarla, c’è bisogno del
contributo pratico di cercarsi una casa, come hanno fatto quelli di Scampia. […]
Una situazione faticosissima che siamo riusciti a risolvere». Questa donna, così
come gli sfollati del centro di Marechiaro, è stata ripetutamente minacciata
dagli operatori dei servizi sociali rispetto al fatto che “se la situazione non
si risolve vi toglieranno l’affido dei figli”. (riccardo rosa / luca rossomando)
(disegno di giancarlo savino)
Del rione Sanità in questi ultimi anni si è spesso parlato a proposito del
processo di rinascita dal basso guidato dal fitto tessuto di associazioni,
cooperative e comunità parrocchiali che operano nel quartiere. Nonostante gli
importanti segnali, il quartiere continua a essere attraversato da enormi
contraddizioni. Lo testimoniano gli episodi di violenza che lo hanno segnato,
anche in tempi recenti, e di cui si hanno continue avvisaglie. La fragilità
sociale del quartiere è stata aggravata, negli ultimi quindici anni, dalla
perdita di servizi fondamentali alla popolazione, come servizi sanitari
(l’ospedale San Gennaro ridotto a presidio sanitario) e istituti scolastici,
nonché dalle difficoltà sempre più insormontabili che incontra la popolazione –
in particolare i giovani che giustamente aspirano a una vita indipendente – nel
reperire alloggi a prezzi accessibili a causa della crisi abitativa generata
dalla proliferazione incontrollata di case vacanza e bnb anche in questo
quartiere. Soltanto grazie alle tenaci mobilitazioni di realtà civiche come la
Rete Educativa Sanità e il Comitato per l’Ospedale San Gennaro gli effetti dei
tagli alla spesa pubblica sui servizi sanitari e scolastici nel quartiere sono
stati arginati almeno in parte, mentre la questione dell’accessibilità degli
alloggi rimane ancora del tutto aperta.
Ai piccoli passi in avanti ottenuti grazie alle mobilitazioni si accompagnano,
tuttavia, persistenti segni di totale abbandono istituzionale. L’accesso al
verde pubblico rimane negato agli abitanti del rione Sanità. Ciò è tanto più
sorprendente in un tempo come il nostro segnato dal surriscaldamento globale,
dunque dall’aumento delle temperature che grava in modo particolare sulle aree
urbane più densamente popolate. Nelle città delle regioni più disparate del
pianeta, le amministrazioni locali si sforzano di investire risorse crescenti
nella cura e nell’ampliamento delle aree verdi, nella consapevolezza che la
fruizione del verde sia decisiva per la salute fisica e mentale della
popolazione e in particolare delle categorie più vulnerabili, come appunto i
giovani, i bambini, ma anche gli anziani e le persone con disabilità. Ebbene, a
dispetto di tutto ciò, un quartiere come il rione Sanità è da anni privato
dell’unico vero spazio di verde pubblico presente al suo interno: il parco San
Gennaro.
Dopo l’inaugurazione nel 2008, il parco ha vissuto fasi alterne di aperture e
chiusure, ma ormai da qualche anno la sua fruizione è negata al quartiere. Lo
scorso anno sono stati stanziati dal Comune finanziamenti per seicentomila euro
destinati al suo recupero. I lavori di riqualificazione avrebbero dovuto
avviarsi già alla fine dell’estate scorsa, ma tutto è ancora fermo, mentre le
istituzioni non danno informazioni certe né sull’andamento dei lavori né sui
tempi di riapertura del parco. Domani, venerdì 30 maggio, alle ore 10, il
comitato civico che fin dall’istituzione del parco si batte per la sua apertura
stabile ha chiamato il quartiere a una nuova mobilitazione per il diritto alla
fruizione del verde pubblico. Già diverse scuole hanno aderito all’appello e si
attende anche il contributo di realtà associative del quartiere. Non può esserci
una rinascita del rione Sanità senza spazi adeguati di verde pubblico a libera e
permanente disposizione dei giovani e di tutti i residenti. (ugo rossi)
Fotogalleria di Gaia Del Piano
Dopo vent’anni di patetici fallimenti un sindaco di Napoli riesce finalmente a
portare a Bagnoli la Coppa America di vela, inaugurando una stagione di
speculazioni che, in via di esaurimento lo spazio su terra, si apprestano ad
assalire il mare e la costa. Gaetano Manfredi agisce ancora una volta più come
un commissario straordinario dai pieni poteri che come un sindaco, nel senso che
della candidatura napoletana nessuno ha saputo niente fino al momento
dell’ufficialità, così che gli abitanti del quartiere dovranno infilare la
supposta senza poter proferire parola.
Per questo motivo stamattina cinquanta persone si sono presentate fuori al
Castel dell’Ovo, dove si svolgeva la conferenza stampa di presentazione della
kermesse, sottolineando che questo presunto successo viene proclamato con grande
soddisfazione nel momento meno opportuno: durante la crisi bradisismica più
violenta degli ultimi quarant’anni, che ha colpito come forse non mai il
quartiere in termini di danni all’abitato e traumi alla popolazione.
Più che alle regate, e all’ennesimo mega-evento che non serve a niente e a
nessuno, il Comune farebbe meglio a pensare agli appartenenti alla sua comunità.
Agli sfollati, per esempio, che ha tenuto per due mesi in alberghi dall’altra
parte della città, e che dopodomani caccerà senza avergli proposto una soluzione
alternativa; ai due terzi tra questi che hanno richiesto il sostegno all’affitto
e non l’hanno ancora ricevuto, la maggior parte per colpa di risolvibili
questioni burocratiche; ai cinque nuclei familiari dove abbondano i soggetti
fragili, che sono stati dislocati in una struttura comunale e che da ieri sono
tecnicamente “abusivi”, avendo ricevuto un sollecito di allontanamento
volontario; a tutta la popolazione che sta rischiando di dover lasciare il
quartiere, perché il governo – senza che da Palazzo San Giacomo si batta ciglio
– ha stanziato risorse che non bastano nemmeno a intervenire sulla messa in
sicurezza delle case, figuriamoci sul miglioramento sismico di tutti gli
edifici, una condizione necessaria, come avviene in tante parti del mondo, per
poter convivere con le scosse e perché Bagnoli non si svuoti.
La priorità dell’amministrazione sono invece i milioni della Coppa America,
milioni che finiranno nelle tasche dei soliti noti grossi imprenditori, senza
lasciare nulla sul territorio. Anzi, questa coppa qualcosa lascia: la colmata.
Solo oggi si spiega, dopo che è stata comunicata l’intenzione di alloggiare il
villaggio per gli atleti sulla gigantesca colmata a mare, la fretta con cui il
sindaco Manfredi e la premier Meloni hanno agito per cambiare numerose leggi e
formalizzare la permanenza della struttura. Quando si diffuse la notizia,
previdentemente scrivemmo: va bene, volete lasciare la colmata perché è troppo
complicato e costosa toglierla? Non è vero, ma facciamo finta che lo sia. Il
sindaco allora ci dia garanzie che quella colmata verrà utilizzata
esclusivamente per una discesa a mare libera, pubblica e gratuita, e non per
altro. Quelle garanzie non sono arrivate, e anzi dopo qualche mese è arrivata la
notizia che la Coppa America sarà il primo esperimento per renderla una piazza
per grandi eventi privati.
La critica alla Coppa America a Bagnoli va ben oltre la critica ai grandi
eventi, al loro battage pubblicitario e alla presunta utilità economica. A
queste baggianate non crede più nessuno, tanto è vero che parlando con i
bagnolesi (i cittadini “normali”, non gli attivisti o i militanti) di
bradisismo, di emergenza casa, di svuotamento del quartiere, sono loro i primi a
chiosare con un indignato: “…invece ‘e sorde p‘a Coppa America ‘e trovano!”. La
gravità di questa iniziativa sta soprattutto nell’avviare una stagione di
speculazioni a Bagnoli, che vanificheranno uno dei più grandi risultati ottenuti
in trent’anni di lotta: la spiaggia per tutti a risarcimento di cento anni di
inquinamento, malattie e morti. Mai come questa volta, i responsabili di questa
porcata hanno un nome preciso. (riccardo rosa)
(archivio disegni napolimonitor)
Ho conosciuto S. in un pomeriggio di novembre a un evento in un centro sportivo
della provincia casertana in occasione della presentazione di un progetto per
l’autonomia di persone disabili.
S. è una bambina, con fattezze già di adolescente, con disturbi dello spettro
autistico. In quel pomeriggio, circondata da tanti ragazzi e ragazze, era in
compagnia della mamma, che scoprii successivamente di una determinazione ed
energia ineguagliabili, e di un’altra mamma, con il proprio figliolo disabile,
che si rivelò molto legata alla famiglia di S. per le comuni battaglie che le
avevano viste impegnate per il futuro dei piccoli. A quell’evento era
intervenuta anche il ministro della disabilità Alessandra Locatelli, spegnendo
con un nulla di fatto le speranze riposte dalla mamma di S. per un impegno
concreto nel risolvere la situazione di tanti ragazzi disabili privati
dell’assistenza scolastica con personale specializzato.
Salutai S. e la mamma, che la portava verso l’uscita della manifestazione dove
le aspettava il padre e conservai a lungo la sensazione di una fatica quotidiana
sperimentata dai genitori di un soggetto autistico che non ha pause e chiama a
una responsabilità poderosa, senza sconti. L’organizzazione carente delle
politiche sociali nella città di Caserta ha garantito un’assistenza scolastica a
S. e agli studenti come lei ad anno scolastico inoltrato, nel mese di febbraio.
Le motivazioni addotte sono state il ritardo dei bandi per il conferimento del
servizio a cooperative di operatori qualificati. Come ha stabilito una recente
sentenza del Tar, le esigenze di bilancio non possono però considerarsi
prevalenti rispetto al diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica
degli studenti con disabilità: l’eventuale diminuzione delle ore di assistenza
determina il risarcimento del danno.
La figura dell’assistente alla comunicazione è importante per agevolare la
frequenza e la permanenza dello studente, facilitarne la partecipazione alle
attività didattiche in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali.
Nel 2024 i genitori di S., come quelli di tanti altri alunni disabili
dell’Ambito Sociale C01 di cui Caserta è l’ente capofila (gli altri comuni sono
San Nicola La Strada, Casagiove e Castel Morrone), non hanno potuto che
aspettare il ripristino del servizio, senza ricevere riscontri
dall’amministrazione. Nel 2025 si assiste a una replica. Gli operatori delle
cooperative non vengono pagati. Di proroga in proroga il servizio, iniziato a
dicembre 2024, subisce due interruzioni per più di quindici giorni, una a
gennaio e una a fine febbraio. Dal 14 marzo riprende con una proroga di venti
giorni. Vincenzo Mataluna, direttore dell’Azienda speciale consortile, la cui
creazione fu a suo tempo annunciata con grande clamore mediatico, dichiara che
si sta provvedendo alla transizione delle risorse economiche dal Comune alla
nuova azienda, che gestisce i servizi alla persona nell’ambito delle politiche
sociali. “In realtà, l’Azienda non è operativa sul piano finanziario – dice
Mataluna – e fino al 30 giugno è il Comune a svolgere la gestione dei servizi”.
Il bando per assegnare il servizio non viene espletato e lunedì 7 aprile si
registra un’altra interruzione. L’11 aprile, al termine di un presidio, la
segreteria provinciale della Confederazione sindacati autonomi federati italiani
incontra i funzionari competenti sulla questione, in presenza di una delegazione
dei genitori. I funzionari mostrano una nuova determina con una proroga di dieci
giorni del servizio. Questa proroga, però, non sarà accolta dalla cooperativa a
causa di un numero già esorbitante di contratti temporanei che andrebbero
convertiti a tempo indeterminato. Allo stesso tempo l’incontro fortuito dei
familiari dei disabili, fuori al Comune, con l’assessore alle politiche sociali
e vicesindaco rivela l’inerzia e l’inefficienza della macchina amministrativa.
I genitori di S. ricorrono così a Osservatorio 182, un’associazione nata su
iniziativa di diverse associazioni di familiari attive a livello nazionale con
l’obiettivo di fornire assistenza legale a costo zero sui temi dell’inclusione
scolastica degli alunni con disabilità. Con l’assistenza degli avvocati di
Osservatorio 182 i genitori di S. ottengono un’ultima ordinanza del Tribunale
amministrativo regionale che ordina al comune di Caserta “di provvedere al
ripristino del servizio di assistenza specialistica, in favore della minore nel
più breve tempo possibile”.
Il 18 aprile, alla fine, il colpo di scena: il consiglio dei ministri “in
considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità
organizzata che compromettono il buon andamento dell’azione amministrativa”
delibera “lo scioglimento del consiglio comunale di Caserta e l’affidamento
della gestione, per diciotto mesi, a una commissione straordinaria”.
La decisione segue a un’indagine sui rapporti tra esponenti della giunta e
dirigenti del Comune accusati di aver concorso ad affidare appalti comunali in
cambio di favori, soldi e voti a imprenditori ritenuti vicini al clan Belforte
di Marcianise. La commissione straordinaria che dovrà gestire il Comune nei
prossimi mesi non sarà decisiva nel risolvere i problemi nell’ambito delle
politiche sociali, che si sommano a tanti altri che hanno decretato la prematura
fine del governo cittadino. Se è vero che il corrente anno scolastico volge alla
fine, si è rivelato fondamentale allora chiedere il risarcimento del danno
all’ente e così provare a scoraggiare il ripetersi di una insufficiente gestione
del servizio anche nel prossimo anno. Di recente, infatti, il Tar della Campania
ha condannato il comune di Caserta al risarcimento di un danno subito da D., un
bambino con disabilità, per la mancata assistenza prevista dal Piano educativo
individualizzato. Il ricorso era stato presentato dagli avvocati di Osservatorio
182 in collaborazione con l’associazione Vorrei prendere il treno, entrambe
attive in tutta Italia per la tutela dei diritti degli studenti con disabilità.
Il Comune è stato quindi condannato a risarcire l’alunno con mille euro per ogni
mese in cui l’assistenza è stata assente e con quattrocento euro per ogni mese
in cui è stata erogata solo parzialmente. Una sentenza che riafferma un
principio essenziale: il diritto all’inclusione scolastica non può essere
ignorato, ritardato o ridotto. Ora la mamma di S. aspetta con fiducia la
sentenza del Tar anche per il suo analogo ricorso. (mena moretta)
(disegno di adriana marineo)
Sulle serrande chiuse davanti al giardino Maria Teresa di Calcutta, in corso
Giulio Cesare, compaiono due scritte: “meno filantropi, più licantropi” e
“Partito Democratico e Sinistra Ecologista: per ogni sgombero un bene comune”.
Incalza da anni la repressione delle occupazioni nei quartieri a nord della
Dora: l’asilo di via Alessandria è stato sgomberato nel 2019 e un’altra
palazzina occupata poco lontano è stata circondata dalla polizia nel gennaio del
2021. E numerosi, solo nell’ultimo anno, sono gli interventi contro
le occupazioni delle case popolari: questi sgomberi sono rivendicati
dall’amministrazione attuale, guidata dai due partiti menzionati dal graffito.
Appare il paesaggio contemporaneo delle politiche per la casa: assieme alle
irruzioni di polizia nascono e si diffondono le soluzioni abitative
sedicenti innovative, promosse dal terzo settore e dai capitali delle fondazioni
bancarie. Forze diverse disegnano un presente dove è rimossa la possibilità di
occupare la proprietà. Le serrande su cui compaiono le scritte appartengono al
primo Community Land Trust in Italia.
* * *
C’è un palazzo di sei piani in corso Giulio Cesare, vicino alla scuola Parini e
di fronte all’ingresso del giardino Madre Teresa di Calcutta. Il palazzo ora è
vuoto, le persiane sono chiuse, ma voci in quartiere raccontano di
un’occupazione informale sgomberata dalla polizia al tempo della pandemia. In
strada, accanto al portone, ci sono un fast food e un bar che prepara frullati
alla frutta.
Il palazzo accoglierà il primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il CLT è
una forma di proprietà che afferisce al diritto privato con il fine di rendere
accessibile la piccola proprietà immobiliare alle classi sociali meno abbienti.
Il CLT s’origina dalle pratiche abitative comunitarie negli Stati Uniti del
secolo scorso ed è giunto in Europa come nuovo strumento delle politiche sociali
innovative, ovvero iniziative dove gli interessi privati si armonizzano, almeno
nelle intenzioni, con il beneficio pubblico. Alla base del CLT c’è un soggetto
privato – un trust – che compra l’intera proprietà e rivende le unità
immobiliari singole (gli appartamenti), mantenendo però il controllo del suolo.
Un appartamento senza il valore del suolo è così acquistabile a un prezzo
inferiore rispetto alle altre unità presenti nella medesima area. Gli
acquirenti, in seguito, possono rivendere il loro appartamento soltanto al
trust, che trattiene buona parte dell’incremento di valore immobiliare
accumulato nel tempo. A sua volta il trust immetterà sul mercato la stessa
unità, ma a un prezzo superiore adeguato all’inflazione e all’aumento dei prezzi
avvenuto nell’area urbana. Il CLT controlla così il plusvalore immobiliare e al
contempo promette prezzi delle case più bassi rispetto agli standard del
quartiere.
Il palazzo in corso Giulio Cesare è stato rilevato nel 2023 dalla Fondazione di
Comunità di Porta Palazzo. La fondazione ha impiegato i fondi (circa mezzo
milione di euro) raccolti dalla Compagnia di San Paolo, da enti privati e da
singoli cittadini a cui è garantita la restituzione del prestito dopo due anni
con il due per cento di interessi. Per governare il trust è stata costituita la
Fondazione CLT Terreno Comune che, alla fine della ristrutturazione, venderà gli
appartamenti a famiglie selezionate che rispettino criteri stringenti, fra cui
quello di avere un unico reddito fra i 1300 e i 1500 euro mensili. Ogni
famiglia accederà a un mutuo per acquistare l’appartamento.
Il CLT è governato da un consiglio di amministrazione dove siedono
rappresentanti dei proprietari, degli abitanti del quartiere e dei portatori di
interesse pubblico che insistono sull’area. Il governo del CLT ha il compito,
fra gli altri, di investire i capitali accumulati in interventi di rigenerazione
dell’isolato, così da incrementare ulteriormente il valore e l’appetibilità del
palazzo. I promotori del CLT in corso Giulio Cesare sostengono di aver creato
uno strumento volto al contrasto della speculazione immobiliare e
dell’esclusione abitativa.
Le contraddizioni, tuttavia, appaiono a uno sguardo attento. Nonostante sia un
progetto di inclusione sociale con ambizioni di gestione democratica, la
selezione delle famiglie che hanno la possibilità di accedere al mutuo per
acquistare gli appartamenti sarà appannaggio della stessa fondazione. Ancora una
volta sono le classi dirigenti – borghesi, progressiste, bianche – a scegliere
chi siano i meritevoli ad accedere ai progetti di innovazione sociale.
La selezione, d’altra parte, deve essere ben ponderata: sarebbe spiacevole
sfrattare una famiglia perché chi lavora ha perso un impiego precario e non può
più pagare il mutuo. Inoltre questo modello non ostacola la rendita immobiliare,
anzi la sostiene e fomenta. Le classi dirigenti progressiste si limitano a
controllare la speculazione, promettendo di calmierare gli effetti più violenti
e redistribuire i dividendi ai loro sostenitori. Più che lotta alla
speculazione, il CLT sembra un governo del capitale immobiliare da parte di un
soggetto privato e filantropico, capace di elaborare politiche sociali
remunerative a del tutto inadeguate a rispondere alle esigenze delle classi
sociali più povere e precarie. Un programma di ingegneria sociale governato dai
buoni sentimenti di una borghesia convinta d’essere illuminata. (voce a cura di
francesco migliaccio)
______________________________
QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
(una storia disegnata di ginevra naviglio)
____________________________
A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di ….)
Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta
monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del
cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli.
Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche”
di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi
edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici,
grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon
Metro della Regione.
Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di
Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono
ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per
la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti
esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che
hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da
quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”.
Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal
gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore
all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in
particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano
speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma
occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione
temporanea della durata di tre anni.
Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in
occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione
temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare
all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si
impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il
debito e pagare la tassa dei rifiuti.
Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato
degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il
Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza
agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da
mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire
come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per
concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto
incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora
senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con
gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato
richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi
fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la
conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica.
L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo
la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in
videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”.
Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile –
continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti
prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha
mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi
assessori non gli diranno quel che si deve fare”.
Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del
piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi
di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto
loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la
situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca
con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni.
La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del
Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del
comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente
dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che
conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del
comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve
avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure,
noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una
copertura politica non si muovono”.
Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica
da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata
un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è
stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il
sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
(archivio disegni napolimonitor)
Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto
conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per
confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr
(Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli
abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a
Torino il Cpr ha riaperto questa primavera.
Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io
sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al
movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono
arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada
e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura
indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista
in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che
trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno.
Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre
davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli
sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore
infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto
esce e urla: «Ferma!».
Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi
chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se
so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare
ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso
di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta
brucerà.
Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In
dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano
di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti
angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio,
poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione.
Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile,
giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e
tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con
conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!».
Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica,
nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il
vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa
urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr.
Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati,
ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non
hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno
per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano
ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché
i padroni non vogliono che esistano.
Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno
segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il
tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che
chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a
cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora
siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura.
Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile.
Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol
travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina,
tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza
è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di
strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le
mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come
stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino.
Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci
giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola
hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico
nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato
entrare, è lì come noi, come uno di noi.
È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo
neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già
conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad
aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si
saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi!
Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia
muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e
un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla
per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli
stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi
porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi
marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare
le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini.
Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad
alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il
suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le
gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i
rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il
protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo
mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine
blu.
Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in
costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde
il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato.
Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in
scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri
a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)