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A Milano la battaglia per lo stadio Meazza non è ancora finita
(disegno di -rc) San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi. Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario. Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni. Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre – apparentemente  RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti. E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi, e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa. Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80 milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di edifici di lusso sono immensi. Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre (mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a protezione della controparte. Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico effetto positivo da un certo punto di vista. “La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”. Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica – completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di potere e denaro. Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione, l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello vagante del capitale. La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie, come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)
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Chiacchiere e detersivo. Manfredi cancella il piano su Bagnoli proprio mentre dice di applicarlo
(disegno di marta fogliano) Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali. Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale, visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno affrontando. Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel 2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario (lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato” l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore, ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai cittadini. All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale la pena riportare alcuni punti emblematici. 1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio per permettere il mantenimento della colmata a mare). 2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì «dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti gli effetti associazioni di diritto privato). 3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una piscina naturale. 4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la spiaggia libera) «si dovrà aspettare». 5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani» (e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione). Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici “servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri difensori di quel piano. È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel 2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati. Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti. Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare, Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano, lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli. Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica. Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno non va a votare. (riccardo rosa)
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Pochi splendori e tante miserie. Il disastro degli impianti sportivi a Roma
(archivio disegni napolimonitor) C’è una pagina del libro di Galeano, Splendori e miserie del calcio, che tutti gli appassionati dovrebbero conoscere a memoria. Parla di quella volta in cui il suo amico e scrittore Osvaldo Soriano gli scrisse, raccontandogli di una strana passeggiata. Insieme a un famoso attaccante del San Lorenzo de Almagro degli anni Sessanta, José Sanfilippo, eroe della sua infanzia, Soriano si trovò a camminare in mezzo agli scaffali di un supermercato negli anni dell’espansione incontrollabile dei centri commerciali, verso la metà degli anni Novanta, nel momento forse di maggiore dominazione culturale del modello consumistico americano nel mondo. Tra detersivi e prodotti per i pavimenti, salsicce e formaggi, Soriano racconta come a un certo punto Sanfilppo, mentre la gente intorno cominciava a incuriosirsi e a osservare con la stessa attenzione dello scrittore argentino l’ex attaccante, lo invitò a fermarsi e osservare un punto in alto. «Pensa che proprio qui insaccai quel gran tiro di punta a Roma nella partita contro il Boca». Mentre il calciatore indicava il punto esatto in cui si era infilato un pallone alle spalle di Antonio Roma, portiere del Boca Juniors, in un famoso derby vinto dal San Lorenzo nel 1962, Soriano racconta che una donna avvicinandosi confermò: «Fu il gol più rapido della storia». Sanfilippo descrisse nei dettagli quel gol, come era maturato e quello che aveva suggerito di fare a un compagno: «Appena comincia la partita mandami una palla lunga in area». Quello era rimasto un po’ spiazzato, ma aveva eseguito la consegna. La palla arrivò proprio dove doveva. «Me la mise qui! Il pallone arrivò spiovente un po’ dietro i centrali, scattai ma andò a finire un po’ più in là, dove adesso c’è il riso, vedi?». Nonostante le scarpe eleganti e lo scomodo vestito blu, Sanfilippo si mise a correre come un coniglio in mezzo agli scaffali e poi disse a Soriano: «La lasciai cadere e… plum!». Fece finta di esplodere il sinistro e tutti voltarono lo sguardo seguendo quel pallone immaginario che, sorvolando lamette da barba, batterie stilo, e superando le casse, si insaccava come la prima volta. Cassiere e clienti celebravano intanto gridando e spellandosi le mani per quel gol, come se lo avessero visto realizzarsi di nuovo davanti ai loro occhi. Questo testo descrive bene il dolore che abbiamo vissuto in tanti, troppe volte, di fronte a cambiamenti urbanistici figli della speculazione e degli interessi economici dei grandi colossi multinazionali. Proprio nel punto dove si trovavano Sanfilippo e Soriano c’era infatti il campo storico del Club Atlético San Lorenzo de Almagro, il Viejo Gasometro chiuso nel 1979 e infine sostituito da uno dei primi e più grandi supermercati Carrefour di tutta Buenos Aires. Fu il sindaco dell’allora giunta militare, Osvaldo Cacciatore, a firmare l’ordine di esproprio del terreno, che sarebbe stato demolito poi nel 1983 e all’inizio degli anni Novanta, in piena epoca Menem (il Berlusconi d’Argentina), sostituito dal centro Carrefour. Erano ormai lontani i fasti degli anni Sessanta e i gol di Sanfilippo, l’infanzia di Soriano e il boato delle tribune gremite. Il Viejo Gasometro contava settantacinquemila posti ed era un luogo al quale i tifosi del San Lorenzo erano affezionatissimi. La sua demolizione creò molte proteste, che con il tempo non si sono placate. L’insistenza della tifoseria, che non ha mai accettato di essere stata allontanata dal quartiere di Boedo, ha dato in questo caso i suoi frutti: nel 2012 la hinchada azul-grana è riuscita a imporre al comune di Buenos Aires l’approvazione di una legge grazie alla quale Carrefour è stata costretta a restituire i terreni alla società del San Lorenzo, che ne ha recuperato la proprietà. Grazie alla pressione dei tifosi e all’amore per il luogo dove quella passione era nata, sta nascendo oggi un progetto di ricostruzione dell’antico impianto, parte di una vera e propria operazione di riappropriazione storica: “la vuelta a Boedo”. Se la ricostruzione di uno stadio al posto di un centro commerciale avviene a Buenos Aires, perché qualcosa di simile non dovrebbe poter accadere anche da noi, dove il numero di piccoli impianti abbandonati lasciati all’incuria e all’abbandono − si veda il caso dello storico campo della Roma a Testaccio − si moltiplica anno dopo anno? L’abbandono di vecchi impianti sportivi è sempre più evidente, ma lo è anche l’attacco a quelli ancora in uso, sui quali si rivolge lo sguardo rapace della speculazione. Poteva finire molto male, per esempio, l’esperienza di una delle realtà di sport popolare della città di Roma, l’Atletico San Lorenzo. Nel cuore del quartiere resiste però ancora oggi, quasi unico nel suo genere, un bellissimo e ambitissimo campo di pozzolana. Il pericolo del suo smantellamento a favore di una serie di campi di padel, per fortuna, è stato scongiurato, e l’Atletico ha potuto continuare a svolgere la sua attività sul vecchio campo. Non corre immediati pericoli di questo genere la Borgata Gordiani, che da qualche anno investe in un progetto di sport popolare molte energie, fronteggiando ostacoli di vario genere ben noti a chi prova a rimettere al centro dell’attenzione la mancanza di spazi di socialità, sportivi o di altro tipo, e si autorganizza sulla base di principi come quelli della solidarietà e del mutualismo, costruendo percorsi politici capaci di disertare le violente e ingiuste regole del mercato. La disattenzione nei confronti dei dati su questo tema stupisce: non dovrebbe destare molta preoccupazione il fatto che, nel nostro paese, la quantità di metri quadrati di spazio pubblico a disposizione dei minori per l’attività fisica sia tra le più basse in Europa? Secondo una recente ricerca di OpenPolis e Con i bambini, a fronte di una superficie totale di circa ventisei milioni di metri quadrati, i ragazzi nel nostro paese possono usufruire di uno spazio di dieci metri a testa. A Roma, in particolare, così come nella maggior parte delle città medio-grandi (da Bologna a Genova, da Milano a Reggio Calabria) lo spazio garantito è di soltanto due metri quadrati, un numero clamorosamente più piccolo, per esempio, rispetto a quello dei sessantasei di Ferrara, tra le città più virtuose. Ecco, più che dannarsi l’anima per costruirne uno nuovo, di stadio, forse l’amministrazione capitolina dovrebbe mostrare uguale determinazione nel cercare di restituire alla cittadinanza tutti quegli spazi sportivi oggi inaccessibili, incoraggiando la pratica spontanea senza la quale il calcio non avrà altro futuro se non quello di mero strumento di business. A discapito peraltro, sul lungo periodo, di tutti quei progetti che faticosamente resistono e che provano a dimostrare come sia possibile fare diversamente. (giovanni castagno)
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Rewind Roma, agosto 2025 # Contare i morti
(disegno di peppe cerillo) Il mese inizia con un milione di giovani pellegrini affastellati sotto il sole di agosto a Tor Vergata per il “Giubileo dei Giovani”: il Papa descrive l’evento come il segno che “un altro mondo è possibile”, forse riferendosi all’esistenza del regno dei cieli (tuttora non provata dalla scienza). Due pellegrine muoiono tornando a casa, una ad Artena, l’altra a Madrid. Intanto, il 3 agosto un detenuto viene trovato morto nella sua cella nel carcere di ReginaCoeli. Il 5 notte un’auto prende fuoco mentre era ferma a un distributore Gpl: si teme una nuova esplosione come quella del 4 luglio sulla Casilina. Il 6 il Comune sgombera venticinque persone che abitavano in un centro sportivo di Mostacciano abbandonato da dieci anni, senza alcuna alternativa abitativa: grande soddisfazione tra fascisti e leghisti. Due incidenti mortali sulle strade: un cinquantenne perde il controllo dello scooter al Laurentino, e un commissario di polizia in moto sull’Aurelia. Muore a ottant’anni “er Divino”, personaggio storico della spiaggia di Capocotta. Il 7 i carabinieri arrestano un uomo appena arrivato a Roma da Foggia, in fuga dopo aver ucciso una donna. Un’altra donna muore travolta da un’auto a Pomezia. Il prefetto Giannini durante un’audizione alla Commissione antimafia rivela che le forze dell’ordine a Roma in due anni hanno sgomberato più di seicento case popolari, quasi sempre occupate da donne sole con figli. Nessuna parola su dove sono andate ad abitare queste persone dopo gli sgomberi. L’8 in un’audizione in Comune il Comitato contro lo stadio di Pietralata denuncia che l’agronomo incaricato di stabilire il valore dell’area ha avuto un compenso di oltre centomila euro. Il Comune finalmente pubblica i dati sugli appalti per la costruzione dell’inceneritore di Santa Palomba, ma in un formato incomprensibile, per Carte in Regola è “da settimana enigmistica”. La notte un uomo armato entra in un bar di Torbellamonaca per una rapina e spara al barista e a due avventori del Bangladesh, per fortuna non li uccide. Il 9 l’amministrazione di Santa Marinella proibisce una manifestazione per la Palestina, dichiarando il “rischio di antisemitismo”. Il 10 incendio in un cantiere navale di Ostia. In serata centinaia di persone partecipano al presidio al Pantheon contro il genocidio israeliano a Gaza, contro il collaborazionismo del governo italiano e contro le menzogne dei media mainstream. Lunedì 11 c’è una manifestazione sotto la Rai di viale Mazzini per il continuo supporto della rete pubblica al genocidio in Palestina. Purtroppo il palazzo è chiuso per lavori da inizio anno. Muore a Latina la nona vittima del virus West Nile nel Lazio, un uomo di ottantacinque anni. Il 12 sulla sede del X Municipio a Ostia si espone una bandiera palestinese, e il 13 un’altra bandiera palestinese sventola dal quinto piano del V Municipio (Prenestino). Il 14 all’Alessandrino un bambino di quattro anni di una famiglia bangladese viene investito mentre era in bici: viene ricoverato in condizioni gravi. Muore una donna in moto, in un incidente a Grottaferrata. Un alto prelato dell’Opus Dei, padre Mariano Fazio, viene incriminato formalmente per riduzione in schiavitù e tratta di esseri umani. Secondo l’accusa, decine di ragazze sudamericane anche di dodici o tredici anni sono state attirate a Roma con la promessa di una vita migliore, poi “messe a servizio gratuito” per decine di ore al giorno per i membri della setta cristiana. Il 15 agosto, festa cristiana dell’ascensione della Madonna in cielo, un ragazzo egiziano di diciannove anni cerca di impiccarsi nel carcere dedicato proprio a lei (Regina Coeli). I secondini impediscono il suicidio, ma lo ributtano in cella. Una ragazza di ventiquattro anni muore in un frontale tra due auto sulla Salaria fuori Roma, e un uomo di sessantasette cadendo dal terrazzo condominiale di un palazzo vicino piazza Fiume. Il 16 c’è un nuovo incendio in un cantiere navale, questa volta a Fiumicino, e il 17 notte esplode una bomba carta nell’androne di un palazzo di Ostia centro. Muore a ottantanove anni Pippo Baudo, nella sua casa di Prati: la camera ardente sarà al Teatro delle Vittorie. Il 18, in virtù del “decreto sicurezza”, un uomo albanese di cinquant’anni viene arrestato per aver provato ad occupare una casa dell’Inps, vuota, a Prati Fiscali. Il giudice ne richiede l’immediata liberazione, perché il fatto non è grave. L’appartamento, pubblico, rimane vuoto. Continuano le processioni giubilari, con migliaia di partecipanti: il 20 a Colle Oppio sfilano i lefebvriani della Fraternità San Pio X, ultratradizionalisti e antisemiti, scomunicati per non aver accettato il Concilio Vaticano II, poi riabilitati nel 2009 da Ratzinger: non partecipano all’udienza papale del giorno successivo, né visitano la tomba di papa Francesco. Il 21 – giorno dello sciopero globale per Gaza – un temporale si abbatte sulla città. Tuoni, lampi, stazioni metro chiuse, alberi caduti, due musei allagati (Macro e Galleria d’Arte Moderna). Durante la notte ad Acilia qualcuno buca le ruote di più di cinquanta macchine. Il 22 a Marino presidio contro lo sgombero del centro sociale Ipò. Alla FieradiRoma, grande incontro dei testimoni di Geova, con decine di migliaia di partecipanti: il tema è “Adorazione pura”, per “offrire una guida a chi è alla ricerca di speranza”. Nel frattempo a Ostia un imprenditore edile sessantenne viene ferito da un colpo di pistola, forse sparato da un suo dipendente. Il 24 mattina, sempre a Ostia, una cabina crolla sulla spiaggia affollata di bagnanti. L’erosione del suolo quest’anno ha eliminato quasi dieci metri di spiaggia. Nel parco di Tor Tre Teste una donna di sessant’anni viene aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nella notte a Nettuno qualcuno spara con una pistola ad aria compressa contro il centro d’accoglienza che ospita ottanta migranti: due di loro sono feriti lievemente dai pallini di piombo. Il 26 agosto un nuovo presidio per la Palestina riunisce più di un centinaio di persone al Pantheon. La rete “Stop Rearm Europe” ottiene la sospensione della fiera delle armi “Defence Summit” organizzata dal Sole 24 ore per l’11 settembre (sic!) all’Auditorium di Roma. Due persone straniere senza casa si uccidono buttandosi sotto a un treno lo stesso giorno: uno la mattina a Stazione Trastevere, uno la sera a Ladispoli. Arrestato un muratore gambiano per lo stupro a Tor Tre Teste. Il 28 altri due morti sulle strade: uno la mattina in un incidente di moto sull’Aurelia verso Santa Severa, un altro la sera – un diciottenne – alla Romanina. Scoppiano intanto due grossi incendi, uno a Tor di Valle, vicino all’autostrada Roma-Fiumicino, e uno nella pineta di Ostia. Sempre il 28, giornata di digiuno dei sanitari per Gaza. Il mese si chiude con: un signore eritreo che si cambia il costume sulla spiaggia coprendosi con un asciugamani, e i giornali lo trasformano in “uomo si spoglia nudo in spiaggia”; e con l’ordine di sfratto definitivo per lo storico Caffè Greco in via dei Condotti, attivo da duecentocinquanta anni e protetto da vincolo. La proprietà del locale è dell’Ospedale Israelitico, che ha ordinato ai gestori di andarsene. (stefano portelli)
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La cattedra non c’è più. Insegnare italiano nelle occupazioni abitative
(copertina di cyop&kaf) Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città  La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola. Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della lezione apportando ognuno le proprie competenze. «Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza. Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo rivendicarli. «L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti, con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta. Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i presenti e le presenti, senza delega. «Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano assodati, non venivano capiti dagli abitanti. «Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta, decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte, con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera. Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli, occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare quello che emergeva. «Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea, faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice ma al tempo stesso meno ricco. «Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo… «Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo. «Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose. «Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi, capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti, ricattabili sotto molti punti di vista. «In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo, non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova colonizzazione. «Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era sempre quella di spostarsi tra le tematiche. «Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono. Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano nell’altra per momenti di festa condivisi. «Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini, mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo. «Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi. «Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali… «Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio, che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione. «Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine… Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni, uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me, c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva politica. «Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no, all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi assembleari condivisi. «Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo. «A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze linguistiche. «In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto, Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro “scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera. «In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano. «Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”… Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro… «In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la chiacchieravano in italiano. «Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale, quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di rappresentarlo davanti agli altri. «La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un po’ tutti i presenti. «Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia. «Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so, lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)
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Dalle strade alla teoria
(disegno di ericailcane) Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori, le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione, abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche, pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere: nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di quale tipo. Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication” migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari, l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso degli eventi appare lineare e inesorabile. Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate. Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni: l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore. Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida: camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili. E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza, inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di riflessione e di organizzazione delle lotte in città. La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal comune e dalla questura. L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi, allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività commerciali accanto alla Dora. La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite, un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria, associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e multiculturali. Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali, eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni. Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni, tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti. Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti. Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione: nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori, istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia. Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza, diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento, cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure, per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento degli strumenti critici. (francesco migliaccio)
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Rewind Roma, luglio 2025 # Brucia la città
(disegno di peppe cerillo) Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido, centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino. Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature: l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila appartamenti vuoti. Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio: fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi, centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo: settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili. All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel 2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche nell’ospedale Grassi di Ostia. Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb, trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani, chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’ Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”. Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin, mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro, difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo. Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele (UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega, con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza Capranica contro l’assedio della fame a Gaza. Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di “interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì dentro si era suicidato. Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro” (cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono. Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
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Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #8. Terra del Fuoco
(disegno di adriana marineo) Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom – spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco. *     *     * L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello – Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011 Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la candidatura a sindaco di Piero Fassino. Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti, complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato, mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano “clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano, attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in grado di garantire un ritorno economico. All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo. A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza” gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz. Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di “autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte. L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice” dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì. Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta. Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010 inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni. Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una “bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai “cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione, dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale. Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al raggruppamento temporaneo d’impresa  formato dalle stesse organizzazioni del progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa 1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli, via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano 41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della città. Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si costituisce parte civile. A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative, decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che, mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi quelli di TDF. Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico. Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati. La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo (2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”. Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno complessivo. (voce a cura di manuela cencetti) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
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Scugnizzo cup. Voci e immagini dal torneo dei quartieri di Napoli
Foto di Matteo Ciambelli Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori, corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni, cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura, in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine. Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno persone, tutto più tranquillo». Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha avuto grossa diffusione. La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte, acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate con la data della finale della Scugnizzo Cup. A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori: Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori evitati in due metri quadrati. Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson, circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo, vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per tenere i tifosi lontani dal campo. Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati. «Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono: «Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della partita abbraccia il padre. La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano. Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice, che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra, palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo, Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1), probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre importanti di serie A. La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene: capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai fuochi d’artificio. (davide schiavon)
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