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Maltrattamenti ai disabili nel centro Stella Maris. Per i giudici i dirigenti non hanno responsabilità
(disegno di andrea nolè) Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura. Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco. Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati, qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola) andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e cura a carattere scientifico”. La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità. Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le argomentazioni nella motivazione della sentenza). Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi. In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari). Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio. Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”. Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole, tratte dalla sua Carta dei servizi: “La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”. HANNO VINTO I POTENTI Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, Tso. La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi più calde. D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori, cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni. Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia ­– afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza ­– abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”. A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo, all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni. Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove, di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud) ______________________ ¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
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Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere di Matera visto da dentro
(archivio disegni napolimonitor) La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *     *     *  Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
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Riarmo e propaganda. In gita al Villaggio Esercito di Napoli
(disegno di otarebill) Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza nella fiera promozionale. «Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.   «Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della mattinata…». In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand, ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli affari esteri Edmondo Cirielli. Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un “principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà straordinario”). Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”: può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si confonde con una fiera campionaria del business bellico. Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il 2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9 investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).  Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento. È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione della spesa pubblica. All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una di loro, l’altra fa spallucce. Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero, l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante alla rotonda. L’aria è  quella di una calda mattinata autunnale, tre signori prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica da una radiolina, i gabbiani sono in acqua. Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio, mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure e con la modulistica. Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito. (edoardo benassai)
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Bagnoli, Coppa America e colmata. Dal disastro politico a quello ambientale
(archivio disegni napoli monitor) Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.  Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.  È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante, pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto (la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa “velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile ancora maggiore di quello già esistente sul territorio. *     *     * Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025), abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa). Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare. In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo, 2024b; 2025a, b). Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione, con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa (come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte, decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa, sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero anch’essi essere  bonificati utilizzando l’Istd. In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup. Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in Danimarca. Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale, specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro: sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile. CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati, che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni (combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche: rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei). Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico, negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata, Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio, dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo, inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici, chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali, sulle comunità locali. La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali, all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone, prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea. Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio, soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli, il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate viene infatti generalmente privilegiato l’Istd. Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni, Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica. Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati (Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp, causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli, fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli. Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹. Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire. Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli, si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b). Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003) oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati, alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana (rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa). Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli (De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata. ____________________________ ¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da Icram/Ispra.
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Scampia, una scuola occupata per Gaza (e non solo)
(disegno di francesca ferrara) Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente, con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che li guida rende la loro azione più di una semplice protesta. Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri, che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia, spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato. Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie; discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel genocidio. Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione, nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più rispetto agli altri». Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone. Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia: una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri, non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta chiamati “alternanza scuola-lavoro”. L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza. Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”. D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli, con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”.  L’obiettivo di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita». L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente. (pasquale frattini)
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Un fiore del male. Storia di burocrazia e oppressione a Torino
(disegno di ottoeffe) Chiamatemi Selma. È un nome di fantasia, voi mi capite. Il mio nome vero è un altro e vi dico come si pronuncia. Come? Apri la tua bocca e muovi la dentiera superiore e inferiore, sbattendo i denti, e poi apri un sorriso: senti il vero nome mio. Un nome di origine latina, periodo di colonizzazione, quando i bianchi sprofondavano nel mondo nuovo a sfruttare, rubare e distruggere l’America latina. Proprio la mia origine biologica è il Brasile, ma il mio nome proviene da questo mischio di rivolta oggi chiamato libertà. Dove devo stare? Non sceglie il Brasile dove sono nata e ho vissuto per trentatré anni, non sceglie l’Italia dove vivo ormai da vent’anni. Sono libera perché scelgo io. Ogni tanto scrivo articoli per Napoli Monitor, o faccio da autonoma dei piccoli video documentari su momenti di rivolta nella città dove vivo, Torino. L’ultima mia mossa nel movimento per la strada a Torino è stata nella manifestazione pro Palestina, che ormai è diventata una sfilata da borghesi per farsi vedere in abiti firmati, spronando la democrazia fallita sopra la pelle di un popolo sotto le macerie. Questo mio documentario video della manifestazione dove ballavo sotto la pioggia di  lacrimogeni aveva un titolo: “La polizia di stato umiliata da una corrente umana”. C’è una canzone, un pagode del poeta Bizerra da Silva, brasiliano, che dice in una strofa: “Se Leonardo dà venti, perché io non posso darne due?”. Pausa; mi giro una sigaretta. In venticinque fogli protocollati dalla “Questura di Torino e il prefetto della provincia di Torino” appare il mio nome per venti volte. A proposito: Torino è una metropoli, ma il prefetto vive ancora nell’era dell’Augusta Taurinorum. Ventunesimo secolo, ottobre 2025, Torino. Ancora oggi la grande fetta della popolazione immigratoria appartenente a questo territorio vive lo sconforto della discriminazione che arriva direttamente dallo stato. Nei fogli protocollati in meno di ventiquattro ore il prefetto di Torino mi ha espulso per ben due volte e il questore ha preso parte al festino della colonizzazione e ha sequestrato il mio passaporto e mi ha obbligato a firmare in questura. Non convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di Torino, il giudice di pace ritiene che io appartengo a questa città. Non convalidata la misura di sequestro di passaporto e obbligo di firma richiesta dal questore, il giudice di pace ritiene che sono libera. A chi rivolgere queste frasi aperte, chi ha interesse di leggere o sapere della vita di un altro, cosa passa una persona con il timbro da stranieri, che ormai vive da decadi in un paese? Chi decide per noi? Quando la libertà appartiene a un popolo libero, un paese democratico? La burocrazia di stato gioca e fa affari con il braccio di forza contro individui che ritiene avere le caratteristiche biologiche diverse. Le caratteristiche diverse? La troglodita non sono io. Ma andiamo con ordine, ecco la mia storia di espulsa due volte in pochi giorni. Sono da vent’anni in Italia, con una figlia cittadina italiana nata nella metropoli di Torino, con un permesso di assistenza a minore, aspetto il rinnovo del permesso di soggiorno da ormai due anni, quando mia figlia ancora era minorenne. Oggi maggiorenne, questo permesso mi offre la possibilità di convertirlo in permesso subordinato, o anche come permesso di disoccupazione. Entrambe le domande collegate, abbandonate e smarrite nella questura di Torino dove allegano mancanza di passaporto. Rido, ridete anche voi che leggete queste righe. Questo martedì 21 ottobre mi sono recata alla questura di Torino situata presso Porta Susa, covo della polizia di stato. Una volta, non tanto tempo fa, gli uffici per gli immigrati erano situati in corso Verona, un luogo indegno dove ci trattenevano in un cortile abbandonato sotto sole e tempesta mentre la sala d’attesa rimaneva vuota e senza la possibilità di usare il bagno, un flagellamento e umiliazione totale. Oggi non cambia, con due bagni chimici davanti all’ingresso di entrata, già si osserva la merda che è. Dentro l’ufficio dove ogni singola persona va a ritirare, rinnovare un documento per convalidare  obblighi e diritti da cittadini in questa penisola naufragata, si trova un labirinto di Cnosso. Tra persone di varia età ed etnia si trovano anziani con stampelle, bambini, neonati e in questo miserabile labirinto siamo divisi in sala d’attesa e il riscaldamento è spento e nel freddo gelido si è costretti ad aspettare. Questo martedì mi sono diretta al riscaldamento e ho girato la valvola termostatica, in dieci minuti si sentiva l’eco delle voci in sala d’attesa a dire grazie. Un paio di minuti dopo passava l’ispettore a sussurrare al vento: che caldo. Gli infami esistono e stanno vicini, per questo dobbiamo decidere da che parte stare. Quando è toccato a me di andare dall’attendente questurino di statura corporea elevata, siamo sempre a martedì, mi è stato detto: «Porta domani la ricevuta della seconda richiesta di permesso di soggiorno subordinato, che annulliamo la pratica della prima richiesta che è aperta». Mercoledì 22 ottobre arrivo alle otto del mattino e senza battere ciglio l’ispettore mi invita a entrare direttamente. Mi dirigo dall’attendente questurino di statura corporea elevata, senza una identificazione.  Mi viene comunicato: «Il tuo permesso è sospeso»; sequestrano il mio passaporto valido fino al 2028, la mia carta d’identità valida fino al 2028 e il mio codice fiscale valido. E mi mandano, tra un labirinto e l’altro, al cortile dove si fanno le impronte. Sono nel corridoio e appare una placca dorata con la scritta “ufficio immigrazione”, una foto di una donna di origine africana appesa al muro, mentre nel fondo del corridoio vedo la fotografia di un bambino con una mitragliatrice lucida. Mi comunicano quattro misure: due di rigetto del rinnovo del permesso di soggiorno, una espulsione richiesta dal prefetto con accompagnamento al confine verso l’aeroporto di Bologna e infine la convocazione a un’udienza in direttissima con il giudice di pace dove il mio destino sarebbe quello di non salutare mia figlia e neanche prendere i miei averi, la macchinetta moca. Andarsene e basta. Dalle otto del mattino, senza poter comunicare con nessuno, con due sbirri affiancati a controllare se usavo il telefono. Centomila poliziotti non saranno in grado di dominare il mio cervello, figuriamoci un questore e un pinco pallino di prefetto. Mi sono recata al bagno con due giovani poliziotti che assieme non facevano la mia età e io ho solo cinquantatré anni vissutissimi metà nella strada di Torino. Un fiore del male. Nel bagno si infligge la loro legge. Gli sbirri vanno fino alla porta del bagno, io dentro chiudo la porta e mi spoglio, lo sbirro spacca la porta e mi guarda: già avevo inviato dei messaggi. Arriva la sbirra che mi vede svestita, mentre mi alzavo dopo una lunga pisciata. Arrivano i miei due avvocati per la direttissima. La giudice di pace è in udienza online, in videochiamata. Non convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di Torino. Gli avvocati vanno via per primi mentre aspetto che mi restituiscano il passaporto. Appaiono un paio di fogli nelle mani dello sbirro smisurato senza una identificazione, mi chiede di firmare, firma, firma questo, questo altro, questo, c’è anche questo, questo ancora. Io non firmo niente. Comunicano che il questore mi obbliga a firmare dal lunedì al venerdì, o il lunedì e il venerdì, non si capisce, e mi sequestra il passaporto. «Deve venire domani a firmare, giovedì». Loro ci sono o ci fanno? Nel dubbio lascio voi lettori a concludere, perché io ho le idee ben precise. Va bene, vi do una indicazione: comincia con “I”. Giovedì presto vado allo studio del mio avvocato e ricevo il comunicato di non convalida della misura del questore di Torino: il sequestro di passaporto e l’obbligo di firma sono respinti. Vado in questura a ritirare il passaporto. Mentre parlo con gli sbirri pali di luce presso l’entrata della questura, arriva in fretta un uomo di statura un metro e cinquanta a chiedere: «Che fai qua?». Il mio pensiero è chi ti conosce, ma in silenzio rimango; lui si volge a domandare allo sbirro Palo Di Luce Due cosa facevo lì. Palo Di Luce Due chiede all’uomo di statura un metro e cinquanta se mi conosce. Intanto muove la testa verso il basso e l’alto come un segno di croce. Amen! Arriva Palo Di Luce Uno a dire che potevo entrare, dopo avere letto tutto un documento privato. Sono nel corridoio dell’ufficio immigrazione, percepisco la loro fantasia e il tempo sprecato con soldi pubblici. Arrivano in meno di dieci minuti tre sbirri della digos, quelli che sono noti nella strada, entrano e vanno verso il cortile. Con le idee chiare esco in un cortile pieno di sbirri, oltrepasso il cortile e li lascio alle spalle. Questo tutto in prima mattinata. Nel pomeriggio, l’avvocato comunica che posso andare a ritirare il passaporto e ritorno in quel luogo indegno. Due nuovi pali di luce, gli sbirri: «Spostati, stai dietro alla sbarra». Una sbarra di ferro che rimane sul marciapiede a dividere il cimento del concreto e il vento dell’area. Una sbarra di ferro che sta lì, a produrre una barriera architettonica e niente di più. Io rimango in strada, in strada non si può stare, sul marciapiede neanche, e si perdono dieci minuti a discutere: la loro concezione di libertà. Vedo il cancello del portone del cortile aperto: entro. Mi vengono dietro con mitragliatrici in mano gli sbirri Palo Uno e Palo Due e mi riempiono di pugni e spintoni. Urlo: «Ispettore!». Il portone è aperto e appare il poliziotto che mi ha accompagnato all’uscita mercoledì: «Lascia stare», dice, mentre Palo Uno e Palo Due mi lasciano. Entro nell’ufficio immigrazione per la seconda volta nella stessa giornata. Fogli vari compaiono: firma, questo, questo ancora e questo, c’è anche questo. Io non firmo niente. Ancora il prefetto di Torino mi espelle e il questore di Torino mi sequestra il passaporto e mi  obbliga a firmare. E ancora non si sa de dal lunedì al venerdì, o lunedì e venerdì. Oggi è venerdì, sto ad aspettare la nuova sentenza del giudice di pace, intanto cambio l’arredo di casa e i gatti giocano sul nuovo divano. Per non annoiarmi, vi lascio la mia ricetta del pane: venticinque grammi di lievito, due cucchiai di zucchero, un pizzico di sale, cento grammi di semi di zucca, cento grammi di semi di sesamo, quattrocento grammi di farina zero, cento grammi di farina di grano saraceno, trecento millilitri d’acqua della fontana di Torino. Siete tutti buongustai? Anche io. Alla prossima, ci si vede in strada. Buona lotta gente ribelle. (selma arnaldo)
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Polizia violenta davanti al liceo Einstein di Torino. Il comunicato dei genitori
(incisione di felice pignataro) Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale, non solo locale. *   *   * Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025 mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli adulti presenti. Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant. L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica. In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e degli studenti, lasciati soli. Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza, davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli studenti che la frequentano. Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico, compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo. Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti. (alcuni genitori dell’einstein)
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Un ciclo di repressione e rinascite. Nuove visioni dal Balon dei poveri a Torino
(disegno di otarebill) Ayoub è seduto sulla bordura di porfido che delimita un angolo di verde, con i gomiti sulle ginocchia. Claudia, accanto, ha un’espressione sconsolata che non le è propria. Ha sfogato poco prima la sua indignazione, rovesciando con rabbia, in mezzo alla strada, le merci che porta con il suo carrello trainato da una bicicletta: i suoi dipinti colorati, qualche zaino, un paio di giacche pesanti. Mentre si accendeva una sigaretta, nervosamente, l’abbiamo aiutata a raccogliere le sue cose e spostarsi a margine della carreggiata. «Tu sei senza documenti?», chiede ora Claudia ad Ayoub, ottenendo un cenno affermativo in risposta. «Ma da quanto è che sei qua? Solo due anni! Io da venti, venti anni!». «Vent’anni?», esclama lui sorridendo con disapprovazione: «Ah no, io me ne vado prima!». È meta mattina, insieme a pochi amici ho raggiunto i venditori informali che il sabato si raccolgono vicino alla Dora in occasione del Balon, e nonostante la repressione. Ci sono volanti della polizia municipale in diversi angoli del quartiere – agli ingressi del ponte, in cima alla salita verso corso Giulio Cesare, accanto al marciapiede – e una ventina di agenti presidiano o pattugliano la zona. Come accade ogni sabato ormai da alcuni mesi, impediscono agli straccivendoli senza licenza di piazzare la loro merce. Fino a qualche tempo fa un centinaio di ambulanti poveri esponeva su stuoie e lenzuola scarpe vecchie e vestiti usati, oggetti trovati in giro, minutaglia raccolta dai bidoni, recuperata da cantine e magazzini da sgomberare. La presenza si estendeva libera e compatta dal ponte Carpanini sul lato sud della Dora, sino in cima alla salita che si ricongiunge con corso Giulio Cesare e il ponte Mosca. STORIA DI UNA REPRESSIONE CICLICA Da più di centocinquant’anni il Balon ospita venditori di oggetti usati, anche molto poveri. Dal 2002 si creò una distinzione, un mercato di serie A e uno di serie B, e fu deciso di spostare gli straccivendoli dal lungofiume all’area vicina, ma più nascosta, di San Pietro in Vincoli e canale Molassi. Poi, nel 2019, il Movimento Cinque Stelle al governo della città impose con una delibera comunale lo spostamento degli impresentabili più lontano, in via Carcano, accanto al cimitero monumentale. Per diversi mesi i venditori si opposero all’esilio, che avvenne solo a seguito di uno sgombero violento della polizia e multe considerevoli. Già allora a Borgo Dora la povertà rimossa riemergeva inesorabile, nonostante la delibera della giunta e l’azione dispendiosa delle forze dell’ordine, mentre al mercato di via Carcano si rendevano evidenti le conseguenze dell’esclusione. Per anni i segni di quella violenza rimasero nel deserto urbano. Poi, due anni fa, furono le gradinate del ponte Carpanini a prendere vita e accogliere nuovi mercanti informali fino a che i contingenti di polizia municipale giunsero in forze per sequestrare gli oggetti e vietare la vendita. Ancora, più di un anno fa, è nato un nuovo mercato informale lungo la Dora. Lo scorso autunno la polizia arrivava all’alba per presidiare la zona: solo per poche ore però, così i venditori tornavano a disporre a metà mattinata. Ma all’alba dello scorso 26 luglio, e nei sabati a seguire, le forze dell’ordine sono giunte per rimanere fino al pomeriggio, rendendo impossibile agli straccivendoli di lavorare. Li vediamo attendere a lungo con gli oggetti raccolti in valigie e borsoni, aggrappandosi alla possibilità di fare il mercato almeno qualche ora nel pomeriggio, anche se, quando il sole inizia a calare, anche il passaggio di clienti si dirada. Mi dà il capogiro cercare con la scrittura di mettere in fila e in ordine i momenti: la repressione degli indesiderati appare una ruota che si ripete monotona. Ma qualcosa ha avviato questo nuovo accanimento. Il 25 giugno e il 4 luglio giungono in consiglio comunale e di circoscrizione due interpellanze che denunciano la presenza dei “venditori abusivi” nell’area del ponte Carpanini e del Balon. Le presentano un consigliere della Lega e il gruppo consiliare Fratelli d’Italia della Circoscrizione 7, appellandosi alla necessità di “tutelare il decoro urbano, la legalità e la sicurezza”. Vi si legge che “la presenza degli abusivi” che rappresenta “concorrenza sleale” verso i venditori regolari del Balon, “rischia di compromettere in modo serio la vivibilità e l’immagine della zona”. Il 7 agosto i consiglieri della Lega presentano una mozione per l’istituzione di presidi di sicurezza nelle zone di Aurora e Borgo Dora “soggette da anni a fenomeni di microcriminalità, degrado urbano, spaccio e occupazioni abusive”, individuando tra i punti di presidio strategici anche il ponte Carpanini, “soprattutto nelle giornate del sabato”. La mozione richiede al presidente di circoscrizione (afferente al Pd) di coinvolgere il tavolo della sicurezza per istituire presidi di polizia, anche attraverso le risorse previste da un emendamento regionale che destina fondi specifici al pagamento degli straordinari della polizia locale. L’amministrazione della città anticipa le richieste: già dal 26 luglio invia i contingenti di polizia municipale a occupare il lungofiume. È curioso notare che nello stesso periodo la destra si muove anche contro il mercato in esilio di via Carcano. Con la legge regionale 9/2025, datata 8 luglio, la giunta Cirio impone ai mercatini sociali un tetto di dodici mercati all’anno e promette sanzioni in caso di mancati controlli. Sarebbe la fine per i mercanti allontanati al cimitero. La Città di Torino a settembre rinnova la concessione all’associazione che gestisce quel mercato e concede le stesse condizioni in vigore. Se la destra dimostra di non avere alcuna lettura della città, ma solo fame di voti, la maggioranza Pd governa con efficacia la povertà e soffoca o contiene gli ultimi. PRESENZE SUL PONTE Ritorno con la mente agli ultimi sabati trascorsi tra il ponte Carpanini e Borgo Dora. Qualche straccivendolo ci saluta chiamando il nostro nome a gran voce quando ci vede arrivare. Da qualche tempo, insieme ad alcuni amici, portiamo tè caldo e caffè da condividere per colazione. In primavera il grande barilotto e i termos finivano in fretta. Osservando le mosse del potere, con i bicchieri di carta a scaldarci le mani, abbiamo imparato a conoscerci. Alcuni, per me, sono vecchie conoscenze, incontrate un tempo in un centro diurno per persone senza fissa dimora di questa città, che oggi ha chiuso. Dormono ancora per strada, o occupano un posto letto più o meno temporaneamente nei dormitori cittadini. Ci sono persone senza documenti, ma so che anche coloro che sono in regola conoscono la marginalità, la precarietà abitativa, il lavoro nero o lo sfruttamento. Qualcuno ha una famiglia, magari lontana, altri sono soli; sono arrivati in città più di recente, o sono a Torino da tempo. Alcuni aspettano per tutta la settimana che arrivi il sabato, per guadagnare quel poco denaro che consente loro di sopravvivere e di concedersi un pacco di sigarette e una bottiglia di birra. Distinguo bene tra i ricordi recenti anche la presenza delle guardie. «Dovresti vendere monili africani, basta con questi vestiti usati», dice un vigile a un venditore. Gli agenti eseguono gli ordini, anche coloro che ci dicono che gli dispiace impedire ai presenti la vendita di qualche scarpa vecchia: devono fare il proprio lavoro. Un giorno, sorge un dissidio tra due venditori in attesa di piazzare la stuoia, discutono sullo spazio da occupare. «Non potete fare un sabato a testa?», dice un uomo in divisa. Ancora, dicono i vigili ai venditori: è la legge, potete andare in via Carcano. Ma non sanno della separazione del mercato a inizio secolo, e dello spostamento forzato sei anni fa? Non si rendono conto che molti non possono permettersi di pagare uno stallo in via Carcano o che è preclusa loro la possibilità stessa di mettere in atto quanto suggerito per via delle leggi ostili di questo paese? Per la seconda volta nell’arco della giornata, Claudia prova a esporre i suoi oggetti per terra, ma è prontamente circondata da un numero impressionante di divise. I vigili minacciano di sequestrare gli oggetti. «Lasciatela stare, lasciate stare solo lei per favore, noi non ci mettiamo!», dice qualche suo compagno di sventura. Ma i vigili si apprestano a mettere le mani sulle tele che lei stessa dipinge, così si raccolgono i dipinti per lei, che deve cedere. «Questo mercato che vedete – grida Claudia, la voce nitida – questo mercato che vedete! Voi state tutti zitti, che ci sono cento famiglie che devono lavorare, e voi state tutti zitti, sopra la loro merda! Dovete venire qua, appoggiare queste persone e non stare zitti nel vostro borgo di merda!». Il flusso degli avventori intanto scorre. Più avanti, in piazza Borgo Dora, nel cuore del mercato, un coro anarchico intona canti della tradizione libertaria. Al pomeriggio le strade della città si riempiranno per il corteo in solidarietà alla Palestina. Sono lontani i tempi della resistenza del Balon e abbiamo incassato il colpo di quella sconfitta. Comprendo che la repressione funziona grazie all’indifferenza di tutti, e forse soprattutto alla paura, ricattabilità, e isolamento dei venditori. Quali vie non abbiamo percorso? È giusto non assumere alcun ruolo direttivo, ci ripetiamo, d’altronde sappiamo bene che non siamo noi a rischiare. Allora siamo presenti, solo per accompagnarli, per non lasciarli soli. Ma che cos’è che ci sfugge? (stefania spinelli)
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Napoli Est, una storia di violenza ambientale. L’introduzione del libro
(disegno di roberto-c.) Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al volume. Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre, marginale. Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2 della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città. Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota. Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale, ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’ tutti i contributi. Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive. Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive, rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici. Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero, alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione, che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed economiche. Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare. Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso e trascurato. Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove. A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi. Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha segnato la storia di questi luoghi. Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali, esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche, stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e riconoscimento.
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La guerra ai ragazzini. Nuove politiche dello spazio pubblico a Palermo
(disegno di adriana marineo) Palermo, martedì 18 marzo 2025. Per tutto il pomeriggio un elicottero sorvola Ballarò. Pattuglie di carabinieri, polizia e vigili urbani battono le strade, passano e ripassano accanto al campo di bocce di via Albergheria, davanti al pensionato San Saverio, nei punti in cui si sono accese le vampe negli anni passati. Di solito, il pomeriggio del 18 marzo si vedono ragazzini girare per il quartiere spingendo cassonetti pieni di legna, cercando un posto dove accatastarla. Oggi no. “St’annu, unn’a fannu fari a nuddu” (“quest’anno non la fanno fare a nessuno”, la vampa), commentano alcuni parrocchiani sugli scalini di San Giuseppe Cafasso, gli occhi in su a guardare gli elicotteri, le conversazioni accompagnate dal rumore del flappeggio delle pale del rotore. Alle 18 si alza una colonna di fumo bianco davanti al Civico. Un elicottero della polizia staziona sopra l’ospedale. Un’ora prima non c’erano segni di preparativi. Hanno rovesciato i cassonetti dell’immondizia e li hanno disposti lungo due file; alcuni sono incendiati, l’immondizia all’interno brucia, squagliando il polietilene insieme all’asfalto della strada. Nell’area del parcheggio di via Carmelo Lazzaro, delimitata dai cassonetti, arde una piccola vampa. Tra l’immondizia sono stati affastellati in fretta e furia alcuni pannelli di compensato, gli unici pezzi di legno che i ragazzini sono riusciti a trasportare senza farsi notare. Per il resto, le fiamme sono alimentate dalla plastica. L’aria è irrespirabile. Mi avvicino alla vampa, scatto una fotografia – l’unica della serata. Intorno al fuoco non c’è nessuno. Il falò propiziatorio di legna vecchia, preparato e acceso dai ragazzi all’imbrunire della vigilia della festa del santo, brucia nonostante i divieti. Ma non c’è nessuno a scaldarsi e a mangiare intorno alle fiamme, non ci sono adolescenti che giocano a saltarle e ad alimentarle con altra legna. Il centro del rito si è spostato, il fuoco principale sarà un altro, l’attenzione della gente del quartiere è rivolta a uno spettacolo diverso. Accanto ai cassonetti bruciati, è stata rovesciata una campana del vetro. Diversi ragazzi camminano con bottiglie di vetro in mano, le trasportano ai lati della strada, ammucchiandole tra le auto e i motorini, sul marciapiede. Molti indossano il passamontagna, altri si coprono il volto con cappucci, fazzoletti, bandane, sciarpe, magliette annodate dietro alla nuca. Si muovono veloci, si chiamano a voce alta, osservano attenti quello che succede intorno. Scherzano tra loro, giocano. Aspettano la polizia. La gente guarda la scena, appoggiata ai muri delle case, alle saracinesche dell’edicola, davanti alle vetrine della salumeria, della pizzeria, del centro scommesse, o in piccoli gruppi in mezzo alla strada, sotto gli alberi dell’aiuola davanti al Civico. Si sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi; i ragazzi si muovono compatti verso le barricate in fiamme, si calano i passamontagna sul volto. Poco dopo, arrivano due autoblindo della celere e un’autopompa dei vigili del fuoco. I ragazzini gli tirano contro una grandinata di bottiglie, alcuni restando in sella ai motorini accesi, suonando i clacson all’impazzata. Il vetro si schianta contro l’asfalto, il parabrezza del blindato e le fiancate delle automobili parcheggiate. I poliziotti scendono in tenuta antisommossa, sparano due lacrimogeni sui ragazzini a pochi metri di distanza, che si disperdono. Alcuni continuano a lanciare bottiglie: si staccano dal gruppo, corrono verso la polizia, caricano il braccio e scagliano una bottiglia, poi ritornano nel gruppo. I lanci si fanno più frequenti, le bottiglie volano più vicine agli agenti, i ragazzini si avvicinano sempre di più, fanno a gara tra loro. Uno arriva a pochi metri dalla fiancata dell’autoblindo aperto, prende la mira e tira una bottiglia di birra vuota sugli agenti; tre di questi si staccano dal cordone e partono all’inseguimento, appesantiti dall’equipaggiamento. Il ragazzino resta a guardarli, aspetta che arrivino a pochi passi da lui, si gira e corre veloce guadagnando terreno in pochi istanti. Mi allontano per stare al riparo dalle bottiglie, mi sposto vicino a un gruppo di adulti che osservano lo scontro da un’aiuola. Fanno il tifo per i ragazzi, ridono della goffaggine della polizia. Inizio a sentirmi meno sconvolto dalla scena, recupero in parte il senso del rito, della comunità che osserva i giovani maschi esibire il proprio coraggio intorno alle fiamme. C’è qualcosa di radicalmente diverso però: il gioco è diventato più pericoloso, le fiamme fanno solo da contorno, la prova di iniziazione è molto più violenta. Sento che non c’è controllo collettivo, gli adulti commentano spaesati: “Ai tempi i nuatri un c’era tuttu stu finimunnu! Chisti parunu scene i guierra”. Qualcuno prende le distanze, un esercente dice ai ragazzini di spostarsi dai tavolini del suo locale. I poliziotti si schierano su due fronti ai lati del furgone, gli scudi compatti uno sull’altro. Gli assembramenti si sciolgono, si riformano rapidamente poco lontano, al riparo da eventuali cariche. I ragazzi continuano a tirare bottiglie, si muovono in continuazione tra i capannelli di persone, attraversano la strada, girano intorno all’isolato, si confondono tra gli spettatori, poi scattano di corsa, lanciano quello che trovano e tornano indietro. I poliziotti rientrano dentro il mezzo che parte a sirene spiegate, sfonda la barricata di cassonetti ancora in fiamme. Il fronte dei ragazzini si disperde veloce, alcuni retrocedono su via Giuseppe Basile e dal centro della strada continuano a lanciare bottiglie. La polizia spara due lacrimogeni sui ragazzi, nel frattempo i vigili del fuoco azionano la pompa sui cassonetti, mentre volano ancora bottiglie. È buio ormai. Le fiamme si spengono, il rito si è consumato. Le macchine e i motorini riprendono a circolare tra i resti carbonizzati, le persone si allontanano. Pian piano, i ragazzini sciolgono i fazzoletti e tolgono i passamontagna. L’elicottero della polizia si sposta finalmente, ci sono altri fuochi accesi in altre periferie. La città continua altrove la sua guerra alle vampe e ai bambini che le accendono. QUINDICI ANNI DOPO Quindici anni fa, quando lavoravo come operatore di un centro sociale allo Zen 2, avevo seguito i bambini del quartiere nella preparazione della vampa di San Giuseppe. I preparativi erano iniziati a fine febbraio, ogni pomeriggio i ragazzini giravano per le case, le botteghe e le officine, raccogliendo mobili vecchi, persiane e porte dismesse, che accatastavano in una piramide al centro dello sterrato davanti all’insula dove abitavano molti di loro. C’erano anche ragazzine a raccogliere la legna e a giocare, a comporre insieme la piramide di legno, ogni giorno più alta, ad arrampicarsi e a saltare giù dalla vetta a turno, atterrando su un vecchio materasso. Dall’altro lato della strada, altri facevano un’altra vampa. I due gruppi rivaleggiavano, si contendevano il legno portato dagli Ape degli sbarazzi e dai furgoni dei giardinieri, che di solito scaricavano vicino a quelli che gridavano più forte, o che erano più svelti a vederli arrivare dallo stradone e a chiamarli. Poi, la sera del 18 marzo, gli adulti accendevano le vampe, il quartiere scendeva in strada, o si affacciava al balcone a guardarle. Arrivava la polizia, gli agenti scendevano dalle volanti, controllavano, poi risalivano e se ne andavano. La vampa continuava a bruciare fino a mezzanotte passata, con i bambini che giocavano tra i tizzoni semi-consumati. Alla fine, avevano vinto entrambi i gruppi: ogni ragazzino del quartiere, nei giorni seguenti, avrebbe detto che la sua vampa era più grande dell’altra, oppure che squagghiò pi ultima, si è spenta dopo. La stridente differenza tra i resoconti di due vampe a quindici anni di distanza mostra quanto Palermo sia cambiata in questo lasso di tempo. Nei due piazzali dello Zen dove i ragazzini facevano le vampe, ora ci sono un campo di calcetto e un piccolo parco giochi progettato da Renzo Piano. A Ballarò, facciate diroccate che venivano lambite dalle fiamme di San Giuseppe ora sono coperte da murales d’artista alti quindici metri, meta di passeggiate artistiche e turismo “alternativo”. A largo Gerbasi, dove i ragazzini dell’Albergheria montavano la vampa nello slargo della strada non ancora asfaltata davanti all’Ex Karcere (centro sociale occupato nel 2001, oggi in via San Basilio), ora c’è una ricca residenza universitaria. La turistificazione, il mercato, la politica hanno profondamente modificato alcuni spazi urbani, specialmente nel centro storico. Le voragini lasciate dallo spopolamento del secondo dopoguerra, dalla speculazione edilizia in periferia, dai crolli dovuti all’abbandono, sono state in parte riempite, in parte camuffate da qualcos’altro. Il controllo istituzionale sul territorio è aumentato, quello mafioso è meno visibile, si è trasformato. Le narrative dei luoghi sono cambiate drasticamente – basti pensare a Ballarò. Per molte persone che ci abitano, la trasformazione è preferibile. Giovani adulti cresciuti facendo le vampe dicono che ormai è tutto cambiato, che negli ultimi anni le cataste di legna si fanno troppo alte, troppo vicine alle case e alle macchine posteggiate, che si brucia troppa plastica, che i ragazzini di oggi sono troppo esagerati, troppo violenti, troppo scafazzati, maleducati. Meglio non farle più le vampe, ormai sono solo degrado. Il discorso sulla trasformazione dei quartieri è delicato. Questo articolo non è certamente un’ode nostalgica a un’antica tradizione. Le preoccupazioni e i desideri degli abitanti che sperano nella riqualificazione urbana del centro sono certamente legittimi, e se il rito delle vampe dovesse in futuro estinguersi autonomamente, non ci sarebbe niente da aggiungere. Il punto è che sta avvenendo l’esatto contrario: il fenomeno delle vampe a Palermo continua a crescere, sebbene stia diventando qualcosa di molto diverso dalla festa tradizionale, con significati rituali stravolti, inediti attori e nuovi scenari urbani e digitali, modificate percezioni da parte degli spettatori. Le violente trasformazioni del rito raccontano gli altrettanto violenti cambiamenti della città, la disgregazione dei quartieri, l’indebolimento della solidarietà e dei tradizionali strumenti di coesione delle classi popolari, l’aumento del conflitto e della rabbia sociale e l’esponenziale aumento della repressione istituzionale. Protagonisti di questa storia sono i ragazzini dei quartieri popolari, nati negli anni della crisi, cresciuti nella dissoluzione del welfare pubblico e di quello mafioso, in famiglie sempre più precarie. La maggiore presenza dello stato nei loro territori non ha determinato per loro maggiore protezione, ma ulteriore destabilizzazione. La famiglia, la scuola, la chiesa cattolica, i servizi sociali, le reti clientelari, il lavoro informale… tutte le istituzioni preposte alla cura, alla riproduzione sociale, alla produzione, stanno vivendo un periodo di forte crisi e di conseguente perdita di autorità. D’altra parte, questi ragazzini hanno subito negli ultimi anni nuove e pesanti forme di controllo, rafforzate dalle restrizioni pandemiche, che hanno determinato una crescente e attiva presenza delle forze dell’ordine in quartieri come lo Zen e Ballarò, in cui fino a dieci anni fa la polizia in genere neanche entrava e dove invece adesso interrompe falò con gli elicotteri. Le vampe di San Giuseppe sono esemplificative della nuova politica dello spazio pubblico a Palermo: espressione di forte identità culturale delle classi popolari, pratica di gestione autonoma dello spazio pubblico attraversata da conflitti tra le diverse componenti sociali dei quartieri, non esente da violenza e prevaricazioni, le vampe sono continuate attraverso i decenni nella sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine, in zone marginali della città, nel centro storico abbandonato e nelle periferie di edilizia popolare. Oggi, la tolleranza è finita. Le vampe sono diventate oggetto di una vera e propria guerra, che mobilita ingenti risorse e dispiega forze di polizia, vigili del fuoco e tribunali per cercare di scongiurare la preparazione delle cataste di legna, per spegnere i fuochi una volta accesi, e per indagare i responsabili dopo. I ragazzini resistono, sentono ancora forte il valore della prova del fuoco, della manifestazione pubblica di coraggio, per strada e su TikTok. La repressione esaspera il conflitto, lo scontro è inevitabile e, in quanto tale, diventa il centro del rito; i ragazzini lo cercano, lo pianificano, lo gestiscono; la polizia ne diventa coprotagonista in negativo, pupazzo di carnevale in carne e ossa. Una forma tradizionale di appropriazione dello spazio pubblico attraverso il rito si trasforma in tattica di guerriglia, irrisione del potere attraverso la provocazione fisica, sovversione violenta dei divieti. E come ogni rito, anche le vampe riescono nell’impresa di imporre l’ordine al mondo, di dare agli esseri umani la parvenza del controllo sulle grandi forze che regolano l’universo intorno a loro: ogni anno, i ragazzini, da soli riescono ad accendere i fuochi, nonostante i divieti e gli elicotteri, gli idranti e i mezzi blindati, le telecamere e i lacrimogeni. Per un fugace momento, il buio della sera di fine inverno viene illuminato dalle fiamme. Anche se a bruciare è più plastica che legno. Anche se il coraggio va mostrato a volto coperto. Anche se comporterà denunce, arresti e processi. La festa del santo compie il prodigio di coordinare il malcontento, di dare ai ragazzi le energie per sfidare il potere e per tenere testa alla polizia; ma il meccanismo rituale intrappola il conflitto sociale, gli impedisce di entrare nella storia, di formularsi politicamente. Spentosi il fuoco delle vampe, si spegne la protesta. La persistenza delle vampe di San Giuseppe è certamente una forma di resistenza al controllo da parte dei ragazzi di quartiere, ma l’esercizio di tale resistenza produce effetti disgreganti. Le comunità si spaccano, il pubblico si allontana dagli attori, ne prende le distanze. Gli adulti partecipano meno. I ragazzini sperimentano uno spazio di totale autonomia, ma perdono la protezione dei grandi, che si divertono a guardarli far la guerra con la polizia, ma li lasciano soli a giocare. La festa di passaggio non celebra nessun passaggio: saltato il fuoco delle vampe non si diventa grandi. Il rito urbano di San Giuseppe, sempre più legato alla marginalità, turba gli spettatori, anche coloro che ne sono stati attori qualche anno fa, quando andavano in scena copioni rituali meno violenti. La comunità degli adulti consuma lo spettacolo dei ragazzini ribelli, ma non vi si rispecchia, non approva. La repressione esacerba la violenza rituale, scaricandone la responsabilità sui ragazzini. È un gioco troppo pericoloso, troppo crudele. Come nel film I miserabili di Ladj Ly, la violenza collettiva dei ragazzini esprime la loro estrema vulnerabilità sociale, la perdita del controllo da parte degli adulti, la deresponsabilizzazione delle istituzioni di riferimento, che esercitano coercizione e controllo senza assumersi alcuna responsabilità di cura. UN PUGNO DI VANDALI Una città in guerra con i ragazzini è una città malata. La guerra non si svolge solo nelle piazze dei quartieri la sera del 18 marzo, continua nei social, sui giornali e in televisione, si nutre di narrazioni che colpevolizzano i ragazzi e invitano all’intervento deciso delle forze dell’ordine, circoscrivendo la questione a un problema di ordine pubblico, di volgare vandalismo. Sulle pagine online dei quotidiani locali, i commenti sono pressoché unanimi: si tratta di delinquenti che meritano la galera, o forse sarebbe meglio prenderli a pietrate, come fanno loro con poliziotti e vigili del fuoco. Sono ragazzi, quasi bambini, ma questo elemento la stampa lo menziona di passaggio. Le vampe sono un uso barbaro, inconcepibile in una città “moderna”, che solo l’arretratezza e l’ignoranza di un pugno di vandali mantiene viva. La condanna delle vampe è una delle contraddizioni amare di una città che per alimentare il mercato turistico cavalca il mito della convivenza pacifica tra arabi e normanni, patrimonializza le tradizioni folkloriche di un secolo fa, ma disconosce ogni forma di cultura popolare contemporanea che manifesti conflitto sociale anche in forma indiretta, bollandola come rozza, incivile, retrograda. Pelle meridionale, maschere europee. Le vampe, per San Giuseppe o per altri santi in altri momenti dell’anno, sono una tradizione millenaria che continua in molti centri siciliani senza richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli elementi sono gli stessi: cataste di legna in spazi urbani, fuoco, ragazzini protagonisti, comunità in festa. L’antropologia l’ha già raccontato. I lavori di Ignazio Buttitta (Le fiamme dei santi, Meltemi, 1999), Orietta Sorgi e Nara Bernardi (Le vampe di Palermo, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 1985) ricostruiscono la storia millenaria della tradizione, il senso rituale del ciclo delle stagioni della natura, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, del cosmo e della società che si rinnova. Eppure, dire tutto questo oggi non basta a sovvertire i discorsi dominanti. Le narrazioni ufficiali, nei rari casi in cui viene riconosciuta la profondità storica e la ricchezza culturale del rito delle vampe, leggono i fenomeni violenti degli ultimi anni come perdita dei valori, secolarizzazione del rito, pretesto per fare casino. Esemplare, in tal senso, l’immancabile servizio di Striscia la notizia sulle vampe, raccontate come vandalismo “in nome della tradizione, ormai trasformata in distruzione”. L’auspicio formulato dall’inviata nel 2022 è “più controllo” per evitare devastazioni. La cronaca degli ultimi anni l’ha smentita: aumenta il dispiegamento di polizia ma anche la violenza degli scontri, il volume delle inchieste e i Daspo emanati ai ragazzini nei giorni successivi. Le narrazioni ufficiali fanno eco alle azioni istituzionali, mirate a reprimere i comportamenti illeciti senza farsi carico della responsabilità politica della violenza. Due anni fa, il questore Laricchia, parlando alla festa della polizia qualche settimana dopo San Giuseppe, fece “il punto sul crimine nel capoluogo siciliano” denunciando la connessione tra traffico mafioso di stupefacenti, diffusione del crack tra i giovanissimi, “atti di violenza inconsulta e fine a sé stessa” e “azioni criminali” in occasione delle vampe, “branchi selvaggi” di adolescenti e baby gang arabe. La droga non c’entra. La violenza delle vampe sarà anche fine a sé stessa, ma non è inconsulta. È effetto della campagna di criminalizzazione, legata al quadro più generale della nuova politica degli spazi pubblici a Palermo, segnata dal crescente esercizio di controllo e da una sempre maggiore intolleranza per le forme di socialità autonoma e popolare. A farne le spese sono principalmente i ragazzini, dipinti come vandali irredimibili e sempre più esposti alla violenza, con sempre minori protezioni. (eugenio giorgianni)
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