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L’Isola che non c’è più. Librerie e negozi di dischi espulsi dalla Milano olimpica
(disegno di escif) A Milano, l’aumento esponenziale dei valori immobiliari in vista delle Olimpiadi del 2026 sta aggravando l’emergenza abitativa e la pressione su spazi sociali ed esercizi commerciali diversi da ristoranti e bar. Nel quartiere Isola, che da anni ha perso gli storici abitanti, artisti e artigiani che lo animavano, ad andarsene sono ora la libreria Spazio BK e Volume Dischi e Libri, pochi mesi dopo il trasferimento della storica Isola Libri.  Per salutare il quartiere prima di spostarsi in un’area più periferica, la sera del 7 novembre BK e Volume hanno organizzato un “rito corale di passaggio”. Sono intervenuti giornalisti, musicisti, artisti e abitanti che si sono sentiti a casa in questo tratto di via Porro Lambertenghi che per anni è riuscito a resistere alle dinamiche di espulsione e sostituzione in corso nel quartiere Isola e nell’intera città. Pubblichiamo di seguito l’intervento di Lucia Tozzi in occasione della serata di saluto.  BK e Volume non sono le prime librerie che lasciano l’Isola: sono state precedute da Isola Libri, a pochi metri da qua, che per ora si è spostata a Dergano, e che è stata cacciata per lo stesso motivo, l’aumento radicale dell’affitto, ed è stata rimpiazzata da un ennesimo ristorante. L’anno in cui BK ha aperto, il 2012, era l’anno in cui nacque Macao (e per inciso anche mio figlio, ma non c’entra niente), e sembrava che una critica alla gentrificazione e finanziarizzazione della città stesse prendendo forza, che una piccola moltitudine stesse cominciando a lottare per riprendersi gli spazi, a Milano come in Italia. Poi invece arrivò l’Expo e spazzò via tutto, prima censurando e poi catturando il dissenso, e trasformando qualsiasi azione dal basso in un pezzo di rigenerazione urbana, di brandizzazione volta a favorire l’aumento del prezzo del metro quadro. Così Macao è stato protagonista della valorizzazione di Porta Vittoria ed ex Macello, ed è stato sloggiato per fare posto al progetto ARIA e alla nuova BEIC, una biblioteca dove si potrà fare di tutto tranne che leggere, e i prezzi in zona hanno superato i 4.700 euro al metro quadrato. Così è successo a tante associazioni, centri culturali, giardini condivisi, spazi animati da persone il cui obiettivo era esattamente agli antipodi, ma che non hanno saputo riconoscere il pericolo della comunicazione, della sussunzione per usare una parola di Marx, o non hanno avuto la forza di contrastarlo. Eppure il pericolo della gentrificazione, della desertificazione, della foodification era già ben noto, raccontato da attivisti e scrittori e reportage e studiosi per città come Manhattan, Barcellona, San Francisco, Berlino e mille altre. Rileggete per esempio il capitolo sulla Bowery in Vanishing New York di Jeremiah Moss: nel 2006 il locale storico che aveva ospitato il debutto dei Ramones chiudeva i battenti per sempre, con un rito officiato da Patti Smith; dopo sei mesi il suo fondatore Hilly Kristal moriva e al suo posto si installò un fashion brand di lusso, che lanciò una serie di prodotti brandizzati con il nome dell’ultimo quartiere di frontiera a Manhattan, il birthplace of Punk: i Bowery jeans, i Bowery boots, eccetera. La cosa più assurda è che il fashion designer in questione vendette questa operazione estrema di mercificazione come una battaglia contro la mercificazione: “CBGB non diventerà una banca o uno Starbucks!”. Mentre la cosa più triste è che Arturo Vega, direttore artistico dei Ramones, era lì a confermare: “È una cosa naturale. Le cose muoiono e si trasformano”. Un po’ come dice un cantante isolano, Francesco Bianconi dei Baustelle, che ha sostenuto che chi denuncia l’andazzo milanese “ha scoperto l’acqua calda” e che queste cose succedono dappertutto, d’altra parte anche lui vorrebbe una casa al Marais ma non se la può permettere. E tuttavia si guarda bene dall’attaccare il sindaco perché a) non è colpa sua b) attaccare la sinistra da sinistra significa darsi la zappa sui piedi. E infatti, a forza di non criticare la sinistra neoliberale, negli Stati Uniti Trump è tornato presidente. Che cosa è successo alla Bowery dopo? È diventato un “quartiere di lusso in cui dei punk di mezz’età difendono le ragioni della rendita contro gli attivisti antigentrification”. È diventato il quartiere del New Museum (progettato dalla giapponese Sejima di SANAA, quella del campus Bocconi) che vende tra i gadget delle capsule d’oro 24 carati da mangiare; del Bowery bar, con i party di Louis Vuitton; degli hotel di lusso come il Cooper Square Hotel, odiato dagli abitanti che lo chiamano “the Dubai Dildo”. Dove Basquiat morì di overdose oggi c’è una macelleria giapponese che vende wagyu beef a prezzi esorbitanti. Il boutique hotel Bowery House invece considera gli homeless sul marciapiede rimasti una “experience” da offrire ai clienti. Nonostante le scritte di protesta come “Save the city, kill a Yuppie” o più classicamente “The end is near”, anche il Mars Bar, un altro monumento della New York underground, è stato rimpiazzato da un luxury condo, Jupiter 21. Non c’è niente di naturale in tutto questo. È il frutto di scelte politiche ben precise, a favore della rendita. Come il decreto che il Pd, per difendere il mercato immobiliare milanese e l’operato della giunta, ha elaborato spalla a palla con il governo Meloni-Salvini che dice di combattere, e che tra poco darà una nuova spinta a questo sviluppo urbano classista e violento. Sono politiche che possono essere contrastate, a cui possiamo opporci. Se non ci opponiamo, l’Isola e Milano e Roma e Napoli e tutte o quasi le città diventeranno sempre più dei deserti urbani tavolinizzati, popolati esclusivamente da ricchi che si ingozzano. Se non vogliamo finire come nel film di Truffaut, imboscati nelle campagne a tramandarci i libri imparati a memoria prima dei roghi, conviene lottare. Viva BK e Volume! Facciamo in modo che non debbano spostarsi ancora più in là, teniamocele strette.
November 18, 2024 / NapoliMONiTOR
Mo’ basta! La protesta dei lavoratori Gls a Napoli
Fotografie di Mario Spada Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.  I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane. In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.  
November 17, 2024 / NapoliMONiTOR
Il diritto di restare: espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia. Un estratto dal libro di Stefano Portelli
(disegno di bambi kramer) Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia (Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.  A seguire ne pubblichiamo un estratto.  *     *     *  È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre 1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di movimenti per la casa e per i servizi. Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono – compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue. La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa. Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale, anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le istituzioni. Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato, minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera” inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un “residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle case da cui furono mandate via quindici anni fa. Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di altri a una continua peregrinazione intorno alla città. Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità” rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale. Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici, oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al displacement. Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati, come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli sgomberi, e che li ricordava così: «Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la sua organizzazione». Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […] Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire, Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti. Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa, Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze. Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti. Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una città diversa. Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum: l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”, nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati” dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo collettivo creato nel vecchio quartiere. «La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto della scavatrice di Pasolini, Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore; ciò che era quasi una vecchia fiera di freschi intonachi sghembi al sole, e si fa nuovo isolato, brulicante in un ordine ch’è spento dolore. In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e politica. Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex “baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti, che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati. All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni (2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere. Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti, sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e colpevole per natura. Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni, sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e culturali. Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata, prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo in gioco gli stessi corpi. Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun). Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte», dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita: come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in affitto. L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini: «Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa; l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali, smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia. Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi. Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere. Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato immutabile. Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)
November 15, 2024 / NapoliMONiTOR
Aboliamo il ponte! Canovaccio per un teatro del grottesco a Torino
(disegno di roberto-c.) Era sabato 5 ottobre 2019, dopo lo sgombero violento dell’area più povera del Balon. Una straccivendola non accettò l’esilio e all’alba spostò un cassonetto in mezzo alla strada, accanto al ponte Carpanini di Borgo Dora. L’accenno di barricata diede coraggio ad altri venditori e nacque un mercato dissidente che costrinse le forze dell’ordine a nuovi interventi con scudi e manganelli. Sono passati cinque anni soltanto, eppure sembra un’era. Oggi i cassonetti non esistono più in strada perché è cambiato il sistema di raccolta dei rifiuti. Oltre il greto sorge il cantiere del nuovo The Social Hub e il presidente di circoscrizione Deri ha ordinato di divellere le panchine lungo un tratto di sponda fluviale. Fioriere e rastrelliere per bici sono state installate per disturbare le soste notturne di chi non ha casa. La municipale ha cercato per settimane di chiudere l’accesso alle sedute in legno del ponte Carpanini: stendevano invano illegittimi nastri rossi e bianchi. Una fondazione filantropica gestisce un giardino recintato e partecipa, insieme a tutti i raccattatori di briciole del terzo settore, a progetti europei per la sicurezza lungo il fiume. Le ronde di militari e poliziotti battono la zona per mettere in scena uno spettacolo securitario. Si respira un’aria di ostilità verso chi non aderisce ai progetti consumistici previsti per il quartiere e proprio le gradinate del ponte Carpanini sono uno degli ultimi luoghi in cui poter sostare liberamente, e senza l’orizzonte d’un cancello che delimita un’area pubblica. L’ultimo agosto due consiglieri di circoscrizione della Lega (Daniela Rodia e Daniele Moiso) hanno presentato una mozione con questo titolo: “Abolizione scalinata Ponte Carpanini”. Riporto il testo: “PREMESSO che negli ultimi anni sono molteplici gli episodi di aggressioni, risse e danneggiamenti riportati dalla cronaca nera cittadina che si consumano nel tratto di strada di Lungo Dora Napoli / Corso Giulio Cesare PRESO ATTO che nonostante l’approvazione di svariati documenti presentati da codesto gruppo politico ma anche da altre forze politiche e da noi votati CONSIDERATO che nonostante le scelte politiche messe in campo in questi anni sembra chiaro che la situazione sul tratto Lungo Dora Napoli / Corso Giulio Cesare non trova miglioramenti, anzi considerando anche il grave episodio della morte di una persona, che a quanto pare dovuta da un regolamento di conti a causa della forte attività di spaccio e probabile guerra fra bande IL CONSIGLIO DELLA CIRCOSCRIZIONE 7 IMPEGNA il Presidente e la Giunta della Circoscrizione 7 a farsi parte attiva con l’Assessore competente al fine di abolire la scalinata del Ponte Carpanini che quotidianamente viene utilizzata come stazionamento da parte di tali soggetti”. Dedicarsi a un’analisi lessicale e sintattica del testo sarebbe velleitario e forse controproducente. Più rilevante sarebbe soffermarsi sui meccanismi della rappresentazione adoperati da giornalisti e politici in merito ai fenomeni di quartiere: ne abbiamo già scritto e forse è opportuno prevedere una riflessione aggiornata. S’assapora nelle frasi qui riportate l’opportunismo dettato da una maledetta sete di un piccolo successo elettorale. Più intenso dell’opportunismo è il sentore di mediocrità – una mediocrità che la Lega condivide con tutti gli alleati e i partiti al governo della città. La grottesca forma espressiva di questa classe politica non dipende solo dall’infimo cabotaggio di candidati per la circoscrizione: si esprimono così anche in consiglio comunale e in organi rappresentativi maggiori. Penso alla mediocrità come fondamento dell’esercizio del potere, alla banalità come colloso legame su cui si regge un violento ordine costituito. Lunedì 28 ottobre la mozione è stata presentata in circoscrizione. La trascrizione del dibattito è stata una rivelazione: è un testo di teatro del grottesco. Riporto qui le battute con la speranza che un’eventuale azione teatrale in strada possa servire da esorcismo dell’idiozia. Oppure, più semplicemente, per fornire un piccolo documento per un’etnografia della mediocrità governativa. Ogni parola è stata trascritta con fedeltà, mi sono limitato a effettuare tagli per guadagnare in ritmo. Il vociare dalle seggiole dei consiglieri è stato riconosciuto come un canto corale. Poche sono le note di scena scritte in corsivo. L’ABOLIZIONE DELLA SCALINATA Personaggi in ordine di apparizione: Rodia, Lega, prima firmataria della mozione Coro dei consiglieri Moiso, Lega, secondo firmatario della mozione D’Apice, Moderati Alessi, Fratelli d’Italia Presidente Deri, Partito Democratico Giovannini, Fratelli d’Italia Genovese, Sinistra Ecologista Un’aula di consiglio di circoscrizione. I consiglieri firmano e prendono posto. Entra il Presidente Deri e si accomoda al centro dell’aula. Inizia il dibattimento. Rodia: […] Il ponte Carpanini è un qualcosa che non si può non vedere, qualcosa che non si può raccontare in maniera diversa da quella che è. Il ponte Carpanini ha questa scalinata, che quando è stata installata sicuramente aveva uno scopo, però questo scopo purtroppo oggi non corrisponde a quello per cui era stata ideata. Ormai sono anni, troppi anni, che noi sul ponte Carpanini abbiamo continuamente […] risse, spaccio, chi più ne ha più ne metta, ecco. Il tema è questo. E non possiamo non dire che lo stazionamento di persone che stanno lì tutto il giorno, tutta la sera, fino a tarda sera, non sia un problema. E allora cosa fa la Lega? La Lega pensa che per risolvere il problema deve fare una proposta a questo consiglio e la proposta è una proposta sicuramente azzardata […]. A me dispiace dirlo, ma noi siamo convinti che quella scalinata o va abolita, e sarebbe la soluzione migliore… Coro: In che senso “abolita”? Rodia: Va abolita, va tolta. È un sinonimo: abolizione, togliere, smontata – quello che volete, comunque il senso è quello. Oppure c’è da intervenire in modo serio, cosa che questa circoscrizione non ha mai nemmeno toccato l’argomento. Moiso: Io vorrei dire che è una proposta forte, una proposta tra virgolette radicale. Voi ci accusate sempre di voler militarizzare il territorio […]. Però, vede presidente, questa volta non andiamo nella direzione di militarizzare il territorio. Ci accusate da anni di essere brutti, cattivi, razzisti che vogliamo sempre eliminare la microcriminalità. […] Adesso trovatemi un’altra scusa per non votare questo documento, che va nella direzione di cercare più sicurezza per questo territorio, che è sotto lo sguardo di tutti presidente – puoi essere di destra, di sinistra, di centro, del nord, del sud, dell’est o dell’ovest – è un posto dove regna la criminalità, purtroppo è così. Quindi noi cerchiamo di aiutare […] le nostre forze dell’ordine. Togliamo questa benedetta scalinata e vediamo cosa succede. […] E con questo chiudo. D’Apice: La politica dovrebbe riunirsi e affrontare il problema, ma arriviamo al dunque: togliere la scalinata non risolve, perché dopo non stanno più lì, vanno alla bocciofila. Rodia: Infatti dobbiamo mandarli da un’altra parte! Coro: In Albania? D’Apice: Se togliamo la scalinata non risolviamo niente. Ci sono cose da tenere separate, non possiamo mettere tutto nel calderone, non possiamo fare un minestrone. Rodia: Qui non c’è nessun minestrone. D’Apice: Io sono del parere di non togliere le scalinate, ma di metterci qui tutti assieme e trovare una soluzione. Noi siamo una piccola parte della politica: facciamolo noi. L’alta politica lasciamola fare agli altri, noi facciamo la bassa politica. Riuniamoci, e ognuno metta le sue idee. Rodia: Ma io le ho messe! Alessi: Io attentamente ho sentito l’intervento di D’Apice, ma non ho capito qual è la sostanza.  Perché secondo me… D’Apice: Riqualificazione! Alessi: Togliere una scalinata o qualsiasi altra cosa è una sconfitta totale della politica. Do pienamente ragione alla collega Rodia e al collega Moiso perché quella scalinata – ma non solo la scalinata: quel luogo! – è inaccettabile, e non ho altre parole per definire. Quello che capita in quel luogo è inaccettabile. Però voglio fare un esempio: qualcuno – magari anche amico del presidente Deri, non lo so – si lamentava per le panchine su Lungo Dora Firenze, […] e le panchine sono state tolte. Si è risolto il problema? No. Primo: si sedevano comunque lì, perché se non erano seduti sulle panchine erano attaccati alla ringhiera o si portavano le sedioline da casa. O, meglio ancora, quelli che erano lì si sono trasferiti adesso dall’altra parte. […] Quindi, abbiamo tolto le panchine da una parte, ma le stesse persone sono andate a trenta metri oltre il fiume. Togliere la scalinata secondo me è un po’ la stessa cosa. È vero, si toglie la scalinata e si toglie un problema, ma quelle persone stanno sotto l’altra casa, stanno lungo il fiume, stanno sempre lì perché non è che si spostano di due chilometri. […] Io propongo di aggiungere […] che per motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica si richiedono al sindaco ordinanze urgenti e contingibili volte a tutelare il lavoro delle forze dell’ordine. In questo caso specifico io andrei a sostituire la parte finale della mozione […] con: “proporre un’ordinanza urgente e contingibile per chiudere per un periodo di tot mesi – che può essere un mese, due mesi, tre mesi, starà al sindaco deciderlo – la scalinata del ponte Carpanini, valutando successivamente la situazione” […]. Cioè, si chiude la scalinata in qualche modo. Coro: E come la chiudi? Presidente Deri: Per favore! Alessi: La si chiude. Presidente Deri: Shhhhh! Alessi: E si dà uno strumento alle forze dell’ordine che lì non possono stazionare e si vede anche queste persone cosa faranno. Se saranno a due metri, non si sarà risolto il problema, se vanno da un’altra parte magari il problema si è risolto. Allora dopo l’ordinanza uno dice: ok, senza quella scalinata migliora tutto, togliamo la scalinata. Però io, personalmente, non mi sento di dire oggi togliamo la scalinata senza prima fare una prova, perché sennò veramente, dovremo anche togliere le rive, le sponde della Dora! Dovremo chiuderle. Rodia: Ottima idea! Giovannini: Io mi trovo pienamente d’accordo con le obiezioni che ha presentato la collega. Anche secondo me togliere le gradinate non serve a niente. Lo si è visto con le panchine tolte, si continua con il togliere dei servizi ai cittadini, invece lì problema è portare legalità in quella zona. In questi giorni c’erano i militari, anche se stazionavano e non giravano, e la presenza di certi personaggi si è ridotta notevolmente. Quindi il problema è riportare la legalità in quella zona e non togliere un servizio ai cittadini […]. Genovese: A volte mi sembra che guardiamo a delle stesse dinamiche, ma con prospettive totalmente diverse, da due mondi diversi. Quello che contesto di questo atto è il pensiero a monte, ovvero: che sia un problema che vi siano venti, trenta persone che siedono tutto il giorno sulle scalinate in un quartiere come quello di Aurora. […] Magari queste persone non sanno come riempire la giornata, o non possono, o per altri motivi non hanno altro luogo dove stare se non ritrovarsi lì. E magari non hanno altre occupazioni… Brusio indignato. Presidente Deri: Per favore! Genovese: Non hanno altre occupazioni, o non hanno altri posti alternativi, se non quello, purtroppo, di ricorrere alla microcriminalità o allo spaccio, è questo il problema: è che non diamo alle persone in questo momento gli strumenti per cercare effettivamente una occupazione o una vita migliore in questo paese, in questa città e in questo quartiere. […] Per me non è un problema di sicurezza una persona che spaccia, ma è un problema per quella persona che debba ricorrere allo spaccio  per sopravvivere. Moiso: Presidente Deri, ma cosa stiamo dicendo? Siamo in un’aula istituzionale! Presidente Deri: Siamo in una democrazia, ognuno dice quello che vuole, poi gli elettori decideranno. Moiso: Posso tollerare tutto, ma non questo! Genovese: La complessità è più ampia di una scalinata e io sinceramente non vedo differenze tra la proposta della Lega e l’emendamento di Fratelli d’Italia che dice esattamente la stessa cosa. Una volta che si chiude la scalinata le persone si spostano. […] Bisogna provare a fare delle vere manovre di aiuto per le persone che sono in strada e che sono costrette a starci perché non hanno alternativa. […] Una volta che togli loro quello spazio andranno – e giustamente! – a cercarne un altro. Non è che quelle persone scompaiono insieme alla gradinata. Presidente Deri: Adesso io provo a intervenire. Io penso che le semplificazioni in politica siano ottime da un punto di vista comunicativo, ma poco utili a cercare di risolvere le criticità e la complessità della nostra società. Ora, è indubbio che noi abbiamo alcuni quartieri dove la situazione sia particolarmente complicata e complessa nella gestione di alcuni fenomeni, uno dei quali è lo spaccio. Io penso che, per quanto concerne la gradinata, la balconata, chiamiamola come riteniamo più opportuno, del ponte Carpanini ci sia una situazione ambivalente. Ci sono sicuramente degli spacciatori, questo è indubbio, ce lo dicono tutti: residenti, forze dell’ordine, servizi sociali, addetti del terzo settore. E ci sono persone che lì hanno trovato un luogo di incontro. […] Sul ponte Carpanini noi abbiamo già richiesto una nuova progettazione per l’utilizzo non soltanto del ponte, ma di tutta l’area. Per far sì che si creino le condizioni perché quello spazio venga utilizzato da tutta la cittadinanza in maniera tale che non ci siano delle situazioni per le quali, talvolta, la situazione sia oggettivamente compromessa. Perché io mi rendo conto, e molti di noi lo vedono, e chi non lo vede fa lo stesso errore di chi chiede soluzioni manu militari, che molte persone passano in mezzo alla strada perché passare davanti alla balconata, talvolta, c’è la sensazione… Coro: C’è la sensazione… Presidente Deri: C’è la sensazione che la situazione non sia proprio delle più tranquille. Questo vuol dire che se noi lo chiudiamo il problema si sposta di dieci metri, cinque metri. Mentre io penso si debba fare un ragionamento molto più ampio, si debba fare una progettazione a 360 gradi coinvolgendo tutti gli attori del territori. E quando dico “tutti” intendo tutti gli attori del territorio, da quelli formali a quelli informali, affinché quelli spazi possano essere riprogettati. Cosa ne uscirà? Non lo so, però vogliamo fare questo sforzo tutti assieme di poter provare a riprogettare l’area? […]  Ci riusciremo? Non lo so. Proviamoci. Cercheremo nelle prossime settimane – se naturalmente ci fossero anche altre forze che vogliono darci un supporto, una mano, un’idea, una proposta sarà la benvenuta – cercheremo di coinvolgere anche gli assessorati competenti, parlo dell’assessorato ai servizi sociali, dell’assessorato alle periferie, di tutta una serie di assessorati affinché questa situazione possa migliorare. Infine concludo e ricordo che la Città di Torino ha messo a bando una progettazione nominata ImpatTo che ha come punto di riferimento soprattutto i quartieri di Barriera di Milano e Aurora […]. Rodia: […] Che io senta in quest’aula che venti persone, stare sedute lì, è normale e non è preoccupante che spacciano: io lo trovo assurdo e vergognoso, io lo trovo assurdo e vergognoso, assurdo e vergognoso e una mancanza di rispetto per tutti quei residenti che invece non stanno lì su quel ponte, ma che da quel ponte non ci possono passare. Il problema è questo, e lo ha detto anche il presidente, e su questo è una delle poche cose con cui sono d’accordo, la gente da quella parte lì del ponte non passa. E allora, se non passa un problema c’è. […] Non sono d’accordo [con la chiusura sperimentale] perché sono convinta che con una chiusura del ponte di quell’attraversamento andiamo a finire che le persone scavalcano e diventa ancora più pericoloso […]. Alessi: Io volevo rispondere alla consigliera Genovese dicendo che comunque lo spaccio è reato. Punto. Rodia: Eh, certo. Alessi: Siamo in uno stato dove lo spaccio, soprattutto quello spaccio, è comunque reato. Poi volevo anche rammentare che lì non c’è solo lo spaccio perché potrebbe essere anche il meno lo spaccio, anche se è reato, ma lì ci sono delle risse che sono pericolose, lì ci sono delinquenti, di qualsiasi nazionalità, non me ne frega di chi sono, ma sono delinquenti e punto. Ci sono anche delle baby gang che iniziano ad andare fino lì e da qua si stanno spostando. I cittadini ci mandano ogni giorno delle risse lì, e sono pericolose, perché se tu ti trovi in mezzo, è pericoloso, non solo sul ponte Carpanini, eh, tutta l’area! Poi io ho proposto chiamiamola una “chiusura sperimentale”, io l’ho fatta passare come ordinanza del sindaco […]. D’Apice: Volevo soltanto dichiarare questa cosa che questo territorio ha bisogno di riqualificazione e in alcuni frangenti… Questo territorio ha il suo fascino. E io voglio venire al dunque: i Quartieri Spagnoli di Napoli non potevi neanche accederci dentro, neanche noi napoletani, ma vai adesso: è tutto diverso. C’è stata una riqualificazione totale! Alessi: E cosa aspettate? È quarant’anni che governate Torino! Genovese: In realtà volevo solo ribadire che trovo gravissimo se in quest’aula istituzionale non siamo tutti d’accordo nell’affermare che chi è costretto a spacciare sia vittima di un sistema precario, fragile… Rodia e Moiso: No! No! Voci concitate, brusio che scema. Alcuni consiglieri si alzano per protesta e se ne vanno con ampi gesti di rabbia e invettive. Si procede alla votazione. Chi è rimasto in aula si proclama contrario, chi è uscito non può rispondere alla convocazione di voto. Si contano diciassette voti contrari. (a cura di francesco migliaccio)
November 13, 2024 / NapoliMONiTOR
“Lottiamo per sessant’anni di storia”. Voci dalla fabbrica occupata di Statte, Taranto
(archivio disegni napolimonitor) “La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”. C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti, dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze operaie. Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre. «Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte, inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche altro pezzo di mondo. *     *    * La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore, mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a cambiare davvero. La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar (movimentazione di container) e la stessa Hiab. A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una S.p.a. autonoma. In mezzo a queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio. La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi, ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del made in Italy. Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del Made in Italy. Gli operai ci hanno creduto. Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione, Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori, carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è lavoro solo per poche settimane ancora. Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda. Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione dello stabilimento che scade a novembre del 2025. I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale, credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite, fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti. «I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci spiega uno degli operai che si occupa del magazzino. A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio perché non sanno cosa produrre». Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita. *     *    * È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri, quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone. I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del 5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti: «Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini». Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento, lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita. Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre. Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio altoforno 1 dell’acciaieria.  «Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione, di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani. È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte. Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede.
November 12, 2024 / NapoliMONiTOR
Spina Tremula. Le foto di Spada e Ippolito negli spazi del Chikù a Scampia
(foto da: spina tremula) Fino al 31 dicembre sarà possibile visitare Spina Tremula, la mostra di Mario Spada e Gaetano Ippolito allestita negli spazi del centro Chikù (largo della Cittadinanza attiva – viale della Resistenza, Comparto 12) a Scampia. Insieme all’esposizione, quindici giovani della città verranno coinvolti in un laboratorio di narrazione e di fotografia stenopeica. Martedì 12 novembre, alle 12:00, sempre da Chikù, sarà possibile incontrare e discutere con gli autori della mostra.  Spina Tremula è il lavoro presentato il 24 ottobre nella sede di Chi rom e chi no da Mario Spada e Gaetano Ippolito, artisti napoletani di casa al Centro di fotografia indipendente di piazza Guglielmo Pepe, in zona Porta Nolana. Spada ne è fondatore e insegnante; Gaetano, cresciuto nell’area nord, vi è entrato come studente e ora insegna anche lui, specializzato nelle pratiche di sviluppo e stampa in camera oscura. Se appare evidente la differenza generazionale in Gaetano e Mario, entrambi i loro lavori sono realizzati a Napoli e partono dalla raccolta di migliaia di fotografie. La selezione qui riunita corrode i confini tra le due sequenze per la scelta di abbandonare l’ordine autoriale. Ragionano entrambi sulla possibilità della perdita del nome, confondono le ricerche per smarrirsi e spostare chi osserva; e chi legge, a partire dal titolo. La firma che sgomita per accedere agli spazi espositivi del mondo dell’arte e del mercato, a Napoli e altrove, dove bandi, call e residenze basano festival e campagne di produzione sul principio della competizione, trova spazio di rivolta in Spina Tremula. Lo stesso vale per la produzione del lavoro durante il processo di realizzazione. Una sincerità asciutta e reciproca vive nel confronto quotidiano tra i due. Ciascuno ha scelto per l’altro le immagini da selezionare e da escludere per la costruzione della mostra, portando a confondersi i due sguardi sulla città. “Nelle opere si vuole uscire da uno sguardo confortevole – incide Spada – su una città che non è possibile raccontare attraverso la fotografia”. Il suo lavoro è radicato nell’incertezza; le fotografie non descrivono, ma fanno sussultare direttamente la vista, e tremano non soltanto nello scatto, ma amplificano tale tremore sino al corpo eretto di chi guarda. Arrivare a chiedersi: se questa non è la città che viene raccontata, e neppure quella che conosco, dunque dove ci si trova, per dove arrivare? La posizione è altresì spinosa, e tremula; si abbassa china sulle zampe del cane che incontrano i piedi minuti del neonato; e si apre al cielo, affrontando la gravità del tuffo dall’alto; sta alle spalle di una muta alata, piccola e pronta all’incontro con il paesaggio scuro; avverte posizioni laterali, del passeggero attratto dall’incavo del vagone, che distrattamente possono sfuggire allo sguardo addomesticato. La possibilità di veder stampate in tali dimensioni e in qualità fine art queste fotografie può provocare l’inciampo di percorsi di vita di ragazzi e di ragazze che quotidianamente attraversano il centro Chikù; chissà che qualcuna e qualcuno, di fronte a queste non si innamori dell’atto, e trovi nei laboratori che verranno avviati nel centro la possibilità di comunicare le proprie inquietudini. Raggiungere lo sguardo di più ragazzi potrebbe essere il proseguimento della tensione sprigionata da questa iniziativa, alimentando il discorso e l’incontro intorno alla fotografia, che in quanto scrittura con luce non si riduca alla stampa posizionata, ma che allacci un percorso cominciato dalla postura dell’artista che sceglie di essere occhio testimone, e di non voltarsi di fronte agli eventi quotidiani speciali, orrendi, semplici o normali, ma di sostare prossimo a questi, qualificandoli nel quadro, tramite ciò che sta al di fuori, ciò che sta alle spalle, nella creazione di un proprio tempo che tenta di sabotare il dispositivo. La mostra è per Spada anche un’occasione che consente di guardare a muro le fotografie, per alimentare la motivazione a cercare gli ultimi fondi che mancano alla pubblicazione dell’atteso libro Spina, dopo un anno di lavoro di editing condiviso con Patrizio Esposito. La mostra rientra nella cornice dell’Ecomuseo diffuso di Scampia, un tentativo di unire il patrimonio materiale e immateriale del quartiere, che attraversa lo spazio pubblico con uno sguardo critico che taglia la neutralità apparente rispetto la narrazione dei luoghi, e risalta le trasformazioni avviate dal basso e contro le possibilità negate a quegli spazi a oggi chiusi e inaccessibili, ancora una volta privati ai cittadini. L’ultimo lavoro apparso in città di Gaetano Ippolito era stato installato al Giardino Liberato, per i due eventi Family Jewels curati da Chiara Pannunzio. Insieme a Lia Morreale, Gaetano aveva allestito la stanza come fosse l’occhio saturato dallo stratificarsi delle immagini di violenza, che nell’esporsi si abitua. Centinaia di immagini al muro, a terra tre schermi di televisori catodici, mostravano i resti dei materiali dai quali le immagini venivano estrapolate. Uno di questi una scritta: nell’invito a prenderne parte attivamente. Invito alla distruzione. Nello strappare le immagini, e portarle con sé. Spina Tremula, citando l’intervento di Maurizio Zanardi durante l’apertura, vuole “fare inciampare quella maledetta fotografia della città. L’immagine di Napoli non compare mai nelle foto di Spina. Napoli viene dimenticata. Solo così è possibile ricordarla, attraversandone le membra scritte con la luce”. (leonardo galanti)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
La violenza e l’attesa. Gli ultimi nove mesi degli abitanti del Frullone
(disegno di martina di gennaro) L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente a Gaza e in Libano.           Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”. La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’), suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”. Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti recenti. Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone, nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.  In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia, congedandoli dopo vaghe promesse. Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto. Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma l’Asl non aspetta». L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male? Sono mesi che stiamo così». Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi, invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che le videocamere non funzionano». In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni, violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto che non si sa bene cosa significhino. L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga. Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra». Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese, minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non avessero lasciato l’edificio pacificamente. Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato. Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene scandito da intimidazioni e incertezze. In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi, mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a scomparsa”. (barbara russo)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
Rewind Napoli, ottobre # Spari, torture e incendi dolosi
(disegno di malov) Il primo ottobre i giornali raccontano la morte di Luigi Procopio, quarantacinque anni, ucciso alla Duchesca il pomeriggio del giorno precedente, mentre era in compagnia di suo figlio undicenne. Qualche giorno dopo per l’omicidio verrà fermato a Milano Antonio Amoroso, nipote della vittima, vicino agli ambienti criminali di Forcella. Il movente parrebbe essere un debito di cinquemila euro non saldato. Leandro Del Gaudio (Il Mattino) se la prende quasi più con le persone che avrebbero assistito all’omicidio e non denunciato, che con la barbarie del delitto. Parla di “omertà e paura a fette”, “un misto di rassegnazione e indifferenza”, che incredibilmente accomuna i commercianti e i lavoratori (descrive minuziosamente le attività commerciali del vicolo), stranieri e napoletani. Sempre Il Mattino titola in spalla: “Quartiere sospeso tra droga e rilancio. Tanti turisti, ma servono più controlli”. Gennaro Di Biase scrive: “Il boom turistico da queste parti non ha fatto capolino: qui persiste un melting pot di etnie. Cinesi, georgiani, magrebini, napoletani e nigeriani dal vicinissimo Vasto occupano gli stessi spazi”. Francesco Emilio Borrelli invoca “fermezza totale e presenza frontale delle forze dell’ordine”. Il giorno successivo sempre sulle colonne del Mattino si dà conto con compiaciuta ambiguità del gesto di una banda di ladri che ha restituito, dopo gli appelli pubblicati sul giornale, il cagnolino a una famiglia a cui aveva svaligiato la casa. Il cagnolino era un supporto fondamentale per la dodicenne R., che soffre di una grave malattia genetica degenerativa. In un biglietto, il cui contenuto è riportato integralmente dal Mattino, i ladri hanno scritto: “Siamo ladri, ma onesti”. Sempre il 2, si conteggiano le domande per la partecipazione all’ultimo concorso indetto dal comune di Napoli. I posti sono centotrenta, le domande quasi dodicimila. Per gli otto posti a tempo determinato di vigile urbano, le domande sono duemila centoquarantotto. Sabato 5 un ventiseienne viene arrestato a piazza Garibaldi con l’accusa di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, e denunciato per porto irregolare d’armi. Ai militari e ai carabinieri intervenuti è necessario un grosso sforzo per bloccare l’uomo che se ne andava in giro brandendo una katana giapponese. Il 6 Daniela Di Maggio, madre di Giovanbattista Cutolo, ventiquattrenne ucciso a piazza Municipio il 31 agosto 2023, si esprime sulla condanna (vent’anni) emessa nei confronti dell’assassino del figlio: “Sono soddisfatta perché la condanna è diventata definitiva ma mi batterò perché le leggi penali minorili siano al passo coi tempi e non concedano tanti sconti come avviene ora. […] La stretta sulle armi ai minori, l’introduzione del reato di stesa, il ripensamento della messa alla prova, che non deve essere concessa a chi commette reati tanto gravi, sono frutto delle mie battaglie che hanno trovato ascolto in sede governativa. […] Bisogna auspicare che si intervenga al più presto per garantire deterrenza e riabilitazione, rigore ed effettività della pena. In sintesi: niente abbreviato (sconto di un terzo della pena), niente Cartabia (sconto di un sesto per chi accetta di non inoltrare appello) e rafforzare il processo minorile”. Il 7 settanta famiglie lasciano la loro abitazione nelle Vele, che le istituzioni hanno scoperto “non sicure” e “non abitabili” dopo il crollo di quest’estate. Il Comune rende noto che entro novembre sarà allestito il cantiere per l’abbattimento delle vele Rossa e Gialla e che la totalità delle nuove case sarà completata entro il 2026. Intanto, gli abitanti “in uscita” denunciano di continuo di non riuscire a trovar casa, sia per i prezzi altissimi che per la poca predisposizione da parte dei proprietari ad affittare a chi proviene dai palazzoni di Scampia. La Curia mette a disposizione degli immobili transitori: ogni famiglia vi potrà stare quindici giorni. Venerdì 11 la prefettura comunica i risultati di una settimana di task force e interventi che hanno coinvolto carabinieri, guardia di finanza, polizia locale e ausiliari dell’Anm. Tra i risultati: trentasei verbali ad altrettanti parcheggiatori abusivi, cinquantacinque denunce per recidiva, centotrentacinque veicoli rimossi per sosta irregolare, trecentoventi verbali per violazioni del codice della strada. La prefettura non lo dice ma è evidente come, senza bisogno di scomodare Batman, la città ora possa dormire sonni tranquilli. Il 12 due enormi striscioni con scritto “No war” e “No G7” vengono calati da un gruppo di attivisti da uno dei balconi principali di Palazzo Reale. Dal 18 al 20 ottobre si terrà a Napoli, per la prima volta nella storia, un meeting tra i ministri della difesa dei “grandi sette”. Fin dal giorno 17 il palazzo sarà circondato da una “zona rossa”. Il 13 indignazione sul Mattino, e pubblicazione di un “Dossier sulla borghesia”. Il quotidiano di Caltagirone prende atto che “senso civico e ceto sociale non sono sinonimi”, come dimostrano “i dati sui parcheggiatori abusivi e le loro clientele” e “i marciapiedi intasati dagli scooter in via Nazario Sauro”. Lo stupore più grande è rappresentato dai numeri sulla raccolta differenziata che evidenziano come “i virtuosi non sono residenti di Chiaia ma di San Giovanni a Teduccio e Barra”. A corollario viene pubblicata un’intervista allo scrittore Maurizio De Giovanni. Titolo: “Stop indecisioni. Il ceto illuminato sia da esempio”. Il 14 De Luca torna sulla sua possibile terza candidatura consecutiva a presidente della regione Campania. Citando numerosi esponenti del Pd o vicini al partito, afferma: “Io mi ricandido comunque. Potete immaginare che tutto il lavoro in corso lo buttiamo a mare per fare un favore a questi cafoni?”. Il 15 il garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, spiega a margine di un convegno gli effetti del Decreto Caivano e della stretta legislativa contro i minori: “La giustizia minorile è in crisi, si è avviata verso un modello meramente criminalizzante e privo di prospettive. Da ottobre a oggi c’è stato un aumento di più di duecento adolescenti entrati in cella”. Il 21 otto persone rimangono ferite e quattro vengono arrestate dopo un’aggressione a danno dei veterinari della clinica universitaria di Napoli. Gli aggressori attribuivano al personale sanitario le responsabilità della morte del proprio cane. Particolarmente importante nella cronaca del fatto, per Piero Rossano (Corriere del Mezzogiorno), riportare le frasi in dialetto, con annessa traduzione, anzi parafrasi, pronunciate dagli aggressori mentre pestavano i medici.   Il 22 Dalma Maradona, figlia del campione argentino, denuncia lo spiacevole trattamento che riceve dal presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ogni qual volta prova a mettere piede nello stadio che porta il nome di suo padre: “Non mi ci fanno entrare”, spiega. “Credo sia iniziato tutto quando il Napoli ha realizzato la maglia con il volto di mio padre. Noi ci complimentammo ma chiedemmo dei soldi per lo sfruttamento dei diritti di immagine, dicendo che li avremmo utilizzati per fare beneficenza, a Napoli. Avremmo voluto aiutare una scuola o un ospedale per bambini. Su queste cose nostro padre non si è mai tirato indietro. De Laurentiis disse di no”. Lo stesso giorno si apprende delle torture subite un paio di settimane prima da un uomo colpevole di aver truffato altre persone con un “pacco” (la vendita di un certo quantitativo di telefoni cellulari, molti dei quali non funzionanti). Il truffatore è un nordafricano di circa trent’anni, i truffati (che per riavere i soldi avevano inviato svariate foto via whatsapp ai familiari della vittima, chiedendo un riscatto) sono napoletani vicini al clan Mazzarella. L’autore del pacco è stato torturato con bruciature di sigarette su tutto il corpo, percosse e l’estrazione di alcuni denti con una pinza. In Colombia, intanto, viene arrestato dopo anni di latitanza Gustavo Nocella, principale intermediario tra i clan napoletani Rinaldi, Formicola, Amato-Pagano, De Micco, e i cartelli della droga centro-sudamericana. Il boss è stato incastrato grazie alla sua passione per il biliardo: in ognuno degli appartamenti, che di continuo cambiava nella città di Medellin, veniva fatto portare infatti un tavolo verde per poter tirare di stecca. Il 23 si apprende dai giornali della confessione di un sedicenne che ammette di aver ucciso il suo amico ventenne Gennaro Ramondino per questioni legate ai traffici criminali di Pianura, su indicazione di più importanti elementi dei clan della zona. Il giorno dopo, per mano di un suo coetaneo, a morire, al corso Umberto, è un quindicenne, Emanuele Tufano, vittima di una sparatoria tra due gruppi di giovanissimi. La polizia fa fatica a ricostruire i motivi del conflitto a fuoco e i nomi dei circa venti partecipanti che si sono sparati addosso per quasi duecento metri (ne abbiamo parlato qui). Il 28 vengono arrestati Antonio e suo padre Rosario Piccirillo, quest’ultimo elemento di spicco dei clan della zona della Torretta. L’accusa è estorsione aggravata dal metodo mafioso, per richieste nei confronti di imprenditori che gestiscono gli ormeggi per imbarcazioni sui moli di Mergellina. Antonio Piccirillo era noto alle cronache per essersi dissociato dalle attività camorristiche del padre, e aver organizzato numerosi eventi (cortei, manifestazioni, presentazioni di libri) contro la criminalità organizzata. Lo stesso giorno più di cinquecento persone sfilano e presidiano dall’esterno l’aula bunker del carcere di Poggioreale, in protesta contro le vessazioni giudiziarie di cui sono oggetto i disoccupati organizzati che lottano in città, da quasi dieci anni, per ottenere un lavoro sicuro, stabile e dignitoso. Il 29 la Corte di appello di Napoli si pronuncia in chiusura del secondo processo sul presunto disastro ambientale che riguarda i dirigenti di Bagnoli Futura. Gli imputati vengono tutti assolti: Gianfranco Caligiuri, Sabatino Santangelo, Mario Hubler, Giuseppe Pulli e Alfonso De Nardo. La Corte li aveva già assolti in precedenza, ma la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza, rinviando la decisione a un’altra sezione di Appello. In serata, il Napoli batte per due a zero il Milan a San Siro, consolidando il primo posto in classifica e dando vita alla prima fuga del campionato. La notte tra il 30 e il 31 alcune persone vengono scoperte mentre tentano di incendiare la propria casa per intascare i soldi dell’assicurazione. Avvertiti da una telefonata anonima, i carabinieri intervengono pochi minuti prima che il rogo venga appiccato. Ne nasce una rissa, tre denunciati. (redazione)
November 6, 2024 / NapoliMONiTOR
Rewind Roma, ottobre # Lacrimogeni, hotel abbandonati e lucchetti sfondati
(disegno di peppe cerillo) Il 2 ottobre un dipendente di una ditta privata sotto contratto delle Ferrovie dello Stato pianta un chiodo per errore nel cavo di una centralina, causando il blocco di tutto il traffico ferroviario della costa tirrenica; alcuni treni fanno fino a dieci ore di ritardo: inizia l’ottobrata romana. Il 3 ricomincia a piovere, mentre sale la tensione per la giornata del 5, quando è prevista la manifestazione nazionale per la Palestina a piazzale Ostiense. Centinaia di gruppi politici e associazioni confermano l’adesione nonostante il divieto della Questura, infine costretta ad autorizzare il presidio. Lo sciopero dei mezzi, il diluvio, il terrorismo mediatico, i fogli di via, i blocchi nelle stazioni, ai caselli autostradali e agli autogrill, nonché i controlli a tappeto in zone anche lontanissime da Piramide impediscono la partecipazione a centinaia di persone; eppure oltre quindicimila manifestanti (forse anche di più) si radunano per quattro ore nel grande piazzale, da dove però viene vietato di partire in corteo. L’esasperazione di alcune tra queste dà la scusa alla polizia per tirare lacrimogeni sulla folla e attaccare il presidio con le idropompe: a Roma non succedeva da circa un decennio. La sera un ragazzo del liceo Righi viene aggredito su via Marmorata perché portava la bandiera palestinese. Il 7 ottobre un centinaio di persone presidia il tribunale durante il processo per direttissima alla persona fermata sabato, accusata di resistenza e lesioni. Intanto il rabbino capo di Roma tiene un discorso alla sinagoga sostenendo che “le istituzioni internazionali che dovrebbero essere super partes si sono fatte cassa di risonanza dei più biechi pregiudizi antisemiti”. Nel pomeriggio a Ostiense un ragazzo di diciassette anni su un motorino rubato viene inseguito dai Carabinieri: durante l’inseguimento si schianta contro un muro e muore. L’8 alla Nuvola di Fuksas (il centro congressi per cui la Corte dei Conti aveva chiesto al Comune tre milioni di euro di danno erariale) si inaugura il Cybertech Europe, vetrina dell’industria delle armi e dello spionaggio promossa da Leonardo Spa in stretto contatto con le industrie militari israeliane. Un corteo di contestazione parte da metro Laurentina verso la Nuvola. A poca distanza, la brigata “Genio” dell’Esercito si esercita sul Tevere, per la prima volta in vent’anni: montano un ponte galleggiante per “prepararsi a un evento bellico”. La sera scoppia un ordigno sulla porta del centro sociale La Strada di Garbatella. Il 9 Sinistra Italiana scrive una lettera al sindaco, chiedendo di sospendere gli sfratti per tutto il 2025 in occasione del Giubileo. Il 10 al consiglio del VI municipio, il più popolato e etnicamente eterogeneo della capitale, passa una risoluzione perché le scuole rimettano il crocifisso nelle aule: la vota il centrodestra, con l’astensione di tutte le opposizioni (Pd e Movimento 5 Stelle). L’11 vengono a Roma sia Zelensky che Pedro Sánchez, entrambi ricevuti dal Papa; Zelensky anche dalla Meloni. Il 12 a Testaccio c’è il funerale del diciassettenne morto durante l’inseguimento dei Carabinieri. Ad Albano si manifesta contro l’inceneritore; e da Piramide a piazza Vittorio sfila un nuovo grande corteo per la Palestina, con oltre diecimila persone. Per la seconda volta scende in piazza anche il Jewish Block, la sezione romana della rete European Jews for Palestine: il loro volantino spiega che il 13 è Yom Kippur, giorno ebraico del digiuno, con cui “elaborare il lutto, le orrende immagini di distruzione e genocidio che ci attanagliano da un anno a questa parte ma che vanno avanti da settantasei anni”. Il 14 un operaio nigeriano di diciassette anni che viveva nell’occupazione Spin Time Labs muore schiacciato da un ascensore in un cantiere del centro storico. Intanto il sindaco presenta in Campidoglio il progetto dell’inceneritore, sostenendo che inquinerà meno di un caminetto. Nel frattempo a San Paolo alcuni attivisti e attiviste restaurano il murale per Shineen Abu Aqleh, reporter palestinese di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano: il murale era stato vandalizzato per la sesta volta. Il 15 a Guidonia un adolescente viene ucciso da un’auto che non si ferma alle strisce. Il 16 c’è un nuovo sgombero per gli ex occupanti dell’Hotel Cinecittà, che avevano occupato un altro hotel a Torre Maura; dopo lo sgombero occupano subito di nuovo un hotel abbandonato, questa volta alla Romanina. Nessuno si chiede se va bene avere tutti questi hotel vuoti, con così tante persone che hanno bisogno di un tetto. Incendio doloso al Liceo Gullace: alcuni giornali provano a incolpare l’occupazione studentesca. Il 17 il consiglio comunale discute una proposta della minoranza, cioè che Gualtieri chieda al governo di fermare gli sfratti l’anno del Giubileo. L’esito era scontato: la proposta viene bocciata. Nel frattempo alla Camera il Pd, in appena sei ore di dibattito parlamentare, si astiene sulla sospensione dell’accordo tra Unione Europea e Israele, si astiene sulle sanzioni per ottenere un cessate il fuoco, si astiene sulla richiesta di non investire in armi, si astiene sul segreto di stato alle armi all’Ucraina, e vota a favore dell’invio di queste armi. Il 19, manifestazione contro il DDL 1660, il nuovo strumento della “guerra interna” contro la dissidenza politica, anche pacifica.  Il 21 il Terzo Municipio annuncia l’apertura di uno “sportello casa” gestito dall’associazione Nonna Roma con fondi del Giubileo, coordinato dalla Fondazione Charlemagne; il progetto aprirà nel 2026 e prevederà uno sportello di ascolto e un co-housing con quattro posti, con un finanziamento di un milione di euro. Il 22 vengono sgomberati per la terza volta i latinos che avevano occupato l’Hotel Petra alla Romanina; cinque di loro vengono rimpatriati, o mandati in un carcere per gente da rimpatriare, mentre quelli considerati “vulnerabili” vengono infilati in strutture di emergenza. Gli altri rimangono per strada. Il 23 alcuni bed and breakfast intorno al Circo Massimo (San Teodoro, via dei Fienili, via dei Foraggi) si svegliano con gli smart locker sfondati; è un’azione diretta di sabotaggio contro la turistificazione di massa e il Giubileo, rivendicata in un video anonimo che si conclude così: “Questa è solamente la prima azione che facciamo contro il vostro Giubileo dei ricchi”. Il 24 c’è un nuovo processo a Stella, arrestata per le manifestazioni studentesche per la Palestina, che si conclude di nuovo con un rinvio. Piove: la Metro B chiude per un blackout, il traffico è bloccato in tutta Roma. Il 25 presidio davanti all’ambasciata Usa contro l’escalation del genocidio in Palestina e in Libano, in risposta alla chiamata internazionale #BlocktheEmbassies; intanto, un gruppo di studenti e studentesse del liceo Righi (il migliore della capitale secondo le statistiche europee) espone trentotto bandiere palestinesi dalle finestre della scuola su via Campania. Invece di premiarli, la preside scrive alle famiglie minacciando sanzioni disciplinari, e reinterpretando a suo modo il senso dell’istituzione culturale: “Qui si fa lezione, non si fa politica”. Ma qual è il confine tra studio e politica?  Il 26 vicino Termini un gruppo di attivisti occupa la sede di Booking, agenzia di appartamenti turistici; domenica 27 al Forte Prenestino c’è una assemblea pubblica contro i nuovi OGM. Un altro ragazzo minorenne viene ucciso da un’auto, stavolta ad Ardea; il giorno prima c’era stato un altro morto all’Eur, il giorno prima ancora un altro alla Romanina. Il 28, anniversario della marcia su Roma, è un’altra giornata di scioperi dei trasporti: chiude la metro, il traffico va in tilt; il mese finisce come era iniziato. La sera la Rete associazioni per una città vivibile organizza un sit-in a Campo de’ Fiori con striscioni “Siamo residenti, non fantasmi”. Il 30 il Comune pubblica il bando per il contributo all’affitto, finora a carico dello stato, adesso “generosamente offerto dalla Fondazione Roma” con un milione di euro (se ci sono mille famiglie, avranno mille euro ciascuna). Lo stesso giorno il Sole 24 ore annuncia che il governo ha ceduto all’Esercito 4,6 miliardi di euro stanziati per la transizione ecologica: siccome i soldi pubblici vanno alla guerra e alle armi, i servizi per la popolazione si reggono sulle briciole dei grandi investitori finanziari. Si va a marcia forzata verso il Medioevo, per creare il setting adatto al “Giubileo dei poveri”. Mancano due mesi all’apertura della Porta Santa: si apre una porta, si chiudono mille portoni. (stefano portelli)
October 31, 2024 / NapoliMONiTOR
Napoli, in piazza contro il processo ai disoccupati organizzati
  28 ottobre è la data di inizio del maxi-processo a quarantatré disoccupati del Movimento di lotta 7 Novembre, del Cantiere 167 Scampia, militanti del laboratorio politico Iskra e del SI Cobas Napoli, processo che si svolgerà all’interno dell’aula bunker del carcere di Poggioreale. Il procedimento arriva al termine di un’indagine che aveva comportato la pesantissima accusa di associazione a delinquere per i qurantatré indagati, sulla base di avvenimenti incorsi durante nove manifestazioni svoltesi tra il 19 dicembre 2022 e il 24 marzo 2023. Tre mesi nei quali la vertenza era in stallo e la pressione per il suo sblocco era particolarmente forte. In particolare, l’obiettivo a breve termine dei movimenti che lottano per un lavoro dignitoso e sicuro in città era in quella fase l’avvio della formazione attraverso corsi organizzati da cooperative convenzionate con la Città Metropolitana e il Comune di Napoli. Per l’attivazione dei corsi era necessaria una modifica all’articolo 33 del Codice del terzo settore che regolamenta il processo di assunzione dei lavoratori all’interno delle cooperative e che impedisce nuovi ingressi, se non in caso di turn over dei lavoratori in pensionamento. Una modifica che, però, poteva arrivare a seguito di interventi ministeriali e governativi. Nei tre mesi a cavallo tra il 2022 e il 2023, dopo diversi incontri a Roma e Napoli che ufficializzavano un pronto inizio della formazione, i corsi furono rinviati per delle generiche “complicazione tecniche”: le istituzioni di fatto rinnegavano gli impegni assunti con i disoccupati. La tensione per questo dietro front si concretizzò in una serie di azioni in città: blocchi stradali, cortei non autorizzati, occupazioni, tutti eventi letti dalla Procura come parte di un disegno preciso, che in termini politici era in realtà la volontà di mettere alle strette le istituzioni attraverso la lotta. Il reato di associazione a delinquere, inizialmente ipotizzato dalla procura, è infatti decaduto in fase di indagini preliminari, ma i capi di imputazione per le azioni condotte nei vari mesi sono stati riuniti in un unico grande processo, amplificandone di fatto la gravità. È lunedì, ma la mattinata comincia presto. Già alle 8:30 piazza Nazionale, al centro di Napoli, si inizia a riempire di bandiere. Si riconoscono quelle palestinesi e quelle delle realtà che hanno promosso la manifestazione, a cominciare da Si Cobas e Iskra. Il corteo è aperto dal camioncino per gli interventi e dallo striscione “La lotta per il lavoro non si processa. Liberi di lottare. Fermiamo il Ddl sicurezza”. La piattaforma di lancio della manifestazione intende infatti andare oltre la denuncia di una spropositata accusa per delle persone che lottano per un proprio diritto; lancia anche l’allarme rispetto alla gestione sempre più repressiva di ogni pratica di dissenso, da quelle pacifiche fino a quelle più conflittuali, sublimata dal provvedimento sponsorizzato dall’asse Meloni-Nordio-Salvini. Un po’ più dietro, dopo qualche cordone di sicurezza, spuntano le bandiere del gruppo sudamericano del Polo Obrero, poi quelle della FGC e dell’Usb. Gli spezzoni più numerosi sfilano però dietro i due striscioni storici dei disoccupati organizzati: i volti degli uomini e delle donne delle prime file riflettono la rabbia per le ultime uscite “a vuoto” dei tavoli istituzionali. I cori che risuonano attorno ai palazzi e nei vicoli attirano l’attenzione dei napoletani impegnati nel quotidiano tran tran. La polizia sorveglia il tutto, ma il corteo comincia con determinazione e senza problemi. Sono circa cinquecento, i manifestanti, quando iniziano a muoversi, percorrendo la rotonda di piazza Nazionale. Gli interventi dei militanti delle varie realtà presenti fanno spesso riferimento al decreto 1660, in via di approvazione al Senato. Ci si muove a passo lento, la strada da fare è molto breve. Si costeggia il perimetro del carcere di Poggioreale, vengono accesi simbolicamente dei fumogeni in solidarietà ai detenuti. Tra un intervento e l’altro c’è spazio anche per i giornalisti e le loro domande. Mentre il corteo avanza verso via Giovanni Falcone, però, arriva la notizia di un rinvio dell’udienza, per un rilevato vizio di forma nelle convocazioni. Una volta a ridosso dei padiglioni, i disoccupati e gli altri partecipanti al corteo si fermano. Salutano con fuochi pirotecnici, cori e canzoni i detenuti, spiegando al microfono il nesso tra la marginalità sociale, la condizione detentiva, la lotta per il lavoro e la dignità, le leggi sempre più dure da parte del governo contro chi fa attività politica. È poco distante, su un marciapiede di piazzale Cenni, che gli interventi conclusivi chiudono la manifestazione, in attesa che una nuova udienza venga convocata e che questo processo così deciso alle lotte sociali cominci. (angelo della ragione)
October 28, 2024 / NapoliMONiTOR