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Notizie del bello, dell’antico e del curioso della notte a Napoli #4
(archivio disegni napolimonitor) Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove andiamo?”. Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di intonaco. Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola. Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi dei locali, colpi di pistola. Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti, pur senza impedirmi di vederli e viverli». Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli, che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è vivace, ma anche caotica. Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi spazio tra la folla. Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice. «Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati». Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega. «Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”, quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata. Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone, creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare, se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino. Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere. «In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro. Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più inclusione, ma  l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai nottambuli. Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti. Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri, di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese) ____________________________ A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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Terzo settore e turismo a Napoli. L’impresa del bene, venerdì a LaterzAgorà
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli) Sarà presentato venerdì 11 aprile, alle ore 18 al Teatro Bellini (via Conte di Ruvo, 14), il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. L’autore discuterà del volume con Giovanni Laino (Associazione Quartieri Spagnoli) ed Enrica Morlicchio (università Federico II). Pubblichiamo a seguire un nuovo estratto del libro. *     *     * GLI ENTI INTERMEDI Le caratteristiche dei corpi associativi intermedi che operano in campo sociale e culturale si potrebbero sbrigativamente descrivere comparandole con quelle degli ultracorpi – quindi meno risorse, meno relazioni influenti, meno attenzione dai media –, ma questo non basterebbe a esaurire il quadro del loro sviluppo e l’analisi delle loro attuali difficoltà. Nati in un arco di tempo piuttosto ampio, caratterizzato da rapidi mutamenti dei contesti sociali, politici e anche normativi di riferimento, questi enti presentano campi di intervento, forme giuridiche e strutture organizzative troppo disparate per poterle esaminare nel dettaglio, ma tutti si trovano oggi ad affrontare alcuni nodi fondamentali dai quali dipende il senso stesso del loro operato e in ultima istanza la loro sopravvivenza. I più longevi vantano una lontana origine “militante”, eredità di esperienze sociali collegate ad appartenenze politiche o religiose, anche se da tempo quei principi sono stati abbandonati per adattarsi a scenari ormai radicalmente mutati. Una prima tappa di questi mutamenti, negli anni Ottanta, si registra con la grande diffusione delle associazioni di volontariato, in cui avviene un massiccio travaso di giovani fuoriusciti da partiti politici e movimenti di base. “Fino a metà degli anni Novanta – ha scritto Giovanni Laino¹ – si realizza una fase per cui, con le iniziative dal basso, ‘i progetti sollecitano le politiche’. Dalla fine degli anni Novanta invece in tutto il Paese si realizza una fase diversa, più matura per quanto problematica e ambigua, in cui sono ‘le politiche che sollecitano i progetti’, nel senso che diverse iniziative sembrano indotte soprattutto da opportunità di finanziamento”. È in questo frangente che svaniscono le residue illusioni di un intervento sociale autonomo e politicamente alternativo. Un numero crescente di associazioni e cooperative assume su di sé funzioni di interesse pubblico su mandato delle amministrazioni, inserendosi in un sistema di mercato con gare basate sul principio del massimo ribasso; emergono nuove forme giuridiche, cambia il rapporto con le istituzioni e la competizione si approfondisce, tracciando confini sempre più netti tra due modi di operare: l’autonomia, l’autogestione, il mutuo aiuto, che erano stati i principi all’origine di molte organizzazioni nate negli anni Settanta, vengono progressivamente relegati nel campo dell’iniziativa informale; si affermano invece la gestione burocratica, la gerarchizzazione, il collateralismo politico, uniformando in un unico contenitore – quello del terzo settore – tutte le forme di intervento, dal volontariato all’associazionismo fino alla cooperazione. Lo slittamento verso il mercato e le logiche d’impresa sarà inesorabile, prima marginalizzando e poi eliminando del tutto, da pratiche e statuti, le caratteristiche delle origini. Nel welfare pubblico in crisi dilaga il sistema dei servizi esternalizzati, dei bandi, della competizione tra enti, territori, popolazioni per aggiudicarsi fiducia e finanziamenti istituzionali. L’altra faccia della “soluzione imprenditoriale”, che oggi gli ultracorpi propongono per “rigenerare” le città, si mostra in tutta la sua crudezza a questi enti intermedi, che non avendo i mezzi per competere su una scala più ampia, sono costretti a battagliare con i loro omologhi, da un lato per accaparrarsi i beneficiari dei servizi offerti, dall’altro per attirare i finanziamenti necessari per realizzare le proprie attività, e in definitiva per avere la possibilità di continuare a esistere. Le condizioni di esistenza, però, appaiono sempre meno sotto il loro controllo. Gli appalti dei servizi pubblici a enti “accreditati”, richiedono infatti un tipo di monitoraggio esercitato dall’alto con criteri sempre più stringenti. È necessario esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che numeri. Quello che era nato come un intervento basato sulla prossimità e sulle relazioni umane, sta traslocando in una dimensione virtuale². D’altra parte, anche i finanziatori privati, per decidere dove collocare le proprie risorse, richiedono progetti “innovativi”, “attrattivi”, che possano accrescerne la reputazione, a scapito di iniziative magari meno brillanti ma più rispondenti alle esigenze reali dei destinatari. Il rispetto dei parametri fissati da chi mette i soldi, l’espletamento delle pratiche burocratiche necessarie prima ad aggiudicarsi i finanziamenti e poi a rendicontarne le spese, prevale ormai sullo sforzo di connettere le proprie attività con i bisogni strutturali di un territorio, con i servizi essenziali per i suoi abitanti, con le esigenze di partecipazione e le prospettive di emancipazione. QUALE LAVORO Tra gli “effetti collaterali” di questo sistema vi sono, da un lato, la difficoltà di mettere alla prova e consolidare nel tempo esiti e strategie di intervento, dall’altro la precarietà ormai cronica di educatori e operatori sociali, privi di garanzie contrattuali e soggetti all’estrema volatilità di progetti e finanziamenti. La precarietà, l’instabilità, in particolare per ciò che riguarda le condizioni di lavoro, sono caratteristiche costitutive di gran parte degli enti intermedi. Gli ultracorpi hanno risorse sufficienti per offrire ai propri dipendenti contratti di lavoro regolari; inoltre, sono così esposti sui mezzi di comunicazione da non potersi permettere irregolarità formali nello svolgimento delle proprie attività. La fondazione FoQus sostiene di aver creato 168 posti di lavoro in dieci anni; la cooperativa La Paranza dichiara 45 tra dipendenti e soci, e più in generale, la galassia di cooperative e associazioni nell’orbita della fondazione San Gennaro darebbe lavoro a circa 150 persone. Da questi numeri (che peraltro non ci dicono nulla sulle condizioni in cui viene esercitato il lavoro), gli ultracorpi deducono, oltre che una conferma della propria natura benefica, un corollario più ottimista, e non verificato, che consisterebbe in un “contagio positivo” verso l’ambiente che li circonda. Lo vedremo meglio trattando dei servizi al turismo nel capitolo sesto, ma intanto possiamo affermare che se gli ultracorpi riescono a garantire contratti regolari ai propri dipendenti, questa pratica non si trasmette automaticamente agli enti intermedi, i quali continuano a offrire perlopiù lavoro precario e non garantito a chi si impiega alle loro dipendenze³. Il lavoro sociale svolto su mandato delle pubbliche amministrazioni è vincolato a rigidi protocolli, definiti spesso in modo astratto e standardizzato. I lavoratori sono assunti secondo contratti del settore privato (per esempio il contratto nazionale delle cooperative sociali) che offrono meno tutele rispetto a quelli pubblici; il loro lavoro è generalmente riconosciuto nei bandi sotto forma di ore e minuti “erogati” all’utenza, quindi solo in considerazione della quantità di lavoro necessaria a garantire un determinato servizio, e per periodi limitati di tempo (la durata degli appalti). Le modalità in cui vengono forniti questi servizi sono demandate interamente all’ente che si aggiudica l’appalto. Da qui l’abnorme diffusione di part-time e contratti a tempo determinato, l’altissima intensità di lavoro, le numerose forme di precarizzazione e di incertezza nell’organizzazione del lavoro. I mestieri di educatore, operatore sociale o culturale, e in genere tutte quelle figure professionali emerse con la crescita del terzo settore, hanno perso da tempo il fascino esercitato per una breve stagione su chi si era illuso di poter vivere con un lavoro quasi “nobile”, e uno stipendio quasi intero. Le storie di oggi parlano di lavoratori impegnati in ambiti diversissimi – dai centri estivi per bambini ai penitenziari, dalle comunità per minori ai centri di salute mentale –, spaziando dai compiti educativi a quelli di contenimento e controllo, alle prese con esigenze, codici di condotta e abilità richieste molto diverse da un ambito all’altro. Eppure, il profilo di chi presta servizio in questi enti si è andato uniformando, e sempre più sbiadendo, con il passare del tempo: l’attitudine flessibile, polifunzionale, intercambiabile, al di là di ogni eventuale qualificazione; la disponibilità a lavorare senza protezione normativa, talvolta senza contratto, con salari bassi o bassissimi, spesso differiti nel tempo; l’auto-sfruttamento, ovvero la confusione con la militanza per una causa, incentivata dai superiori, ma talvolta introiettata dagli stessi operatori pur di non interrompere il rapporto di lavoro; questi e altri fattori compongono un’identità incerta, lontana da quella “sicurezza di rappresentanza” che dovrebbe caratterizzare ogni impiego dignitoso. Si aggiunga la tendenza sempre maggiore a investire queste figure di compiti amministrativi e burocratici che esulano dalle loro mansioni, e l’accelerazione tecnologica che, mutando l’organizzazione del lavoro, muta anche le linee di comando, affidate sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi; una fase di transizione in cui anche i presunti beneficiari dei servizi vedono cambiare il proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur minimo margine di valore e di potere⁴. Se quaranta o cinquanta anni fa, gli antenati di questi enti sorgevano da processi realmente collettivi e in un orizzonte di emancipazione possibile, nel tempo la formalizzazione e la costituzione di status e gerarchie interne, ha prodotto un totale disinteresse, da parte chi si trova sul fondo di queste gerarchie, per tutto ciò che non riguardi il proprio strettissimo dovere – di pari passo con la perdita della capacità di organizzarsi per difendere i propri diritti. Oggi, di fronte a operatori sempre più precari, ma anche abulici dal punto di vista politico e sindacale, si assiste al paradosso di dirigenti che “fanno politica” o “fanno sindacato” al posto loro, con accenti nominalmente progressisti ma per obiettivi concretamente corporativi, lamentando da un lato quella precarietà che loro stessi alimentano, dall’altro chiedendo alle istituzioni più risorse e agevolazioni per i propri enti. -------------------------------------------------------------------------------- ¹ Laino G., Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 117. ² “La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività diventava subordinata a questa richiesta. […] L’unico interesse dietro queste procedure [era] l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità sul mercato dei ‘servizi’, a scapito della reale qualità della vita delle persone coinvolte”: testimonianza di un’operatrice sociale in Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022, p. 36. ³ Si vedano: Curcio R. (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici, Sensibili alle foglie, Roma, 2014; Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022. ⁴ Si veda questa acuta analisi in: www.laterratrema.org/2021/03/ poveri-stoccati-connessi/.
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L’ulitmo mese alle Vele. Un diario di campo
(disegno di mario damiano) Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa. Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e nelle case dagli abitanti superstiti. *     *     * L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele, sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì dentro. Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”. L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non era necessario. I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom, che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare che qualcuno possa entrare nelle loro case. Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice – erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere, vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo». Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle. «Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere». Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la “chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento, trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele, hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto, anche un buco mi andrebbe bene». Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».   Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna. PER SEMPRE 901 Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza, per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”. Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari, quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020. Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di uno sviluppo per la zona nord di Napoli. Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite. Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello. Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista; dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco, «una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io. Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice – una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le persone che volevano acquistarla». Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque, tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».   Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica, che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per quattro anni e mezzo, il nulla. L’ULTIMO GIORNO Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi, anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del sole, uscendo, è una liberazione», dice. Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche, anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto, le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare. L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica. È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano, che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #4. Torino Stratosferica
(disegno di adriana marineo) La primavera a Torino è iniziata con i Future Urban Trends. Presso le vecchie Officine Grandi Riparazioni, oggi spazio culturale e polo di ricerca finanziato dalla fondazione CRT, si sono tenuti incontri per generare una “piattaforma che connette innovatori e imprenditori, visionari e maker, favorendo sinergie professionali e nuove prospettive sull’evoluzione urbana”. Un’occasione per permettere agli imprenditori locali di dialogare con esperti di innovazione sociale, creativi e generatori di start-up internazionali. La passione per il futuro proseguirà a ottobre con Utopian Hours, un festival sulle pratiche innovative per trasformare le città. Una versione del festival sarà organizzata il 29 maggio anche a Milano: Utopian Hours Milan Edition. Tutti gli eventi sono organizzati da Stratosferica, un’impresa sociale nata dall’esperienza di Torino Stratosferica. *     *     * Torino Stratosferica è un laboratorio di produzione di immagini, simboli e discorsi sulla città. L’immaginario elaborato da Torino Stratosferica si rivolge alle classi dirigenti che si occupano di trasformazione urbana (architetti, urbanisti, designer), ai governi territoriali (in particolare agli amministratori di Torino) e, soprattutto, ai gruppi di investimento interessati allo sviluppo della città. Il linguaggio ambisce a essere irriverente e creativo, dinamico come quello dei battitori liberi, e dunque più veloce, schietto e dirompente degli approcci tradizionali propri all’urbanistica e all’architettura in accademia, ai funzionari pubblici nei loro uffici comunali. Torino Stratosferica nasceva nel 2014 come progetto di comunicazione dell’agenzia Bellissimo e si inseriva nel dibattito sullo sviluppo strategico di una città post-industriale in crisi, ricca di vuoti urbani e gravata dal debito pubblico. Torino Stratosferica è divenuta associazione e ha iniziato a organizzare un festival annuale dedicato agli immaginari urbani: Utopian Hours. Il festival si tiene dal 2017, oggi è ospitato nel centro direzionale di Lavazza accanto alla Dora e accoglie innovatori, imprenditori, saggisti e architetti, urbanisti, amministratori pubblici e, soprattutto, visionari urbani. Durante la pandemia l’associazione ha ottenuto dal comune l’assegnazione temporanea di un’area non utilizzata in corso Gabetti: una striscia di territorio di ottocento metri, oltre il Po e lungo il pendio della collina, dove un tempo passava la linea 11 del tram. L’assegnazione temporanea era possibile grazie a un regolamento relativo alla “Disciplina del contrasto al degrado urbano e rafforzamento delle forme diffuse di partenariato pubblico-privato”. Accanto al vecchio percorso delle rotaie è sorto così un effimero Precollinear Park dove si sono tenuti nei mesi dibattiti, presentazioni di libri, laboratori e incontri. Un container dismesso fungeva da bar per aperitivi serali. Le iniziative esistevano grazie alla collaborazione di giovani volontari, soprattutto studenti di architettura e di scuole di design. Al tempo della dismissione del Precollinear Park, nel 2023, Torino Stratosferica ha ottenuto la gestione temporanea di un nuovo spazio pubblico: l’area di corso Farini compresa fra il campus Einaudi dell’Università di Torino, le palazzine della Agenzia Territoriale per la Casa del Piemonte e i vecchi gasometri dell’Italgas. Qui Torino Stratosferica ha installato sedute, spalti in legno per assistere a eventi culturali e l’immancabile container da trasformare in miscelatore di drink per serate di primavera. I due interventi in corso Gabetti e in corso Farini mostrano la passione per il “placemaking”, ovvero la manipolazione creativa di spazio urbano. Nel 2023 Torino Stratosferica si è trasformata in impresa sociale e alla fine dello stesso anno ha inaugurato un nuovo presidio urbano lungo la Dora: Dorado. Si tratta di un ampio magazzino dismesso e di proprietà di Lavazza, ottenuto in comodato d’uso. Dorado si presenta come uno spazio polivalente dove allestire mostre, organizzare dibattiti, accogliere associazioni e gruppi informali. Nelle librerie contro le pareti sono esposti i classici della sociologia critica e dell’urbanistica del secolo scorso e i nuovi titoli dedicati alle smart cities e alla collaborazione fra enti pubblici e privati. Il desiderio di una città flessibile, disponibile ad accogliere l’intervento di creativi e imprenditori, attraversa tutte le iniziative di Torino Stratosferica. Fra i pannelli esposti a Dorado campeggia un progetto immaginario dedicato alla “sperimentazione edilizia”. Qui si legge: “La città di Torino offre a sviluppatori immobiliari e a singoli privati la possibilità di costruire case su lotti di medie dimensioni (max 500 mq), senza doversi attenere al regolamento comunale, ai vincoli del piano urbanistico e del parere della Sovrintendenza. Unico obbligo: progettare e costruire seguendo standard ecologici e prestazioni energetiche di classe superiore e non andare oltre i tre piani fuori terra. […] Un modello di ‘libertà edilizia’ per dare impulso a un quartiere di edifici residenziali sperimentali”. La libertà appare come opportunità incontrastata di fare affari. Torino Stratosferica è un think tank per innescare e accelerare la trasformazione urbana in senso neoliberale, affinché la città possa offrire occasioni agli investitori e alla classe agiata dei creativi. In questo senso Torino Stratosferica è un’entità organica allo sviluppo urbanistico di Torino più spregiudicato e ne sono testimonianza gli ottimi rapporti con Lavazza, il principale investitore immobiliare nel quartiere Aurora, e le collaborazioni con The Social Hub e l’architetto Cino Zucchi. The Social Hub intende edificare, sempre lungo la Dora, un ostello di lusso e in città gode del sostegno di Luca Ballarini, fondatore di Torino Stratosferica. Infine Cino Zucchi, autore del centro direzionale Lavazza, ha coinvolto Stratosferica nella progettazione della riqualificazione della Cavallerizza Reale, futura sede del quartier generale della Compagnia di San Paolo. Torino Stratosferica esplora l’affascinante, inquietante frontiera fra il sogno e la realtà, fra l’immaginario e gli interessi economici concreti. Durante l’edizione del 2018 di Utopian Hours fu proposta la visione dei “Dorazzi”, area di divertimento serale, consumi ed eventi culturali lungo la Dora, ispirata all’esperienza, ormai tramontata, dei Murazzi sul Po. L’idea di allora è oggi al centro dei progetti che insistono sul lungofiume della Dora e non è un caso se la nuova impresa sociale ha stabilito il suo presidio più importante proprio qui. Forse Torino Stratosferica è uno dei macchinari simbolici che il capitalismo usa per trasformare in strumenti di speculazione e profitto le ambizioni di trasformazione sociale, le utopie, i desideri. Così i placemakers lavorano alacremente per favorire l’estrazione di valore urbano, mettendo finalmente a frutto i fumosi insegnamenti impartiti negli ultimi decenni dai dipartimenti di scienze della comunicazione, dalle scuole di storytelling e design, dalle facoltà di architettura. (voce a cura di francesco migliaccio)
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La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia
(disegno di federica pagano) Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid (2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici. Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa vita civile. Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per “sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico. Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio da parte dei capitali immobiliari. DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti, comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale, contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti, malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte. A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove di una politica deliberatamente classista ed escludente. L’ARROCCAMENTO DEL POTERE Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori, informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia negli investitori. La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea  e bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la “SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come “interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano. Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione giudiziaria. Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri irregolari. A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani, manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano. Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano. In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito sull’urbanistica e sui fatti di Milano. I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia dell’immagine milanese”. Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo sull’esaurimento delle energie di chi si oppone. La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia tozzi)
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Precarietà sveltata: cronaca dalla mobilitazione universitaria a Napoli
(disegno di malov) Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca, studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240, l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico dell’ateneo. Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20 marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come giornata nazionale delle università. Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però, non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240 rischia di diventare irreparabile. L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di logiche di mercato e militari su didattica e ricerca. Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20 marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello, “ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza tutele e prospettive di stabilizzazione. Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto “Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle università telematiche.  Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università – privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna. “Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con stati genocidi. Voi cosa dite?”. Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti dei rettori visibilmente imbarazzati. La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina accademica si fermerebbe. Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva. Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”. Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia. C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere, la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e cancellando l’evento in programma per la giornata.  Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora molettieri)
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Faccio a pezzi Bagnoli. Manfredi e Meloni preparano il banchetto ai privati
(foto di massimo velo) Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che sono state invece messe in un angolo in pochi mesi. Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale. La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra. Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a iniziare. La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi. Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento. Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa, dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”? Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta” artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano, cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo rosa)
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Notizie del bello, dell’antico e del curioso della notte a Napoli #2
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) C’è una città che si mostra per ciò che è, e un’altra per ciò che vuole sembrare. La mia mi sembra sempre più un collage di vecchi giornali e ritagli sparsi, dentro il quale ognuno cerca il suo posto. Questa operazione significa, però, anche restarsene un po’ ai margini a osservare. Di notte meglio che di giorno. La movida del centro di Napoli si muove tra le luci fredde delle insegne dei locali e le strade strette che costeggiano i vecchi palazzi. Mi siedo al tavolino di un bar in uno dei vicoletti più nascosti dei Quartieri. Il chiacchiericcio delle persone si mescola al rumore dei motorini e all’odore di spritz appena versati. Ragazzi con qualche battuta ci provano con le turiste: «È la prima volta che siete a Napoli?», chiede uno. Un altro senza perdere tutto quel tempo, gli sorride e dice: «You’re beautiful!». Nicola ha ventiquattro anni, è uno studente universitario di San Giuseppe Vesuviano, single e senza lavoro fisso. Parla di sé con naturalezza, come se fosse abituato a raccontarsi. «Esco più per la compagnia che per il piacere di andare in un posto preciso – mi dice –. Certo, abbiamo i nostri locali, quelli dove ci sentiamo a casa, ma a Napoli è facile trovare qualcosa di interessante. Quartieri Spagnoli e centro storico, ci si muove in base a chi trovi in giro. A un certo punto ci siamo spostati qui perché anche le persone che conoscevamo, i nostri amici storici, in provincia, hanno iniziato a fare lo stesso. A San Giuseppe non c’è molto da fare». Il suo legame con Napoli si è rafforzato dopo la pandemia. Dopo essersi sentito intrappolato per mesi ha cominciato a spostarsi, trovando in città «un senso di libertà che non avevo mai provato prima: è stato come se una casa crollata fosse stata sostituita da una nuova».   Quando Nicola parla della sua esperienza in città, lo fa quasi sempre sottintendendo la differenza rispetto alla realtà del suo paese. Napoli è il luogo delle opportunità, dei legami facili, dei luoghi che non tradiscono. «È bella perché è stimolante, succedono cose. C’è una fauna umana variegata, puoi trovare chiunque, ed è questo che a me piace, la sua imprevedibilità. E poi non serve spendere tanto per divertirsi: con venti euro fai una serata più che dignitosa. La città ti sfotte ma non ti giudica: se facessi in provincia quello che faccio a Napoli sarebbe diverso, mi sentirei sotto esame». Con Nicola finiamo a parlare della Fomo (Fear of missing out), parola che descrive uno stato psicologico non raro tra i ragazzi, ovvero la paura di “perdersi qualcosa di importante”, eventi sociali, esperienze. I social network hanno un ruolo di primo piano in questo, poiché l’effetto di ogni sensazione viene amplificato dal confronto con quello che fanno gli altri. «Oggi ho imparato a scegliere: se non ho voglia di uscire rimango a casa». Anche l’appartenenza, l’intensità con cui ci si sente parte di qualcosa, sembra in cambiamento. Non sempre ci si accorge, però, che per sentirsi dentro la città – fatta anche dei suoi eventi e i suoi riti – c’è un prezzo da pagare: partecipare. Ne parlo con Alessio, ventidue anni, che si è laureato con una certa velocità e oggi vive e lavora nel centro storico. Lo incontro in piazza San Domenico Maggiore, dove abita. Intorno a noi la gente si muove freneticamente tra bar affollati e localini ma è come se ognuno restasse in un proprio piccolo angolo. Sembra più difficile attaccare bottone con qualcuno. «Scendo (è così che si dice a Napoli per far capire che si sta uscendo di casa per divertirsi, o riempire il tempo, ndr) raramente la sera, al massimo una o due volte a settimana. Prima anche tre o quattro volte, ma ora ho meno voglia, mi sembra non ci sia molto da fare. Cerco posti nuovi, ma finisco sempre negli stessi luoghi, anche perché i posti si assomigliano uno con l’altro». Anche sulle persone che prima incontrava, ha cambiato prospettiva: «Prima mi sembrava bello poter incontrare la gente sempre diversa che attraversa il centro, ma ora mi rendo conto che siamo tutti uguali». Alessio ritorna spesso sull’idea che non partecipare ad alcuni eventi importanti, o non far parte di alcuni giri, sebbene allargati, ti releghi a una sorta di invisibilità, dove la tua esperienza viene percepita come “opaca” rispetto a chi invece ci è dentro fino al collo. «A volte uscire la sera ci sembra più un obbligo che un piacere, un dover performare più che un momento di svago». La trasformazione che ha subito la vita notturna napoletana non è un fenomeno improvviso. È il risultato di un graduale processo che, con l’esplosione del turismo di massa e la consacrazione dell’immagine “pop” della città, ha modellato una esteriorità sempre più attraente e superficiale. Questo processo ha avuto bisogno di tempo (è evidente se ci si fa raccontare com’erano certi luoghi di notte quindici o vent’anni fa), ma è diventato palese negli ultimi cinque o sei anni, con l’imposizione di una Napoli “espositiva”, crocevia di mode e tendenze che chi la attraversa non può ignorare. Questa trasformazione è visibile tanto di giorno quanto di notte, seppure con sfumature diverse. Napoli è oggi una città che respira a un ritmo frenetico. Le strade sono animate dai turisti che si mescolano ai napoletani. Gli studenti camminano verso l’università velocemente tra bancarelle di calamite e odore di frittura. Si fanno strada tra gruppi di persone che scattano foto, mentre a qualsiasi ora le pizzerie traboccano di gente, il rumore dei clacson e la puzza di marmitta si mescolano con il rosso dei bus City Sightseeing. Non è solo l’aspetto della città a essersi trasformato, ma la sua mappa urbana, la sua economia, le relazioni. Una pressione invisibile ha finito per influenzare le scelte quotidiane delle persone (dove abito, che posti frequento, come spendo il mio stipendio) e le identità stesse, comprese quelle di chi vive la notte. Gli eventi serali, per esempio, vengono venduti come accessibili e inclusivi, ma è quasi un’operazione di empathy-washing. I locali notturni, infatti, dove anche lo spazio vitale si paga in termini economici, si rivolgono a un pubblico preciso, ammantando di un senso di comunità una realtà che spesso ti esclude se non ne fai già parte (non è solo questione di poterti permettere economicamente un certo tipo di esperienza, ma anche del tuo retroterra culturale). I profili social di questo o di quel bar parlano di “famiglia”, di “comunità”, ma l’immagine esterna è più quella di gruppetti e sette che non si incontrano mai.  Per Alessio è una questione di ripetitività delle pratiche, di un mondo che non lascia più spazio all’imprevisto, di reti sociali e spazi in cui ci si impiglia, nascondendo un vuoto di connessioni reali. Parlando un po’ qua e là con i miei coetanei, la sensazione è quella di un’adesione a un gioco di società che implica un riconoscimento, che diventa quasi una valuta, un mezzo per sentirsi validi e validati. Il prezzo è dover essere sempre al passo con gli altri, o forse anche più avanti, oltrepassandoli come se anche uscire fuori per una birra fosse una competizione. A un certo punto di questo lavoro, per esempio, ho cominciato a riflettere sulle immagini della notte, sulle locandine e i manifesti che provano a venderci le esperienze da consumare, modellando intorno a prodotti commerciali (la vendita dell’esperienza) i nostri desideri. La grafica e la pubblicità degli eventi della movida svolgono un ruolo fondamentale: le immagini e i colori, il tono, la scelta di simboli e icone contribuiscono a costruire una proposta definita per questo o quel gruppo. Se quelle che reclamizzano serate nei centri sociali, grandi punti di aggregazione della zona, richiamano un messaggio politico e si identificano per un’impronta visiva semplice, con illustrazioni chiare e immediate, le serate di localini aggregatori di una gioventù con velleità artistiche o intellettuali si distinguono per varietà di grafiche e stili visivi. Si privilegia l’estetica ma il messaggio e le info risultano più difficili da interpretare: la copertura visiva prende il sopravvento, facendo apparire l’evento più come una questione stilistica che un’occasione di incontro. Agli antipodi di questo approccio ci sono poi le locandine dei locali (per lo più discoteche) della provincia: più semplici, con fotografie di dj o di vecchie serate: sono chiare, dirette, puntano a mostrare l’esperienza, perché contano in fondo anche loro sull’attrattività per un pubblico ben definito. Diversa è infine la filosofia delle locandine tipiche degli eventi con secret location (ti prenoti, lasci il numero di telefono, qualche ora prima ricevi un messaggio con il luogo e ti presenti). Richiamano vagamente la cultura dei rave, le grafiche sono accattivanti ma semplici, i testi criptici e le informazioni arriveranno in un secondo momento. L’idea di “segretezza” è il punto di forza di questo tipo di esperienza: crea un’aspettativa e un senso di curiosità che fanno desiderare l’evento ma anche lì, per quanto una proposta del genere può risultare eccitante per chiunque, si tende ad arrivarci tramite un contatto, una persona che in qualche modo “bazzica” quel mondo, quei “giri”. L’analisi dell’architettura visiva che ci guida nella scelta di un’esperienza notturna meriterebbe spazi e tempi più approfonditi. Mentre lavoravo a quest’inchiesta, però, sono rimasta affascinata dal rapporto tra l’estetica e la creazione di una realtà stratificata, dove l’immagine ha un ruolo nel definire il rapporto tra gli individui e la città. Mi rendo conto di stare anche io dentro caselle e idee standardizzate che provengono da scelte di mercato e da rappresentazioni costruite ad hoc. Studentessa, giornalista, ricercatrice. Ma in fondo consumatrice senza possibilità di scelta della città come prodotto. (serena bruno) ____________________________ A questo link tutte le puntate dell’inchiesta  
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #3. Tonite
(disegno di adriana marineo) Da più di un anno nei quartieri accanto alla Dora e in Barriera di Milano le istituzioni hanno disposto presidi fissi di soldati. Aiutati dalla polizia, i contingenti militari piantonano angoli di strade o piazze e s’aggirano in brevi ronde. L’impiego dell’esercito in strada è stato richiesto da fazioni di diverso colore politico: la ricerca del consenso incita promesse di sicurezza. Da alcune settimane il lungofiume è divenuto una delle “zone a vigilanza rafforzata” della città. Qui le forze dell’ordine possono fermare una persona colpevole di reati in passato e intimare di allontanarsi dall’area per i due giorni seguenti. Queste politiche della sicurezza blandiscono un elettorato gravato da inquietudini e ossessioni. Eppure la sicurezza non genera soltanto soluzioni di forza, o repressive, ma può essere anche il fine di progetti sociali o culturali. È il caso, quest’ultimo, del progetto Tonite. *     *     * Tonite è un progetto finanziato da UIA (Urban Innovative Actions), ente dell’Unione Europea creato per sostenere politiche sociali, e sperimentali, nei centri urbani. All’inizio del 2020 UIA ha affidato cinque milioni di euro a un partenariato: la Città di Torino era la capofila e ha collaborato con una fondazione pubblico-privata (Piemonte Innova), aziende che forniscono servizi digitali (Engineering, Espereal Technologies), agenzie dedite alla innovazione sociale (Experientia, Social Fare), un network europeo che lavora sulla prevenzione del crimine e la sicurezza urbana (EFUS, European Forum for Urban Security). Tonite, infatti, è un progetto di sicurezza urbana nato con il fine di realizzare azioni e infrastrutture utili a migliorare la “percezione di sicurezza” e la “vivibilità” nelle ore notturne lungo la Dora. Si è concluso nell’estate del 2023. Un milione e mezzo di euro sono stati spesi per interventi di arredo urbano in due luoghi specifici: il viale Ottavio Mai accanto al campus universitario, il giardino Pellegrino gestito dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. Lungo il viale è stata realizzata una nuova pavimentazione che ora accoglie sedute, panchine e fioriere. Inoltre sono apparse nuove luminarie per garantire una migliore illuminazione notturna. Nel giardino invece gli interventi hanno riguardato il rinnovamento della pavimentazione e l’installazione di giochi per bambini. Un milione di euro è stato invece distribuito fra iniziative elaborate da aziende, fondazioni, enti del terzo settore e istituzioni pubbliche vincitrici di un bando promosso da Tonite. Ogni iniziativa poteva ricevere fino a sessantamila euro e doveva intervenire sullo spazio pubblico – sempre il lungofiume – per migliorare la percezione di sicurezza e rendere i quartieri di Aurora, Borgo Rossini e Vanchiglia più attraenti. Un laboratorio di intervento urbano afferente alla facoltà di architettura ha abbellito con disegni il marciapiede antistante una scuola primaria. Una casupola è stata costruita in Lungo Dora Savona per fornire servizi di prossimità, poco oltre una locanda ha proposto esibizioni canore serali per allietare i clienti ai tavoli. Piccoli spettacoli si sono tenuti nel giardino Pellegrino e associazioni hanno portato un calcetto e un canestro da basket in piazza Borgo Dora per far giocare i ragazzi. Un istituto superiore ha comprato un proiettore per lanciare immagini serali lungo la Dora. Sono solo alcuni esempi fra le diciannove iniziative finanziate dal bando. Tonite è un progetto volto a favorire i consumi di classi abbienti in quartieri ancora popolari, garantendo un’illuminazione delle strade e una migliore “percezione della sicurezza”. Si manifesta così un’idea dolce e inclusiva della sicurezza urbana, da ottenere senza violenza e repressione, ma grazie a iniziative localizzate che favoriscano la “coesione sociale”. Certo le ambizioni del progetto sono inconsistenti, effimere: Tonite si è concluso e quasi nulla resta. La casupola lungo la Dora è sempre chiusa, i disegni sbiadiscono, i presìdi urbani languono ed erano frequentati solo dagli operatori sociali, esercenti e creativi coinvolti nel progetto, afferenti tutti a una ristretta classe dirigente tinta di ideali progressisti. La Fondazione di Comunità di Porta Palazzo, ad esempio, ha partecipato a ben tre iniziative finanziate dal bando, oltre a beneficiare dei capitali per il rifacimento del giardino. Le iniziative di Tonite si risolvono allora in concessioni di piccole regalie a una esigua pletora di attivisti del terzo settore e professionisti della partecipazione ai bandi. Più interessante è osservare quello che Tonite non ha fatto: nessun progetto ha tematizzato la violenza sistematica della polizia contro i reietti lungo il fiume, nessuno ha menzionato gli sgomberi di straccivendoli e spazi occupati in quartiere, nessuna voce s’è alzata contro lo sradicamento delle panchine frequentate da persone indesiderabili perché povere. Tonite appare dunque un’operazione sistematica di induzione all’oblio e un’occasione di propaganda: il progetto è esistito più come spettacolo sui social network, meno in strada. Così gli operatori sociali, gli artisti precari, gli intellettuali che si sono prestati hanno svolto un lavoro comunicativo senza neppure ricevere adeguati compensi: servi volontari per l’incubo della sicurezza. (voce a cura di francesco migliaccio) _______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
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