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Il lento risveglio del gigante. L’ex ospedale militare di Napoli tra progetti istituzionali e gestioni private
(disegno di bruttebestie) La struttura al civico 1 di vico Trinità delle Monache, edificata nel 1600 per ospitare un convento e adibita negli ultimi due secoli a ospedale militare, è oggi conosciuta come il Parco dei Quartieri Spagnoli, uno spazio di 26 mila mq ben celati dalle costruzioni successive, dal vicolo che costeggia le sue mura, dal silenzio interno rotto solo dai motorini e dalle auto che scendono di qui per arrivare a una delle strade più “appese” di Napoli: via Pasquale Scura nel quartiere Montesanto. Dal 1999, anno in cui il Demanio ha ceduto a titolo oneroso per vent’anni l’enorme spazio al comune di Napoli, all’Università Federico II e all’Istituto Suor Orsola Benincasa, ci sono stati tentativi di integrazione del luogo con il resto della città ma con tempi mai certi e contraddistinti spesso da chiusure. Un primo processo di progettazione partecipata è avvenuto nel 2016 quando la Commissione europea ha ammesso Napoli, insieme ad altre città europee, al progetto “2nd Chance – Waking up the sleeping giants”, nell’ambito del programma internazionale Urbact III, con l’obiettivo di confrontarsi sul tema del riuso dei grandi immobili abbandonati o parzialmente utilizzati ed elaborare strategie e piani di azione locale. Nel 2018, durante la conferenza stampa per la chiusura della fase partecipata, l’allora assessore al diritto alla città, Carmine Piscopo, riportò alcuni dei risultati e gli obiettivi ancora da raggiungere riassunti nel recupero di tutta la rete ecologica dei percorsi che dalla Certosa di San Martino arriva alla struttura dell’ex ospedale, il completo recupero degli spazi interni, oltre alla generazione di nuove economie tra cittadini e istituzioni. Nel 2023 si torna a parlare dell’ospedale militare con un nuovo accordo temporaneo, stavolta non oneroso, tra il Demanio e la nuova amministrazione comunale, finanziato nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo “Napoli – Centro Storico” con sei milioni di euro per la riqualificazione delle aree verdi e di alcuni edifici del complesso SS. Trinità delle Monache all’interno del Parco. “Community Hub – Incubatore di cittadinanza attiva” è il nome del progetto, simile nelle sue fasi a quello del 2016. C’è stata una call to action (2024) rivolta alle proposte dei cittadini con incontri e dibattiti con i progettisti che dovranno deciderne la fattibilità e in ogni caso rendere possibile la fruizione del parco e dei locali entro il 2026, pena la perdita del finanziamento. Nel marzo scorso, durante un’indagine preliminare sulle aree verdi, gli agronomi chiamati dal Comune hanno constatato la pericolosità di circa venti tra le specie arboree presenti, per cui si è reso necessario un intervento di messa in sicurezza e la chiusura del parco. Trattandosi di un bene vincolato non è chiaro se esista anche un vincolo paesaggistico e quindi se ci sarà poi l’obbligo di piantare altri alberi dopo l’abbattimento. Questa volta i tempi per l’intervento e la riapertura del parco sono stati relativamente più brevi perché, se da sempre mancano le risorse per la manutenzione ordinaria, grazie al finanziamento del CIS è invece possibile attivare subito quella straordinaria. Il parco è stato riaperto il 5 giugno scorso. LA GESTIONE PRIVATA Se una parte dell’ex ospedale militare fatica a trovare un’identità che risponda alle richieste e ai bisogni dei cittadini, un’altra spiccatamente più commerciale non ha avuto difficoltà a esprimersi in meno di un anno. All’inizio del 2024 l’Agenzia del demanio ha infatti affidato per quarantotto mesi alla società privata Urban Value s.r.l., l’edificio principale del complesso, per una estensione di circa 7.500 mq. E così l’estate scorsa, con l’avvio dei lavori, in tanti nel quartiere hanno assistito al “risveglio” del gigante. I camion dell’Asia hanno sgomberato gli enormi spazi da faldoni zeppi di documenti, probabilmente risalenti all’attività dell’ex ospedale, mentre i cortili hanno accolto le piante di banano cresciute nel palazzo Fondi in via Medina, sede del precedente intervento della società Urban Value a Napoli. L’edificio non ha subito abbellimenti né interventi strutturali ma solo le prove di carico per permetterne l’apertura al pubblico. Una nuova umanità ha cominciato a frequentare il complesso, mostre d’arte, musica dal vivo e mercati sono stati organizzati negli spazi de La Santissima, il nome scelto per questo contenitore, anzi questo “hub” come si legge dalla descrizione sui social. Dopo quattro mesi di attività, a seguito di un controllo della polizia municipale durante un evento privato di musica elettronica, alcune sale della Santissima sono state sottoposte a sequestro giudiziario preventivo per la mancanza di autorizzazioni. Riguardo l’accaduto i responsabili hanno diffuso a mezzo stampa numerose dichiarazioni per riportare l’attenzione sulla complessità del progetto e sul lavoro in corso: “Da più di un anno lavoriamo con fondi privati per riaprire e dare nuova vita a uno spazio rimasto chiuso per oltre trent’anni. E ci stiamo ancora lavorando. La Santissima è un progetto in divenire, che cresce giorno dopo giorno, e di cui oggi si percepisce solo una parte del potenziale”. Improvvisamente la città e le sue diverse anime hanno perso Filippo e il Panaro, così commentavano i custodi rimasti a presidiare il malandato cancello del parco su cui sono stati apposti i due provvedimenti. LA TERZA VIA. I COMITATI DEI PARCHI PUBBLICI Oltre alla gestione privata e ai tentativi istituzionali di riqualificazione del Parco esiste una terza via, una visione comune del verde portata avanti caparbiamente dai cittadini dei diversi quartieri della città, la comunità dei parchi pubblici. Cristiano è un educatore, collaborava al doposcuola dello Scugnizzo Liberato, nell’ex carcere Filangieri, e in questo contesto ha incontrato alcuni dei gruppi che poi hanno dato vita alla comunità dei parchi pubblici. “I comitati nascono alla fine del 2024 – racconta – dalle esperienze di alcuni parchi pubblici e in particolare il San Gennaro alla Sanità, in cui erano previsti dei lavori nelle aree verdi di cui si voleva conoscere la natura e la durata. Esistevano già delle comunità che hanno deciso di organizzarsi per mettere in relazione le esperienze e muoversi meglio nel dialogo con le istituzioni. Anche la travagliata scrittura di una regolamentazione del verde da parte del consiglio comunale ha acceso l’interesse dei cittadini che vogliono essere coinvolti nelle decisioni. Si sente forte la preoccupazione di vedere ulteriormente ridotto lo spazio all’aria aperta, come è accaduto con la questione abitativa e la fruizione del suolo pubblico nel centro storico. Si protesta contro l’approvazione del regolamento comunale del verde perché, avendo letto la bozza gli attivisti vedono nella parola ‘gestione’, riferita ad associazioni e soggetti privati, il pericolo di creare luoghi con un utilizzo limitato da parte degli abitanti. Inoltre la possibilità che la gestione di terzi possa durare fino a dieci anni viene considerato un tempo davvero lungo per un affidamento”. Nel comunicato della Commissione salute e verde del Comune si legge della conclusione di un percorso di confronto con i rappresentanti dei comitati cittadini e delle associazioni ambientaliste. A fronte di diverse criticità e dubbi espressi dalle associazioni, soprattutto sul tema del possibile coinvolgimento dei privati nella gestione e/o manutenzione dei parchi cittadini, la presidente Saggese ha chiarito che la gestione del verde, così come il servizio di guardiania nei parchi, resteranno integralmente in capo al servizio pubblico, escludendo ogni forma di privatizzazione o speculazione economica. Ciò che potrà invece essere oggetto di collaborazione tra pubblico e privato saranno le attività di manutenzione del verde urbano, sempre senza finalità di lucro e coerenti con le possibilità offerte dal regolamento sul mecenatismo. “Conclusa questa fase di ascolto – continua Cristiano –, bisogna aspettare che il regolamento venga votato per capire se le istanze dei cittadini sono state ascoltate o meno, in particolare il punto 3 della bozza riguardante la gestione privata temporanea delle aree verdi che abbiamo chiesto di rivedere”. Le proposte dei comitati riguardano anche alcune pratiche che in passato hanno funzionato, come la manutenzione di una parte del verde affidata ai disoccupati organizzati del progetto Bros, spesso abitanti degli stessi quartieri dove andavano a intervenire, da cui poi sono stati allontanati e spostati alla manutenzione stradale fuori città. “Una buona gestione è possibile perché l’abbiamo vissuta – sostiene Cristiano –. Oltre al progetto Bros, va ricordato che a oggi circa settecento persone sono state formate per la cura del verde ma non hanno mai iniziato a lavorare. Una nuova platea di disoccupati per i quali si è investito in formazione senza un chiaro obiettivo di occupazione. Per fortuna nell’ultimo incontro con la commissione erano presenti anche loro a rendere chiaro che oggi ci sono tanto le risorse quanto i lavoratori. Le pratiche per assumere queste persone non vanno avanti e nemmeno c’è una richiesta alla regione Campania per riavere i Bros, circa milleduecento persone, magari per una sperimentazione in alcuni quartieri, un investimento che porterebbe benefici anche a livello sociale”. (grazia della cioppa)
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Via Stalingrado. Il corteo dei metalmeccanici emiliani sulla tangenziale di Bologna
(disegno di dalila amendola) Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti, la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in virtù del nuovo decreto sicurezza. Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo – gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un questore zelante, che ha agitato un polverone  per un azione, più o meno concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata. E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali, dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero lì solo per il contratto? Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga. Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare. Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi, non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi. Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato, saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca. La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito, ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è una gioiosa novità. Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una psicologia di massa da sconfitti dignitosi. Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti, negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale. Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro, sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo, perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie, brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe. Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse. Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici – quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso ai fatti di via Stalingrado. Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia” si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da mettere sul piatto.    Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato. A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile, non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno, specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36 della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di cantiere o dietro le casse di un supermercato. In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non regge più? (giovanni iozzoli)
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I sogni chiusi in un capannone. Come si lavora nelle imprese contoterziste del settore moda in Campania
(disegno di ottoeffe) Io e Paola ci saremmo dovute incontrare dopodomani, ma il suo spettacolo è saltato a causa di una cisti tendinea alla mano e una brutta cervicale. «Solitamente insorge intorno ai quarant’anni», mi dice con un sorriso strozzato ma tenace, lo stesso con cui ha affrontato gli ultimi cinque anni in alcune delle tante aziende, disseminate tra Napoli e Caserta, che producono conto terzi per i grandi brand del lusso. Se ne contano circa settemila in quest’area. La regione Campania, che copre il quindici per cento della produzione calzaturiera nazionale, è una delle nove regioni europee con il maggior numero di dipendenti nel settore. Sono appena le otto di sera e Paola già si strofina gli occhi dalla stanchezza, mi ricorda che domani deve svegliarsi presto e quindi mi affretto a chiederle come è iniziato il suo percorso. «Quando mi sono diplomata – dice –, la mia idea era di proseguire con l’accademia di moda, mi sarebbe piaciuto cucire vestiti di scena». Nonostante conservi ancora a casa macchina da cucire, busto sartoriale e cartamodelli, molto presto ha dovuto fare i conti con la realtà: quindicimila euro l’anno la retta necessaria per accedere alle accademie di moda, per lei insostenibile – «però mi avrebbero regalato matita, squadretta e album con logo dell’istituto», sottolinea ironicamente. Così, scorrendo gli annunci sui siti di lavoro, forse anche per restare aggrappata a quel sogno, si è ritrovata alle porte di un’impresa calzaturiera nell’hinterland a nord di Napoli. «Mio nonno ha fatto questo mestiere tutta la vita, ricordo ancora l’odore nauseante di colla in casa. Ironia della sorte sono stata l’unica in famiglia a seguire le sue orme. Alla fine, è come se fossi un po’ una designer delle scarpe». All’esterno dell’edificio neppure un’insegna col nome della ditta, ma solo una targa impolverata con su scritto “tomaificio”. All’interno non è raro che alcuni dei trenta dipendenti – per lo più donne e senza contratto – svengano per via delle esalazioni provenienti dai collanti e dal taglio della pelle, che l’unico finestrone semiaperto del piccolo stabile non riesce a filtrare. «Nella prima azienda – continua Paola – ho trascorso solo sei mesi, lavoravo dalle 8 alle 17 per venti euro al giorno, quindi poco più di quattrocento euro al mese. Producevamo per Ferragamo e Vuitton. All’inizio ero eccitata di produrre per queste grandi firme, quasi non mi sentivo all’altezza, poi sono dovuta scappare: la vista è iniziata a peggiorare, ho scoperto dopo per via dell’assenza di aeratori vicino ai macchinari che erogavano colla, sempre senza etichetta». La produzione si suddivide in grandi commesse da circa trecento pezzi a cui lavorano una decina di banconiste, svolgendo affannosamente anche più fasi del processo; e una produzione più selettiva a cui lavorano solo in poche operaie, spesso le più anziane. Nonostante Paola non avesse esperienza nel settore, nessuna tra queste ultime le ha mai insegnato come svolgere correttamente il suo compito, nel timore di essere sostituite da una giovane tirocinante eventualmente capace di svolgere più mansioni, più velocemente. Quando poi, a causa di consigli “inesatti”, ha danneggiato più di un paio di scarpe, attirando su di sé l’ira e gli insulti del datore di lavoro, ha compreso l’unico imperativo da tenere in conto: non fidarsi di nessuno. Nonostante l’ambiente ostile, è in quei sei mesi che ha maturato buona parte delle competenze che le hanno permesso di approdare nella seconda azienda, in cui lavora da quattro anni, il primo con un contratto di rimborso spese, gli ultimi tre con uno di tirocinio. «Qui le cose vanno meglio: ho un contratto con ferie pagate e malattia, si svolgono visite mediche periodiche e controlli da parte dell’ispettorato del lavoro e dell’azienda committente». Eppure, qualcosa non torna ancora: la busta paga segna sei ore al giorno per milleduecento euro mensili, ma Paola in fabbrica ne trascorre otto per ottocento euro al mese, lo stesso prezzo di uno solo delle centinaia di stivali di Hermes e Vuitton che lasciano la fabbrica quotidianamente. Il capannone, in provincia di Napoli, è molto più grande e ospita fino a settanta dipendenti, anche in questo caso in maggioranza donne, tutte con forme contrattuali differenti (le neoassunte sono retribuite appena venticinque euro al giorno). Diversamente dall’azienda precedente, la produzione è automatizzata e avviene in manovia: tra banchi molto stretti scorre un nastro, lungo il quale la singola addetta svolge una sola fase produttiva, a un ritmo che (in)segue le richieste dell’azienda committente. «È questa la cosa disumana; se, per esempio, dobbiamo produrre cento scarpe abbiamo a disposizione cinque minuti per ogni fase, ma se la settimana successiva la commessa è di trecento o quattrocento paia, la caporeparto aumenta il ritmo, e quindi ti ritrovi a svolgere la stessa operazione in due minuti». Questo perché, mentre gli ordini più grandi sono evasi in Asia, al mercato europeo, che può sfruttare il sistema di distribuzione su gomma, sono destinati ordini più piccoli e brevi, che rendono impossibile pianificare la produzione e inducono a ripiegare su subappaltatori e lavoro a domicilio. Come testimoniano alcuni produttori nel report Clean Clothes Campaign, tutto il sistema moda si fonda su una profonda asimmetria di potere contrattuale: da un lato l’azienda committente e i rivenditori impongo il prezzo, con contratti che vincolano unicamente al rispetto degli standard qualitativi e delle tempistiche di consegna, e non un impegno sulle quantità da produrre. Dall’altro i produttori accettano prezzi bassi per non essere estromessi dal mercato, operando con un margine di profitto tra il cinque e il dieci per cento, corrispondente a pochi centesimi a pezzo, che il marchio rivende a un prezzo decuplicato. Ai fornitori non resta dunque che puntare sulla quantità, ma a risentirne in termini di salari e di salute sono le lavoratrici: «All’inizio – racconta Paola – per recuperare uscivo anche alle sette di sera, poi il corpo si abitua, ma molte non riescono a reggere, vivono tutti i giorni con l’ansia: alcune sono tornate a casa piangendo, altre iniziano a lavorare prima che suoni la sirena o non vanno in bagno per tutto il turno». Anche il suo di corpo sembra mostrare i primi segni di cedimento, ostacolandola sempre più nell’unica attività che la sottrae al grigiore di quello stabile e al fracasso delle macchine da cucire. Me lo racconta lei stessa quando le chiedo a cosa pensa durante il turno: «Io metto le cuffiette con la musica e immagino le coreografie di ballo, balli di gruppo, di coppia. Non ci sono in fabbrica, c’è il mio corpo ma non la mia testa. Penso a quello e basta, perché in realtà io là non ci voglio stare». La sua insofferenza, oltre che dalle pessime condizioni salariali in un settore che costituisce il cinque per cento del Pil nazionale, pare essere motivata proprio dall’ambiente di lavoro, che sembra accomunare entrambe le sue esperienze. Le aziende assumono principalmente donne, molto anziane o molto giovani: le prime hanno iniziato a lavorare a domicilio quando avevano appena dodici anni, spesso attendendo anni prima di vedersi riconosciute una qualche forma di retribuzione; per le seconde, giovani madri poco più che ventenni, il salario costituisce solo un’integrazione secondaria del reddito familiare. «Lei vent’anni, lui trenta, contratto a tempo indeterminato, casa, una brava ragazza. Ma che gli manca? Niente. Lei, che lo conosce da dieci anni, che gli manca? Tutto, dipende da lui anche per la macchina. Mi dicono “sono felicissima, ma tornassi indietro…”, allora forse non lo sei veramente, penso io». Tutte poco scolarizzate, spaventate dall’idea di cambiare azienda o semplicemente di chiedere un aumento, finiscono per accettare salari da fame. Ormai è l’una di notte e mi sento tremendamente in colpa per aver fatto tardare così tanto Paola. Lei, che di giorno sogna le coreografie e di notte la manovia, scende dall’auto salutandomi, ma prima di chiudere la portiera mi dice: «Lo sai, prima non ci pensavo nemmeno io, ma ora me lo chiedo spesso, chissà se loro si chiedono chi c’è dietro quelle scarpe». (maddalena de simone)
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L’incubo della sicurezza. Appunti e visioni a Torino
(collage di stefania spinelli) In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura. Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri. L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno. Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato. “Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025. “Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza: abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza cittadinanza e diritti. “Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025. La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora. SOLDATI NELLE STRADE Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano. Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” – scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati dal suo partito. Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo, per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends [sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui. Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi circondano e mi fissano”. L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide sui corpi. In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere. L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio, l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli effetti. Ricorda Gerusalemme. (collage di stefania spinelli) ZONE ROSSE Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara “l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma: “Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”. Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del territorio. Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali – l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”. Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera. La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro – precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla schiavitù. Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi. Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio. I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni. REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno, e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile; l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte: morte artificiale, o seconda morte. Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare? Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano la repressione. Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti. Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo. Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett. a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le origini delle sue procedure. La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante, o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso. (collage di stefania spinelli) SICUREZZA INTEGRATA I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL e UIL. La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una “collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una “strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a “rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il “contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata esperienza ed [sic] attivi sul territorio”. Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami, tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025 per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato, fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”. Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado, implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza. So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio: esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale, numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto le forze benevolenti e paternalistiche. In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie? (francesco migliaccio)
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Lavoro sociale e autosfruttamento. Intervista a una lavoratrice di Apriti Sesamo a Roma
(disegno di elena mistrello) Qualche anno fa, in una concitata assemblea di lavoratori sociali, qualcuno suggeriva ai presenti di guardare al sociale come un laboratorio dove il sistema neoliberale sperimenta processi di sfruttamento, e di auto-sfruttamento, che nel tempo, a macchia d’olio, si consolidano in altri settori del mercato del lavoro. In questo settore, a fronte della crescita del fatturato e dell’organico dell’impresa sociale, si mantiene una struttura apparentemente orizzontale, che attraverso la permanenza delle figure dei soci lavoratori diffonde un’idea di cooperativa come famiglia, funzionale in realtà alla cancellazione dei diritti residuali sanciti dal contratto collettivo nazionale. In questo scenario si colloca la storia che vogliamo raccontare. L’Apriti Sesamo, accreditata al servizio di inclusione scolastica di Roma Capitale, nel 2023 vantava un fatturato di circa quattro milioni e un organico di centosettanta persone tra soci e dipendenti; ma nell’ottobre 2024 ratificava nell’assemblea tagli sugli stipendi per i soci: 85 euro lordi sulla retribuzione lorda, sulla quattordicesima, sui permessi retribuiti, le ferie, la malattia, e inoltre formazione pagata al cinquanta per cento, con una riduzione dello stipendio, per ogni lavoratore, tra i duecento e i trecento euro al mese. L’8 aprile 2025, Apriti Sesamo invia una email ai lavoratori non soci, dove a seguito di motivazioni legate alla pandemia, li convoca per discutere sull’applicazione dei tagli. Il 22 aprile, i dipendenti vengono chiamati in un’assemblea, alla presenza dei sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil), dove i dirigenti della cooperativa illustrano il quadro economico e chiedono di fare sacrifici facendo leva sul solito schema familistico. La cooperativa informa poi i dipendenti sulla decisione di indire un referendum, il 23, 24 e 28 aprile, per “decidere” se accettare o meno i tagli. Ai sindacati di base (Usb e Cub) viene preclusa la possibilità di partecipare, negando di fatto una discussione sulla vicenda. Il 21 aprile l’Usb, il sindacato della lavoratrice che intervistiamo, e la Cub, proclamano lo stato di agitazione e inviano due lettere di diffida: una il 30 aprile e l’altra il 5 maggio, contro l’applicazione dei tagli ai loro iscritti. Il 30 aprile vengono pubblicati i risultati del referendum: su 99 aventi diritto, il sì prevale di 62 voti, mentre il no si ferma a 14. Mentre sono 23 le persone che si astengono. I tagli partono dal primo maggio, ma i lavoratori li vedranno applicati in busta paga solo a luglio, poiché lo stipendio viene erogato abitualmente con due mesi di ritardo. Il 12 maggio, i consiglieri dell’assemblea capitolina, Antonio De Santis e Flavia De Gregorio, chiedono la convocazione urgente della commissione scuola di Roma Capitale, per analizzare la situazione della cooperativa Apriti Sesamo. Un passaggio importante, quest’ultimo, visto che secondo la legge 104/92, il Comune è titolare del servizio di assistenza scolastica che supporta i ragazzi con disabilità nelle scuole di ogni ordine e grado. A partire dall’anno scolastico 2022-23, l’erogazione del servizio avviene tramite il sistema dell’accreditamento. Al momento in cui intervistiamo la lavoratrice, i dipendenti Apriti Sesamo attendono risposte ufficiali dal comune di Roma Capitale. Che è successo l’8 aprile? «Quel giorno ricevo una mail in cui vengo convocata dalla cooperativa insieme ai miei colleghi, dipendenti non soci, per parlare di un piano di tagli che sarebbe stato approvato qualora i dipendenti avessero votato sì. Leggo la mail e penso: parlerò con i sindacati di base. È una questione collettiva e non ho pensato di agire da sola, non ho nemmeno risposto alla mail. Il risultato è stato che il sindacato ha dichiarato lo stato di agitazione dei suoi iscritti. Sono andata all’assemblea con questa consapevolezza. Ma soprattutto non ero preoccupata perché ho pensato: ti pare che una persona va a votare per il taglio del proprio stipendio? Ho avuto fiducia nelle persone e come sempre ho sbagliato. Quando hai capito che la situazione avrebbe preso una brutta piega? «Il giorno dopo aver ricevuto la mail sono andata a parlare con le poche colleghe che lavorano con me a scuola, pensando che fossimo tutte d’accordo. In particolare una ragazza mi dice: “Non abbiamo altra scelta, io con loro mi trovo bene, ci lavoro da anni, perché dobbiamo votare no? Sono sacrifici che dobbiamo fare tutti quanti!”. Quando anche le altre colleghe mi hanno detto che avrebbero votato sì, mi è salita una rabbia incredibile. Ho dormito male e ho provato a immaginare quello che i miei colleghi avrebbero potuto dire e quello che avrei potuto rispondere. Iniziavo a pensare che saremmo stati una minoranza. In assemblea c’erano una cinquantina di persone, tutte silenti, pendevano dalle labbra del presidente della cooperativa, ascoltavano, annuivano. Avevano già accettato i tagli. Io e una collega che la pensava come me, ci siamo messe in fondo alla sala. Allora una delle lavoratrici storiche della cooperativa si è messa dietro di noi per vedere se stavamo registrando la riunione. Quando ho chiesto il microfono, ho detto una cosa molto semplice: “Come alcuni di voi sapranno è stato dichiarato lo stato di agitazione dei dipendenti iscritti a Usb. Noi non siamo d’accordo rispetto ai tagli e faremo tutto quello che è in nostro potere per impedire che venga applicata una cosa del genere”. Mi tolgono il microfono dalle mani e vengo attaccata da una lavoratrice per una questione personale: tempo prima mi ero confidata con una collega della scuola, dicendo che volevo cambiare lavoro e questa è andata a raccontarlo alla cooperativa. Lei mi ha urlato in faccia e io mi sono un po’ spaventata. Ero sola, non avevo il mio sindacato di riferimento, erano tutti palesemente contrari a quello che stavo dicendo. Ho iniziato a tremare, non ho vissuto bene l’aggressione, me ne sono andata via. Sono tornata a casa e sono rimasta per tutto il fine settimana a letto, non sono riuscita a studiare, non ho visto nessuno. Mi sentivo l’ansia, il mal di stomaco, non riuscivo a dormire al pensiero di tornare al lavoro. A scuola non mi sono esposta. Che significa per te lavorare nel sociale? «Quando inizi sei contenta perché pensi di stare facendo qualcosa di utile. Nel momento in cui ti rendi conto che vai a lavorare per il benessere altrui, ma che il tuo benessere è messo da parte, questo ti lascia svuotato. E quella motivazione che avevi nello svegliarti la mattina viene meno. Per citare Freire, l’educazione deve servire alle persone per liberarsi dalla loro condizione di oppressi. Ma nel momento in cui tu stesso sei oppresso dal sistema, c’è un meccanismo che si inceppa. Lavorare nel sociale ti sfinisce: sai che vieni sfruttato fino all’osso, che vieni pagato poco, che il tuo lavoro è invisibile. E quello che ti viene a mancare è l’umanità. Parlando di scuola, quest’anno, non ho avuto una parola di conforto da parte di nessuna insegnante. Colleghe che fanno un lavoro assimilabile al mio, ma lavorano quattro ore al giorno. Tu sei vista come quella che deve lavorare otto ore al giorno. C’è qualcosa che non funziona. E il prezzo di tutto questo lo pagano non gli imprenditori sociali, ma le persone fragili e quelle che lavorano. Che idea ti sei fatta dei sindacati? «I sindacati confederali rappresentano il fallimento dei sindacati. Hanno una struttura profondamente gerarchica, sono lì a parlare in rappresentanza dei lavoratori, ma hanno mai parlato con i lavoratori? Se, come in questo caso, difendi datori di lavoro che avallano il taglio allo stipendio di chi svolge un lavoro povero, significa che non stai facendo il tuo lavoro. Io mi chiedo come fanno a potersi definire sindacato. Hanno fortemente voluto il sistema dell’accreditamento. Il contratto collettivo nazionale l’anno scorso lo hanno firmato loro. Come ti senti a essere una lavoratrice sospesa? «Ho un rapporto ambivalente: c’è una parte di me che vive i tre mesi di disoccupazione quasi come una liberazione dal lavoro, e dall’idea di essere sfruttata. Nonostante a livello economico sia molto duro sopravvivere, visto che pago l’affitto e vivo in una città molto cara, in qualche modo lo percepisco come un tempo per liberarmi dalle pressioni, quasi come se preferissi percepire un reddito più basso piuttosto che sentirmi sfruttata. Avere tre mesi di libertà è un pensiero che mi aiuta ad arrivare viva a giugno. Trovo assurda la questione del part-time ciclico verticale, perché i colleghi e le colleghe che hanno dovuto firmare un contratto a tempo indeterminato, per quei tre mesi non hanno accesso alla disoccupazione, quindi devono continuare a lavorare nei centri estivi in cui vengono sfruttati di più rispetto alle scuole, perché ti pagano cinque euro l’ora. E soprattutto il lavoro di educatore è usurante, anche noi come i docenti dovremmo avere dei mesi per riprenderci. Viviamo in un ambiente lavorativo talmente precario e ingiusto, che sono arrivata a considerare la disoccupazione come una manna dal cielo. Io non firmerò mai un contratto a tempo indeterminato con una cooperativa. Non lo farò mai, e questo mi aiuta a percepire questo lavoro come temporaneo, perché non lo puoi fare tutta la vita». (giuseppe mammana)
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In questa piazza sono il più vecchio. Storia di un ex operaio di Bagnoli
(disegno di francesca ferrara) Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.   Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento, nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare. Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud, avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990. Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni. Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il capoturno diceva che bisognava accelerare. I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”, sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco, tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre. Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie. Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo. Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno. Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti, di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più. Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?». Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi. Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo, turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato. C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata a mare, c’era un certo benessere. All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca, eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di sera, e dalle undici alle sette di mattina. Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte. Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno. Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto: «Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio, conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
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Fermata “Don Guanella verso Scampia”. Un presidio di ascolto sfida la violenza di genere
(disegno di manincuore) Bisogna sempre tenere l’ombrello aperto sotto al ponte di via Don Guanella, strada sormontata dall’Asse Perimetrale di Melito, che collega l’Asse Mediano ai quartieri dell’area nord di Napoli. Che sia un giorno soleggiato o piovoso, il lento scorrere dell’acqua sulla carreggiata si mescola al rumore delle auto in corsa. Ai lati del ponte si susseguono piccole attività commerciali: una pescheria, una macelleria, un forno e un bar. Sul ciglio della strada una palina dell’Anm indica una vecchia fermata, “Don Guanella verso Scampia”, senza riportare alcuna informazione. Tra palazzoni popolari dipinti di un giallo sbiadito, spicca una cancellata blu. Al di là, si intravede un grosso edificio, l’unico che sembra ancora curato: il centro polifunzionale dell’Opera Don Guanella. Accanto, una struttura a un piano passa quasi inosservata, se non fosse per una piccola targa sulla porta che ne rivela l’identità: “Spazio Donna WeWorld”. Appena varcato l’ingresso, un open space dipinto dello stesso giallo dell’esterno è sede, da oltre dieci anni, di un centro di aggregazione che si impegna per la prevenzione, l’emersione e il contrasto a forme di disagio femminile e violenza di genere. Lo spazio è piccolo e confortevole: alcuni divani disposti in cerchio, un angolo caffè e tisane, una libreria, ma soprattutto il sorriso accogliente di Marianna Ferraro, operatrice storica di Spazio Donna. Capelli intrecciati d’argento e occhi color cielo, il suo aspetto trasmette immediata fiducia. “Questo spazio – spiega Marianna – è frutto dell’incontro di alcune operatrici che, più di dieci anni fa, decisero di mettere insieme professionalità diverse a supporto del territorio di Scampia. All’inizio proponevano piccole attività per famiglie a titolo volontario. Una delle operatrici venne poi a sapere che la Fondazione WeWorld aveva presentato una manifestazione d’interesse agli enti del terzo settore per aprire un centro di aggregazione per le donne nel comune di Napoli. Le operatrici pensarono quindi che potesse essere la giusta occasione per strutturare il loro operato e renderlo un lavoro vero e proprio”. Marianna continua, poi, raccontando che in realtà furono due gli Spazi Donna a nascere, uno a Scampia e l’altro a San Lorenzo, nel centro antico. Dopo tre anni di attività, però, lo spazio di San Lorenzo dovette chiudere per difficoltà organizzative. La maggior parte delle donne che arriva in questo centro lo fa perché sta attraversando una fase di vita particolare, che si tratti di episodi di violenza o di situazioni di profonda solitudine e disagio. “Siamo attualmente cinque operatrici – un’assistente sociale, un’educatrice, due psicologhe e una mediatrice culturale – e ognuna di noi, con il proprio ruolo all’interno del progetto, contribuisce a integrare le azioni e a costruire percorsi su misura”, prosegue Marianna. “La collana che indosso, un intreccio di fili di rame e pietre colorate, credo rappresenti l’emblema del lavoro che nel tempo abbiamo costruito. Diversi anni fa si presentò qui da noi D., una donna con un disagio personale che l’aveva portata a rinchiudersi nel suo ruolo di madre e a essere presa in cura, per un periodo, presso alcuni servizi del territorio. L’ascolto della sua storia ci ha concesso, gradualmente, di entrare nel suo mondo. Dopo un lungo percorso, D. ha scoperto di avere una grande abilità manuale, così ha ripreso in mano il disegno e ha iniziato a fare gioielli, grazie a un laboratorio che facevamo con un esperto. Adesso è un’artigiana e gestisce la sua attività. Il momento più bello è quando andiamo a comprare i suoi gioielli ai mercatini, lì puoi toccare con mano quanto l’indipendenza economica sia fondamentale per prevenire e contrastare la violenza”. Per le operatrici di Spazio Donna, tutto comincia dall’ascolto. Un ascolto che talvolta precede l’incontro diretto con le donne, spesso inviate qui da altri servizi del territorio. “Cerco sempre di guardare la persona che ho davanti con occhi neutri – spiega Marianna –, liberi da pregiudizi, per cogliere davvero ciò che sceglie di condividere”. È nella costruzione di una relazione di fiducia che si gioca il primo passo del percorso. Al centro c’è la vulnerabilità, vista come un punto di verità da cui partire. “Anche le donne che appaiono più forti e consapevoli hanno un nucleo fragile, ed è proprio lì che cerco un contatto autentico. È da quella fragilità che inizia il lavoro insieme”. Un lavoro che, spesso, entra in risonanza con vissuti personali: “Ci sono storie che parlano anche a me. Quando riesco ad attraversare e rielaborare quelle emozioni, sento una vicinanza ancora più profonda”. Lavorare in un settore del genere significa doversi scontrare con alcune barriere, come la mentalità di chi considera unicamente l’interesse utilitaristico dell’intervento. “Ormai fare rete va di moda ma sono poche le istituzioni capaci di farlo davvero. In diverse occasioni mi è capitato di vivere una profonda frustrazione perché vedevo alcune organizzazioni dello stesso territorio lavorare secondo una logica che ritengo tossica, per cui si tende a rinchiudere le utenti nell’ambito dei propri interventi, a causa della paura di perdere numeri. Questo è un vizio che va combattuto. Nel settore pubblico capita talvolta di lavorare secondo logiche di delega o, al contrario, in modo fortemente centralizzato. La sfida più grande oggi è riuscire a far dialogare linguaggi diversi, soprattutto quando di fronte si ha una situazione complessa, anche se i tempi delle istituzioni spesso non coincidono con quelli di chi ha bisogno di supporto”, racconta Marianna. Tuttavia, non sono solo queste le difficoltà di chi lavora in questo settore. A volte bisogna fare i conti con i propri di limiti. “Sono anni che mi dedico a questo lavoro, le relazioni che viviamo sono profondamente attraversate dalla violenza ma sembra che solo ora ne stiamo prendendo davvero coscienza. È come se fossimo sempre in affanno, in corsa contro il tempo. A volte ho la sensazione che anche noi, operatori e operatrici, non siamo davvero preparati ad affrontarlo”. “Mi è capitato – continua l’operatrice – di dover dire ‘questa situazione non la posso seguire’, cosa che considero uno strumento di cura verso di me ma anche verso la donna che incontro. Ci sono situazioni che non riesco ad affrontare, semplicemente perché non è il momento. La cosa più difficile è ammettere che in certi casi, alla fine, devi accettare di fermarti”, conclude Marianna distogliendo lo sguardo. Ringrazio Marianna per il tempo che mi ha dedicato. Mi accompagna alla porta con lo stesso sorriso con cui mi aveva accolta. Appena fuori dalla struttura, sento alcune gocce d’acqua sulla spalla. Bisogna tenere sempre l’ombrello aperto sotto al ponte di Via Don Guanella. (serena dolores correro)
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Cosa succede a Bagnoli? Terremoti, grandi eventi e rigenerazioni urbane
(disegno di adriana marineo) Sarà presentato questo pomeriggio a Napoli, alle ore 18:00 in viale Campi Flegrei (giardini esterno Vineapolis), il nuovo numero de Lo stato delle città (n. 14 / maggio 2025). La presentazione sarà occasione per discutere con gli abitanti di Bagnoli, con i membri dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei, con gli attivisti e le attiviste di Mare Libero Napoli e dell’Assise di Bagnoli, degli ultimi sviluppi riguardanti il complesso processo di “rigenerazione urbana” dell’area.   A seguire pubblichiamo l’articolo di Riccardo Rosa, apparso sullo stesso numero, dal titolo Giro di lune tra terra e mare. *     *     * È il 13 aprile. Un mese è passato dalla forte scossa di terremoto (magnitudo 4.6) che ha colpito l’area flegrea, e in particolare il quartiere di Bagnoli, nella periferia occidentale di Napoli. Siamo nella caldera dei Campi Flegrei, un’area vulcanica con un diametro di quasi venti chilometri, piena di crateri e fumarole. Da duemila anni, però, l’uomo ha voluto abitarci: per la sua bellezza, per la prossimità con il mare, per le proprietà delle sue acque termali e per tante altre ragioni, meno piacevoli, che verranno fuori da questo testo. La vulcanicità di questa terra, i movimenti di gas e lo spaccamento delle rocce, la periodica salita e discesa del terreno con relativi terremoti, sono tra gli effetti indesiderati. All’inizio di questo secolo i Campi Flegrei hanno invertito il trend di subsidenza del suolo. Questo significa che il terreno ha interrotto il suo processo di abbassamento e ha iniziato a innalzarsi, come già accaduto molte volte in passato. Dal 2006 la curva di innalzamento ha cominciato a salire più velocemente, fino a una piccola impennata dal 2012. Dal 2020 i terremoti si sono fatti più forti e più frequenti, a causa della velocità con cui si sono presentati i fenomeni bradisismici. Una forte scossa a maggio 2024 ha colpito Pozzuoli mettendo fuori di casa mille e cinquecento persone, che a oggi non hanno ancora ricevuto dalle istituzioni risposte adeguate. È domenica. Nell’isola pedonale in cui culmina la strada principale del quartiere sono radunate più di cento persone. A dieci metri di distanza, una palazzina che “fa angolo” è recintata con un nastro bianco e rosso. Il bar al piano terra è il più frequentato di Bagnoli, ma da qualche giorno una delle due saracinesche è abbassata. Il palazzo è stato dichiarato inagibile per i danni subiti dopo la scossa del 13 marzo, e una produzione a scartamento ridotto è sempre meglio della chiusura. Le cento persone sono in cerchio. Walter, un uomo sulla trentina, parla al megafono, dà aggiornamenti ai cittadini sulle pratiche burocratiche con cui gli sfrattati possono richiedere un sostegno per gli affitti o una sistemazione in albergo; ricorda gli appuntamenti per i prossimi incontri con assessori e prefetto; invita chi non l’ha ancora fatto a iscriversi a un gruppo WhatsApp che sta fungendo da collettore e al contempo da base logistica per gestire la crisi “dal basso”. Walter potrebbe sembrare, a sentire distrattamente le sue parole, il presidente o un assessore della municipalità, soggetti che invece non si sono quasi mai visti in giro negli ultimi trenta giorni, e a cui diversi interventi al megafono consegnano un conto salato in termini di accuse e improperi. È, invece, uno dei militanti di Iskra, laboratorio politico che da quindici anni agisce nel quartiere portando avanti lotte per la bonifica, per il lavoro, per la casa, contro lo smantellamento dei servizi di welfare, per la difesa degli spazi pubblici. Per molti, questi attivisti sono ancora “i ragazzi di Iskra”, sebbene abbiano lasciato il liceo Labriola da tempo e sulle teste di alcuni di loro cominci a spuntare qualche capello bianco. La gente li chiama così per familiarità, avendo visto crescere il collettivo e le persone che lo compongono, e riconoscendogli una certa autorevolezza a esprimere le istanze del territorio. I giornali e i politici lo fanno invece con quel paternalismo che mira a sminuire l’altro anche quando se ne sta parlando bene: i “ragazzi” sono gli illusi sognatori come tutti in gioventù, in fondo, siamo stati (e anche su questo ci sarebbe da discutere); quelli che faranno casino fino a quando capiranno che non è così che si risolvono le cose… Iskra e altri soggetti del quartiere hanno promosso, a inizio marzo, la formazione di un’“assemblea popolare”, un organo di rappresentanza informale nato in seno a un’occupazione della municipalità, molto partecipata dagli abitanti. In una settimana di riunioni l’assemblea ha scritto un documento molto più sensato della gran parte delle iniziative prese dai comuni di Napoli e di Pozzuoli, dalla Protezione civile e dal governo negli ultimi tre anni, un documento che metteva insieme analisi e proposte, tanto in termini di prevenzione quanto di gestione della crisi, sottolineando l’urgenza di un intervento perché la situazione sismica stava degenerando. Destino ha voluto che, pochi giorni dopo, la scossa più forte registrata da quarant’anni avesse come epicentro il quartiere, provocando danni a tantissimi edifici e lo sfollamento di più di seicento persone, senza contare quelle che, per paura o per situazioni abitative che hanno ritenuto non sicure, hanno deciso di lasciare volontariamente casa, senza ricevere alcun supporto in quanto “non ufficialmente sfollati”. Nel complesso, le risposte delle istituzioni alla crisi sono state, e continuano a essere, insufficienti. Le persone stanno provando a incidere sugli interventi attraverso cortei, presidi, iniziative pubbliche, facendo pressione sulla stampa per far sentire la propria voce e su chi amministra il territorio e il paese perché faccia qualcosa e subito. UNA COMUNITÀ Bagnoli è ritenuto un “quartiere operaio”, e in effetti lo è stato per oltre un secolo, dalla fine dell’Ottocento a quella del Novecento. Per un periodo molto più lungo, tuttavia, durato svariati secoli, era stato un luogo di vacanza e di cura (si è già detto del meraviglioso affaccio sul golfo di Pozzuoli e delle acque termali). Per una serie di circostanze un po’ complesse da riassumere, la stessa struttura urbana che ha assunto il quartiere ha contribuito alla creazione di una comunità coesa (tra queste circostanze vanno ricordate una sorta di “vincolo ante-litteram” contro la cementificazione della seconda metà dell’Ottocento, che ha fatto sì che si costruissero in buona parte del quartiere palazzi alti al massimo due o tre piani; oppure la presenza di confini – naturali e artificiali – ben definiti, come la collina di San Laise, il litorale, o i binari della metropolitana e della ferrovia Cumana). A partire da inizio Novecento – e con la progressiva espansione della principale fabbrica del sud Italia, l’ex complesso siderurgico Ilva-Italsider – questa comunità ha assunto una connotazione ben precisa anche dal punto di vista politico. Partendo da questi presupposti, l’intellighenzia cittadina ci racconta che “i bagnolesi” (come fossero un corpus unico) avrebbero ereditato una serie di caratteristiche legate alla tradizione operaia, tra cui la tendenza a lottare per i propri diritti. Non che sia una falsa retorica, ma una semplificazione che non rende onore alla complessità del reale, sì. Si è già parlato di Iskra; c’è poi Villa Medusa, palazzina liberty occupata e sottratta a mire speculative; ci sono gruppi come l’Assise di Bagnoli, una rete di associazioni e un osservatorio sul processo di bonifica in corso; ci sono gli attivisti dell’ex Lido Pola, insieme ad altre realtà che lottano per un mare libero, gratuito e disinquinato. Ma c’è anche dell’altro: la scuola Madonna Assunta che lavora con il metodo Freinet, una serie di piccoli vuoti urbani rifunzionalizzati per l’uso sportivo e collettivo, librerie indipendenti, laboratori d’arte e di teatro. Tutto in un quartiere eterogeneo che mantiene una parte di tessuto sociale fortemente popolare. Gli abitanti più anziani raccontano che, dopo la chiusura dell’acciaieria, gli operai rimasti senza lavoro, e che avevano scelto di prendere la liquidazione o il prepensionamento piuttosto che essere delocalizzati in altre aziende, erano così tanti che occupavano il loro tempo facendosi l’uno per l’altro da elettricista, falegname, idraulico, fabbro. Mettevano, in questo modo, competenze acquisite o rafforzate durante la loro esperienza in fabbrica al servizio della comunità, creando una sorta di economia circolare che funzionava perché ancora le risorse umane ed economiche da condividere erano consistenti. I veri problemi sarebbero arrivati con la generazione successiva, quella dei figli dell’ultimo ciclo di operai: nel loro caso la comunità diventava qualcosa a cui aggrapparsi mentre il quartiere si faceva via via più povero, con alti tassi di disoccupazione, tossicodipendenza e malattie (cento anni di fabbriche, fumi tossici, rifiuti speciali e tute di amianto non sono uno scherzo). Se il centro di Napoli oggi si trasforma a una velocità spaventosa a causa del turismo, e la sua identità viene svenduta a ogni angolo di strada, questa parte di città si mantiene in qualche modo ancora un luogo autentico, perché la sua identità è assai meno “materiale” rispetto a quella iconica e commercializzabile, sotto forma di calamite e altra paccottiglia, della città-vetrina. Non è semplicemente la tendenza a lottare e a resistere, ma qualcosa di più ampio dentro cui questa tendenza si colloca: un coacervo di relazioni, frutto di prossimità, mutuo riconoscimento, disponibilità all’aiuto che fa effetto ai tempi del turbocapitalismo, e che ha contribuito a tenere vivo un territorio assediato da un trentennio almeno di brighe e ruberie. Questo non vuol dire, naturalmente, assenza di povertà e violenza, o di abbandono nei confronti dei più deboli e dei più emarginati. Ma, piuttosto, che nel perimetro di quei confini ben definiti di cui si è parlato prima, esiste qualcosa di intangibile e collettivo capace di attutire i colpi. DOPO L’ACCIAIO Il polo siderurgico ex Ilva-Italsider di Bagnoli, nato a inizio Novecento ed espanso in maniera graduale fino a raddoppiare la sua superficie all’inizio degli anni Sessanta, è stato chiuso tra il 1990 e il 1992, dopo un decennio di crisi e una serie di costosissime ristrutturazioni mirate a limitare il violento impatto ambientale della fabbrica sul territorio. Molto difficile è il bilancio del secolo d’acciaio: Bagnoli è stata decisiva nell’affermazione dell’Italia come potenza industriale e ha contribuito a portare stabilità all’economia del paese; decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto costruirsi a loro volta un futuro dignitoso grazie al lavoro in fabbrica, si sono formati professionalmente e politicamente, acquisendo consapevolezza dei propri diritti e una coscienza di classe; nondimeno, il prezzo pagato in termini di decessi per incidenti professionali e per malattie, non soltanto contratte da chi lavorava in fabbrica ma da tutti gli abitanti del quartiere, è stato altissimo. Uno scotto che – forse, cinicamente – avrebbe potuto essere considerato un prezzo da pagare se quel “benessere” acquisito a caro prezzo avesse messo le basi per un futuro migliore per tutti. In pochi anni, invece, questo patrimonio è stato dilapidato e l’impoverimento del territorio si è manifestato con una velocità vertiginosa.  Un’altra delle false retoriche di cui è oggetto Bagnoli è quella dell’“immobilismo”, la narrazione per cui nei trent’anni passati dalla chiusura della fabbrica a oggi nulla è stato fatto in termini di bonifica e rigenerazione del territorio. Ma è troppo comodo descriverla così. Il bilancio, al contrario, è quello di un costante ed efficace lavorìo di dilapidamento di risorse pubbliche (novecento milioni di euro circa) in bonifiche non fatte o fatte male, costruzione di pochissime opere diventate cattedrali nel deserto o andate in rovina, carotaggi, studi, consulenze per centinaia di professionisti che hanno fatto percorrere al processo di riqualificazione strade contorte per tornare sempre al punto di partenza. Dal 2017 il Sito di interesse nazionale Bagnoli-Coroglio è gestito da un commissario straordinario, che lavora per applicare il Praru, programma per la bonifica e rigenerazione urbana. Quel commissariamento è stato molto contestato fin da subito, perché toglieva agli organi di rappresentanza cittadini le proprie prerogative in termini di scelte urbanistiche. Due anni di dura lotta degli abitanti del quartiere hanno portato a una modifica dell’articolo 33 del cosiddetto Sblocca Italia, ma è stata una vittoria a metà; di fatto, anche da quando il sindaco Manfredi è stato nominato commissario per Bagnoli, le decisioni vengono prese in una cabina di regia in cui a decidere sono il capo del governo, un paio di ministri e solo dopo il sindaco, sotto il ricatto economico dell’elargizione dei fondi. QUALE PARTECIPAZIONE? Durante un recente incontro semi-pubblico alla Porta del Parco, Walter, lo stesso attivista che abbiamo lasciato in piazza a denunciare la latitanza delle istituzioni sulla crisi bradisismica, spiegava con chiarezza ai sub-commissari per la bonifica la posizione dell’assemblea: «Se fino a qualche anno fa potevamo accontentarci del Praru, perché recepiva le richieste della cittadinanza di un parco verde, di una spiaggia libera e gratuita, di un mare disinquinato, oggi che avete cambiato tutto rimangono solo le cose peggiori di quel piano, inaccettabile per gli abitanti del quartiere». Al momento dell’approvazione di quel piano, sul sito di Napoli Monitor era uscito un articolo che metteva in guardia proprio su questo rischio. Il progetto, senza alcun reale finanziamento, blindava una serie di scelte discutibili (su tutte il porto turistico a ridosso di Nisida, presupposto per l’assalto finale all’isola che si appresta a diventare un resort per ricchi proprietari di yatch), lasciando grande incertezza su quelle più rispettose della volontà dei cittadini – vale la pena ricordare che i napoletani si erano espressi con tredicimila firme per una delibera di iniziativa popolare che prevedeva “due chilometri di spiaggia libera sul litorale che va da Nisida a Pozzuoli”. A meno di dieci anni di distanza, e dopo il finanziamento dell’intera operazione con un miliardo e duecento milioni di euro, l’ente commissariale ha, invece: eliminato dal piano lo smantellamento di una colmata a mare fatta di cemento e scorie dello stabilimento, che resterà lì dov’è, vanificando il ripristino della morfologia della costa (aprendo la possibilità a future speculazioni edilizie a ridosso del litorale); smantellato l’idea di un parco verde così com’era stata elaborata fin dagli anni Novanta; anticipato a mezzo stampa la possibile costruzione di opere edilizie inutili, come un centro congressi, a solo beneficio di investitori privati. Da circa tre anni, l’ente commissariale ha preso l’abitudine di convocare una cinquantina di cittadini per illustrargli i dettagli dell’avanzamento del piano. Queste riunioni avvengono ogni sei mesi, e a essere convocati sono solo i fortunati presenti in una mailing list, rigorosamente appartenenti ad associazioni, così che se un bagnolese “non associato” volesse avere notizie su quanto sta succedendo non ne avrebbe il diritto. Per un po’ di tempo l’ente ha millantato queste iniziative come un processo partecipativo, ma dopo i ripetuti attacchi degli abitanti che denunciavano questa pratica come l’antitesi della partecipazione, il direttore amministrativo dell’ente ha dovuto ammettere che “un commissariamento è per sua essenza qualcosa di lontanissimo dalle dinamiche di coinvolgimento dei cittadini”. Le riunioni, in effetti, vanno così: il direttore o uno dei sub-commissari illustra con una relazione gli avanzamenti; i cittadini prendono la parola ricordando tutte le cose che non tornano; gli amministratori incassano e, in alcuni casi, danno qualche risposta; volano parole grosse, accuse, qualche volta insulti; il tempo finisce e si torna tutti a casa, scontenti, in attesa della prossima pagliacciata. Peraltro, il commissario designato dal governo, il sindaco Manfredi, non si è mai degnato di partecipare a una di queste riunioni. Per uno strano capriccio, la (s)fortuna ha voluto che parallelamente all’avvio – con trent’anni di ritardo – delle operazioni di bonifica e rigenerazione, il territorio fosse protagonista dell’escalation bradisismica di cui si è parlato. Nell’ultima “riunione informativa” è emersa in tutta la sua forza la preoccupazione, da parte degli abitanti, rispetto al tema delle edificazioni all’interno dell’ex area industriale: se un decreto governativo impone, infatti, lo stop alla costruzione di nuove volumetrie in un’area definita “ristretta” all’interno della zona rossa, è cosa curiosa come quest’area non copra la superficie del Sin, per cui il decreto di fatto non elimina la possibilità di costruire case, centri congressi, palazzetti per i concerti e tutte le altre opzioni attualmente in campo nell’area dell’ex fabbrica. Gli amministratori dell’ente hanno infine parlato di una “rimodulazione” delle volumetrie, facendo riferimento forse alla riduzione delle strutture a uso abitativo a beneficio di quelle destinate ai servizi. Sarebbe – ma anche su questo le informazioni ufficiali sono inesistenti – una scelta incomprensibile: da un lato si sostiene che in un territorio con questa forte configurazione vulcanica è pericoloso costruire, dall’altro si implica che costruire un centro commerciale o un ristorante è “un po’ meno pericoloso”; da un lato si evacuano le scuole a causa dell’emergere inaspettato di gas Co2, dall’altro non si mette in conto che fenomeni del genere possano presentarsi tra mesi o anni, rendendo pericolosa ogni tipo di struttura. Non è dato sapere, inoltre, dove andrebbero a finire i soldi stanziati e “avanzati”, qualora si scegliesse di trasformare le cubature residenziali in commerciali, facendo quindi una bonifica meno impegnativa e costosa. UN LAVORO COLLETTIVO Di solito, come detto, le “riunioni informative” si svolgono alla presenza di persone che a differenti livelli si mantengono informate rispetto a quanto sta accadendo: membri di associazioni o di gruppi di base, reti di abitanti – come quelli del borgo Coroglio – e delegati di ciò che resta dei partiti politici. Nell’ultima occasione, fuori alla Porta del Parco (una delle poche cose fatte in questi anni nel Sin, non a caso una edificazione con uffici, sale riunioni e un auditorium) si sono presentati una ventina di cittadini dell’assemblea popolare, che hanno preteso di essere presenti senza dover delegare nessuno. Una delle cose più interessanti dell’assemblea è stata, in effetti, la modalità con cui si è riusciti a coinvolgere, partendo dalla preoccupazione rispetto all’attività sismica, abitanti che difficilmente prima d’ora si erano attivati in termini politici. Si è già detto del documento costruito insieme durante l’occupazione della municipalità; in seguito, donne e uomini giovani e meno giovani hanno trovato la voglia e la forza di “andare oltre”, di partecipare a cortei, intervenire in assemblee, stare in prima linea anche quando si è arrivati allo scontro con le forze dell’ordine. Alessia, una di queste donne, spiega: «È come se, di fronte alla paura, in tanti avessimo capito che non si poteva delegare anche questa cosa a chi fa politica attiva, a chi protesta e prova a difendere i propri diritti ogni giorno. Dovevamo essere tutti presenti, ed è stato anche un modo per elaborare la perdita della casa, o continuare a vivere in un appartamento pieno di crepe». Alessia fa parte della delegazione che nelle ultime settimane ha incontrato, uno dopo l’altro, svariati ministri, il sindaco, il prefetto, e due o tre assessori comunali. A ognuno di questi soggetti l’assemblea popolare ha da far notare qualcosa: al Comune, per esempio, l’insufficienza delle misure di supporto agli abitanti; al governo, lo stanziamento di una cifra ridicola per mettere in sicurezza gli edifici e avviare opere di miglioramento sismico, finalizzate a impedire lo svuotamento del quartiere. «È già accaduto in passato a Pozzuoli», spiega Marina, maestra in pensione. «Con le crisi bradisismiche del ’70 e dell’82 parte del paese fu svuotata per permettere la costruzione di insediamenti periferici come Monterusciello e il Rione Toiano. Uno degli obiettivi, oggi, è lasciare campo libero alla speculazione che potrebbe seguire la cosiddetta “rigenerazione urbana”». Pochi giorni dopo aver incontrato il prefetto e il ministro Musumeci, una parte di quella delegazione di abitanti si è ritrovata in una casa di via Ovidio, nel centro del quartiere, una casa anch’essa piena di crepe, che la coppia che vi abita da anni è prossima a lasciare. Intanto, i quadri sono stati staccati dai muri e appoggiati per terra. Ce n’è uno di cyop&kaf, una foto che ritrae un Maradona molto giovane, una locandina della fiera eno-gastronomica autorganizzata di Milano, che il caso vuole si chiami “La Terra Trema”. Fortuna, Laura, Alessia, Lamberto e altri raccontano all’intervistatore l’esperienza dell’assemblea, ma anche il denso susseguirsi di eventi dell’ultimo mese di cui – lo dice Fortuna in dialetto – «forse non abbiamo capito niente manco noi». Per essere il più fedele possibile alle loro parole, ho scelto di riportare alcuni estratti di quell’ora di confronto senza aggiungere filtri, facendo una sintesi e un montaggio che spero non alteri troppo le loro idee e il loro stato d’animo. Per evitare il rischio di romanticizzare il dramma (come è accaduto di frequente in questo mese tra reportage televisivi e una mezza dozzina di interviste alla scrittrice famosa che abita nel quartiere e che ne parla come del socialismo realizzato in terra, ma che non si è mai vista in piazza), ho deciso di non tracciare alcun profilo degli intervistati, né di attribuirgli questa o quella dichiarazione. Mi è sembrato il modo più appropriato per rendere la loro sostanza di soggetto collettivo, qualificandoli semplicemente per quello che sono: abitanti del quartiere. «(La scossa del 13 marzo, nda) è stata come una bomba. E in tutta la mia storia di flegrea, ne ho sentite! So dirti la magnitudo e la profondità appena la sento. Ma di quella notte non ho percezione. Ho avuto la sensazione del vuoto d’aria, ho sentito la terra che veniva meno […] e il letto che non si fermava». «Ieri per la prima volta ci siamo fermati, abbiamo pranzato insieme. Quella pizza è stata la cosa più bella… è come se si fosse formata una unione, una serenità che… è come si nun fosse succieso niente. Ognuno di noi porta la sua storia e in quel momento si è parlato di cose … non so spiegarlo… come ci stiamo muovendo, i punti che ci devono stare, le cose da chiedere… Era un’unione… ci rapportiamo, ci ascoltiamo, andiamo qua, andiamo là, senza che uno dice: tu hai sbagliato, quello ha fatto questo, quella quest’altro». «Buttarmi nell’assemblea mi ha aiutato a superare la paura. Se fossimo rimasti soli saremmo più spaventati, avremmo preso decisioni avventate». «La notte della scossa sono stata a viale Campi Flegrei, c’erano tante persone. Volevo stare vicina a casa e anche non lontana da casa dei miei. Poi sono andata a preparare il famoso “borsoncino” che da un po’ di tempo teniamo vicino alla porta, pronti a scappare». «Mentre stavo correndo sono caduta a terra, mi è venuta una crisi epilettica. Mio marito e le persone per strada mi hanno aiutata. Ci è voluto un poco per riprendermi, mi hanno dato acqua e zucchero, una coperta e così mi sono messa a camminare verso il “58” (un parco residenziale, all’omonimo civico), dove si diceva che era caduto un palazzo. Stava con me mia nipote di quattordici anni. Mio marito e mia figlia non hanno voluto muoversi». «La gente si era radunata fuori all’ex base Nato, ma questa volta ce n’era il doppio. Insieme a un centinaio di persone ci siamo messi a spingere il cancello per farlo aprire, perché i guardiani non ne volevano sapere. È stato brutto perché quelli stavano lavorando, ma noi avevamo bisogno di un posto, non potevamo stare per strada. Così lo abbiamo aperto con la forza e siamo entrati. Molti di noi siamo rimasti nei viali, dentro a un casotto che stava aperto abbiamo fatto mettere anziani e mamme coi bambini». «Una volta dentro abbiamo protestato per far mettere il tendone della Protezione civile, dove per due o tre giorni c’è stata tanta gente. Io ci sono stata quattro notti. Ma ci stavano solo i tavolini e le sedie. Abbiamo dormito sul pavimento, sui materassini portati da noi o addirittura a terra». «Io al tendone sulla Nato ci sono andata il giorno dopo, alcune persone mi sembravano sofferenti e gli ho detto: “Voi non potete stare qua, venite a farvi una doccia a casa mia, provate a rilassarvi un attimo, vi faccio delle lavatrici, lavate la biancheria”». «Io sono un geologo, mi sono trovato in prima linea per la mia professione. Da ragazzo avevo fatto politica col Pci. Io sono di Catanzaro, città con molti fascisti, non era facile. In questi giorni ho partecipato all’assemblea popolare, mi sembrava utile dare elementi, precisazioni, finché poi tutti mi hanno cominciato a dire: “Quando parliamo con questo o con quello tu ci devi stare, ci puoi dare le indicazioni utili, i dettagli scientifici, eccetera”». «Ho cominciato a frequentare il tendone per aiutare. Poi ho capito che potevo essere utile all’assemblea anche in altro modo e ora sono una delle più attive. Questo mi ha aiutato a superare la paura. La notte della scossa viale Campi Flegrei era pieno di gente ma c’era un silenzio irreale». «La gente sta andando via dal quartiere. L’assenza delle istituzioni fa più paura della scossa. Il contributo all’affitto è insufficiente e ora ci cacceranno pure dagli alberghi». «Io ero in un buco, stavo nel mio mondo. Non uscivo, ero sempre sola. Devo ringraziare tutti quanti, mi hanno fatto riscoprire la me di una volta, quella che non esisteva più. Quando passavo davanti a Villa Medusa, dicevo: “Com’è bello, vorrei proprio entrare, stare in mezzo a tutta questa gente”, però non tenevo mai il coraggio, anche se poi alla fine questo è il mio mondo, dove la gente parla, uno dice la sua, con un bicchiere di vino, ci si ascolta. Questo nella vita non succede, la gente non è così». «Sto imparando tanto. Provo a metterci il mio pezzetto, ma è una cosa che sul lavoro per esempio non trovi mai, e nemmeno nella riunione di condominio. Questa cosa mi ha stupito, che ognuno ci mette una cosa e si impara, insieme si migliora. Una cosa negativa? L’assenza di puntualità (ride). Se ti dicono alle undici non ti presentare mai prima di mezzogiorno!». «Quando mi hanno detto di stare nella delegazione per parlare col ministro ho detto: “Secondo me hanno sbagliato persona!”. Io non so parlare, non so le cose tecniche… Però se devo dire una cosa, tra tante persone presenti, quelli guardavano sempre a me e Maria. Io tengo la quinta elementare, e quelli guardavano a me! In noi vedevano “il popolino”, per loro era assurdo che davanti al ministro avevano portato a me. E invece il gruppo ha pensato che nella mia ignoranza io potevo portare la parola di Bagnoli».
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Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde
(foto di enzo morreale) Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est. Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici. Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa, evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno. Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta, costante e fuori dai riflettori. Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza un elicottero della polizia. Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel 2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila movimentati presso il nuovo terminal. Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi, ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’ (SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o sottoutilizzati”. La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.  Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa 217 milioni di euro per l’allestimento operativo. Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni. Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017: “Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione pubblica. In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto dell’industria. Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali. La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo. Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti, l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il comitato si batte ancora oggi. La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città, fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non balneabile. San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive, nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita grippiolo)
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #7. Il Sermig
(disegno di Adriana Marineo)   Queste cartografie aggregano voci enciclopediche per un archivio del terzo settore e dell’innovazione sociale. Nei contributi prevale un tono espositivo a cui si alternano spunti critici. L’ordine e i tempi delle uscite dipendono dalle energie a disposizione, dal tenore delle nostre ricerche, da eventi puntuali che notiamo in quartiere. Da tempo riflettiamo sul Sermig e sulla sua storia, ma non a caso proponiamo ora una voce specifica. Qualche giorno fa una straccivendola lungo la Dora è finita in questura a causa di una segnalazione alla polizia effettuata da un membro del Sermig. La donna aveva disposto i suoi oggetti in vendita accanto all’ingresso della struttura e questo, evidentemente, dava fastidio. È importante chiedersi perché un ente umanitario e filantropico non esiti a rivolgersi alla polizia e denunciare persone che potrebbero pagare un caro prezzo nel terribile sistema delle espulsioni di questo stato. Bene, non v’è nulla di cui stupirsi. Il Sermig è coinvolto da anni nel governo d’un quartiere da cui reietti e indisciplinati sono espulsi. * * * Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) fu fondato a Torino nel 1964 su iniziativa del bancario Ernesto Olivero insieme ad alcuni giovani cattolici: intendeva operare come gruppo missionario nel mondo. Presto il Sermig iniziò a occuparsi anche della povertà presente a Torino e dal gruppo originario nacque la Fraternità della Speranza, “una comunità di persone libere, unite dal Vangelo, che sceglie consapevolmente di mantenersi laica”. Dal 1983 la sede principale del Sermig è l’ex arsenale militare della città, in piazza Borgo Dora, ribattezzato Arsenale della Pace. La struttura è stata assegnata al Sermig in comodato dal Comune e trasformata in “casa di accoglienza per i poveri”. L’Arsenale di Borgo Dora offre oggi, fra gli altri servizi, un dormitorio maschile e una casa di accoglienza femminile, distribuzione di cibo e vestiti, visite mediche gratuite. L’orientamento imprenditoriale e il contributo dei volontari hanno permesso la ristrutturazione complessiva di un’area di 45.000 metri quadri: una cittadella della benevolenza nel quartiere della Dora. Successivamente, la Fraternità ha aperto a São Paulo in Brasile (1996) e in Giordania (2003) ulteriori strutture: i “progetti di sviluppo nel mondo” sono descritti come l’anima del Sermig, che vanta anche “missioni di pace” in molti paesi. Il principio cardine del Sermig, si legge nei loro documenti, è la “restituzione”: “trasformare beni, competenze, tempo, professionalità in opportunità per gli ultimi, per chi vive ai margini, per chi ha perso tutto”. Questo accade grazie al “contributo gratuito” dei volontari, che tengono in piedi l’impero di attività, progetti e servizi. Essi offrono la loro collaborazione senza chiedere rimborsi e pagandosi le spese. Accanto a questo “capitale umano”, la capacità finanziaria del Sermig si fonda principalmente sulle donazioni di persone fisiche, enti o aziende, ma anche sulla partecipazione a bandi o sulle richieste di contributi a enti pubblici o privati, come le fondazioni bancarie. Inoltre, il Sermig attua una politica che definisce “di autofinanziamento” fornendo servizi o vendendo prodotti. Per poter agire nel mondo la Fraternità della Speranza ha scelto di costituirsi in “emanazioni” che possono prendere la forma di ONLUS, associazioni del terzo settore, scuole ed enti di formazione, associazioni sportive e dilettantistiche, fondazioni. Tra queste figura l’Associazione Centro Come Noi S. Pertini che ha ricevuto, tra gli altri, finanziamenti dal bando Tonite. Le visite al Sermig di Mattarella, in veste di presidente della Repubblica, sono state numerose. Il presidente è venuto qui nel dicembre del 2019, poco dopo la cacciata dal quartiere di centinaia di straccivendoli, poi nel novembre del 2021 e nel luglio del 2024. L’ultima visita è avvenuta il 16 maggio di quest’anno: per un giorno intero la strada è stata chiusa al traffico, decine di agenti hanno presidiato l’ingresso e un graffito sulla facciata (“Palestina liberaci”) è stato rimosso con una mano di bianco. Nell’aprile del 2022 il presidente del Consiglio Mario Draghi ha visitato Torino e ha negoziato l’entità degli aiuti finanziari dello stato per contenere il debito della città. Dopo gli impegni istituzionali Draghi ha visitato due luoghi soltanto: il Sermig di Olivero e il centro direzionale Lavazza. Il Sermig appare come una struttura assistenziale dotata di notevole potere, apprezzata da istituzioni governative di vertice. Per descrivere il ruolo del Sermig nel quartiere è opportuno ricostruire il suo rapporto con straccivendoli e venditori poveri che, da decenni, si ritrovano il sabato nelle strade di Borgo Dora. Sin da inizio secolo gli straccivendoli disponevano le loro stuoie nel canale Molassi, una stretta via che separa la struttura principale dell’Arsenale da un complesso di laboratori artigianali gestito dal Sermig. Nell’aprile del 2018 il Sermig ha firmato una lettera assieme a un comitato di quartiere e altre associazioni di commercianti per affermare “la necessità e l’urgenza dello spostamento” del mercato dei poveri, definito come un “fenomeno esplosivo incontrollato e incontrollabile che da sempre funziona da catalizzatore di criticità devastanti”. Nel novembre dell’anno successivo, il mercato degli straccivendoli viene sgomberato con la violenza dalle forze dell’ordine.  Nonostante la repressione e l’esilio dei cenciaioli – relegati in un’area lontana, vicina al cimitero monumentale – nel quartiere è nato negli ultimi anni un nuovo, piccolo mercato informale dove alcuni venditori espongono oggetti raccattati nei bidoni, recuperati da solai e cantine. Gli straccivendoli si riuniscono la mattina vicino al ponte Carpanini, proprio davanti all’Arsenale del Sermig. Durante questa primavera la polizia municipale ha organizzato ronde e presidi sin dall’alba per impedire ai venditori di esporre la loro merce. Soltanto quando i vigili smettono di piantonare il marciapiede s’organizza un mercato di vestiti e oggetti ritrovati. Gli agenti spesso hanno un’aria arrogante, in altri casi appaiono a disagio per il compito assegnato. Alcuni di loro affermano di dover eseguire gli ordini: è il comando, dicono, che li manda su richiesta del Sermig e dell’associazione che gestisce il mercato degli antiquari in via Borgo Dora. Il Sermig si è rivelato negli anni un soggetto attivo nella repressione e nell’allontanamento dei cenciaioli più poveri. Persone senza casa, marginali, soggetti fragili sono graditi solo se possono essere parte del meccanismo di accoglienza della struttura: essi sono il carburante di un’industria della benevolenza caritatevole. Se i dannati della terra, tuttavia, sopravvivono ai confini del Sermig in autonomia, attraverso la vendita informale degli oggetti ritrovati, e senza adeguarsi ai progetti predisposti per loro, allora diventano un problema di ordine pubblico. I vertici dell’ente non hanno scrupoli a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sebbene siano consapevoli delle conseguenze tragiche che possono sortire da un controllo dei documenti. La storia del Sermig suggerisce così una riflessione sul ruolo del privato sociale nel governo della città: il terzo settore in questo caso non è soltanto complementare alle istituzioni repressive, ma può collaborare direttamente con esse per portare ordine e disciplina nel quartiere. (voce a cura di francesco migliaccio e stefania spinelli)
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