(archivio disegni napolimonitor)
«E ora dove andiamo?», si chiede e ci chiede un ragazzo del Bangladesh. Siamo
arrivati davanti al magazzino 2A del porto vecchio di Trieste intorno alle 13:30
del 3 dicembre quando ormai da alcune ore è in corso uno sgombero delle persone
in movimento provenienti soprattutto da Pakistan, Afghanistan, Nepal e
Bangladesh che vivevano da tempo nella struttura. Sotto a una tettoia di cemento
in diversi aspettano di capire il loro destino, mentre due operai montano delle
grate e dei pannelli di compensato sulle porte e gli infissi del magazzino per
impedire che venga rioccupato. Degli operatori della Protezione civile ripiegano
dei gazebo, mentre alcuni poliziotti fanno capannello poco distanti. Passano tir
che trasportano dei container. Se si guarda verso il mare si vedono delle
persone che camminano, ci sono dei panni stesi.
Alcuni migranti vengono fatti salire su dei furgoncini della polizia per essere
identificati in questura. Altri sono stati già trasferiti in altre regioni. Chi
è rimasto ha spesso in mano un documento dell’ufficio della questura di Gorizia
che ha ricevuto la loro domanda d’asilo: si tratta dell’invito a presentarsi per
formulare la domanda; i documenti che vediamo presentano diverse cancellazioni e
riscritture delle date per l’appuntamento. La questura di Trieste nelle ultime
settimane ha fatto resistenza alla presentazione di domande d’asilo e questo ha
spinto chi voleva iniziare la procedura ad andare a Gorizia o Monfalcone, salvo
poi non trovare posto nei sistemi di accoglienza di quella provincia. Sono
quindi rimasti a Trieste, senza poter più accedere ai posti dell’accoglienza
locale e sentendosi dire il giorno dello sgombero che la questura di Trieste non
è responsabile per quello che fanno altre questure. Ora si chiedono perché loro
che sono arrivati da più tempo qui siano stati messi da parte, senza soluzioni
abitative alternative ai vecchi magazzini.
Per chi arriva a Trieste dalla rotta balcanica le problematiche sono molteplici:
una è la gestione dei trasferimenti verso altre regioni (più o meno frequenti a
seconda del momento) e la mancanza di un solido sistema di accoglienza locale in
grado di fare fronte ai flussi migratori da cui la città è interessata da anni.
Quando i trasferimenti diventano più rari i posti in accoglienza diventano
insufficienti e si crea l’impressione dell’“emergenza”. Chi arriva, sia che
voglia rimanere a Trieste sia che voglia andare via, deve trovare così delle
soluzioni autogestite. Per anni l’enorme Silos, un insieme di due edifici ormai
diroccati accanto alla stazione ferroviaria, ha rappresentato il punto di
approdo per chi si trovava in queste condizioni. Sgomberato per l’ultima volta
il 21 giugno 2024, il Silos è ora al centro di un tentativo di vendita da parte
della Coop, proprietaria dell’immobile, e nel frattempo è stato circondato da un
parcheggio e da uno spiazzo cementificato per fare spazio al Cirque du Soleil
durante la scorsa estate.
Dopo lo sgombero del Silos le persone in movimento che transitano per Trieste
hanno trovato proprio nel vicino porto vecchio una nuova soluzione abitativa.
L’intera area, estesa circa sessanta ettari e realizzata nella seconda metà
dell’Ottocento come infrastruttura logistica per sostenere lo sviluppo del
porto, è stata in disuso per decenni: si tratta soprattutto di grandi magazzini
a più piani con ballatoi che danno sull’esterno, rimasti inutilizzati dopo la
diffusione dei container come strumenti per spostare le merci.
Il porto vecchio è ora al centro di un processo urbanistico che nei piani del
Comune dovrebbe trasformarlo del tutto nel giro di pochi anni. Al momento
diversi lavori sono in svolgimento, ma la maggior parte dei magazzini è rimasta
ancora al di fuori degli interventi e sono diventati così il rifugio per un
numero imprecisato di persone. Il giorno dello sgombero, in una nota il
Consorzio italiano di solidarietà di Trieste ha parlato di circa centocinquanta
persone coinvolte nell’operazione, con quaranta escluse dai trasferimenti, e ha
denunciato il mancato coinvolgimento delle realtà attive sul territorio
nell’accoglienza alle persone in movimento.
Lo sgombero è avvenuto dopo che nelle ultime settimane erano stati segnalati
nella stessa zona degli incendi la cui causa è difficile ricondurre a fuochi
accesi per riscaldarsi o per cucinare, visto che sono avvenuti o all’esterno o
in spazi non abitati. Questi episodi potrebbero essere stati usati come motivo
per accelerare lo sgombero, avvenuto peraltro in un momento in cui le
temperature si stanno abbassando e le giornate di vento forte sono in aumento.
Rimane però il fatto che gli altri magazzini sono stati ignorati, facendo
emergere ancora una volta la mancanza di un piano organico per affrontare il
problema dell’accoglienza e per non lasciare delle persone al freddo e senza
nessun tipo di servizio.
Questo carattere dell’operazione è emerso con forza nel pomeriggio dello stesso
3 dicembre, quando è stata data la notizia della morte di MagouraHichemBillal,
un cittadino algerino di trentadue anni. Il suo corpo è stato trovato da un suo
compagno in un edificio collocato a poca distanza dai magazzini sgomberati. Le
circostanze della morte non sono state ancora chiarite. L’Ics in un comunicato
ha parlato di morte annunciata e denuncia la mancanza di servizi a bassa soglia
capaci di intercettare chi si trova in difficoltà senza mettere barriere
d’accesso. Finora la scelta di chi amministra la città, e in particolare della
giunta del sindaco Roberto Dipiazza, è stata evitare l’attivazione di strutture
di questo tipo, sostenendo che avrebbero solo attirato sempre più persone dalle
rotte migratorie. La soluzione proposta è stata quindi nascondere per quanto
possibile il problema scaricando poi le attività di assistenza ad associazioni
come Linea d’Ombra, che da anni si occupa dell’accoglienza di chi arriva dalla
rotta balcanica, e ad altre strutture legate alla Caritas o alla comunità di San
Martino al Campo che gestisce il cruciale centro diurno, un punto di riferimento
per chi si trova in situazione di difficoltà a Trieste.
Un reportage del quotidiano locale Il Piccolo, pubblicato il 5 dicembre, ha
avuto gioco facile nel sottolineare la sporcizia e la precarietà dei luoghi in
cui vivevano i migranti all’interno del porto vecchio, dimenticando di
sottolineare come precise scelte politiche abbiano contribuito a creare questa
situazione. La stessa cosa era stata fatta anche all’indomani dello sgombero del
Silos. La morte di Magoura Hichem Billal arriva in un periodo che ha visto altre
tre morti di migranti in Friuli Venezia Giulia: Shirzai Farhdullah, venticinque
anni, a Pordenone; Nabi Ahmad, trentacinque anni e Muhammad Baig, trent’otto, a
Udine. Tutti e tre sono morti per intossicazione da monossido di carbonio,
avvenuta mentre cercavano di scaldarsi.
Il porto vecchio rimane abitato in mancanza di alternative mentre al di fuori i
lavori avanzano e promettono di dare una spinta ulteriore alla trasformazione di
Trieste in una città sempre più a misura di turista. Rimane anche la certezza
che lo sgombero non risolve un problema ormai strutturale di cui le istituzioni
dovrebbero farsi carico con un piano chiaro e di lungo periodo. Per il momento
rimane, pesante, la domanda: «E ora dove andiamo?». (alessandro stoppoloni)
Tag - città
A Macerie su Macerie riprendiamo il tema dell’urbanistica, in vista del nuovo
piano regolatore della città previsto per il 2026.
Attraverso un’intervista di qualche anno fa a Jean Pierre Garnier, sociologo e
compagno, riflettiamo sulle ideologie urbane degli ultimi decenni, tra le
retoriche sulla partecipazione attiva della cittadinanza e la metropoli della
paura che prende forma.
Ascolta qui la puntata precedente sull’argomento: Il “modello Milano” per
Torino: il nuovo piano regolatore.
(foto del movimento disoccupati 7 novembre)
Chissà se quando il dirigente della Digos saluta i manifestanti con il canonico:
«Finisce qua?», si rende conto dell’allegoria prodotta. È martedì mattina, siamo
all’esterno della sede Rai di Napoli, dove il Movimento disoccupati 7 Novembre
ha organizzato una conferenza stampa per rivendicare il recente avvio di un
percorso di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo, ottenuto dopo
oltre dieci anni di lotte.
Sono le dieci e trenta, la conferenza è finita da poco e il gruppo si sta
lentamente sciogliendo. La domanda del poliziotto è quella che fanno di solito
gli agenti al termine di una manifestazione, per assicurarsi che questa non
continui altrove o che non vi siano altre azioni in continuità con quella
conclusa. In quel contesto, mentre il movimento celebra quella che è una
innegabile vittoria, e in un certo senso la conclusione di un percorso politico
decennale, la sua domanda potrebbe risuonare come una sorta di invito a darsi
una calmata: “Il posto l’avete avuto: ora avete finito?”.
In realtà, le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai delegati del
movimento, vanno nella direzione opposta. Per prima cosa, dicono, bisogna
continuare a vigilare, e se necessario a fare pressione, affinché tutti i mille
e duecento tirocini comincino; secondo, è importante che gli impegni presi
riguardo alla trasformazione in un lavoro stabile e dignitoso di questi tirocini
vengano rispettati; terzo, nel movimento c’è già chi pensa che la lotta per il
lavoro debba mutarsi ora in lotta sindacale, per un mantenimento e miglioramento
delle condizioni e dei diritti.
Il Movimento disoccupati 7 novembre nasce undici anni fa, dopo che un gruppo di
abitanti delle periferie a ovest della città partecipa alla grande
manifestazione di Bagnoli contro lo Sblocca Italia e il commissariamento dell’ex
area industriale. Col tempo il gruppo cresce, arriva a raccogliere circa
quattrocento iscritti da diversi quartieri e si “federa” con un’altra grossa
lista di lotta per il lavoro, il Cantiere 167 di Scampia. Centinaia di persone
sono in strada quotidianamente, pretendono la garanzia di un diritto
costituzionale, e manifestano, presidiano, occupano, arrivano a forme di scontro
radicale per ottenerla. Gli anni passano, si creano opportunità, ci sono inganni
e tradimenti istituzionali, ogni volta si ricomincia daccapo. Le inchieste
giudiziarie si moltiplicano, le accuse sono spesso assurde, arrivano anche
condanne, pesantissime. Eppure oggi il prefetto, che evidentemente ha la memoria
corta, parla di “proteste garbate”, e nelle prime righe del recente accordo
firmato da comune e governo ammette che il movimento ha rappresentato un
problema di ordine pubblico, perché queste centinaia di persone non facevano
altro che rivendicare per un proprio diritto.
Alla fine, dopo undici anni di lotta, l’accordo arriva. Mille e duecento
disoccupati napoletani verranno impiegati per la cura e la manutenzione del
verde pubblico e scolastico, la sorveglianza delle strutture museali, altri
interventi di pubblica utilità. I primi cominceranno a breve, gli ultimi saranno
chiamati entro febbraio. Dopo un anno si comincerà a pianificare la loro
assunzione in cooperative comunali che si occupano di questo stesso genere di
interventi. L’investimento complessivo è di circa tredici milioni di euro. «La
nostra intenzione – ha spiegato il sindaco Manfredi – è quella di far
progressivamente transitare queste persone all’interno delle cooperative che
operano al Comune e Città metropolitana, che noi utilizziamo per la gestione del
verde pubblico. Queste cooperative oggi vivono una riduzione dei partecipanti
per i pensionamenti, ma l’obiettivo è quello di mantenere immutata la loro
dimensione numerica». Questo scenario fino a qualche anno fa non sembrava
nemmeno lontanamente ipotizzabile, considerando le resistenze delle stesse
istituzioni che oggi rivendicano il risultato, che si è invece delineato
soprattutto grazie agli sforzi del movimento.
Al termine della conferenza abbiamo fatto alcune domande a Eduardo Sorge, uno
dei portavoce dei 7 Novembre, chiedendogli se davvero, come sottintendeva forse
l’ispettore della Digos, la loro lotta è finita qua. (riccardo rosa)
* * *
«Al netto della forza della lotta, dell’incessante lavoro di mobilitazione e di
piazza, negli ultimi due anni c’è stata un’attenzione trasversale su questa
vertenza, perché si potesse concretizzare un risultato in questa direzione. Dal
punto di vista prefettizio c’è stato e c’è l’interesse a pacificare una delle
poche aree che rompeva e speriamo rompa l’immagine della Napoli città-vetrina,
per cui in un momento in cui Napoli sta diventando un parco giochi, una delle
loro valutazioni è stata che forse non era il caso di continuare ad alzare muri
verso una lotta che coinvolgeva un migliaio di persone, le quali tra l’altro
andranno a svolgere un’attività che va a colmare un vuoto di servizi. Dal canto
nostro, sappiamo che anche questo intervento sui servizi è finalizzato a
supportare una città che si prepara ad accogliere flussi turistici ancora più
imponenti di quelli attuali, e insomma il ragionamento istituzionale è stato che
conviene anche a loro che una serie di persone piuttosto che stare a bloccare le
strade vadano a garantire quello che considerano “decoro urbano”, a potenziare
l’accoglienza museale o migliorare i servizi scolastici.
«Le cooperative dove si andranno a svolgere questi tirocini sono le stesse dove
i disoccupati hanno svolto gli stage in una fase precedente, con il piano Gol,
sono cooperative attualmente finanziate da un investimento nazionale di decine
di milioni di euro, soldi che vanno nelle casse del comune che li gestisce.
Quindi l’amministrazione per questo servizio non investe risorse, seppure per
l’allargamento della platea ha contribuito con una quota. Di questa platea di
mille e duecento persone noi possiamo dire di rappresentarne circa la metà, ma
ci sono state spinte, per esempio durante la campagna elettorale delle
regionali, con interessi di parte molto lontani da noi, per frammentarla; il
vantaggio di essere riusciti a mantenere compatto il movimento, sta nel fatto
che questo risultato non potrà essere merce di scambio, non saremo disponibili a
essere strumentalizzati. Negli ultimi mesi, soprattutto i partiti di governo,
hanno provato a candidarsi come “rappresentanti” di questa vertenza. Da questo
punto di vista, riuscire a garantire risultati per tutta la platea, e non
soltanto per i nostri iscritti, è stato decisivo. Anche il fatto che
ventiquattr’ore prima di questo risultato siano arrivate condanne di due anni e
due mesi per otto esponenti del Movimento è un modo per dire “ok, vi siete presi
quello che volevate, ora però non rompete le scatole su tutto il resto”. Ma se è
vero che il movimento è nato per il lavoro, è anche vero che è sempre stato
nelle battaglie politiche generali – contro il riarmo, contro la guerra, per
l’unità dei lavoratori; e rispetto alla città, nella denuncia della
privatizzazione del verde cittadino e di tutte le operazioni che si stanno
svolgendo sulla costa, da San Giovanni a Bagnoli, e quindi continuerà ad
alimentare le lotte territoriali.
«Quando si fa un bilancio politico, tutto va inquadrato nel momento storico. Da
un certo punto di vista è una vittoria gigantesca, non tanto per il risultato,
ma per la rete che si è costruita tra la gente, i quartieri popolari, l’unità
anche con chi, come il Cantiere 167, politicamente non era vicinissimo a noi.
Forse se trent’anni fa avessimo raccontato questa vertenza non avremmo parlato
di vittoria, avremmo parlato di un’elemosina di Stato fatta per risolvere un
problema di ordine pubblico, ma io credo che tutto vada inquadrato in un
contesto, e in quello attuale gli operai e i lavoratori prendono sempre meno
salario, sono sempre più sfruttati, hanno sempre meno diritti sindacali. Siamo
in un momento di arretramento a oltranza, e il fatto che si ottenga un risultato
per mille e duecento persone, che non è solo il tirocinio, ma è qualcosa che
darà la possibilità dopo dodici mesi di entrare nelle cooperative, significa non
solo dare a chi ha cinquanta o sessant’anni una dignità personale, ma anche per
diverse centinaia di ragazzi di venticinque-trent’anni di avere un’alternativa a
fare il rider sotto la pioggia, oppure a fare i servizi nei b&b di cui Napoli è
piena.
Questo io credo sia il grande valore politico: la lotta ha pagato, e questo, in
un momento in cui c’è una disillusione totale verso le pratiche collettive di
organizzazione, è la cosa più importante. Molti di quelli che ieri erano bassa
manovalanza della criminalità o erano nella totale marginalità sociale, adesso
fanno i corsi nelle loro sedi, nei quartieri popolari, con i bambini di comunità
srilankesi, fanno battaglie contro le chiusure degli ospedali pubblici. In una
fase, tra l’altro, in cui siamo bombardati da giornali che ci dicono che non è
possibile garantire la spiaggia e il parco urbano a Bagnoli, ora noi abbiamo un
esercito di manutentori del verde, per cui sarebbe anche divertente andare a
dire al comune di Napoli: perché queste persone che già pagate non le spostate
tutte quante per garantire il parco urbano e la spiaggia? Stimolarli quindi sul
fatto che se il danaro pubblico si vuole tirar fuori per il lavoro pubblico,
dignitoso e stabile, si può tirare fuori.
(disegno di martina di gennaro)
È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito
all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre,
lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e
spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e
accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese
hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto
compatto, in apparenza inscalfibile?
Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo
intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla
redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore
Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro
del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly
Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo
storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di
emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile
mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica.
Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è
stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e
membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì
pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in
cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la
redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al
quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”.
Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza
d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create
“zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone
potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di
uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata
avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire
soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini.
In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come
tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come
spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il
sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata
sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di
polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati
pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di
sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità
di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può
intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della
diffusione dell’informazione.
Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di
certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione.
Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del
quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione
meridionale a Torino. (redazione monitor)
* * *
Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e
politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita
pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della
fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica,
e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare
al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un
progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento
da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al
tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del
processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro
incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”.
Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di
formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat
ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi.
Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme
sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano
nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e
dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo
specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In
essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della
vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le
cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i
preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti
(narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con
appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano
rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane.
Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare,
che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più
una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto
regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio
(specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali),
un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della
vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli
chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i
“casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la
sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei
paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere,
accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli
operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat
(e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o
intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della
“libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole
fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che
serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la
richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve
di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non
volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo
stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di
subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla
conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non
pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed
esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua
“operosità”.
Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea:
la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro
demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone:
siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi –
così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire:
dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon
operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista.
Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con
estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei
discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o
dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un
uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il
termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le
stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a
questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone
in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria
condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.
(disegno di sam3)
Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di via Salluzzo a Torino,
si trova al Cpr di Caltanissetta dopo aver ricevuto un decreto di espulsione,
firmato dal ministro degli interni Matteo Piantedosi.
A Mohamed è stato revocato il permesso di soggiorno come lungo soggiornante e
rischia il rimpatrio nel suo paese d’origine, l’Egitto di Al Sisi, dove prima
dell’arrivo in Italia, vent’anni fa, era oppositore al regime. In Egitto,
rischia la tortura e la morte.
Le ragioni della revoca del permesso sono legate al suo pensiero ed al fatto di
averlo espresso sulla pubblica piazza: parlare di Gaza e del genocidio in corso,
prendere posizione senza censure equivale a condannarsi, soprattutto se sei
musulmano.
In questi anni Mohamed non è stato il solo a ricevere la revoca del permesso di
soggiorno con successivo trattenimento in Cpr per aver parlato di Palestina.
Noto è anche il caso del cittadino algeino Saif Bensouibat, trattenuto al Cpr di
Ponte Galeria e poi liberato.
Negli anni passati anche diversi palestinesi sono stati rinchiusi in centri per
il rimpatrio: a Ponte Galeria, Brindisi, Palazzo San Gervasio. Le ragioni
risultano perverse: tra queste la pubblicazione di foto “sospette”, o
valutazioni discrezionali delle forze dell’ordine relativamente alle interviste
rilasciate alla commissione per la protezione internazionale. Rinchiusi in Cpr
per il solo fatto di essere gazawi o per aver parlato a favore della Palestina,
questi uomini sono stati prelevati, imprigionati, in un attimo resi nulla e
deprivati di ogni diritto, un trauma che ancora oggi segna le loro vite.
La situazione negli ultimi mesi continua a peggiorare, con un attenzionamento
feroce verso chi continua a portare in piazza la questione palestinese. Una
spirale repressiva che sembra non aver fine e che lede la libertà di espressione
soprattutto verso chi osa promuovere una narrazione alternativa a quella
dominante, complice dello stato genocida di Israele.
Questi tempi distopici richiedono grande coraggio per continuare a mobilitarsi.
Lo ha fatto Mohamed Shain che per questo rischia ora, concretamente, la morte.
La negazione del genocidio e dei crimini di Israele, nonostante le testimonianze
quotidiane dei palestinesi sotto assedio, dei giornalisti uccisi, delle immagini
che arrivano attraverso canali social, delle accuse della Corte penale
internazionale e dele relazioni e dichiarazioni dei rapporteurs o della
relatrice speciale Onu per i territori palestinesi Francesca Albanese,
rappresenta una delle più grandi vergogne della storia, di cui parleranno le
future generazioni, pari alla violenza che continua a proseguire a Gaza e in
Cisgiordania.
Tante sono le realtà ed i gruppi che hanno espresso solidarietà nei confronti di
Mohamed, mostrando la sua forza, evidenziando la sua capacità di promuovere
dialogo tra realtà diverse, dialoghi che hanno innescato processi di
pacificazione e collaborazione con la comunità ebraica torinese e con le chiese
valdesi, come dichiarato in un comunicato firmato circa un mese fa dove Mohamed
viene lodato come esempio di dialogo interreligioso e promotore di una
convivenza pacifica. Non solo, al fianco di Mohamed vi è anche il gruppo per il
dialogo cristiano-islamico di Torino, che ha presentato una lettera al capo
dello stato, Mattarella, in difesa di Mohamed e che così riferisce rispetto alla
moschea di cui è imam: “Come la maggior parte dei centri culturali islamici
della Città di Torino, la moschea di via Saluzzo è sempre stata aperta e
collaborativa, ospitando iniziative che hanno coinvolto tutte le comunità,
laiche e religiose, testimoniando concretamente e giorno dopo giorno l’impegno
sincero della sua direzione, dell’imam e di tutti i fedeli nel senso del
rispetto delle leggi, della pace e della cooperazione civile e inter-culturale.
Auspichiamo perciò che il sig. Shahin possa essere rilasciato, che gli possa
essere concesso di riprendere la sua permanenza in Italia e così la sua opera di
dialogo e di solidarietà”.
In questi giorni numerosi sono stati i presidi di piazza a Torino,
Caltanissetta, Milano, che hanno solidarizzato con Mohamed cui nel frattempo è
stato convalidato il trattenimento e per il quale sono a lavoro gli avvocati
Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama, contro l’espulsione e l’incredibile diniego
della commissione per la protezione internazionale.
Una rete di docenti universitari e ricercatori e ricercatrici ha presentato un
appello per Mohamed oggi: potete leggerlo a seguire e firmarlo a questo link.
Per sottoscrivere la petizione promossa su Change.org invece si può cliccare
qui. È nostro dovere rafforzare queste posizioni e continuare a chiedere che
Mohamed venga immediatamente liberato, torni alla sua famiglia e nella sua
comunità, a Torino, il prima possibile. (yasmine accardo)
(disegno di irene servillo)
Sono a Trieste per lavoro. Alle persone dico che mi occupo dell’accoglienza per
un noto festival cinematografico, ma in sostanza faccio l’autista. Devo
trasferire gli ospiti in vari teatri e poi assicurarmi che non perdano il volo
di ritorno. Non è un lavoro difficile, forse stancante, ma di positivo ha il
metterti alla prova in varie situazioni. La principale difficoltà è quella di
trovare parcheggio, soprattutto in una città piccola e ricca come questa.
Ovunque mi giri vedo suv, berline e macchine costose, sembra che nessuno guidi
utilitarie. Ogni volta che torno in questa città il pensiero va al tenore di
vita. Le persone sono ben vestite, solitamente hanno una shopper di qualche
boutique tra le mani. I palazzi sono bassi, curati, con bellissimi infissi
colorati e piante verdeggianti dietro grandi finestre-balcone. Dopo giorni in
continuo movimento i miei occhi si abituano a quella realtà fatta di
pellicciotti, cappellini, caffè in vetro e attese ai semafori. Finisco per
assuefarmi e neanche mi chiedo più dove siano finiti tutti gli altri: quelli che
non parcheggiano e non vanno in boutique.
Incontro Emanuela, una giornalista che trasporto dal lussuoso e centralissimo
Hotel Modernist alla periferica e abbandonata Rozzol Melara. Deve fare una
presentazione di un libro nella sede di un’associazione. Percorro i tornanti che
dal centro portano verso il limite nord della città. Superata la zona
residenziale mi si para davanti un gigantesco complesso brutalista: due
scatoloni in cemento collegati da ponti in ferro e costellati da piccole
finestre intervallate da giganteschi oblò. Percepisco una sensazione già nota.
Sono attratto da quella struttura come da un morto in autostrada, che vuoi
vedere e non vuoi vedere. Accompagno Emanuela e decido di addentrarmi. Ho poco
tempo prima del prossimo pick-up.
Mi rendo conto che quel tipo di complesso è qualcosa di contemporaneamente
familiare e inedito. Il cemento delle pareti sta iniziando a macchiarsi e a
formare lunghe lingue verdastre. Molte vetrate sono spaccate, i graffiti
ricoprono le superfici interne, c’è un’intensa puzza di urina e pochissime
persone: un’anziana con un carrello, un uomo con un cane. Mi addentro ancora di
più, arrivo fino ai garage. Si accende automaticamente la luce generale,
attivata da un qualche sensore. Ci sono molte macchine costose in fila: suv,
berline, ecc. Un uomo in tuta e scarpe da ginnastica mi taglia la strada, a
tracolla ha delle racchette da tennis. Entra in una Bmw e parte. Salgo la rampa
di scale, passo in una delle uscite di emergenza che permettono l’ingresso nei
palazzi dal garage. Mi ritrovo in un lungo tunnel con il pavimento in gomma, ai
lati file di attività abbandonate. Un gruppo di ragazzi fumano una canna. Li
supero e finisco in una piazza coperta all’incrocio di quattro vie. Seduti su un
cubo in cemento, utilizzato come panchina, ci sono due anziani. Il signor
Michele e il suo amico Giovanni. Chiedo se sono del posto e intanto mi accendo
una sigaretta. «Noi sì, siamo nati qua – dice il signor Michele –. Qua l’ha
fatta l’Atar, sarebbe l’azienda territoriale per l’edilizia. Ha fatto
seicentoquaranta appartamenti, hanno cominciato nel ’69, hanno fatto mezza ala,
poi hanno fatto l’altra, ci abitavano milleseicento persone in quasi novantamila
metri quadri. Ma adesso sono cambiate le cose. Prima c’era un ufficio postale,
c’erano un sacco di cose. L’hanno costruito gli architetti di Trieste, era un
Ordine intero… trenta tra architetti e ingegneri. Il coordinatore era Celli, che
aveva anche uno studio importante a Trieste. Doveva essere un paese nel paese,
ma hanno fatto una cazzata. Il cemento è fatto per sgretolarsi, e qui si sta
sgretolando tutto. L’idea di partenza era anche buona, i primi vent’anni ha
funzionato. Adesso mi sembra solo un mostro di cemento, non c’è un cazzo».
«Qui ci vive un po’ di tutto – continua Giovanni, l’amico –. Lo chiamano “il
quadrilatero” quando parlano di cose ufficiali, ma è conosciuto anche come
Bronx. Ci sono cose che non vanno bene, mettono gente che si dovrebbe
recuperare. Non sanno dove metterla e la mettono qua, extracomunitari e zingari.
Gira un po’ di tutto. Qua per fare politica costruiscono casone, palazzoni e se
ne fottono di quelle vecchie, qualcuno gli dovrebbe dire: “Dio bono, sistema
quello che c’era prima”, no? Lo fanno perché così possono dire che hanno
costruito».
Ora capisco la sensazione provata inizialmente. Quel richiamo che mi ha portato
a scendere dall’auto, che mi ha fatto immergere nel quadrilatero di Rozzol
Melara: come trovarsi davanti un sogno disatteso, una visione rimasta
incompleta. L’idea di una schiera di ingegneri e architetti influenzati dalle
teorie socio-architettoniche di Le Corbusier che hanno creduto di poter
costruire una città fatta su misura dei cittadini, con tutto ciò che sarebbe
servito, trascurando i fattori dell’identità e del rapporto con la “dimensione
umana” che impallidisce all’ombra di un colossale blocco di cemento. Domando al
signor Michele e al signor Giovanni come si vive oggi nel “quadrilatero”.
«Qua aprono solo cose di comunità e associazioni, non ci sono attività. Provano
a fare qualcosa per le persone, hanno aperto una biblioteca per i ragazzi un
anno fa – risponde Michele –. Poi c’è un bar e basta, manco un panettiere,
bisogna andare fuori, non c’è neanche una banca. Almeno c’è l’autobus che ti
porta a Trieste, sono dieci minuti. Poi qua spendono un mare di soldi, stanno a
spendere per cambiare gli ascensori, quindi bene, perché qui ci stanno dei
vecchi come noi che capirà, come salgono su sti palazzoni? Ma sono cinquanta
ascensori, strutture enormi… Quindi qualcosa la fanno. Ma poi è tutto pisciato.
Gli extracomunitari, che per carità io non voglio giudicare, ma non si possono
integrare, fanno le cose a cazzo e magari non hanno lavoro…».
«C’era anche un’altra passerella, ma l’hanno tirata giù – ricomincia Giovanni –,
hanno tolto dei ponti perché una decina si sono buttati giù. Sai, qui c’è gente
che ha problemi, non c’è psicologo, non c’è niente, e si sono buttati giù dal
ponte. Queste sono case popolari. I giovani non possono lavorare e magari si
trovano i debiti o si sentono falliti. Io il mio l’ho fatto, prendo mille e
quattro di pensione, non mi lamento. Sono del ’54, ho lavorato quarantadue anni
e cinque mesi. Mi dispiace per loro. I giovani stanno impazzendo per questo, si
fanno patologie, disturbi, io non riesco a fregarmene anche se sono vecchio».
«Io ho fatto un po’ di tutto – continua Michele –. Sono andato in alto e poi
sono andato in basso, nelle fabbriche sempre qua in zona. Poi sono andato in
“mamma Rai”, mi ha mandato l’ufficio del lavoro. Però sempre meglio di quelli di
adesso: un ragazzetto che era perito in telecomunicazioni doveva riparare una
radio e non sapeva fare un cazzo. Ma dio bono, dico io, che si studiano questi?
A che serve? Io sono radioamatore. Sono entrato in Rai con la terza media, sono
andato a lavorare con le camere e con i registratori. Ma ci mandavano in posti a
cazzo, sui campi minati… Eravamo in tre, giornalista, operatore e uno che segue
per portare il necessario. Io portavo le cose, che sembrava avessi addosso
un’armatura, quindici chili pesava quella roba là. Era faticoso, in due anni
dieci persone se ne sono andate. Uno che è andato dove dovevo andare anch’io,
qua vicino in Bosnia, gli è arrivato un missile ed è morto. Ho fatto bene ad
andarmene, mi sono salvato, altro che. Gli davano dei soldi, ma ti sparavano,
col cazzo che ci andavo, già normalmente camminavo sulle bombe…».
Guardo l’orologio, è tardissimo. Ringrazio il signor Michele e il signor
Giovanni e procedo a ritroso: passo dalla piazza al tunnel, discendo le scale di
uno dei palazzi, taglio per un parchetto con delle giostrine, arrivo sulla
strada ed entro in auto. Metto in moto e discendo i tornanti a velocità
sconsiderata. Prima dell’ultima curva guardo lo specchietto retrovisore. Vedo i
palazzoni in cemento scomparire dietro la montagna. (fabrizio ferraro)
(disegno di andrea nolè)
Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della
struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla
fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di
dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle
operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche
il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura.
Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato
sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli
esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le
immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili.
L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe
rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris
è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro
processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco.
Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse
impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata
scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno
in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata
riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento
delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati,
qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non
c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della
Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola)
andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a
testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato
non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e
cura a carattere scientifico”.
La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si
sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che
assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate
all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva
assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi
doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e
lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi
doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono
state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e
organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura
dei ragazzi con disabilità.
Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar:
dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in
appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle
assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che
Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di
Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono
state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla
fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le
argomentazioni nella motivazione della sentenza).
Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne
presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin
dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto
avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per
maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le
telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice
non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata:
ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di
violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente
negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la
giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di
soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del
processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e
irrispettosi.
In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato
nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando
qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di
fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di
simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte
degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente
affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e
neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione
dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di
civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di
contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere
utilizzati, producendo fratture e traumi vari).
Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto
un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto
di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine
della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate
motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali,
si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili)
un applauso lungo e liberatorio.
Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris
sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel
2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una
ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e
schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il
direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle
intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura
lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro
stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte
le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”.
Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria
Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola
che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il
tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I
genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale
ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la
struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole,
tratte dalla sua Carta dei servizi:
“La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare,
ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra
organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da
educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da
‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano
concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi
di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base
delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di
affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”.
HANNO VINTO I POTENTI
Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella
sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni.
Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia
inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo
l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della
presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli
strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale:
elettroshock, contenzioni, Tso.
La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di
milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal
costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di
premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima
onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi
più calde.
D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro
livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori,
cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di
parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa,
zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da
sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle
stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di
fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un
processo che è andato avanti per anni.
Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni
che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia – afferma ancora il
comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza – abbiamo impegnato tutte le
nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il
nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e
soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”.
A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da
quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun
visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono
accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo,
all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun
tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a
ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa
Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità
Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo
Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini),
Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità
Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze,
contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni.
Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e,
malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture
che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di
accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove,
di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e
fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
______________________
¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
(archivio disegni napolimonitor)
La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del
carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul
funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa
circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava
una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a
fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della
regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo,
l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione
sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria
materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di
accesso civico agli atti.
Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco
immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto
materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di
attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri
istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria
Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha.
* * *
Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure
estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La
struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre
centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo
contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente
compromesso.
Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è
presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici
complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione
diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto
concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli
spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi
incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie
rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza
supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento
tempestivo.
La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo
psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero
elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di
tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi
vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico,
aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche
esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui
medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento
psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico.
Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di
polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella
prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico
e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con
ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti.
Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità.
Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche
possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze
nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli
appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda
sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono
rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle
prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate.
Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di
patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o
inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla
produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime
detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati
e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli.
Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano
cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati
e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di
infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività
nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo
significativamente la qualità della presa in carico sanitaria.
Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano
ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza,
Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati
e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti
ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento
da remoto.
Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in
crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato
espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza
interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un
tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla
salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
(disegno di otarebill)
Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può
vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo
in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa
dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione
Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha
scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di
potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza
nella fiera promozionale.
«Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci
accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.
«Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della
mattinata…».
In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand,
ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte
gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche
scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e
colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per
l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio
De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli
affari esteri Edmondo Cirielli.
Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza
regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati
e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un
“principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e
poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue
dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il
tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà
straordinario”).
Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con
circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli
stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni
più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”:
può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e
inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire
sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i
cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per
monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree
contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici
blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone
al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si
confonde con una fiera campionaria del business bellico.
Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il
2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le
spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi
per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti
strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul
Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9
investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).
Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della
statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento.
È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i
sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà
ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta
milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre
settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica
di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione
della spesa pubblica.
All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della
rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una
fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle
superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita
scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una
di loro, l’altra fa spallucce.
Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero,
l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari
mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una
passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante
alla rotonda. L’aria è quella di una calda mattinata autunnale, tre signori
prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica
da una radiolina, i gabbiani sono in acqua.
Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari
locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio,
mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a
tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito
dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure
e con la modulistica.
Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi
allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro
ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di
O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito.
(edoardo benassai)
(archivio disegni napoli monitor)
Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni
di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi
ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle
spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento
milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono
partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di
vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la
turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra
loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non
volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.
Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e
persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che
entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla
mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo
dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in
un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le
complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.
È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e
Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e
di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante,
pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta
succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto
(la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa
a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa
“velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa
America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile
ancora maggiore di quello già esistente sul territorio.
* * *
Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni
comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025),
abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro
internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa).
Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere
politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci
focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti
tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più
sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la
salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte
tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare.
In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie
oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico
in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente
allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non
si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di
Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United
States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo,
2024b; 2025a, b).
Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la
necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della
legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione,
con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione
politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa
(come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali
con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i
terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte,
decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa,
sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero
anch’essi essere bonificati utilizzando l’Istd.
In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà
effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in
sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la
costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la
bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup.
Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in
sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento
definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua
superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi
all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile
costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire
la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici
presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere
bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in
Danimarca.
Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra
tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle
stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale,
specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale
approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro:
sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte
della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della
colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una
valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie
dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile.
CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI
L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e
per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente
inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente
prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti
marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli
ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati,
che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni
(combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente
cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo
stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche:
rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento
di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del
vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il
mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi
Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha
riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare
la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce
vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei).
Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è
un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico,
negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla
combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata,
Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di
Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni
negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per
cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio,
dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria
chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si
accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella
catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo,
inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici,
chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca
nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono
persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali,
sulle comunità locali.
La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito
di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al
contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di
conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno
parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte
lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del
rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per
definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali,
all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone,
prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili
scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo
assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili
con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito
di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea.
Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici
secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei
gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di
cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno
volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio
maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini
che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati
e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica
ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio,
soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate
in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale
rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno
necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i
siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli,
il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con
l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento
di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate
viene infatti generalmente privilegiato l’Istd.
Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe
necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni,
Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di
bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la
salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica.
Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di
sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati
(Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano
tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il
dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp,
causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli,
fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti
delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb
totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che
sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di
Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover
vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli.
Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati
per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹.
Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per
la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in
realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire.
Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste
comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano
essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non
vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con
phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di
pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli,
si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b).
Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo
et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli
pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003)
oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da
sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei
valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati,
alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana
(rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa).
Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella
raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli
impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica
più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli
(De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata.
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¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in
Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da
Icram/Ispra.