(disegno di peppe cerillo)
Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione
di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la
scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative
Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano
preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno
sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona
non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa
parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I
proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così
oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido,
centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La
sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino.
Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno
all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani
attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature:
l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a
un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di
Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che
costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila
appartamenti vuoti.
Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una
squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore
l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio:
fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi,
centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro
congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione
dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche
l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo:
settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta
a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio
della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili.
All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il
maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel
2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un
forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche
nell’ospedale Grassi di Ostia.
Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di
Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una
consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il
Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di
San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che
estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore
un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima
delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni
per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di
Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb,
trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata
razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani,
chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di
Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’
Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”.
Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di
Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin,
mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo
di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i
sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di
ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla
spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata
dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è
privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro,
difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante
trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era
scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo.
Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo
degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude
per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove
stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si
inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World
Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele
(UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano
Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega,
con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza
Capranica contro l’assedio della fame a Gaza.
Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a
Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente
del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e
una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della
polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il
buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge
il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di
“interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su
terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare
Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni
d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati
ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al
Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno
commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì
dentro si era suicidato.
Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per
il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il
mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze
cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito
con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa
giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene
colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento
per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro
dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione
di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro”
(cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono.
Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia
la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una
Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove
palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona
verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
Tag - città
(disegno di cyop&kaf)
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza
del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle
cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro
Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere
prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi
era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare
l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo
grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è
concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che
si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione
all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli.
Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso,
spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano
illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene
sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare
regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente.
La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio
amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di
stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano
stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo
di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto
atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i
provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza
consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere
eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti
ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem,
avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e
proporzionati”.
In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024
(e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione
eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o
che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga,
inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste
e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle
cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata
l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da
un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola
denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di
pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza
delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia
nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e
determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo
allorché vada ad integrare una norma penale”.
La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà
personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva
ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza,
legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione)
(disegno di adriana marineo)
Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone
e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari
inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza
ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la
Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom
– spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada
riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma
inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse
che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la
Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura
Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti
del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco.
* * *
L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di
promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in
concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San
Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova
sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di
queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui
avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo
Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti
universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una
stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello –
Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui
muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato
sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando
legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti
finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della
Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei
fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011
Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in
Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la
candidatura a sindaco di Piero Fassino.
Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del
progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e
legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle
casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a
cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente
ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie
e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra
loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si
trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per
accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti,
complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile
attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato,
mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano
“clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano
l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che
osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano,
attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in
grado di garantire un ritorno economico.
All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie
attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di
Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si
specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale
rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo.
A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania
che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa
capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo
Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e
famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale
che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di
persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste
senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza”
gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie
rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social
housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è
cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz.
Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite
dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo
farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di
“autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone
loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei
minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare
l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte.
L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice”
dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più
autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì.
Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di
corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre
duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche
in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento
redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o
intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative
sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo
della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione
dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta.
Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico
gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse
istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei
campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle
cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione
Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010
inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via
Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e
associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla
fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni.
Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande
baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della
città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della
Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti
gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una
“bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in
una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il
patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui
viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione
di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai
“cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre
spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni
abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione,
dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi
integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno
della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la
presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale.
Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente
finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero
dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un
mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al
raggruppamento temporaneo d’impresa formato dalle stesse organizzazioni del
progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il
progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta
“realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa
1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli,
via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina
dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a
dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila
persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di
emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo
la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie
vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e
cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano
41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il
rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un
anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei
fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri
sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della
città.
Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi
giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non
portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei
fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste
si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata
agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si
costituisce parte civile.
A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città
possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel
frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative,
decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di
circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è
già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che,
mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la
struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel
corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di
accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase
il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi
e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché
la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le
famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le
istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune
sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi
quelli di TDF.
Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e
amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione
un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico.
Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della
produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano
una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati.
La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle
palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari
enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a
disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo
(2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa
mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che
finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”.
Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno
complessivo. (voce a cura di manuela cencetti)
______________________________
QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
Foto di Matteo Ciambelli
Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli
spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita
Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori,
corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto
mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si
svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e
centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni,
cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura,
in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine.
Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi
giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno
persone, tutto più tranquillo».
Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della
Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai
cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di
scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la
spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si
intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare
l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha
avuto grossa diffusione.
La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid
sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di
Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti
nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo
aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre
erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A
compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli
amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in
questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio
tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di
calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che
sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte,
acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate
con la data della finale della Scugnizzo Cup.
A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol
più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori:
Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del
torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola
evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è
dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un
esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori
evitati in due metri quadrati.
Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra
linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci
sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce
quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson,
circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più
titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo,
vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per
tenere i tifosi lontani dal campo.
Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati.
«Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per
strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono:
«Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista
semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira
intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della
partita abbraccia il padre.
La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli
spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce
illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il
calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e
lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo
megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo
tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del
Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano.
Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice,
che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra,
palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I
tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo,
Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1),
probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano
articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre
importanti di serie A.
La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene:
capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto
all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e
lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua
figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai
fuochi d’artificio. (davide schiavon)
(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di mario damiano)
15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la
trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli
nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica
nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le
altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca
convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza
per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie
Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per
Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che
accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi
prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che
obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della
sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e
scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al
mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio
di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa.
6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione
che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo
genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città
catalana.
Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato
contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi
ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del
resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni
di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se
ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience
televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene
spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I
finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro,
mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto
perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa
América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il
lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono
portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare
volontariato.
Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex
vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano
esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande
parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per
tutti.
Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è
operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte
presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio
pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe
essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è
limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento
barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno
ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i
pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da
venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non
hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno
continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo.
11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di
associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex
Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla
competizione.
Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare
il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa
ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de
Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca.
Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti
all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi
militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori
universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano
magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca
il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia
libera.
Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio
Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone,
sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero
del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato
presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel
documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo
metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori
e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che
chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti,
associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene
che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale
per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura
quadruplicare”.
20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna
l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che
fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le
prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per
Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di
risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla
realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei
nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo
dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un
commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come
“contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari
alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa
cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma
non ci sono i soldi per fare questo intervento”).
Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede
poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul
molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti
barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali
(lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a
una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle
questioni non può neppure discuterne.
24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di
“visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una
“collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è
una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente
stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo
ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori
locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al
grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto
“resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi,
e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport.
1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con
l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio.
Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di
dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con
le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte
dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con
vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta
chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della
fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci
cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli
inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però,
rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo.
Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto
il mondo quello che sta succedendo qui”.
8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo,
direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive
dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia,
paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per
l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata
centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura
a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima
accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco
(“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento
delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente
appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione
alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver
informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la
mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella
presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una
vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di
costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un
grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la
baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e
yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa
per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
(disegno di otarebill)
I protagonisti di questa storia sono un piccolo giardino, una prestigiosa
università statunitense e un’amministrazione comunale. Cominciamo, come è
giusto, dal giardino.
TRACCE DI STORIA
Da qualche anno porta il nome di don Tullio Contiero, un prete poco amato dalle
gerarchie ecclesiastiche, chiamato a Bologna agli inizi degli anni Sessanta dal
cardinale Giacomo Lercaro per occuparsi degli studenti universitari, per i quali
organizzava ogni anno viaggi in Africa per far conoscere loro il sud del mondo e
metterli di fronte alle responsabilità e alle contraddizioni dell’Occidente. Ma
in realtà nessuno lo conosce con questo nome. Tutti continuano a chiamarlo come
prima: giardino San Leonardo, dal nome della strada che lo costeggia.
È nel centro di Bologna, nella zona universitaria, ma defilato rispetto ai
grandi flussi che, a poche centinaia di metri, ne caratterizzano la vita
quotidiana. È di piccole dimensioni (circa 1.500 mq), ma è molto amato dagli
abitanti e dai frequentatori della zona, che se ne sono presi cura, nel tempo,
anche attraverso comitati o gruppi informali. Non ha nulla di particolare, se
non il fatto di rappresentare la “normalità”: uno spazio verde e tranquillo,
dove le persone trascorrono del tempo in modo informale, senza essere attratti
da attività o da luoghi di consumo. Troppo normale per resistere alla febbre
della “rigenerazione” che sta dilagando in tutta la città.
Ma prima di descrivere qual è la minaccia che incombe su questo piccolo lembo di
terra, è bene ricordare qual è il contesto urbanistico e sociale in cui si
trova. Si tratta, innanzitutto, di un esercizio di memoria che ci riporta al
1973, anno in cui il comune di Bologna, con la regia dell’architetto Pier Luigi
Cervellati – all’epoca assessore all’urbanistica – adottò una variante al Piano
per l’edilizia economica e popolare (Peep) che estese al centro storico gli
interventi per quella tipologia abitativa, fino ad allora destinata alla
periferia. Il piano coinvolse cinque comparti del centro e portò al risanamento
– per iniziativa pubblica – di circa settecento alloggi, dove tornarono ad
abitare gli stessi nuclei familiari che li occupavano in precedenza, quando
erano fatiscenti. Furono anche realizzati centri civici, studentati, spazi per
attività di quartiere, recuperando complessivamente circa 120 mila mq di
superficie. (Per un approfondimento si rinvia a questo articolo dell’architetto
Carlo De Angelis, che fu tra i protagonisti del piano). Era ben chiaro che i
ceti popolari sarebbero stati progressivamente espulsi dal centro, e il piano
mirava – al contrario – a farli rimanere dove erano sempre vissuti. Via San
Leonardo era una delle strade comprese nel piano.
‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’
Finora – come è facile immaginare – non c’è stato grande dialogo tra questa
strada che ancora oggi conserva un tessuto popolare e la limitrofa Johns Hopkins
University, i cui master costano – come si può ricavare dal sito – tra 65 mila e
89 mila euro all’anno. Ma il muro che divide la strada e il suo giardino dalla
sede bolognese della rinomata università che ha la casa madre a Baltimora sta
per cadere, non solo metaforicamente. Ad aprire la breccia sarà una caffetteria.
Questo è, infatti, il succo di una proposta avanzata dalla Johns Hopkins
University, elaborata dallo studio Betarchitetti. Il Comune la accoglie nella
cornice dei “patti di collaborazione”, una delle articolazioni del sistema di
partecipazione costruito dall’amministrazione comunale con grande enfasi
retorica che ne nasconde l’essenza: imbrigliare la partecipazione entro forme
istituzionalizzate e centralizzate e distoglierla dalle questioni cruciali,
discusse e decise al di fuori delle sedi istituzionali, al riparo da qualsiasi
dibattito pubblico e rese note solo a cose fatte. Nel caso specifico si tratta
di una evidente forzatura: come è possibile utilizzare questo strumento per
autorizzare un intervento urbanistico su un intero comparto? Si tratta di una
corsia preferenziale? O di un esperimento per introdurre senza far rumore una
ulteriore forma di deregolamentazione?
Ma torniamo alla caffetteria della Johns Hopkins. Il succo della proposta è
tutta qui: l’università chiede di poterla espandere aprendola verso il giardino,
in cambio si farà carico delle spese per la sua ristrutturazione. Come da
copione, anche stavolta non mancherà l’abbattimento di alberi (in questo caso
tre esemplari tutelati), un elemento che caratterizza tutti i progetti di
“rigenerazione” in corso o in previsione in tutta la città e che sta assumendo
dimensioni enormi e intollerabili, i cui effetti non saranno mitigati dalle
promesse di “compensazione” tramite nuove piantumazioni.
Ovviamente una richiesta del genere – che comporta la modifica della
configurazione di uno spazio pubblico a favore di un interesse privato – va
addolcita con qualche zolletta di zucchero. Ecco allora che si prospettano
“eventi e festival” (in un fazzoletto di terra!). E poi la formula magica:
“riconfigurazione del margine”. Abbassando il muro di contenimento del giardino
– secondo i promotori – si otterrà una maggiore “permeabilità” rispetto al
comparto oggetto dell’intervento, “favorendone il presidio sociale”. Per
supportare queste affermazioni generiche e prive di sostanza non poteva mancare
il richiamo alla “sicurezza”: la “permeabilità” servirebbe infatti a “far fronte
all’annoso problema della mala frequentazione durante le ore notturne”. Quindi
un bar, un muro più basso, una migliore illuminazione e – non poteva mancare –
un impianto di videosorveglianza.
Certi che la parola magica – “sicurezza” – rappresenti la chiave che apre tutte
le porte (e non hanno tutti i torti, dal loro punto di vista, considerando il
clima culturale e politico dominante, anche a livello locale), i redattori del
progetto non si preoccupano delle evidenti contraddizioni. Se la “mala
frequentazione” riguarda le ore notturne, come può la caffetteria garantire un
presidio per scongiurarla? Se, come è scritto in un passaggio del progetto, “il
rigido protocollo di sicurezza dell’università ha reso impensabile fino a ora
favorire una permeabilità incontrollata degli accessi verso lo spazio pubblico”,
cosa è cambiato ora? Forse la caffetteria non sarà aperta al pubblico (e quindi
addio “presidio”?). Oppure dobbiamo aspettarci una caffetteria con “rigidi
protocolli di sicurezza”?
Una versione precedente del progetto conteneva una proposta lasciata cadere
nella versione definitiva, che merita però di essere citata: “Si propone inoltre
la possibilità di trasformare l’attuale unità abitativa di proprietà comunale
[che si affaccia sul giardino, ndr] in una attività ristorativa a carattere
sociale che possa fornire una cucina interculturale di tipo kosher. Questa
attività sociale consoliderebbe il carattere interculturale del comparto […].
Tale operazione potrà essere effettuata previo ricollocamento della famiglia
ospitata nell’immobile”.
È un passaggio significativo, che illustra la protervia del soggetto privato che
si spinge fino a invocare lo spostamento di un nucleo familiare insediato in un
alloggio popolare per ricavarne un ristorante, e svela la vera natura del
progetto. Il fatto che questa richiesta sia stata accantonata, infatti, non ne
muta il significato: si tratta di un interesse privato su suolo pubblico. Tutto
il resto è scenografia.
PICCOLO E GRANDE
Colpisce che nella relazione tecnica, nel paragrafo dedicato all’inquadramento
storico e urbanistico, manchi qualsiasi riferimento al piano di edilizia
popolare realizzato nel 1973. In sostanza, l’intervento proposto ignora
completamente il contesto sociale nel quale va a incidere. Colpisce anche che il
Comune non rilevi questa mancanza, che riguarda un aspetto di grande rilievo.
Evidentemente l’amministrazione comunale ne ha perso la memoria, o forse non sa
che farsene di una cultura urbanistica attenta ai bisogni sociali, al disegno
complessivo della città e all’equilibrio tra interessi privati e interessi
pubblici.
Del nuovo giardino San Leonardo il Comune è molto soddisfatto. I toni
del comunicato con cui lo annuncia alla città (senza alcun confronto preliminare
con il quartiere e i suoi abitanti) sono entusiasti: “Il progetto punta ad
aprire il giardino verso la città, mettendolo in relazione con le attività e i
servizi circostanti, attraverso la riqualificazione dei margini, la
riorganizzazione degli accessi e la valorizzazione delle connessioni urbane […].
Gradini, sedute, rampe e gradoni ridisegneranno il perimetro del giardino per
renderlo più accessibile, vivibile e connesso al tessuto urbano, trasformandolo
in uno spazio di relazione e incontro per residenti, studenti e cittadini”.
Questo passaggio illustra bene quella che potremmo definire la neolingua della
rigenerazione urbana. Si prende qualche termine dal lessico specialistico
(riqualificazione, margini, connessioni…), lo si combina con qualche aggettivo
comparativo che metta un po’ di enfasi nel discorso (più accessibile, più
vivibile) e con qualche verbo che evoca il cambiamento (riorganizzare,
trasformare), si condisce il tutto con una formula buona per tutti gli usi
(spazio di relazione e incontro), e il gioco è fatto. Ma se si gratta sotto la
superficie, quella frase non significa nulla.
Dietro al vuoto del discorso pubblico, però, ci sono processi rilevanti che
stanno trasformando il volto della città. Da questo punto di vista la vicenda
del giardino San Leonardo non è importante solo di per sé, per chi ne ha cura e
lo frequenta, per chi abita nei dintorni, ma è anche una spia estremamente
significativa delle tendenze in atto. Nella dimensione micro si possono leggere
con chiarezza le distorsioni in atto nella dimensione macro. I 1.500 mq del
giardino non sono diversi – per esempio – dalle decine di ettari delle grandi
caserme dismesse, né meno importanti. La logica che regola la loro
trasformazione è la stessa, e il suo nucleo è la profonda alterazione del
rapporto tra pubblico e privato. In questo passaggio d’epoca, che ha inizio
almeno trent’anni fa e che ora giunge a piena maturazione, i poteri pubblici
hanno abdicato al loro ruolo di regolazione delle trasformazioni urbane in
relazione ai bisogni della collettività. Non sanno né vogliono indirizzare gli
interessi privati verso una funzione sociale, anzi, li assecondano al punto di
modellare gli spazi pubblici sulla base delle loro esigenze. Bologna è ricca di
esempi di questa sistematica distruzione dello spazio pubblico – che assume
forme diverse a seconda dei contesti.
Il caso del giardino San Leonardo aggiunge a questo quadro un elemento
specifico. Si tratta del fatto che – nella strategia dell’amministrazione
comunale – la “rigenerazione” intesa nella sua accezione distorta deve
riguardare anche le piccole aree, le zone interstiziali. Nulla deve sfuggire a
questa ridefinizione dello spazio che è anche, necessariamente, una
ridefinizione delle relazioni. I luoghi liberi, informali, dove non succede
nulla di particolare perché vivono della ricchezza della quotidianità risultano
d’intralcio a una visione dello spazio pubblico in cui i fattori dominanti sono
il consumo, il controllo, l’organizzazione centralizzata di ciò che in quello
spazio deve accadere. Ecco perché è così importante preservare la “normalità” di
quel piccolo giardino. Se – partendo da lì – allarghiamo lo zoom, c’è la città
intera, che vive ovunque le stesse tensioni. (mauro boarelli)
(disegno di peppe cerillo)
Il 1 giugno il Giro d’Italia raggiunge la capitale: sia a Roma che a Ostia la
popolazione accoglie i ciclisti israeliani sventolando bandiere della Palestina.
Il 2 le frecce tricolori sorvolano il centro della capitale, e le parate
annunciano la nuova militarizzazione della vita pubblica, l’entrata in guerra,
l’aumento della spesa militare, la difesa di uno stato genocida. Il 5, mentre in
Senato si approva il Decreto Sicurezza (poi fortemente messo in discussione
dalla Corte di Cassazione), c’è un tentativo di sgombero nel residence per
l’emergenza abitativa di Val Cannuta: le famiglie che lo abitano occupano la
strada e affrontano la polizia. Il 7 giugno scende in piazza per Gaza
addirittura il Pd: è la più grande manifestazione dall’inizio del genocidio, ma
dal palco parla anche chi si definisce “orgogliosamente sionista”. Nel
frattempo, a Villa Pamphili viene trovato il cadavere di una bambina neonata, e
il corpo di una donna rinchiuso in un sacco nero.
Referendum dell’8 e 9, al seggio si presentano meno del venticinque per cento
dei votanti romani, anche se le periferie danno miglior prova del centro. Lunedì
9 dei picchetti fermano due sfratti a Cinecittà Don Bosco e a Casalbruciato.
Pomeriggio al Pantheon: presidio di solidarietà con la Freedom Flotilla,
bloccata da Israele in acque internazionali. Il 10 il Comune annuncia l’acquisto
futuro di ben mille e trecento case, di cui mille da Enasarco, ente
previdenziale privatizzato che ne aveva più di diciassettemila a Roma. L’11
grande manifestazione antisionista a Garbatella. Nel frattempo, la giunta
regionale approva l’ennesimo piano di sblocco della cementificazione. Sabato 14
un corteo di centinaia di migliaia di persone, forse un milione, sfila per il
Pride, da piazza della Repubblica a Terme di Caracalla, anche con tante bandiere
palestinesi: alle cinque si sospende la musica per cinque minuti, in ricordo
delle vittime del genocidio. Nel pomeriggio c’è un presidio di solidarietà di
alcune decine di persone davanti all’ambasciata iraniana a Roma, dopo i
bombardamenti israeliani sull’Iran. Circa cinquecento persone manifestano per la
Palestina anche in Tuscia, a Orvieto.
Il 17 un nubifragio si abbatte su tutta Roma. Il 19 a Ostia va a fuoco il
Village, lo stabilimento “sottratto ai clan”. Sempre a Ostia c’è un incidente
mortale tra una moto, una smart e un motorino: i familiari delle persone
coinvolte aggrediscono i medici dell’ospedale Grassi. Il 20 bruciano otto
macchine sul lungotevere in zona Marconi. Sciopero generale: proteste sotto la
sede di Leonardo sulla Tiburtina. Sabato 21 due grandi cortei contro guerra e
riarmo, uno da piazza Vittorio, l’altro da Porta San Paolo. Il 23, alla vigilia
di San Giovanni, cade una banda di trafficanti marocchini che spacciava il fumo
per le strade di San Lorenzo: la banda contava sulla complicità di ben sette
poliziotti del commissariato di zona, che da anni restituivano loro l’hashish
sequestrato, falsificavano i documenti, e naturalmente incassavano i proventi.
Due sono arrestati e gli altri cinque indagati. Il 24 il sindaco annuncia un
“rimpasto di giunta” che riequilibra le varie correnti Pd: a guidare i progetti
Pnrr per Torbellamonaca e Corviale mette una vecchia guardia del partito;
l’assessore al personale diventa vice-capo di gabinetto; una consigliera (e
presidente del Pd romano) si dimette per diventare capa della segreteria del
sindaco, in barba a chi l’aveva votata per esercitare un altro ruolo. La notte
un ragazzo di trentacinque anni in scooter viene travolto e ucciso da un’auto
rubata, su viale Kant.
Il 25 notte una bomba carta devasta una palestra di boxe a Ostia, forse una
ritorsione dopo la sentenza del processo dell’ultrà Diabolik. Il 26 inizia il
caldo estremo, e con il caldo gli incendi: brucia il pratone di Torrespaccata,
una grossa area verde della periferia est, su cui ci sono forti mire
speculative. Due incidenti durante la notte: muoiono un cinquantenne sullo
scooter a Torvaianica e un motociclista di quarant’anni sulla Lauentina:
diciassette morti sulle strade dall’inizio di giugno. Il 27 il Comune annuncia
l’installazione di una ruota panoramica sul lungomare di Ostia. La Regione
intanto approva una variazione del bilancio di oltre dodici milioni di euro, che
però andranno solo all’efficientamento energetico delle proprietà Ater (non si
sa se le case popolari, o solo gli uffici), per il trasporto disabili su gomma,
e per la partecipazione all’iniziativa “Vie e cammini di San Francesco”. Il 28
pomeriggio un ragazzo del Bangladesh di ventisette anni viene accoltellato e
ucciso durante un picnic, forse da un ladro, al parco della Montagnola.
In tutto ciò, in Vaticano si continua a giubilare: tra il 23 e il 28 si
celebrano il giubileo dei seminaristi, dei vescovi, dei presbiteri e delle
Chiese Orientali. (stefano portelli)
(disegno di martina di gennaro)
(segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo
nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il
suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da
piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le
arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma
le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di
essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti
anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche
di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a
quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e
tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere,
Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è
bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io
a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che
faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un
regalo di ceramica».
Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di
Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della
madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche
il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e
l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in
casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo
quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il
lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che
il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un
quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue
attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo
in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare
da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi
nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde
pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La
Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino
delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro
area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche
del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle
che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice
del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a
Scampia.
A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti.
Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme
a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna.
Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori,
figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto
ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono
allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto
numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di
parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le
donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche
il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua
figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello
stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul
lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una
sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile
somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle
foto dal telefono.
Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita
di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita
dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese
di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva
di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a
causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a
stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più
di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a
Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio
in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la
testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla
testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito
alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di
ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto
bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco:
mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu
culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco
strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è
dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta
di Rosa è riuscita molto bene.
O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO?
Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli,
aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei
manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che
associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione
psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato
unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la
cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta
dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì
all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di
trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della
riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova
considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto
sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò
al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale
psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò
i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di
riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –,
niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e
dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia:
perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti
palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro».
Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che
Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi
rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un
centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente
[…]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona».
Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio
del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di
Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona,
perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si
fa ogni giorno sui territori».
Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i
gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e
sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a
farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu
entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che
facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo
proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche
Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di
avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e
conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li
separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare
inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”,
dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i
pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le
innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni,
come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di
Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria,
l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e
soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del
Gattablu.
Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una
contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato
un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte
collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura:
il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio
non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del
quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del
Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione,
scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per
rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la
quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il
principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere.
Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e
da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare
pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la
zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di
“rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi
sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono
invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi.
La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo
slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio
clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un
concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure
professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle
degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non
fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e
centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di
licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto
di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima
del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri
operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute
mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco
avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal
prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per
non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori
artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel
tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega
Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che
sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo
andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il
momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del
battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate
a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le
scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare
un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà
quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh…
combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte
andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’
‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che
aiutiamo il quartiere…».
Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra
ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la
mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro,
un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il
Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le
fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in
diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata.
Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è
“itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico
a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui
Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e
mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in
cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno.
Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele
stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno.
Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi
decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e
Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né
aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla
cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di
decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a
lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie
palestinesi. (maria reitano)
In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le
interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio
2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23
aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e
11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista
del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal
Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella
ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione
Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La
Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta
pubblicamente il 27 settembre 2024.