(disegno di india santella)
Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini.
La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di
un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio
il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui
nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu
salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio,
raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile
associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco
Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la
battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi
respinti dalla popolazione della vicina Massafra.
A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante
le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del
Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché
le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare
che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici.
Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante
contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte
integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale
costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone
fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua
dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche
la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume
rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente
caratterizzata dalle attività antropiche.
Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano
essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma
negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato
da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società
partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le
dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia,
quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e
Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026.
Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di
euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione
temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International,
Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa,
società molto attiva nel settore dei rifiuti.
Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il
via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la
modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri.
Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità,
salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi
“no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa
Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la
maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione
d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che
consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul
peso della componente politica rispetto a quella tecnica.
Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma
la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe
realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e
che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche
Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza
naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del
fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia. Arpa fa
notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento
ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento
alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto
Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove,
e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove
aree ed eventualmente ad avere frutti.
Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo
delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel
fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata
media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti
negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A
oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese
pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di
Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il
progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei
prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico
(quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso.
Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non
si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se
strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante
la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti
gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate.
In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di
associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche
tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e
impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha
prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È
prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri,
condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici
chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in
prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La
somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi
all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da
calcio.
Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la
comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno
di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in
corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici
chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si
dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti
e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta
cittadini.
Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per
desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto,
costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente
sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per
produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più
salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero
in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti
a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat
marino.
Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di
dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno
dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo
rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato
che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo
aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei
documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione
pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre
parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento
strutturale del piano iniziale.
Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il
quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico,
mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità
che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero
rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da
porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante
soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda.
Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la
costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione
ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la
Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è
giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte
della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso
problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso
di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo
territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini
continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica
pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il
caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi?
(domenico colucci)
Tag - città
(disegno di chiara tirro)
SELEZIONARE I “BUONI”
A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi
pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto
patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci
alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si
tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della
Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che
ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va
posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta
solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale
nell’amministrazione pubblica.
Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto
che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una
predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel
luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio
verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei
consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il
quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i
candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna
delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di
valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al
progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o
attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale
o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali,
educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.
Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che
ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie
sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare
“predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si
esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere
ugualmente tale “predisposizione”?
E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base
a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più
elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in
contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?
Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare
anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario
compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a
rispondere:
Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il
Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti
che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte
del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua
situazione attuale?
In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è
dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe
impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta
bianca.
Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del
bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo
centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione:
dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età,
composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione,
etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero
oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico
che legittima questa inquietante innovazione.
Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto
decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che
hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di
valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i
pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione
comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino
virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva
introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti
degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare
comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità
politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio
un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra,
bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.
D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non
sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016
per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa
amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa
un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è
un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in
circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più
insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati
criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi
legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima
vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta.
CHI INSEGNA A CHI?
Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata
sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai
esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la
procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del
cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i
cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing
presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita,
disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un
gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi
in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve
essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve
soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla
solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per
misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere
una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un
ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e
partecipate”.
Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che
qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato
per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle
partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”.
In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in
mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane
e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella
storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo.
Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di
partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al
governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente
centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove
come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per
il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da
professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di
“facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi
partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia
mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei
cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di
marketing.
C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua
contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti
che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi
attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli
alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari
rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo
finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di
concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per
discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per
prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi
rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che
pervade il bando.
Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità
di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il
bando prevede due passaggi. Il primo si chiama “autoselezione”: “Dopo i primi
otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà
basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se
Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”.
Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché
scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono
informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per
almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia
addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono
sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo
strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di
dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile,
nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti
disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale,
vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in
parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella
logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono
meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non
ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.
LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI
Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale
autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un
massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di
ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna.
XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato
ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente
necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come
oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio
l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei
carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di
“normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati
molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti.
Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava
il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento
abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni
a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per
ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il
Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.
Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel
momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di
governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva
scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva
in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e
socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del
deserto urbanistico creato in quell’area […]”.
Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo
confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura
strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)
(disegno di martina di gennaro)
A un anno dall’inizio del presidio in difesa del parco, e sei mesi dopo il
“passo di lato” con cui il sindaco Lepore ha deciso di rinunciare al progetto
delle “nuove Besta”, sono ancora giornate piuttosto vive per le creature che si
sono mobilitate per impedire la cementificazione di quel fazzoletto di terra
proprio sotto i palazzi della Regione, quartiere SanDonato(Bologna), pianeta
Terra.
A tenerci sveglie e unite in questi strani, caldi giorni della merla non sono
più il timore dello sgombero o le chiacchiere sui sogni condivise fino a tardi
sotto al telone blu del presidio, ma l’ombra molto tangibile di un brutto mostro
che generalmente chiamiamo “Repressione” o “Sbatti Legali”.
Chi è SbattiLegali? E in che forma si sta materializzando tra di noi,
costringendoci ad adoperarci per cercare di capirlo ed essere in grado di fargli
fronte? Dopo mesi passati a confrontarci, cercando di non lasciare indietro
nessuna di noi, abbiamo deciso di fare il punto della situazione e provare a
dare, per tutti, dei tratti un po’ più definiti a questo signorSbatti.
Ecco dunque i risvolti giudiziari con cui abbiamo dovuto e stiamo tutt’ora
dovendo fare i conti, comodamente elencati in ordine cronologico a partire dal
momento in cui abbiamo avuto notizia della loro esistenza. Saremo un po’ meno
simpatiche che in queste prime righe.
La prima creatura a essere stata puntata da SbattiLegali è stata quella placcata
all’ingresso del Don Bosco da due agenti della polizia municipale il 29 gennaio
2024, giorno in cui un’imprevista folata di vento ha fatto sbocciare nel parco,
invece che un cantiere, il noto presidio. Denunciata per resistenza e
aggressione a pubblico ufficiale, la creatura non è nemmeno andata a processo,
ma ha direttamente ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi di
reclusione con pena sospesa, convertibile in pena pecuniaria o lavori
socialmente utili, da parte del giudice. Ma siamo solo all’inizio, SbattiLegali
stava solo prendendo le misure.
La successiva creatura su cui Sbatti ha messo le mani – non solo in senso
figurato – è stata Gio, che alle primissime ore del 5 aprile 2024, da solo e
inseguito, è stato a sua volta atterrato sul suolo del parco da un nutrito
gruppo di carabinieri. Su di lui sono stati usati più volte il taser e lo spray
al peperoncino, al punto da dover essere portato via in ambulanza. La mattina
stessa Gio è finito davanti al giudice per l’inizio di un processo svoltosi con
rito abbreviato e arrivato a conclusione nel corso di tre udienze. L’esito: una
condanna a dieci mesi di reclusione con pena sospesa per i reati di resistenza e
lesioni a pubblico ufficiale, oltre che tentato furto plurimo aggravato. La
violenza fisica esercitata su di lui quella notte, non meno di quella
giudiziaria perpetrata nei mesi seguenti, non smette di apparirci indegna e
rivoltante.
Arriviamo così al 20 giugno 2024, giorno in cui, nel contesto di un’intensa
mattinata di scontri per cui il Comitato Besta lamenterà, da parte della
polizia, “modalità da G8 di Genova”, quattro creature vengono poste in stato di
fermo e tradotte in questura. Ne usciranno dopo parecchie ore con quattro
notifiche di apertura indagini (per resistenza aggravata, oltraggio, rifiuto di
fornire le generalità a pubblico ufficiale e tentata rapina – per aver afferrato
un manganello) e due fogli di via dal comune di Bologna della durata di due e
tre anni. Il ricorso per la sospensiva dei fogli di via intentato nei mesi
successivi, nonostante l’estrema debolezza e vacuità delle ragioni su cui si
basano i due provvedimenti, non ha avuto successo.
Questo quanto emerso e subìto nel corso dell’esistenza del presidio. Sarebbe
stato bello – e lo diciamo con tutta l’ingenuità del caso – se, terminato
“favorevolmente” lo scontro “politico” in difesa del parco, anche sul versante
giudiziario si fosse potuto assistere a una sospensione delle ostilità da parte
di polizia e procura (nonché, magari, a una presa di posizione da parte del
Comune). Così purtroppo non è stato.
Verso la fine dell’agosto 2024 vengono notificati a quattordici creature gli
avvisi di apertura indagini per una lunga serie di reati riferiti alla giornata
del 3 aprile. Quel giorno, con un sollevamento agile, corale e determinato,
sciami di creature si sono opposti all’attacco portato sul Don Bosco da decine e
decine di poliziotti e dalla ditta in appalto, riuscendo a respingerlo e
disinnescando quindi il potenziale sgombero del presidio e la conseguente
distruzione del parco. I reati contestati ad alcune delle creature che quel
giorno erano tra le linee, riferiti con alcune eccezioni quasi a tutte allo
stesso modo, sono i seguenti: 1) omesso preavviso di pubblica manifestazione; 2)
resistenza aggravata a pubblico ufficiale in concorso; 3) interruzione di
pubblico servizio durante pubblica manifestazione in luogo aperto al pubblico in
concorso; 4) lesioni aggravate a pubblico ufficiale in concorso; 5) travisamento
durante una pubblica manifestazione; 6) lancio di oggetti durante una pubblica
manifestazione; 7) danneggiamento aggravato; 8) violenza privata. SbattiLegali
si accanisce con tutta la sua forza, attingendo a tutti gli stratagemmi della
sua arte. Il 17 gennaio 2025 vengono quindi ricevuti i primi avvisi di chiusura
indagini, che confermano i reati di cui sopra, e rispetto ai quali attendiamo
ora che a esprimersi sia, nei prossimi mesi, il giudice per l’udienza
preliminare.
Non c’è stata necessità di attendere, invece, per l’emissione di un’altra
pesante e insensata misura di polizia preventiva: tre Daspo da stadio ad
altrettante creature, appioppati sempre in relazione alle vicende del 3 aprile.
La misura è già di per sé nuova e sorprendente perché assegnata “fuori
contesto”, ovvero a partire da eventi che nulla hanno a che fare con dinamiche
legate al tifo sportivo. Al divieto di andare allo stadio si somma inoltre
l’obbligo di firma in questura in concomitanza con le partite – in casa e in
trasferta, amichevoli e non – del Bologna, e questo per due volte a partita.
Tradotto nel vocabolario di Sbatti: una media di quattro firme in questura a
settimana per essersi opposti a un progetto di cementificazione di un’area verde
sotto casa, senza nemmeno ancora essere andati a processo.
Tutto qui? Quasi! Non poteva mancare infatti un’ulteriore stoccata rispetto ai
fatti del 20 giugno, per i quali nelle ultime settimane il signor Sbatti ha
sfoderato una nuova serie di notifiche di apertura indagini a un numero di
creature ancora da precisare. Anche a loro, comunque, si contesta più o meno la
solita sequela di reati, e in particolare i primi tra quelli riportati sopra.
Non ci facciamo illusioni: se fino a ora il trattamento che ci hanno riservato è
stato questo non ci aspettiamo sconti.
Nelle conseguenze legali che iniziano a prefigurarsi e materializzarsi per
alcune delle creature che in tutte queste occasioni si sono fatte trovare, per
fortuna e per convinzione, dove il signorSbatti non avrebbe voluto che fossero,
emerge forte uno degli aspetti più subdoli e contradditori di Repressione:
riuscire a impedire la chiusura di un parco, mantenerlo vivo con la propria
presenza, battersi per lunghe ore contro decine e decine di poliziotti armati e
ipereccitati, mobilitarsi insieme per un obiettivo comune che finisce per avere
la meglio sulle mire devastatrici della giunta… ecco, tutto questo ha un costo.
Non solo il costo immediato, fisico e psicologico del confronto sul campo, ma
anche quello dilatato, economico, nervoso e sociale di doversi vedere indagate,
imputate e processate proprio per quelle azioni che hanno portato
all’ottenimento del risultato sperato, e messo in scacco la brama ecocida
dell’amministrazione.
Lo diciamo chiaramente: quello che oggi ci viene contestato è quello che ieri ha
fatto sì che il Don Bosco potesse rimanere aperto, vivo e libero. Quello che ha
fatto sì che ditta e polizia dovessero desistere dai loro intenti, riporre
motoseghe e manganelli, ritirarsi indispettiti al cospetto di una resistenza che
non erano stati in grado né di prevedere né tantomeno di fronteggiare
adeguatamente. Così, Sbatti vorrebbe dirci che la lotta costa: costa i bolli
allo Stato e le parcelle degli avvocati, l’allontanamento da Bologna, gli
obblighi di firma in questura e il rischio di mesi o anni di condanne. Noi
diciamo invece che la lotta paga: paga la permanenza di un polmone verde in una
città sempre più grigia e inquinata, e vogliamo che paghi anche la libertà per
tutte le persone colpite dalla repressione.
A partire da settembre 2024, il gruppo di creature che ha portato avanti la
resistenza ha continuato il suo impegno incontrandosi regolarmente, mettendo in
piedi un’assemblea antirepressione che potesse occuparsi, attraverso le stesse
pratiche messe in atto al parco, di tutti gli accolli legati a SbattiLegali:
dalla necessità di comprendere i fogliacci del potere giudiziario a quella di
organizzare la raccolta fondi necessaria a – detta come tristemente è – “pagare
la lotta”. Sono così state necessarie, oltre alle assemblee, il lancio di una
raccolta fondi online che oggi giunge al termine, numerosi banchetti in diversi
contesti cittadini e una nutrita serie di eventi in giro per la penisola, in
solidarietà con le nostre vicende e con la necessità di far fronte a spese
legali che stimiamo di decine di migliaia di euro.
Sul peso e le responsabilità politiche di tutto ciò qui non ci soffermeremo –
d’altra parte, questo voleva essere solo un bollettino relativo a una serie di
vicissitudini giudiziarie che ci riguardano. Teniamo invece a chiudere questo
testo ringraziando tutte le persone, i gruppi, i collettivi e le realtà che in
questi mesi ci hanno mostrato vicinanza, affetto e sostegno. Sono le oltre
duecento persone che hanno donato online, ma sono anche quelle centinaia e
migliaia che, a partire dall’inizio del presidio ma non solo, hanno continuato a
nutrire quella comunità vasta, diffusa e resistente che crede in un mondo
profondamente diverso. Profondo quanto le radici degli alberi del parco, diverso
quanto un parco da un palazzo del potere. (le creature del don bosco)
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
È uscito la settimana scorsa nelle librerie, per le edizioni Carocci, il volume
di Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. Dalla
quarta di copertina: “L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha
prodotto cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il
paesaggio del centro storico e la stessa struttura socio-economica della città.
In questo contesto si muovono i soggetti al centro di questa ricerca : i grandi
enti del Terzo settore attivi in tre quartieri del centro – Sanità, Quartieri
spagnoli e Forcella – che oggi forniscono un ventaglio di servizi che va ben
oltre il classico intervento socio-assistenziale, operando sul crinale tra sfera
pubblica e mercato. Questi enti esercitano un’influenza crescente sulle scelte
dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni
egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città.
La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla
convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro
priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza
ostacoli le proprie attività. Queste dinamiche, sullo sfondo della “città del
turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi
enti nelle loro dichiarazioni programmatiche: non la vivibilità dei quartieri,
la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa,
lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili”.
Ne pubblichiamo a seguire due brevi estratti.
* * *
Gli enti di maggiori dimensioni presenti nelle tre aree che abbiamo esaminato
sono: la Fondazione di comunità San Gennaro nel rione Sanità, la Fondazione
Foqus nei Quartieri spagnoli e l’associazione L’Altra Napoli, operante sia a
Forcella che alla Sanità. Le caratteristiche principali di questi enti, che li
rendono un unicum rispetto al contesto socio-economico in cui operano, sono
sostanzialmente tre: la quantità di risorse di cui dispongono, fuori scala
rispetto agli altri attori associativi e più in generale rispetto a tutti gli
attori economici del territorio; le relazioni ad alto livello istituzionale e
imprenditoriale che sono in grado di attivare e rendere operative; la costante
(e benevola) attenzione mediatica che le loro iniziative riescono a sollecitare.
Sono i tre fattori decisivi, quelli che determinano un impatto sui territori di
riferimento, sul dibattito pubblico e sulle stesse politiche urbane che va ben
oltre le singole iniziative messe in campo e che gli altri enti (quelli
intermedi e quelli informali) non sono in grado di eguagliare se non
agganciandosi alla locomotiva rappresentata da questi enti maggiori, che
definiamo “ultracorpi”. Tali fattori sono poi al servizio di un’ideologia che,
seppur con differenze pratiche tra un’esperienza e l’altra, appare fondata su
principi e rappresentazioni comuni, che da un lato informano l’azione locale
degli ultracorpi, dall’altro ambiscono ad affermarsi in un campo più vasto, che
concerne le politiche di governo e la forma futura della città.
Gli obiettivi e gli strumenti che i dirigenti degli ultracorpi hanno messo a
punto nel corso del tempo, di pari passo con la crescita delle loro “creature”,
possono essere ricostruiti e analizzati attraverso i numerosi interventi in
pubblico, la pubblicazione di articoli e libri, le interviste rilasciate ai
giornali e ad altri media. Uno dei cardini della loro ideologia è l’insofferenza
per tutto ciò che riguarda l’azione pubblica. Nelle parole dei dirigenti degli
ultracorpi la parola stessa, “pubblico”, fa rima con burocrazia, invadenza,
lentezza, inconcludenza, e più in generale costituisce il termine di paragone in
opposizione al quale si autodefinisce con orgoglio la propria identità.
Scrive per esempio Rachele Furfaro, fondatrice di Foqus: “Le scuole Dalla Parte
dei Bambini hanno deciso nel 2012 di trasferire le proprie metodologie ed
esperienze all’interno di un quartiere povero e critico di Napoli, i Quartieri
spagnoli, […] hanno avviato il progetto, per poi costituire una fondazione a cui
ne è stata affidata la gestione e lo sviluppo. Il progetto di rigenerazione
urbana a base educativa gestito dalla Fondazione Quartieri spagnoli non nasce
quindi da una strategia di sviluppo pubblica, dal premio di qualche bando
europeo, né dall’iniziativa di qualche assessorato. Trova spinta ideativa (e
investimento iniziale) da una scuola”¹.
Padre Antonio Loffredo, ispiratore della Fondazione San Gennaro del rione
Sanità, sostiene: “Il potere pubblico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi,
codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune
non sa come gestirlo; ma dallo al quartiere, dico io. Facciamo come con le
catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono
essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di
comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze.
Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la
faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi
dovrò lasciare”².
Ancora più esplicito il manager Ernesto Albanese, fondatore dell’associazione
L’Altra Napoli, che finanzia progetti sociali e culturali tra il rione Sanità e
Forcella. Nel 2021, alla domanda di una giornalista sui conti in rosso e le
disfunzioni dell’ente municipale, risponde così: “[Si dovrebbe] iniziare a
trattare il comune di Napoli come un’azienda privata di servizi. L’azienda
privata ha una caratteristica importante: sceglie gli uomini e se non vanno bene
li cambia. Meccanismo che nella pubblica amministrazione spesso non può
avvenire, perché la politica per sua natura è compromesso e quindi
inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà politica e non con quella
economica”³.
[…] All’origine dei grandi enti che stiamo considerando, abbiamo tre soggetti
forti: la Chiesa cattolica, in una delle sue incarnazioni locali più dinamiche
(imprenditoriale e antistatalista); la scuola, nella sua declinazione privata,
sperimentale e progressista, fortemente imperniata sul concetto di impresa;
infine, la borghesia delle professioni dirigenziali, che in buona parte vive e
lavora fuori Napoli ma considera un punto d’onore la possibilità di contribuire
attivamente al “riscatto” della propria città. In tutti i casi, come abbiamo
visto, l’enfasi è posta con insistenza sulla soluzione imprenditoriale,
considerata sia per il suo versante decisionista, che consente di operare senza
troppi vincoli per “valorizzare” adeguatamente beni e servizi, ma anche per le
sue virtù emancipatorie, come stimolo ad assumersi delle responsabilità e di
conseguenza come occasione di crescita personale. Ogni azione intrapresa sarà
quindi immancabilmente indirizzata verso il “bene comune”, ma dovrà essere anche
conveniente, redditizia, remunerativa. Potremmo quasi evincerne che dove non ci
sia un utile economico allora mancherà la possibilità stessa di fare del bene.
* * *
In questa fase di pieno dispiegamento dell’industria turistica, superato anche
l’ostacolo alla mobilità globale rappresentato dalla pandemia, il discorso
pionieristico dei grandi enti del Terzo settore, ormai fatto proprio dalle
maggiori istituzioni cittadine, sembra arrivato al culmine della sua parabola:
come una trama di fondo solida e affidabile, esso incrocia e sorregge le
politiche pubbliche, incoraggiandole a proseguire nella direzione intrapresa,
quella della privatizzazione, della deregolamentazione, della crescita
illimitata. È il film che si proietta in ogni convegno, dibattito, inaugurazione
in cui i partner istituzionali si danno appuntamento – il sindaco, il vescovo,
il rettore, la giornalista, il manager del Terzo settore, l’assessora, il
sociologo, l’architetto, il prete imprenditore – per condividere in pubblico le
loro convergenti testimonianze. Ma se solo si cominciano ad analizzare i
fenomeni, ad ascoltare le persone, a connettere i rari studi a disposizione, lo
stesso film ci appare da una prospettiva diversa, con tutti i suoi elementi al
rovescio, come se lo guardassimo dall’altro lato dello schermo.
L’azione degli enti del Terzo settore, anche di quelli che dispongono di
maggiori risorse, nonostante una progressiva espansione, resta per il momento
subordinata alle scelte dei poteri pubblici, i quali, orientando in un senso o
nell’altro le risorse comuni – umane e finanziarie –, hanno ancora la
possibilità di incidere in modo determinante sugli assetti economici e sociali
delle comunità. I grandi enti possono fornire modelli e stimoli, influenzando
anche profondamente i rappresentanti politici, ma il grosso delle risorse e la
titolarità delle decisioni restano in capo a chi amministra la cosa pubblica. Di
questo, i maggiori dirigenti del Terzo settore hanno una chiara consapevolezza:
“Il Fondo [per il contrasto della povertà educativa minorile] – ha scritto Marco
Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i bambini – è una grandissima
opportunità […], ma nonostante i complessivi oltre 600.000.000 di euro messi a
disposizione è necessario che tali pratiche diventino politica pubblica; con ben
altre risorse, partendo dalla messa a sistema di quelle ordinarie, con una
visione temporale più lunga e articolata e ascoltando i bambini/e, i ragazzi/e,
il territorio”⁴. E così padre Antonio Loffredo: “Con il Terzo settore non
possiamo risolvere le cose. Possiamo dare dei segni di speranza, fare dei
piccoli laboratori per far capire che è possibile. Non dobbiamo mai stancarci di
farlo, ma chiaramente è lo Stato che ha le chiavi del cambiamento strutturale”⁵.
È innanzitutto per questo, come abbiamo visto, che i grandi enti indirizzano gli
sforzi del loro “fare politica” verso il campo dei decisori pubblici con
l’obiettivo di influenzarne le scelte secondo i propri interessi e valori. In
ogni città, nei singoli quartieri, l’insieme dell’azione associativa costituisce
un potenziale fattore di vitalità, uno stimolo alla mobilità sociale e alla
partecipazione civica; nella realtà, però, questa azione si spinge raramente
oltre un orizzonte paternalista, garantito dall’alto, in cui le priorità sono
stabilite da chi detiene il denaro e il potere. Le pratiche informali, che pure
mostrano come sia possibile la solidarietà tra pari, la partecipazione diretta,
la messa in discussione degli assetti dati, restano ancora troppo episodiche e
isolate per fornire una base su cui provare a costruire delle alternative. Nel
suo complesso, l’azione associativa non è stata in grado in questi anni di
incidere sulle condizioni di vita, sulle diseguaglianze strutturali, sulla
subalternità culturale degli strati marginali della popolazione; questo perché
non ha voluto (Terzo settore) o non è stata capace (gruppi informali) di
produrre trasformazioni politiche di più ampio respiro.
Nel frattempo, la conformazione spiccatamente imprenditoriale che hanno assunto
i maggiori enti del Terzo settore, e molti di quelli intermedi, ha trasferito
sul piano della convenienza economica, della competitività, della reputazione
mediatica, ogni aspetto dell’azione associativa che li riguarda. Nei grandi
enti, questo tipo di azione si è sempre più differenziata, affiancando
all’abituale sfera socio-assistenziale l’intervento in nuovi settori di mercato;
questo senza rinunciare alla consolidata rete filantropica che continua a
fruttare loro donazioni, finanziamenti diretti e in generale un’abbondanza di
risorse che, tra le altre cose, li colloca in una posizione di vantaggio
rispetto agli operatori con cui sono direttamente in competizione. A Napoli
queste prassi hanno trovato un terreno fertile nel contesto economico, culturale
e politico generato dall’impatto del turismo di massa sul centro storico della
città.
La dimensione imprenditoriale assunta da questi enti ha però bisogno di essere
continuamente alimentata e per farlo è necessario che il contesto in cui essa
fiorisce si espanda, allargando indefinitamente i propri confini. A Napoli
questo significa che i grandi enti del Terzo settore, che abbiamo definito
ultracorpi, sono stati e sono tuttora tra i più attivi e convinti sostenitori
della diffusione dei flussi turistici in ogni interstizio della città. La
responsabilità di questa espansione incontrollata, come abbiamo visto, ricade in
gran parte sulle istituzioni pubbliche, mentre i costi, le “esternalità
negative”, gravano sulle spalle di chi presta lavoro nei gradini più bassi della
fabbrica del turismo; e poi su quei nuclei familiari esposti senza tutele alla
riconversione turistica dell’abitare e all’impennata dei valori immobiliari;
ricadono inoltre sulla generalità dei residenti, che si trovano a dover dividere
risorse e servizi, già cronicamente scarsi, con un gran numero di visitatori
temporanei divenuti nel giro di poco tempo l’oggetto d’attenzione privilegiato
dei loro governanti.
I grandi enti, che pure avrebbero relazioni influenti e uditori qualificati per
farsi ascoltare, di questi “effetti collaterali” non parlano. Il loro discorso
non contempla lati oscuri, contraddizioni, problemi non risolti. È liscio,
levigato, percorso da una sottile euforia: come una lieve scossa elettrica, che
riattiva il corpo ma non fa danno. L’emancipazione, nella loro visione, si
conquista innanzitutto nel cimento imprenditoriale. La mobilità sociale si
realizza attraverso un processo di selezione naturale. Il loro modo di “fare
politica” è quindi rivolto verso un obiettivo ben preciso: la preparazione del
terreno più propizio allo sviluppo delle imprese; innanzitutto le loro, ma
inevitabilmente anche quelle degli altri.
Molti enti del Terzo settore sono infatti imprese a tutti gli effetti (o
consorzi di imprese, o incubatori di imprese) e, come tali, perseguono
innanzitutto i propri interessi. Le maggiori, come abbiamo visto, tendono ad
allargare i propri confini sommando, all’attività educativa e assistenziale,
altri campi d’azione e settori di mercato. Per farlo si dotano di apparati
sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, che lentamente fanno
sparire, sotto un’accattivante cortina di fumo, i dati concreti, gli obiettivi
reali, i referenti ultimi del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici,
lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non
fa eccezione. Nella città in preda a repentini cambiamenti, queste imprese si
battono per conquistarsi un posto al sole; la loro attività è votata al servizio
dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita e
dei valori immobiliari, la precarietà lavorativa, l’espulsione degli abitanti
dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la
cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte
ai danni strutturali arrecati da questo processo a una platea molto più vasta di
quella dei loro “beneficiari”.
Inoltre, questi ultracorpi non si limitano a fare impresa, ma con sempre
maggiore convinzione ambiscono a “fare politica”, ovvero a estendere i propri
metodi e valori in ambiti ancora più vasti. Essi dichiarano di lavorare per il
bene comune, ma gli interessi che descrivono come generali, se si getta lo
sguardo appena fuori dal loro giardino, si sovrappongono in molti casi a quelli
perseguiti da un manipolo di imprenditori che, nel contesto della “città del
turismo”, stanno accumulando influenza e profitti attraverso l’allargamento
dell’area del lavoro irregolare e della precarietà abitativa.
I grandi enti pensano di poter rimediare all’illegalità, alla speculazione, allo
sfruttamento diffusi nell’industria del turismo semplicemente attraverso il buon
esempio. Ma l’affermata virtuosità di questi enti, per esempio sul piano della
regolarità dei rapporti di lavoro, non si trasmette per contagio – come essi
invece lasciano intendere – ad altri enti o imprese attive negli stessi ambiti o
territori. Come l’azienda di moda dell’imprenditore napoletano Mario Valentino,
che negli anni Settanta esportava i suoi prodotti nei lussuosi atelier di Parigi
e New York, vantando l’impiego di trecento dipendenti con regolare contratto nel
moderno stabilimento delle Fontanelle alla Sanità, così oggi questi grandi enti
incassano le lodi e i riconoscimenti internazionali portando in alto il nome
proprio e quello dei loro quartieri; ma come la fabbrica delle Fontanelle era
attorniata da decine di bassi e sottoscala dove uomini e donne della Sanità
fabbricavano scarpe e borse in nero, inalavano collanti e si buscavano la
polinevrite, così i grandi enti fingono di ignorare che la “rinascita” dei loro
quartieri si sta realizzando sulla pelle della manodopera sfruttata
nell’industria del turismo e su quella di anziani e famiglie senza risorse, che
spesso vi abitano da generazioni e si vedono costretti a lasciare i propri
appartamenti per fare posto ai turisti.
_________________________
¹R. Furfaro, La buona scuola. Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza,
Feltrinelli, Milano 2022, p. 229.
²A. Polito, Paranza & C. I nuovi santi della Sanità, in inserto “Buone notizie”
del “Corriere della Sera”, 18 giugno 2019, p. 6.
³F. Sabella, Intervista a Ernesto Albanese: «Iniziamo a gestire il Comune come
un’azienda di servizi», in “il Riformista”, 16 novembre 2021.
⁴M. Rossi-Doria, Una comunità che apprende, in R. Quaglia, Quartiere educante.
L’esperienza della Scuola diffusa nei Quartieri spagnoli di Napoli, Zeroseiup,
Bergamo 2022, p. 10.
⁵G. Renzi, Dal rione Sanità un modello di sviluppo, in “L’Osservatore Romano”,
11 settembre 2023.
(disegno di julien gosse)
Per capire dove sta andando Bologna bisogna guardare al Tecnopolo, quella
gigantesca area che sta sorgendo nell’ex Manifattura Tabacchi di via Stalingrado
e che vede nel Supercomputer Leonardo il suo fiore all’occhiello. Lì hanno sede
anche l’ECMWF, il Centro meteo europeo e si aggiungeranno l’INFN, il Cineca,
l’ENEA, lo IOR, il Centro nazionale di Ricerca in HPC, Big Data e Quantum
Computing, l’Università delle Nazioni Unite dedicata a big data e intelligenza
artificiale per la gestione del cambiamento dell’habitat umano e le Officine
della Conoscenza, il nuovo ufficio di citizen science realizzato dal comune di
Bologna con fondi Pon Metro; e sempre in quella zona sono presenti alcuni dei
principali operatori economici e finanziari della città (Hera, Unipol Bologna,
Fiere, Legacoop, Confcooperative, Unioncamere e altri). Ma soprattutto lì si
concentreranno moltissimi degli investimenti pubblici e privati – miliardi di
euro – che arriveranno in città.
Nell’idea della politica locale e regionale, il Tecnopolo segnerà il passaggio
dalla City of Food – senza rinunciare al food – alla City of Data, aprendo le
porte a nuove fonti di reddito rappresentate dai capitali delle aziende
tecnologiche e dai professionisti altamente qualificati che ci lavoreranno,
molti dei quali troveranno casa nel nuovo quartiere che lo ospiterà: il TEK,
acronimo che sta per Tecnologia, Entertainment, Knowledge. Il modello
esplicitato è quello della Silicon Valley e si porta dietro anche tutti i rischi
annessi: gentrificazione, aumento esponenziale dei valori immobiliari e
concentrazione della ricchezza.
L’obiettivo primario è, ovviamente, l’attrattività. Qualche giorno fa, il
vicepresidente della regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, ha parlato delle
trattative in corso con i grandi nomi della tecnologia, tra cui Cisco e,
soprattutto, Nvidia, gigante dell’AI e nuova star delle Borse. “Nvidia – ha
affermato sorridendo Colla – fa tremila miliardi con ventimila persone, noi non
li facciamo di Pil con ventitré milioni di occupati. Queste sono le bestie con
cui abbiamo a che fare. Sarebbero capaci di comprarsi tutta l’Emilia-Romagna,
non solo una palazzina qui dentro”.
Se Colla sorride, c’è poco da stare sereni. La sua battuta rivela una verità
inquietante: l’economia digitale genera enormi profitti, ma pochissimo lavoro, e
quei profitti finiscono spesso nelle mani di pochi soggetti che – lo sappiamo –
pagano pochissime tasse.
Nel progetto del Tecnopolo, colossi come Nvidia e Cisco dovrebbero insediarsi in
una torre da ottanta milioni di euro, una cifra che al momento la Regione non
ha. È uno dei motivi per cui lo stesso Colla e il sindaco di Bologna, Matteo
Lepore, a marzo scorso sono volati al MIPIM (Marché International des
Professionnels de l’Immobilier) di Cannes, considerata da molti una fiera della
speculazione edilizia, per cercare finanziatori tra fondi immobiliari e grandi
gruppi d’investimento.
Allo stesso tempo, Bologna si confronta con un problema abitativo sempre più
grave. La risposta istituzionale più recente è la Fondazione per l’Abitare, che
sostituirà l’Agenzia Metropolitana per l’Affitto (AMA), ritenuta inefficace. La
Fondazione avrà due obiettivi principali: 1) incentivare i proprietari di case
sfitte (circa quindicimila) ad affittarle a canone concordato, attraverso
agevolazioni e garanzie; 2) aiutare la cosiddetta fascia “grigia” della
popolazione, ovvero chi ha redditi troppo alti per l’edilizia pubblica
tradizionale, ma troppo bassi per sostenere un affitto, presentandosi sul
mercato come un soggetto che prova a scalfire il monopolio privato delle
locazioni, grazie anche a uno stock di abitazioni pubbliche di quattrocento
unità iniziali, costituito in gran parte dai co-housing comunali di nuova
costruzione.
Anche prendendo per buone le intenzioni alla base della creazione della
Fondazione – nonché quelle dei sindacati, associazioni ed enti del terzo settore
che la sostengono –, sorgono molte perplessità. Innanzitutto, la scelta della
forma giuridica privata: sebbene questa permetta una maggiore flessibilità nella
gestione, comporta anche il rischio di un controllo meno trasparente e più
suscettibile agli interessi dei futuri e possibili soci privati, soprattutto
qualora dovessero cambiare gli equilibri politici con le destre pronte a
sfondare tutte le porte già aperte. Chi ci assicura, quindi, che nelle mani
sbagliate uno strumento del genere non possa trasformarsi in un rischio per lo
stesso patrimonio pubblico di cui oggi lo si dota? Inoltre, il fallimento
dell’Agenzia Metropolitana per l’Affitto, che in passato aveva cercato allo
stesso modo di affrontare il problema degli immobili sfitti, solleva ulteriori
dubbi sulla capacità della nuova fondazione di avere successo. Sebbene questa
disponga di risorse superiori, pari a cinque milioni di euro, sembra al momento
mancare una strategia davvero incisiva per affrontare le cause principali della
crisi abitativa. Infine, l’ambizione è alta, ma l’impatto che la Fondazione
potrà avere sulla città appare limitato. Con poche centinaia o migliaia di
alloggi a canone concordato, è difficile credere che si possa riequilibrare un
mercato che ormai è fuori controllo. A Bologna, infatti, ci sono ancora circa
cinquemila persone in attesa di una casa popolare, mentre la pressione sugli
affitti è in costante crescita.
In sintesi: Bologna, al pari di altre, è una città che spera di affrontare la
questione della casa mettendo sotto il tappeto il modello di sviluppo urbano,
prima causa del tutto. Da un lato progetti come quello del Tecnopolo raccontano
che non c’è nessuna intenzione di rinunciare al paradigma della crescita
continua e ai suoi rischi legati all’aumento dei valori immobiliari; dall’altro,
piuttosto che regolamentare il mercato privato con misure radicali (tetto agli
affitti, tasse sullo sfitto, limiti alle piattaforme, ecc.) si preferiscono
timidi – e rischiosi – palliativi come la Fondazione per l’Abitare trasferendo,
per di più, una parte di alloggi pubblici con tutti i rischi del caso, primo fra
tutti la privatizzazione del patrimonio. Non è uno scenario inevitabile, ma la
strada sembra già tracciata e se ne parla ancora troppo poco. (salvatore papa)
(archivio disegni napolimonitor)
Venerdì 17 gennaio il liceo Pitagora, al Rione Toiano, periferia di Pozzuoli, ha
ospitato l’incontro “Il coraggio di parlare. La forza di ascoltare”, promosso
dal Rotary Club Campi Flegrei sul tema della violenza di genere. All’evento
hanno partecipato diverse figure istituzionali: il sindaco di Pozzuoli Luigi
Manzoni, la presidentessa del Rotary Club Emilia Annunziata, l’assessore alle
politiche sociali di Pozzuoli Fabiana Riccobene; e poi ancora, tra gli altri:
Antonella Sica, presidente della commissione sulla violenza di genere del
Rotary, Shervi Haravi, attivista e funzionaria del ministero della giustizia, la
tenente Maria Virgilio, comandante della stazione dei carabinieri di Pozzuoli.
Un gruppo di studenti legati alla casa del popolo Villa Medusa di Bagnoli ha
organizzato quella stessa mattina un volantinaggio all’ingresso della scuola,
dove c’erano più di cinquecento tra ragazzi e ragazze, preoccupati soprattutto
dal dover entrare in tempo in classe per evitare grane.
Il volantino criticava l’ipocrisia dell’approccio istituzionale alla violenza di
genere. Gli studenti sottolineavano come la narrazione dominante si concentri
sulla “caccia al mostro” e sull’invito alla denuncia individuale, trascurando le
radici strutturali del fenomeno e i meccanismi di esclusione sociale che
colpiscono i soggetti più vulnerabili. Inoltre, veniva evidenziato il paradosso
di affidare l’analisi su un fenomeno così complesso a istituzioni come le forze
dell’ordine e il Rotary Club, elementi pienamente integrati in un sistema
sociale e di potere che ha una incidenza tutt’altro che secondaria sul problema
della violenza di genere.
Molto dura è stata la denuncia dei manifestanti contro le cosiddette politiche
istituzionali “di prevenzione”, incapaci di arginare la violenza, come
dimostrano i dati: solo nel 2024, in Italia, centodieci donne sono state uccise,
per lo più da un loro partner o familiare di sesso maschile.
La maggior parte degli studenti ha preso in consegna il volantino: qualcuno si è
fermato per chiedere informazioni, altri si sono detti d’accordo, ma non c’è
stato molto dibattito. I ragazzi dei diversi indirizzi – classico, scientifico,
scienze applicate – sembravano per lo più accomunati dagli zaini pesanti e
dall’aria assonnata e non sono mancati quelli che passavano oltre senza fermarsi
o gettando appena uno sguardo.
Giorgia, studentessa, ha spiegato di aver provato più volte a proporre la
nascita di un collettivo, ma di essere stata frenata dai rappresentanti di
istituto. La difficoltà ad aggregare gruppi anche piccoli di studenti è
certamente legata alle riforme scolastiche di questi anni, il cui il culmine
sembra essere quella Valditara, che stabilisce, tra le altre cose, la bocciatura
con il 6 in condotta: un provvedimento che limita ulteriormente la libertà degli
studenti, che fanno enorme fatica anche solo a pensare che si possa cambiare
qualcosa insieme.
La situazione strutturale del Pitagora è emblematica della difficoltà che hanno
gli studenti a elaborare una riflessione complessiva sulle condizioni in cui si
trovano a “fare scuola”: da tempo, qui, si ricorre per esempio al sistema della
“rotazione”, perché non ci sono classi per tutti. Una forte limitazione del
diritto allo studio, che però molti studenti percepiscono come un vantaggio:
meno giorni a scuola significa meno stress, meno interrogazioni e compiti
classe. Un’altra questione delicata riguarda i viaggi d’istruzione, che non sono
accessibili a tutti: le famiglie in difficoltà economica spesso non riescono a
sostenere le spese, rendendo queste esperienze, che dovrebbero essere formative,
un privilegio per pochi.
Obiettivamente difficile, in un contesto così ostico per lo sviluppo e la
condivisione di una coscienza critica come è la scuola oggi, che gli studenti
possano mettere in discussione il senso propagandato di certe iniziative, che
hanno come unico fine quello di rafforzare le relazioni istituzionali e di
potere. Lo stesso titolo, “il coraggio di denunciare”, più che analizzare le
cause più profonde del problema ha come unico obiettivo colpevolizzare chi
commette violenza. È come mostrare un quadro visibile a metà, oscurando le cause
sociali e culturali alla base del fenomeno, e l’ambiguo atteggiamento di forze
dell’ordine e istituzioni politiche, che tra l’altro sulla gestione patriarcale
dei rapporti sociali e professionali fondano buona parte del proprio equilibrio.
Le donne che non denunciano la violenza lo fanno anche, per esempio, per paura
di non essere credute o di non ricevere supporto dalle forze dell’ordine. A un
aumento delle chiamate al numero antiviolenza 1522 (quasi diciottomila solo nel
primo trimestre del 2024) non corrisponde una diminuzione delle violenze
sessuali e dei femminicidi. Anche i reati online, come sextortion e revenge
porn, sono cresciuti del 9% dal 2023.
Gli studenti che hanno protestato al Pitagora hanno chiesto che a esprimersi su
questi temi non siano sempre e solo soggetti esterni alla scuola, e percorsi di
autoeducazione: formazione degli insegnanti, presenza di psicologi e
psicoterapeuti, lavoro all’interno di spazi didattici e non, organizzato insieme
agli studenti e le studentesse. I nuovi fondi destinati alla già carente
educazione sessuale nelle scuole, invece, verranno usati (lo ha dichiarato il
ministro Luca Cirani) principalmente per formare gli insegnanti su fertilità e
prevenzione dell’infertilità.
Non è la prima volta che gli studenti di questa scuola si trovano a dover
affrontare interlocutori così ambigui: l’anno scorso, durante un altro incontro
dedicato alla violenza di genere, un tenente colonnello aveva definito “ottimo”
il sistema di sicurezza a tutela delle donne. Giorgia racconta di aver obiettato
a questo assunto, dato l’alto numero di femminicidi, criticando anche la scelta
di coinvolgere le forze dell’ordine in un contesto scolastico. Il tenente
colonnello, alzandosi con fare vagamente intimidatorio, e raccogliendo
l’approvazione dei docenti e di una parte degli studenti, le ha chiesto di
portare dati concreti a sostegno della sua tesi, affermando che avrebbe potuto
facilmente smentirli con le sue esperienze. Evidente già in quel caso fu
l’ipocrisia di coinvolgere militari (così come ricchi e influenti imprenditori,
al vertice di un sistema che alimenta e si fonda sulle disuguaglianze, comprese
quelle di genere) in queste iniziative, che presupporrebbero una capacità di
mettere in discussione la propria persona e il proprio ruolo sociale, cose che
queste due categorie non sembrano disposte a fare.
A ulteriore conferma di come le forze dell’ordine non possano essere un
interlocutore accreditato a esprimersi sul tema della violenza di genere, basta
guardare a quanto accaduto di recente a Brescia, dove le attiviste di Extinction
Rebellion hanno denunciato abusi da parte degli agenti, e raccontato di essere
state costrette a spogliarsi nude in questura, mentre gli uomini non hanno
subito lo stesso trattamento. Inoltre, le donne sono state obbligate a compiere
atti umilianti, come fare piegamenti sulle gambe davanti a un numero non
precisato di agenti, pratiche che alcuni tra i centri antiviolenza del paese
hanno condannato come vere e proprie violazioni dei diritti umani. (serena bruno
– laboratorio di narrazione)
Il 4 dicembre scorso la giunta comunale ha deliberato l’approvazione del
progetto definitivo di “demolizione della palestra, realizzazione di parcheggio
multipiano e sistemazione a verde piazza Pietro Lupo, giardino pubblico
tecnologico”. L’edificio in questione, una ex palestra comunale di Catania, è al
centro di una piazza considerata un “margine urbano” da riqualificare. Da un
mese, un’assemblea cittadina si riunisce per opporsi allo sgombero della LUPo.
Laboratorio Urbano Popolare occupato, realtà autogestita che ha sede proprio
nell’ex palestra. L’assemblea iniziale è numerosa, partecipata, sentita. Oltre a
chi si prende cura del posto, a esporsi sono anche i frequentatori occasionali
sensibili alla questione, o chi è attivo in altri gruppi cittadini, come il
comitato per il centro storico, il collettivo di Officina Rebelde e il
collettivo del Consultorio Mi cuerpo es mio!, sgomberato nel dicembre 2023 e
ancora nomade. Insieme si commenta il progetto appena approvato, si ragiona sul
movente dello sgombero mettendolo in relazione con ciò che accade in altre città
italiane, ci si confronta su come affrontare lo sgombero e le sue conseguenze.
Qualcuno si chiede se questa volta lo sgombero ci sarà davvero o se non si
tratta, invece, dell’ennesima trovata politica che cadrà nel nulla. Il passato
della “palestra Lupo” legittima questo interrogativo, mostrando il retaggio di
un copione antico, fatto di connivenze rodate eppure tremolanti, pochi colpi di
scena con finali prevedibili.
L’idea di radere al suolo l’edificio per rimpiazzarlo con un parcheggio
interrato multipiano risale al 2002, quando la palestra era da poco rimasta
abbandonata, dopo essere stata usata per decenni dalla squadra di scherma del
Cus Catania. L’allora sindaco Umberto Scapagnini (2000-2008), appena nominato
commissario straordinario per l’emergenza traffico dal governo Berlusconi, aveva
pianificato la costruzione di cinque parcheggi. Le sorti del progetto di piazza
Lupo, legato ai nomi più radicati e potenti dell’imprenditoria catanese (Ciancio
e Virlinzi in testa), seguiranno quelle di un altro parcheggio in costruzione,
in piazza Europa, bloccato per anni dalla magistratura. In questo arco di tempo
l’ex palestra abbandonata, ormai divenuta un rifugio per senzatetto, verrà più
volte sgomberata e rioccupata, mentre la prospettiva di un parcheggio in quella
piazza continuerà a eccitare i sogni degli speculatori. Il progetto si
ripresenta nel 2018, quando un bando regionale che finanziava la costruzione di
parcheggi scambiatori fa attivare non solo la giunta Pogliese (2018-2022), ma
anche l’ex sindaco democratico Enzo Bianco, che invoca l’intervento del prefetto
per accelerare lo sgombero. Neanche quel tentativo, però, andò in porto. Al suo
fallimento contribuì un fronte decisamente eterogeneo di oppositori: la
borghesia colta della sostenibilità ambientale, del decoro urbano e
dell’antimafia; l’associazionismo della democrazia partecipata, della
riqualificazione dal basso, dei beni comuni; partiti e sindacati; movimenti e
spazi sociali.
Oggi questo fronte è meno compatto: la “rigenerazione urbana”, teoricamente
“inclusiva” e “sostenibile”, riesce a catturare molti attori locali; eppure in
altri quartieri “marginali”, essa ha già mostrato la sua natura classista e
razzista, disciplinante e punitiva. Riportare la voce della minoranza che
resiste creando spazi informali in cui esercitare un agire critico collettivo
sembra allora più urgente che perdersi nel labirinto di soggetti, cifre e
interessi coinvolti. Uno sguardo al progetto attuale servirà solo a conoscere
meglio “il vuoto” a cui l’assemblea contro lo sgombero vuole opporsi.
LA RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA
Fallito anche il progetto del 2018, il Piano nazionale di ripresa e resilienza
offre l’occasione ideale per riesumare l’idea del parcheggio. Il decreto legge
di riferimento affida alle Città Metropolitane il compito di elaborare i Piani
urbani integrati, strumenti finalizzati a “favorire una migliore inclusione
sociale riducendo l’emarginazione e le situazioni di degrado sociale, promuovere
la rigenerazione urbana attraverso il recupero, la ristrutturazione e la
rifunzionalizzazione ecosostenibile delle strutture edilizie e delle aree
pubbliche”. Così, nel marzo del 2022 in Comune si avvia l’iter per
l’approvazione di undici progetti, tra cui quello approvato con la delibera del
4 dicembre. Alla demolizione della palestra, costruzione del parcheggio e di un
“giardino tecnologico” è destinata una spesa di 3,9 milioni di euro.
Nella relazione che accompagna la delibera si legge che la piazza “non svolge la
sua funzione di luogo di aggregazione ma viene percepita come una grande area di
sosta per veicoli a motore”. “L’unico luogo di aggregazione sociale – viene
precisato – è rappresentato dalla palestra Lupo, che presenta gravi criticità
strutturali e manutentive che ne compromettono l’uso e il godimento in totale
sicurezza”. Per questo motivo, anziché recuperarla, si preferisce abbatterla. Al
suo posto, recita ancora il testo, verrà creato un ambiente “piacevole”, fatto
di “zone d’ombra” e “arredi urbani in grado di accogliere la collettività”.
Così, la “Piazza Libera” diventerà “uno spazio urbano aperto a più funzioni,
incoraggiando l’emergenza di usi informali della sfera pubblica […] che
favoriscano l’interazione tra gli utenti e la nascita di nuove attività”.
La relazione parla poi di un info-point/presidio culturale, una struttura
semisferica che fungerà da “punto di gestione e controllo della componente
impiantistica evoluta della piazza, basata sulla sostenibilità ambientale”. Esso
“garantirà un controllo naturale sulla piazza […] attraverso la presenza
continua degli operatori e degli addetti che gestiranno le attività racchiuse
all’interno del presidio, aumentando, così, la percezione di sicurezza anche
grazie alle mixité di funzioni ospitate dalla piazza”. La semisfera, poi,
accoglierà “il vano ascensore che collega la piazza all’autorimessa
sottostante”. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è infatti la
“realizzazione di nuovi posti auto e moto a raso […] con una dimensione tale da
poter ospitare circa 150 posti”. A questo punto non si capisce quale sia
l’intenzione degli amministratori, si commenta in assemblea: nel passaggio
appena citato si parla di posti a raso, nel titolo del progetto di parcheggio
multipiano.
“È probabile che alla fine faranno solo una zona destinata a dehors per i locali
che ci sono attorno”, suggerisce uno degli occupanti. L’ipotesi non sembra
campata in aria, perché piazza Lupo si trova in una zona di passaggio tra due
quartieri cruciali per il turismo: la Civita, il quartiere del porto, già in
gran parte gentrificato, perché è il punto in cui arrivano i crocieristi, a due
passi dal Duomo; e San Berillo, quello che chiamano “la ferita della città”.
I Piani urbani integrati prevedono anche 1,9 milioni per la “riqualificazione di
piazza Teatro Massimo e aree adiacenti, fino a piazza Pietro Lupo”. La via
Teatro Massimo, che connette le due piazze, è stata “ripulita” negli anni
passati e oggi è sorvegliata da volanti e videocamere. L’intento dichiarato è
quello di estendere questo palcoscenico della sicurezza borghese. Al di là delle
contraddizioni e delle ipocrisie su cui si regge tutta l’operazione, l’assemblea
degli occupanti teme che lo sgombero possa arrivare davvero, perché il
finanziamento obbliga all’apertura del cantiere entro sessanta giorni dalla
delibera e il completamento dei lavori entro la fine del 2026.
LE AUTOGESTIONI
Alla fine del 2012, mentre l’ex palestra è ancora attraversata da presenze
occasionali e gli amanti del decoro pressano le istituzioni per “sottrarre la
piazza al degrado”, entra in scena il Gruppo Azione Risveglio, un “movimento di
cittadinanza creativa” nato con la missione di ripulire spazi comunali
abbandonati per restituirli all’amministrazione stessa, una volta ultimato il
recupero. Questo gruppo ottiene le chiavi della Lupo dall’amministrazione
Stancanelli (2008-2013) e, concluso il suo intervento di pulizia, decide però di
mantenerle, per “restituire lo spazio alla città” fino alla sua eventuale
demolizione. Le dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano alla stampa locale
parlano chiaro: “non è un’occupazione”, ma una “riappropriazione 2.0” che
incentiverà progetti di “innovazione sociale e imprenditoria culturale”.
L’intento è quello di trasformare la Lupo in una Palestra delle Arti e delle
Culture, un bene comune istituzionalmente riconosciuto e regolamentato. Numerose
associazioni aderiscono all’iniziativa, ma il loro tentativo di
istituzionalizzazione rimarrà sospeso, e all’interno di quella parentesi di
incertezza si farà spazio un mutamento graduale, che riguarderà tanto il gruppo
di autogestione quanto le attività offerte dallo spazio. Alcuni occupanti
attuali ne ricordano l’evoluzione.
“La prima parte di vita della Lupo è stata dedicata principalmente al riutilizzo
creativo, soprattutto finalizzato alla creazione di opere d’arte; si facevano
meno serate musicali ma più workshop e mostre. Per un periodo è stato occupata
anche ad uso abitativo, con tutto quello che ne consegue. Con l’arrivo del Covid
si è sospeso tutto, ma subito dopo il posto è stato riattivato. Diverse crew
musicali che bazzicavano la Lupo da tempo si sono ritrovate qui. Catania
Hardcore, per esempio, è una crew punk hard-core che esiste più o meno dal 2000
e che ha sempre organizzato concerti in posti occupati. Oppure Tifone Crew, che
organizza concerti metal, o i rapper della scena hip hop locale, che hanno
deciso di fondare una propria etichetta musicale, la Tomato Sauce. Insieme
abbiamo portato avanti le iniziative culturali preesistenti e abbiamo ampliato
le proposte cercando di dialogare con le persone che c’erano prima, e questo
lavoro ha arricchito un po’ tutti. Da quello che dico sembra una situazione
legata solo alla scena musicale, ma in realtà è inserita in un movimento di
gente che frequenta e autogestisce i posti occupati. Oltre ai concerti facciamo
presentazioni di libri, laboratori e mostre con artisti locali e internazionali;
ma ci occupiamo anche di osservare la gestione del territorio, la
turistificazione, la riqualificazione. C’è stata una fase a Catania in cui fare
politica era legato a un collettivo specifico con la sua identità, e quindi se
tu non avevi un’identità chiara o eri una collettività magari più ampia ed
eterogenea, quello che facevi non era considerata politica. Questo aspetto per
noi è importante: tuttora non utilizziamo definizioni e non facciamo riferimento
a un’area ideologica precisa, anche perché molti di noi hanno alle spalle
esperienze politiche diverse tra loro”.
Insieme agli eventi musicali e artistici, la Lupo propone anche un calendario di
iniziative sportive. In questo momento sono attivi un corso di fitness e uno di
autodifesa personale. C’è anche una squadra di ping pong che si allena da cinque
anni. Si chiama The Wolf.
“Rispetto a quando siamo arrivati – continuano gli occupanti –, la Lupo è
cambiata radicalmente. L’abbiamo sempre considerato un posto libero da certe
logiche, ma non era così vivo cinque anni fa. Abbiamo iniziato a fare ping pong
principalmente per creare aggregazione, socialità; siamo partiti in due e oggi
siamo almeno una ventina; qualcuno viene più assiduamente alle assemblee, altri,
tramite la Lupo sono riusciti ad avviare anche altre attività, musicali, ecc.
Noi siamo un gruppo totalmente informale, c’è chi pratica lo sport anche a
livello agonistico, però non abbiamo mai creato un’associazione; non
partecipiamo a tornei ufficiali però siamo riusciti fare cose importanti
rimanendo sempre qui”.
Mutando la composizione del gruppo che si prende cura dello spazio, anche il
modo di organizzare le attività è cambiato negli ultimi anni.
“L’assemblea della Lupo fino a qualche tempo fa era solo una, era aperta a
chiunque e si discuteva tutti e tutto insieme. Siamo andati avanti così per tre
anni, poi ci siamo resi conto che era un po’ limitante e abbiamo deciso di
riorganizzarci, non chiudendo l’assemblea, ma facendone due: una con chi vuole
proporre qualcosa per la prima volta e un’altra tra chi si occupa della gestione
dello spazio, dove però è invitato a partecipare chiunque sia interessato. Il
nostro obiettivo è che ogni persona che si avvicina diventi quanto più autonoma
possibile, in modo che tutto sia veramente orizzontale. Visto che questo è
rimasto l’unico posto che ti permette di organizzare delle cose, mezza città si
è riversata sul nostro calendario. Quando riceviamo le proposte cerchiamo di
comprendere di cosa si stratta, chi abbiamo di fronte, poi se ne parla tutti
insieme e si sceglie cosa fare. Con qualcuno ci si capisce di più, con altri
meno, ma se siamo qui a parlarne è perché sta funzionando. Con l’assemblea di
gestione invece l’obiettivo è anche di costruire una linea politica, non solo
relativa alla Lupo ma più in generale alla città e al contesto nazionale, come
sta succedendo con la lotta contro il decreto sicurezza”.
Le persone più giovani e arrivate da meno tempo raccontano come si sono inserite
nel gruppo che oggi mantiene il posto attivo, e cosa significa per loro farne
parte.
“La prima volta sono entrata alla Lupo per la Tattoo Circus, poi ho cominciato a
frequentare il laboratorio ‘L’arte è pericolosa’, nato in un momento in cui sui
giornali si dava del pericoloso a qualsiasi cosa. Poi c’è lo spazio per
serigrafare – posso farlo anche a casa, ma qui si è creata una situazione più
interessante. Il laboratorio di serigrafia esisteva già, ma per un periodo era
rimasto inattivo; lo abbiamo ripreso e stampiamo parecchio. Le varie crew che
organizzano concerti fanno qui le loro magliette, hanno imparato a serigrafare e
lo fanno insieme a noi, quindi tutto quello che succede alla fine si contamina e
ti permette di ragionare sulle cose in modo più complessivo.
“Man mano che scoprivo la Lupo, anche grazie agli striscioni che vedevo durante
i concerti o altri eventi, mi rendevo conto che quello che offriva non era un
semplice ‘servizio’ ma qualcosa che ti permette di evadere dalla gabbia del
mondo. Se la frequenti un po’, scopri che questa cosa di autogestirsi è
possibile, e questo cambia la tua prospettiva, sia rispetto allo spazio sia
rispetto al modo in cui puoi fare le cose”.
Se si scorre il calendario della Lupo, nel corso degli ultimi anni si nota un
interesse crescente verso questioni più esplicitamente politiche.
“Quando abbiamo aperto alla città è nato un dibattito che ha assunto una
prospettiva prettamente politica per necessità. Penso alla minaccia di sgombero
di due anni fa: qualcuno veniva e chiedeva conto del perché non avessimo
intenzione di dialogare con le istituzioni, e allora fu necessario prendere una
posizione precisa, consapevole di quali sono i pro e i contro di un percorso di
interlocuzione con il Comune. Il politicizzarsi dello spazio è avvenuto anche
perché diversi gruppi hanno cominciato a frequentare la Lupo – il collettivo del
Parco Falcone, lo studentato, i collettivi artistici che in città non hanno uno
spazio – e fatalmente sono stati coinvolti nella gestione, hanno dovuto fare
delle scelte, prendere delle decisioni. L’assemblea contro lo sgombero è
cresciuta insieme a un’altra a livello cittadino, anch’essa dettata da
un’emergenza: il decreto 1660, contestato in tutta Italia. L’ultimo corteo
contro decreto, sgomberi e guerre del 21 dicembre è stato vivace, e per quanto
poco numeroso ha portato in piazza realtà che solitamente camminano separate. La
consapevolezza che non esiste alcuna garanzia di successo non sta impedendo agli
abitanti della Lupo di offrire una base fisica e un contributo discorsivo a
questo tentativo di convergenza”.
Il 4 febbraio 2025 segna il termine entro il quale ci si aspetta lo sgombero.
Nel frattempo la Lupo sta continuando a proporre momenti di svago, impegno e
respiro a chi rifiuta la bolla del consumo cittadino e l’inganno delle politiche
culturali e sociali volte al profitto. Un nuovo corteo è previsto per il 21
gennaio. “Non si sgombera un’idea”, dice una frase scritta sulle pareti dello
spazio, quella che forse più di tutte oggi suona come un avvertimento e un
auspicio per il futuro. (alessandra ferlito)
(disegno di enrico pantani)
È in libreria a Napoli, Roma, Bologna, Milano e Torino (quitutti i punti di
distribuzione) il numero 13 de Lo stato delle città. A seguire pubblichiamo
l’articolo I buoni all’attacco, di Flavia Tumminello.
La linea retta che descrive corso Giulio Cesare, a Torino, si estende a perdita
d’occhio inseguendo i binari del tram e lo scorrere incessante delle macchine.
Dai palazzi sporgono insegne in arabo, cinese, italiano. Narrano un mondo in cui
il ritmo delle faccende quotidiane risente di influssi provenienti da paesi
lontani: minimarket, telefonia, agenzia viaggi, macelleria. Il televisore acceso
in un bar riversa sulla strada i suoni di una partita di calcio. A poca
distanza, sulle serrande chiuse al piano terra di un palazzo, al numero 34, è
possibile leggere: “Fuori i buoni dai quartieri”, “Per ogni sgombero un bene
comune”. Si sussurra che in passato il palazzo, oggi vuoto, avesse offerto
riparo a persone in cerca di un tetto finché una mattina è giunta la polizia a
sgomberarli. Risalendo la linea del corso, un altro edificio, adesso protetto da
telecamere e da luci sempre accese, un tempo ospitava un’occupazione. L’arrivo
delle camionette ha lasciato dietro di sé il deserto e la reclame di
appartamenti di lusso in un quartiere riqualificato.
Ben diversa è la storia raccontata dai graffiti di corso Giulio Cesare 34, una
storia che parla di innovazione sociale, cittadinanza attiva e filantropia. La
fondazione di comunità Porta Palazzo, un ente nato sotto l’egida di Compagnia di
San Paolo e attivo nei quartieri di Aurora e Porta Palazzo, ha recentemente
acquistato l’edificio per adibirlo a primo Community Land Trust (CLT) in Italia.
Il principio alla base del CLT è la separazione tra la proprietà dell’immobile
da quella del suolo. Questa separazione permette di ridurre il costo dei singoli
appartamenti, i quali sono venduti a un prezzo calmierato a famiglie che
altrimenti faticherebbero ad accedere a un mutuo, mentre la proprietà del
terreno rimane, anche in caso di rivendita futura, nelle mani del trust. Si
tratta di un modello che trae la propria sostenibilità economica dalla premessa
che l’estrazione di plusvalore legata alla costante crescita dei valori
immobiliari verrà distribuita equamente tra nuovi e vecchi acquirenti,
investitori nel progetto e cittadini che fruiscono dei benefici portati dalla
rige- nerazione urbana, tra cui l’apertura al pubblico degli spazi comuni
dell’edificio.
La fondazione sostiene di avere come obiettivo principale il contrasto alla
gentrificazione del quartiere: alla proprietà privata oppone la proprietà
“collettiva”, alla speculazione immobiliare una speculazione “dolce”, appetibile
per una borghesia progressista in cerca di profitti etici.
I sostenitori e i fondatori del CLT si definiscono “innovatori sociali”,
appellativo che fonde una retorica pionieristica e rampante con suggestioni che
rievocano le tradizioni politiche di auto-organizzazione dal basso. Nella realtà
essi non solo ricevono ingenti finanziamenti da Compagnia di San Paolo, ma
godono anche del sostegno di tutta una classe dirigente e politica che vede nel
CLT la prefigurazione di un modello di welfare “innovativo” grazie a cui
sopperire al definanziamento delle politiche abitative e sociali pubbliche. La
fondazione si è ritrovata al centro di un vero e proprio think tank che si è
sostanziato in un ciclo di incontri cui hanno preso parte diversi esponenti
della giunta comunale, tra cui l’assessore al welfare Rosatelli, del partito
Sinistra Ecologista, che ha tratteggiato il welfare abitativo del futuro come
una costellazione di part- nership pubblico-private che coinvolga il terzo
settore e il variegato mondo della “cittadinanza attiva”, nonché gli stessi
beneficiari delle politiche.
In questo solco si colloca l’esperienza di Homes4All, progetto di finanza a
impatto sociale che coinvolge un’ampia rete di società private con a capofila il
comune di Torino. La start up, fondata nel 2019, si propone di ridurre
l’emergenza abitativa attraverso l’acquisto o la gestione da privati di immobili
che verranno poi dati in locazione temporanea a un canone “sostenibile” a
famiglie selezionate dalle graduatorie dell’agenzia comunale per la locazione.
Palazzi fatiscenti in quartieri dai valori immobiliari bassi caratterizzati
dalla presenza di immigrati e di altri marginali si trasformano così in asset
vantaggiosi non solo per gli investitori, ma anche per la pubblica
amministrazione. H4A, infatti, promette un risparmio per le casse comunali di
circa 450 mila euro rispetto ai costi legati alla messa a disposizione di
strutture di emergenza abitativa. La società, nata a Torino, è già approdata a
Genova e in Lombardia e punta a estendersi ulteriormente; ha acquisito 69
immobili e ne gestisce 35, per un totale di 5,2 milioni di capitali raccolti da
investitori pubblici e privati. Dati difficilmente compatibili con l’idea di una
piccola proprietà diffusa contro la grande speculazione immobiliare, ma coerenti
con un modello finanziario che individua nel profitto privato l’impulso
necessario al sostentamento del welfare. Secondo Matteo Robiglio, architetto e
docente del Politecnico, tra i fondatori di H4A, le politiche sociali basate
sull’erogazione di finanziamenti diretti a fondo perduto sarebbero
economicamente insostenibili. Il settore pubblico dovrebbe convogliare i propri
fondi sulle compartecipazioni con attori privati e creare una regolamentazione
(o derego- lamentazione) che favorisca le esperienze innovative.
H4A nasce dalla fusione di Brainscapital, società di consulenza specializzata
“nello sviluppo di start up” e Homers, che si occupa del recupero di immobili
vuoti per la realizzazione di cohousing. Nel 2018 Brainscapital ha fatto parte
del “raggruppamento tecnico” che ha supportato la città di Torino nel “Progetto
speciale campi nomadi”, culminato nel 2020 con lo sgombero del campo rom e delle
baraccopoli di via Germagnano, all’estrema periferia. Evidentemente, esistono
ancora poveri che non generano né valore economico né valore sociale misurabili,
e che continueranno a esse- re espulsi e allontanati – la storia della loro
marginalità rimossa dal discorso pubblico. Tutta questa violenza sarebbe forse
meno accettabile se non fosse per l’incessante pantomima dei “buoni”, che sotto
la maschera di un capitalismo dal volto umano nascondono la loro stessa natura
di classi dirigenti neoliberali; possono assumere le sembianze della
filantropia, dei partiti di sinistra, dell’associazionismo, della finanza etica,
ma sanno anche mimare pratiche e linguaggi dei movimenti sociali. È il caso
della proposta di delibera di iniziativa popolare “Vuoti a rendere” che chiede
vengano messe a disposizione della collettività tutte le case sfitte, di
proprietà pubblica e privata, nella città di Torino. Con “Vuoti a rendere” siamo
tutti invitati ad assumere la prospettiva degli innovatori, immaginandoci come
questo patrimonio abitativo possa essere riutilizzato, magari in vista di future
speculazioni “etiche”. Allo stesso tempo questa possibilità viene confinata a
una partecipazione istituzionalizzata che non considera le esperienze e i
bisogni delle persone ai margini, le quali rimangono sullo sfondo come
“beneficiari” o come vittime da proteggere fintantoché non rivendicano i propri
diritti, per esempio occupando una casa.
L’ordine del discorso a partire dal quale si costruisce il consenso a queste
operazioni ha le sue fondamenta in un universo simbolico dove gli opposti
convivono senza alcuna contraddizione: qui la gentrificazione viene contrastata
dal grande capitale finanziario, l’auto-organizzazione dipende dalle elargizioni
di fondazioni bancarie, chi sgombera i poveri si batte anche per il “diritto
alla casa” e il profitto privato diventa un mezzo per raggiungere il benessere
collettivo. In un clima di crescente sfiducia legato alla repressione delle
lotte sociali e dei gruppi marginalizzati diventa allora sempre più necessario
chiederci che cosa vogliamo, se l’innovazione o il conflitto, se identificarci
con i “buoni” o stare al fianco degli ultimi. (flavia tumminello)
(disegno di cyop&kaf)
Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di
diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite
ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili
pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione
della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre
l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone
rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo
zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto.
Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il
l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore
fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25
mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo
urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da
diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo
tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo
più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi.
Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di
soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e
anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa
Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi
ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares,
inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa
oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i
carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a
fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e
si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano
su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il
petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo
casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato.
L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima
ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul
posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la
scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa
nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due
agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno
impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello
schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità,
se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via
Quaranta, se e altri se.
Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa
della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito
amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove
anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da
tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy
sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di
stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe
bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e
invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto
sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le
gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza
della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto.
Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle
sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona,
San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle
malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio,
dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si
rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di
luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali,
palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il
silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le
strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile
poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi
ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere
come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio?
Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di
registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario
apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie
di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a
causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa,
diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere
gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al
minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la
deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse,
l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri
affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte
d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi
all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la
forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo
da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi.
I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che
non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una
criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza
rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i
locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si
può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella
ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per
questi giovani?
Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e
soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi
italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto
di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta
di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei
canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera,
prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare
legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti
per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter
richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di
soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà
il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più
sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e
cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in
linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con
la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano,
non è considerato benvenuto.
E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti
di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la
realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero
costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di
avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni
differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di
mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di
molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di
Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla
presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri.
Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente.
Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945,
quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a
Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente
cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se
avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata
svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le
ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le
contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti
dall’alto. (rajaa ibnou)
(disegno di davide nespolino)
“PalazzoKalister: straordinaria manutenzione e restauro per la conservazione dei
caratteri architettonici e tipologici con cambio di destinazione da residenziale
a turistico-ricettiva”. Questa chiara dichiarazione di intenti è scritta nel
cartello di descrizione dei lavori su uno dei palazzi più importanti di piazza
Libertà, a Trieste. Fu costruito in stile eclettico alla fine dell’Ottocento
poco dopo la vicina stazione ferroviaria. Dopo esser stato abbandonato per anni,
palazzo Kalister si prepara così a diventare un albergo di grandi dimensioni. Il
cartello che annuncia l’operazione si trova nei pressi di un’alta gru che di
notte viene illuminata con due strisce di luci rosse verticali per segnalarne la
presenza.
Oltre a essere la piazza della stazione centrale di Trieste piazza Libertà è
anche molto altro. È lì che tutti i giorni, da anni, i volontari
dell’associazione Linea d’Ombra e di altre organizzazioni accolgono chi arriva
dalla rotta balcanica, oltre a chi vive a Trieste da più tempo ma si trova
ancora in condizioni molto precarie e disagiate. In questo periodo basta passare
un po’ di tempo in piazza dopo le 19 e ci si accorge di quanti cambiamenti
avvengano nell’arco di un paio d’ore, a seconda del cibo, delle bevande e/o dei
vestiti che arrivano e che vengono distribuiti. Le persone, provenienti
soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, si dispongono in file al momento
delle distribuzioni, altrimenti si spostano nella parte centrale della piazza.
Chi vuole raggiungere o lasciare la stazione preferisce fare un giro più largo,
anche a costo di allungare un po’.
Fino allo scorso 21 giugno buona parte delle persone migranti che frequentavano
la piazza abitavano nel Silos, un grande edificio semi-diroccato che costeggia i
binari della stazione dei treni. Quel giorno le forze di polizia, agendo in
seguito a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, preoccupato per le
condizioni sanitarie del luogo, ma anche temendo un danno d’immagine per la
città, sgomberarono l’edificio trasferendo altrove le persone presenti
all’interno e altre che si trovavano nei paraggi e preferivano non rimanere a
Trieste. Ora il Silos è costeggiato da un parcheggio privato, mentre l’interno è
stato bonificato. Coop 3.0, proprietaria dell’immobile, dovrebbe essere ora sul
punto di vendere l’intera struttura a un gruppo austriaco.
L’atto non ha cambiato la postura delle amministrazioni pubbliche rispetto
all’accoglienza delle persone in movimento; al contrario di quanto era stato
promesso, nel frattempo non sono stati resi disponibili più posti in accoglienza
e soprattutto non è stato attivato quel servizio a bassa soglia, cioè
accessibile a tutti senza formalità, che le associazioni reclamano da tempo per
rispondere alle esigenze delle molte persone che arrivano a Trieste e si fermano
poche ore prima di riprendere il viaggio. La conseguenza è stata che per tutta
l’estate chi arrivava in città trovava rifugio sotto una tettoia all’ingresso
del Porto Vecchio, un’area costituita da magazzini portuali abbandonati
costruiti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Lì le persone si sono
accampate con sacchi a pelo e altri materiali, proprio come avveniva nel Silos,
senza nemmeno la protezione, comunque parziale, delle arcate in muratura.
L’arrivo dell’autunno non ha cambiato le cose e lo scorso 20 novembre le
istituzioni hanno deciso di intervenire sgomberando la tettoia con modalità
simili a quelle adottate a giugno per il Silos. Le forze dell’ordine sono
arrivate prima delle otto e intorno a mezzogiorno la tettoia era occupata solo
dagli impiegati di un’azienda di pulizie che stavano ultimando il lavoro coperti
da spesse tute bianche. Un comunicato congiunto delle associazioni attive
nell’accoglienza delle persone in movimento a Trieste (Consorzio italiano di
solidarietà, Linea d’Ombra, Diaconia valdese e No Name Kitchen), pur accogliendo
favorevolmente il trasferimento e auspicando che ciò avvenga con una maggior
frequenza, ha criticato l’intervento sostenendo che “nonostante venga presentata
come un’azione risolutiva ed efficiente, l’operazione odierna rappresenta
l’ennesima dimostrazione di una gestione straordinariamente carente. Se infatti
i richiedenti asilo avessero avuto accesso, come previsto dalla legge, a un
sistema di prima accoglienza adeguato al loro arrivo, con una successiva e
rapida redistribuzione sul territorio nazionale, l’indecoroso abbandono
nell’area del Porto Vecchio non si sarebbe verificato. La scenografica e onerosa
operazione di oggi sarebbe stata così del tutto superflua”.
In effetti, per chi segue da almeno alcuni mesi la questione, il copione sembra
ripetersi sempre in modo simile senza che poi da parte delle istituzioni ci sia
la volontà di trovare delle soluzioni di lungo periodo. Nel frattempo, la città
sta cambiando. Al centro di piazza Libertà la statua della principessa Sissi è
circondata da circa un anno da alcune transenne per impedire che il retro
venisse usato come bagno a cielo aperto. Ora il Comune le sta sostituendo con
delle barriere permanenti, sottraendo alla fruizione una parte non piccola della
piazza. Da mesi è chiuso il sottopassaggio tra piazza della Libertà e la
stazione che in precedenza era stato usato come punto di distribuzione e
assistenza durante i giorni di maltempo. Qualche settimana fa il quotidiano
locale Il Piccolo ha diffuso la notizia che il Comune starebbe valutando la
possibilità di attingere a dei fondi regionali per recintare anche il perimetro
più esterno della piazza. Visto che negli anni corsi la stessa cosa è stata
fatta anche in un’altra piazza importante (piazza Hortis, sempre in centro) non
sembra così impensabile che la stessa scelta venga fatta per una piazza in cui
si è creato uno dei pochi spazi di autogestione in città. Inoltre, piazza
Hortis, uno spazio alberato su cui affacciano lo storico istituto nautico e la
frequentata emeroteca cittadina, fa parte di una delle prime zone di Trieste ad
aver cambiato faccia: in pochi anni nuovi locali alla moda hanno affiancato o
preso il posto di osterie e altri negozi per i residenti. Le recinzioni
comportano degli orari di apertura e di chiusura e sconvolgono le modalità di
fruizione di uno spazio pubblico come una piazza.
È chiaro l’intento del Comune di scoraggiare una pratica di accoglienza
percepita dall’amministrazione come dissonante rispetto all’immagine di città
pulita e funzionale che si vuole dare di Trieste, però qui sembra essere in
gioco anche la gestione degli spazi pubblici. Poco lontano da piazza Libertà si
trova largo Santos, uno spiazzo all’ingresso dell’area del Porto Vecchio su cui
fino alla fine del 2022 sorgeva la sala Tripcovich, una struttura usata per
concerti e altre iniziative culturali. La sala è stata demolita due anni fa e lo
spiazzo che ne è risultato è stato usato in diverse occasioni da alcuni
collettivi cittadini per iniziative come concerti o per la partenza o l’arrivo
di cortei. In occasione delle festività natalizie del 2024 il largo è stato
trasformato in un parcheggio gestito dalla Confcommercio provinciale che fornirà
il servizio ancora fino al 31 gennaio.
La città sta cambiando anche in modo più eclatante. Come palazzo Kalister in
piazza Libertà l’enorme palazzo già delle Ferrovie dello Stato che affaccia
sulla centrale piazza Vittorio Veneto sta per essere trasformato in un hotel con
una piccola quota di servizi e abitazioni. Anche qui sembra tutto già visto e
già sentito: gli affitti sono rincarati molto mentre diversi edifici storici
diventano cantieri, in alcuni casi con lo scopo di realizzare delle residenze di
lusso.
La posizione della giunta comunale è chiara: porre il turismo al centro
dell’economia cittadina senza tenere conto di quanto questa scelta influisca in
negativo sulla qualità della vita di molti abitanti. Per anni il sindaco
Dipiazza si è vantato degli ottimi risultati raggiunti da Triescte nella
classifica annuale delle città con la qualità di vita più alta pubblicata
dal Sole24Ore. Al di là dell’attendibilità che si vuole attribuire a questo
genere di rilevazioni, sembra sempre necessario valutare da che punto di vista
si guarda la città. Fino a pochi anni fa la qualità di vita a Trieste non era
così determinata solo dalla capacità di spesa mentre ora, anche a causa dei
tagli nei servizi pubblici, come la chiusura di due consultori su quattro nel
2024, questa sta diventando un elemento sempre più centrale. (alessandro
stoppoloni)