Tag - città

Catania, la palestra Lupo sotto sgombero e le trame della “rigenerazione”
  Il 4 dicembre scorso la giunta comunale ha deliberato l’approvazione del progetto definitivo di “demolizione della palestra, realizzazione di parcheggio multipiano e sistemazione a verde piazza Pietro Lupo, giardino pubblico tecnologico”. L’edificio in questione, una ex palestra comunale di Catania, è al centro di una piazza considerata un “margine urbano” da riqualificare. Da un mese, un’assemblea cittadina si riunisce per opporsi allo sgombero della LUPo. Laboratorio Urbano Popolare occupato, realtà autogestita che ha sede proprio nell’ex palestra. L’assemblea iniziale è numerosa, partecipata, sentita. Oltre a chi si prende cura del posto, a esporsi sono anche i frequentatori occasionali sensibili alla questione, o chi è attivo in altri gruppi cittadini, come il comitato per il centro storico, il collettivo di Officina Rebelde e il collettivo del Consultorio Mi cuerpo es mio!, sgomberato nel dicembre 2023 e ancora nomade. Insieme si commenta il progetto appena approvato, si ragiona sul movente dello sgombero mettendolo in relazione con ciò che accade in altre città italiane, ci si confronta su come affrontare lo sgombero e le sue conseguenze. Qualcuno si chiede se questa volta lo sgombero ci sarà davvero o se non si tratta, invece, dell’ennesima trovata politica che cadrà nel nulla. Il passato della “palestra Lupo” legittima questo interrogativo, mostrando il retaggio di un copione antico, fatto di connivenze rodate eppure tremolanti, pochi colpi di scena con finali prevedibili. L’idea di radere al suolo l’edificio per rimpiazzarlo con un parcheggio interrato multipiano risale al 2002, quando la palestra era da poco rimasta abbandonata, dopo essere stata usata per decenni dalla squadra di scherma del Cus Catania. L’allora sindaco Umberto Scapagnini (2000-2008), appena nominato commissario straordinario per l’emergenza traffico dal governo Berlusconi, aveva pianificato la costruzione di cinque parcheggi. Le sorti del progetto di piazza Lupo, legato ai nomi più radicati e potenti dell’imprenditoria catanese (Ciancio e Virlinzi in testa), seguiranno quelle di un altro parcheggio in costruzione, in piazza Europa, bloccato per anni dalla magistratura. In questo arco di tempo l’ex palestra abbandonata, ormai divenuta un rifugio per senzatetto, verrà più volte sgomberata e rioccupata, mentre la prospettiva di un parcheggio in quella piazza continuerà a eccitare i sogni degli speculatori. Il progetto si ripresenta nel 2018, quando un bando regionale che finanziava la costruzione di parcheggi scambiatori fa attivare non solo la giunta Pogliese (2018-2022), ma anche l’ex sindaco democratico Enzo Bianco, che invoca l’intervento del prefetto per accelerare lo sgombero. Neanche quel tentativo, però, andò in porto. Al suo fallimento contribuì un fronte decisamente eterogeneo di oppositori: la borghesia colta della sostenibilità ambientale, del decoro urbano e dell’antimafia; l’associazionismo della democrazia partecipata, della riqualificazione dal basso, dei beni comuni; partiti e sindacati; movimenti e spazi sociali. Oggi questo fronte è meno compatto: la “rigenerazione urbana”, teoricamente “inclusiva” e “sostenibile”, riesce a catturare molti attori locali; eppure in altri quartieri “marginali”, essa ha già mostrato la sua natura classista e razzista, disciplinante e punitiva. Riportare la voce della minoranza che resiste creando spazi informali in cui esercitare un agire critico collettivo sembra allora più urgente che perdersi nel labirinto di soggetti, cifre e interessi coinvolti. Uno sguardo al progetto attuale servirà solo a conoscere meglio “il vuoto” a cui l’assemblea contro lo sgombero vuole opporsi. LA RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA Fallito anche il progetto del 2018, il Piano nazionale di ripresa e resilienza offre l’occasione ideale per riesumare l’idea del parcheggio. Il decreto legge di riferimento affida alle Città Metropolitane il compito di elaborare i Piani urbani integrati, strumenti finalizzati a “favorire una migliore inclusione sociale riducendo l’emarginazione e le situazioni di degrado sociale, promuovere la rigenerazione urbana attraverso il recupero, la ristrutturazione e la rifunzionalizzazione ecosostenibile delle strutture edilizie e delle aree pubbliche”. Così, nel marzo del 2022 in Comune si avvia l’iter per l’approvazione di undici progetti, tra cui quello approvato con la delibera del 4 dicembre. Alla demolizione della palestra, costruzione del parcheggio e di un “giardino tecnologico” è destinata una spesa di 3,9 milioni di euro. Nella relazione che accompagna la delibera si legge che la piazza “non svolge la sua funzione di luogo di aggregazione ma viene percepita come una grande area di sosta per veicoli a motore”. “L’unico luogo di aggregazione sociale – viene precisato – è rappresentato dalla palestra Lupo, che presenta gravi criticità strutturali e manutentive che ne compromettono l’uso e il godimento in totale sicurezza”. Per questo motivo, anziché recuperarla, si preferisce abbatterla. Al suo posto, recita ancora il testo, verrà creato un ambiente “piacevole”, fatto di “zone d’ombra” e “arredi urbani in grado di accogliere la collettività”. Così, la “Piazza Libera” diventerà “uno spazio urbano aperto a più funzioni, incoraggiando l’emergenza di usi informali della sfera pubblica […] che favoriscano l’interazione tra gli utenti e la nascita di nuove attività”. La relazione parla poi di un info-point/presidio culturale, una struttura semisferica che fungerà da “punto di gestione e controllo della componente impiantistica evoluta della piazza, basata sulla sostenibilità ambientale”. Esso “garantirà un controllo naturale sulla piazza […] attraverso la presenza continua degli operatori e degli addetti che gestiranno le attività racchiuse all’interno del presidio, aumentando, così, la percezione di sicurezza anche grazie alle mixité di funzioni ospitate dalla piazza”. La semisfera, poi, accoglierà “il vano ascensore che collega la piazza all’autorimessa sottostante”. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è infatti la “realizzazione di nuovi posti auto e moto a raso […] con una dimensione tale da poter ospitare circa 150 posti”. A questo punto non si capisce quale sia l’intenzione degli amministratori, si commenta in assemblea: nel passaggio appena citato si parla di posti a raso, nel titolo del progetto di parcheggio multipiano. “È probabile che alla fine faranno solo una zona destinata a dehors per i locali che ci sono attorno”, suggerisce uno degli occupanti. L’ipotesi non sembra campata in aria, perché piazza Lupo si trova in una zona di passaggio tra due quartieri cruciali per il turismo: la Civita, il quartiere del porto, già in gran parte gentrificato, perché è il punto in cui arrivano i crocieristi, a due passi dal Duomo; e San Berillo, quello che chiamano “la ferita della città”. I Piani urbani integrati prevedono anche 1,9 milioni per la “riqualificazione di piazza Teatro Massimo e aree adiacenti, fino a piazza Pietro Lupo”. La via Teatro Massimo, che connette le due piazze, è stata “ripulita” negli anni passati e oggi è sorvegliata da volanti e videocamere. L’intento dichiarato è quello di estendere questo palcoscenico della sicurezza borghese. Al di là delle contraddizioni e delle ipocrisie su cui si regge tutta l’operazione, l’assemblea degli occupanti teme che lo sgombero possa arrivare davvero, perché il finanziamento obbliga all’apertura del cantiere entro sessanta giorni dalla delibera e il completamento dei lavori entro la fine del 2026. LE AUTOGESTIONI Alla fine del 2012, mentre l’ex palestra è ancora attraversata da presenze occasionali e gli amanti del decoro pressano le istituzioni per “sottrarre la piazza al degrado”, entra in scena il Gruppo Azione Risveglio, un “movimento di cittadinanza creativa” nato con la missione di ripulire spazi comunali abbandonati per restituirli all’amministrazione stessa, una volta ultimato il recupero. Questo gruppo ottiene le chiavi della Lupo dall’amministrazione Stancanelli (2008-2013) e, concluso il suo intervento di pulizia, decide però di mantenerle, per “restituire lo spazio alla città” fino alla sua eventuale demolizione. Le dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano alla stampa locale parlano chiaro: “non è un’occupazione”, ma una “riappropriazione 2.0” che incentiverà progetti di “innovazione sociale e imprenditoria culturale”. L’intento è quello di trasformare la Lupo in una Palestra delle Arti e delle Culture, un bene comune istituzionalmente riconosciuto e regolamentato. Numerose associazioni aderiscono all’iniziativa, ma il loro tentativo di istituzionalizzazione rimarrà sospeso, e all’interno di quella parentesi di incertezza si farà spazio un mutamento graduale, che riguarderà tanto il gruppo di autogestione quanto le attività offerte dallo spazio. Alcuni occupanti attuali ne ricordano l’evoluzione. “La prima parte di vita della Lupo è stata dedicata principalmente al riutilizzo creativo, soprattutto finalizzato alla creazione di opere d’arte; si facevano meno serate musicali ma più workshop e mostre. Per un periodo è stato occupata anche ad uso abitativo, con tutto quello che ne consegue. Con l’arrivo del Covid si è sospeso tutto, ma subito dopo il posto è stato riattivato. Diverse crew musicali che bazzicavano la Lupo da tempo si sono ritrovate qui. Catania Hardcore, per esempio, è una crew punk hard-core che esiste più o meno dal 2000 e che ha sempre organizzato concerti in posti occupati. Oppure Tifone Crew, che organizza concerti metal, o i rapper della scena hip hop locale, che hanno deciso di fondare una propria etichetta musicale, la Tomato Sauce. Insieme abbiamo portato avanti le iniziative culturali preesistenti e abbiamo ampliato le proposte cercando di dialogare con le persone che c’erano prima, e questo lavoro ha arricchito un po’ tutti. Da quello che dico sembra una situazione legata solo alla scena musicale, ma in realtà è inserita in un movimento di gente che frequenta e autogestisce i posti occupati. Oltre ai concerti facciamo presentazioni di libri, laboratori e mostre con artisti locali e internazionali; ma ci occupiamo anche di osservare la gestione del territorio, la turistificazione, la riqualificazione. C’è stata una fase a Catania in cui fare politica era legato a un collettivo specifico con la sua identità, e quindi se tu non avevi un’identità chiara o eri una collettività magari più ampia ed eterogenea, quello che facevi non era considerata politica. Questo aspetto per noi è importante: tuttora non utilizziamo definizioni e non facciamo riferimento a un’area ideologica precisa, anche perché molti di noi hanno alle spalle esperienze politiche diverse tra loro”. Insieme agli eventi musicali e artistici, la Lupo propone anche un calendario di iniziative sportive. In questo momento sono attivi un corso di fitness e uno di autodifesa personale. C’è anche una squadra di ping pong che si allena da cinque anni. Si chiama The Wolf. “Rispetto a quando siamo arrivati – continuano gli occupanti –, la Lupo è cambiata radicalmente. L’abbiamo sempre considerato un posto libero da certe logiche, ma non era così vivo cinque anni fa. Abbiamo iniziato a fare ping pong principalmente per creare aggregazione, socialità; siamo partiti in due e oggi siamo almeno una ventina; qualcuno viene più assiduamente alle assemblee, altri, tramite la Lupo sono riusciti ad avviare anche altre attività, musicali, ecc. Noi siamo un gruppo totalmente informale, c’è chi pratica lo sport anche a livello agonistico, però non abbiamo mai creato un’associazione; non partecipiamo a tornei ufficiali però siamo riusciti fare cose importanti rimanendo sempre qui”. Mutando la composizione del gruppo che si prende cura dello spazio, anche il modo di organizzare le attività è cambiato negli ultimi anni. “L’assemblea della Lupo fino a qualche tempo fa era solo una, era aperta a chiunque e si discuteva tutti e tutto insieme. Siamo andati avanti così per tre anni, poi ci siamo resi conto che era un po’ limitante e abbiamo deciso di riorganizzarci, non chiudendo l’assemblea, ma facendone due: una con chi vuole proporre qualcosa per la prima volta e un’altra tra chi si occupa della gestione dello spazio, dove però è invitato a partecipare chiunque sia interessato. Il nostro obiettivo è che ogni persona che si avvicina diventi quanto più autonoma possibile, in modo che tutto sia veramente orizzontale. Visto che questo è rimasto l’unico posto che ti permette di organizzare delle cose, mezza città si è riversata sul nostro calendario. Quando riceviamo le proposte cerchiamo di comprendere di cosa si stratta, chi abbiamo di fronte, poi se ne parla tutti insieme e si sceglie cosa fare. Con qualcuno ci si capisce di più, con altri meno, ma se siamo qui a parlarne è perché sta funzionando. Con l’assemblea di gestione invece l’obiettivo è anche di costruire una linea politica, non solo relativa alla Lupo ma più in generale alla città e al contesto nazionale, come sta succedendo con la lotta contro il decreto sicurezza”. Le persone più giovani e arrivate da meno tempo raccontano come si sono inserite nel gruppo che oggi mantiene il posto attivo, e cosa significa per loro farne parte. “La prima volta sono entrata alla Lupo per la Tattoo Circus, poi ho cominciato a frequentare il laboratorio ‘L’arte è pericolosa’, nato in un momento in cui sui giornali si dava del pericoloso a qualsiasi cosa. Poi c’è lo spazio per serigrafare – posso farlo anche a casa, ma qui si è creata una situazione più interessante. Il laboratorio di serigrafia esisteva già, ma per un periodo era rimasto inattivo; lo abbiamo ripreso e stampiamo parecchio. Le varie crew che organizzano concerti fanno qui le loro magliette, hanno imparato a serigrafare e lo fanno insieme a noi, quindi tutto quello che succede alla fine si contamina e ti permette di ragionare sulle cose in modo più complessivo. “Man mano che scoprivo la Lupo, anche grazie agli striscioni che vedevo durante i concerti o altri eventi, mi rendevo conto che quello che offriva non era un semplice ‘servizio’ ma qualcosa che ti permette di evadere dalla gabbia del mondo. Se la frequenti un po’, scopri che questa cosa di autogestirsi è possibile, e questo cambia la tua prospettiva, sia rispetto allo spazio sia rispetto al modo in cui puoi fare le cose”. Se si scorre il calendario della Lupo, nel corso degli ultimi anni si nota un interesse crescente verso questioni più esplicitamente politiche. “Quando abbiamo aperto alla città è nato un dibattito che ha assunto una prospettiva prettamente politica per necessità. Penso alla minaccia di sgombero di due anni fa: qualcuno veniva e chiedeva conto del perché non avessimo intenzione di dialogare con le istituzioni, e allora fu necessario prendere una posizione precisa, consapevole di quali sono i pro e i contro di un percorso di interlocuzione con il Comune. Il politicizzarsi dello spazio è avvenuto anche perché diversi gruppi hanno cominciato a frequentare la Lupo – il collettivo del Parco Falcone, lo studentato, i collettivi artistici che in città non hanno uno spazio – e fatalmente sono stati coinvolti nella gestione, hanno dovuto fare delle scelte, prendere delle decisioni. L’assemblea contro lo sgombero è cresciuta insieme a un’altra a livello cittadino, anch’essa dettata da un’emergenza: il decreto 1660, contestato in tutta Italia. L’ultimo corteo contro decreto, sgomberi e guerre del 21 dicembre è stato vivace, e per quanto poco numeroso ha portato in piazza realtà che solitamente camminano separate. La consapevolezza che non esiste alcuna garanzia di successo non sta impedendo agli abitanti della Lupo di offrire una base fisica e un contributo discorsivo a questo tentativo di convergenza”. Il 4 febbraio 2025 segna il termine entro il quale ci si aspetta lo sgombero. Nel frattempo la Lupo sta continuando a proporre momenti di svago, impegno e respiro a chi rifiuta la bolla del consumo cittadino e l’inganno delle politiche culturali e sociali volte al profitto. Un nuovo corteo è previsto per il 21 gennaio. “Non si sgombera un’idea”, dice una frase scritta sulle pareti dello spazio, quella che forse più di tutte oggi suona come un avvertimento e un auspicio per il futuro. (alessandra ferlito)
January 17, 2025 / NapoliMONiTOR
I buoni all’attacco
(disegno di enrico pantani) È in libreria a Napoli, Roma, Bologna, Milano e Torino (quitutti i punti di distribuzione) il numero 13 de Lo stato delle città. A seguire pubblichiamo l’articolo I buoni all’attacco, di Flavia Tumminello. La linea retta che descrive corso Giulio Cesare, a Torino, si estende a perdita d’occhio inseguendo i binari del tram e lo scorrere incessante delle macchine. Dai palazzi sporgono insegne in arabo, cinese, italiano. Narrano un mondo in cui il ritmo delle faccende quotidiane risente di influssi provenienti da paesi lontani: minimarket, telefonia, agenzia viaggi, macelleria. Il televisore acceso in un bar riversa sulla strada i suoni di una partita di calcio. A poca distanza, sulle serrande chiuse al piano terra di un palazzo, al numero 34, è possibile leggere: “Fuori i buoni dai quartieri”, “Per ogni sgombero un bene comune”. Si sussurra che in passato il palazzo, oggi vuoto, avesse offerto riparo a persone in cerca di un tetto finché una mattina è giunta la polizia a sgomberarli. Risalendo la linea del corso, un altro edificio, adesso protetto da telecamere e da luci sempre accese, un tempo ospitava un’occupazione. L’arrivo delle camionette ha lasciato dietro di sé il deserto e la reclame di appartamenti di lusso in un quartiere riqualificato. Ben diversa è la storia raccontata dai graffiti di corso Giulio Cesare 34, una storia che parla di innovazione sociale, cittadinanza attiva e filantropia. La fondazione di comunità Porta Palazzo, un ente nato sotto l’egida di Compagnia di San Paolo e attivo nei quartieri di Aurora e Porta Palazzo, ha recentemente acquistato l’edificio per adibirlo a primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il principio alla base del CLT è la separazione tra la proprietà dell’immobile da quella del suolo. Questa separazione permette di ridurre il costo dei singoli appartamenti, i quali sono venduti a un prezzo calmierato a famiglie che altrimenti faticherebbero ad accedere a un mutuo, mentre la proprietà del terreno rimane, anche in caso di rivendita futura, nelle mani del trust. Si tratta di un modello che trae la propria sostenibilità economica dalla premessa che l’estrazione di plusvalore legata alla costante crescita dei valori immobiliari verrà distribuita equamente tra nuovi e vecchi acquirenti, investitori nel progetto e cittadini che fruiscono dei benefici portati dalla rige- nerazione urbana, tra cui l’apertura al pubblico degli spazi comuni dell’edificio.  La fondazione sostiene di avere come obiettivo principale il contrasto alla gentrificazione del quartiere: alla proprietà privata oppone la proprietà “collettiva”, alla speculazione immobiliare una speculazione “dolce”, appetibile per una borghesia progressista in cerca di profitti etici.  I sostenitori e i fondatori del CLT si definiscono “innovatori sociali”, appellativo che fonde una retorica pionieristica e rampante con suggestioni che rievocano le tradizioni politiche di auto-organizzazione dal basso. Nella realtà essi non solo ricevono ingenti finanziamenti da Compagnia di San Paolo, ma godono anche del sostegno di tutta una classe dirigente e politica che vede nel CLT la prefigurazione di un modello di welfare “innovativo” grazie a cui sopperire al definanziamento delle politiche abitative e sociali pubbliche. La fondazione si è ritrovata al centro di un vero e proprio think tank che si è sostanziato in un ciclo di incontri cui hanno preso parte diversi esponenti della giunta comunale, tra cui l’assessore al welfare Rosatelli, del partito Sinistra Ecologista, che ha tratteggiato il welfare abitativo del futuro come una costellazione di part- nership pubblico-private che coinvolga il terzo settore e il variegato mondo della “cittadinanza attiva”, nonché gli stessi beneficiari delle politiche. In questo solco si colloca l’esperienza di Homes4All, progetto di finanza a impatto sociale che coinvolge un’ampia rete di società private con a capofila il comune di Torino. La start up, fondata nel 2019, si propone di ridurre l’emergenza abitativa attraverso l’acquisto o la gestione da privati di immobili che verranno poi dati in locazione temporanea a un canone “sostenibile” a famiglie selezionate dalle graduatorie dell’agenzia comunale per la locazione. Palazzi fatiscenti in quartieri dai valori immobiliari bassi caratterizzati dalla presenza di immigrati e di altri marginali si trasformano così in asset vantaggiosi non solo per gli investitori, ma anche per la pubblica amministrazione. H4A, infatti, promette un risparmio per le casse comunali di circa 450 mila euro rispetto ai costi legati alla messa a disposizione di strutture di emergenza abitativa. La società, nata a Torino, è già approdata a Genova e in Lombardia e punta a estendersi ulteriormente; ha acquisito 69 immobili e ne gestisce 35, per un totale di 5,2 milioni di capitali raccolti da investitori pubblici e privati. Dati difficilmente compatibili con l’idea di una piccola proprietà diffusa contro la grande speculazione immobiliare, ma coerenti con un modello finanziario che individua nel profitto privato l’impulso necessario al sostentamento del welfare. Secondo Matteo Robiglio, architetto e docente del Politecnico, tra i fondatori di H4A, le politiche sociali basate sull’erogazione di finanziamenti diretti a fondo perduto sarebbero economicamente insostenibili. Il settore pubblico dovrebbe convogliare i propri fondi sulle compartecipazioni con attori privati e creare una regolamentazione (o derego- lamentazione) che favorisca le esperienze innovative. H4A nasce dalla fusione di Brainscapital, società di consulenza specializzata “nello sviluppo di start up” e Homers, che si occupa del recupero di immobili vuoti per la realizzazione di cohousing. Nel 2018 Brainscapital ha fatto parte del “raggruppamento tecnico” che ha supportato la città di Torino nel “Progetto speciale campi nomadi”, culminato nel 2020 con lo sgombero del campo rom e delle baraccopoli di via Germagnano, all’estrema periferia. Evidentemente, esistono ancora poveri che non generano né valore economico né valore sociale misurabili, e che continueranno a esse- re espulsi e allontanati – la storia della loro marginalità rimossa dal discorso pubblico. Tutta questa violenza sarebbe forse meno accettabile se non fosse per l’incessante pantomima dei “buoni”, che sotto la maschera di un capitalismo dal volto umano nascondono la loro stessa natura di classi dirigenti neoliberali; possono assumere le sembianze della filantropia, dei partiti di sinistra, dell’associazionismo, della finanza etica, ma sanno anche mimare pratiche e linguaggi dei movimenti sociali. È il caso della proposta di delibera di iniziativa popolare “Vuoti a rendere” che chiede vengano messe a disposizione della collettività tutte le case sfitte, di proprietà pubblica e privata, nella città di Torino. Con “Vuoti a rendere” siamo tutti invitati ad assumere la prospettiva degli innovatori, immaginandoci come questo patrimonio abitativo possa essere riutilizzato, magari in vista di future speculazioni “etiche”. Allo stesso tempo questa possibilità viene confinata a una partecipazione istituzionalizzata che non considera le esperienze e i bisogni delle persone ai margini, le quali rimangono sullo sfondo come “beneficiari” o come vittime da proteggere fintantoché non rivendicano i propri diritti, per esempio occupando una casa. L’ordine del discorso a partire dal quale si costruisce il consenso a queste operazioni ha le sue fondamenta in un universo simbolico dove gli opposti convivono senza alcuna contraddizione: qui la gentrificazione viene contrastata dal grande capitale finanziario, l’auto-organizzazione dipende dalle elargizioni di fondazioni bancarie, chi sgombera i poveri si batte anche per il “diritto alla casa” e il profitto privato diventa un mezzo per raggiungere il benessere collettivo. In un clima di crescente sfiducia legato alla repressione delle lotte sociali e dei gruppi marginalizzati diventa allora sempre più necessario chiederci che cosa vogliamo, se l’innovazione o il conflitto, se identificarci con i “buoni” o stare al fianco degli ultimi. (flavia tumminello)
January 14, 2025 / NapoliMONiTOR
La Milano di Ramy e quella delle zone rosse
(disegno di cyop&kaf) Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto. Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25 mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi. Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares, inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato. L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità, se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via Quaranta, se e altri se. Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto. Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona, San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio, dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali, palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio? Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa, diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse, l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi. I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per questi giovani? Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera, prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano, non è considerato benvenuto. E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri. Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente. Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945, quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti dall’alto. (rajaa ibnou)
January 13, 2025 / NapoliMONiTOR
Decoro e recinzioni. Il declino degli spazi pubblici a Trieste
(disegno di davide nespolino) “PalazzoKalister: straordinaria manutenzione e restauro per la conservazione dei caratteri architettonici e tipologici con cambio di destinazione da residenziale a turistico-ricettiva”. Questa chiara dichiarazione di intenti è scritta nel cartello di descrizione dei lavori su uno dei palazzi più importanti di piazza Libertà, a Trieste. Fu costruito in stile eclettico alla fine dell’Ottocento poco dopo la vicina stazione ferroviaria. Dopo esser stato abbandonato per anni, palazzo Kalister si prepara così a diventare un albergo di grandi dimensioni. Il cartello che annuncia l’operazione si trova nei pressi di un’alta gru che di notte viene illuminata con due strisce di luci rosse verticali per segnalarne la presenza. Oltre a essere la piazza della stazione centrale di Trieste piazza Libertà è anche molto altro. È lì che tutti i giorni, da anni, i volontari dell’associazione Linea d’Ombra e di altre organizzazioni accolgono chi arriva dalla rotta balcanica, oltre a chi vive a Trieste da più tempo ma si trova ancora in condizioni molto precarie e disagiate. In questo periodo basta passare un po’ di tempo in piazza dopo le 19 e ci si accorge di quanti cambiamenti avvengano nell’arco di un paio d’ore, a seconda del cibo, delle bevande e/o dei vestiti che arrivano e che vengono distribuiti. Le persone, provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, si dispongono in file al momento delle distribuzioni, altrimenti si spostano nella parte centrale della piazza. Chi vuole raggiungere o lasciare la stazione preferisce fare un giro più largo, anche a costo di allungare un po’. Fino allo scorso 21 giugno buona parte delle persone migranti che frequentavano la piazza abitavano nel Silos, un grande edificio semi-diroccato che costeggia i binari della stazione dei treni. Quel giorno le forze di polizia, agendo in seguito a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, preoccupato per le condizioni sanitarie del luogo, ma anche temendo un danno d’immagine per la città, sgomberarono l’edificio trasferendo altrove le persone presenti all’interno e altre che si trovavano nei paraggi e preferivano non rimanere a Trieste. Ora il Silos è costeggiato da un parcheggio privato, mentre l’interno è stato bonificato. Coop 3.0, proprietaria dell’immobile, dovrebbe essere ora sul punto di vendere l’intera struttura a un gruppo austriaco. L’atto non ha cambiato la postura delle amministrazioni pubbliche rispetto all’accoglienza delle persone in movimento; al contrario di quanto era stato promesso, nel frattempo non sono stati resi disponibili più posti in accoglienza e soprattutto non è stato attivato quel servizio a bassa soglia, cioè accessibile a tutti senza formalità, che le associazioni reclamano da tempo per rispondere alle esigenze delle molte persone che arrivano a Trieste e si fermano poche ore prima di riprendere il viaggio. La conseguenza è stata che per tutta l’estate chi arrivava in città trovava rifugio sotto una tettoia all’ingresso del Porto Vecchio, un’area costituita da magazzini portuali abbandonati costruiti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Lì le persone si sono accampate con sacchi a pelo e altri materiali, proprio come avveniva nel Silos, senza nemmeno la protezione, comunque parziale, delle arcate in muratura. L’arrivo dell’autunno non ha cambiato le cose e lo scorso 20 novembre le istituzioni hanno deciso di intervenire sgomberando la tettoia con modalità simili a quelle adottate a giugno per il Silos. Le forze dell’ordine sono arrivate prima delle otto e intorno a mezzogiorno la tettoia era occupata solo dagli impiegati di un’azienda di pulizie che stavano ultimando il lavoro coperti da spesse tute bianche. Un comunicato congiunto delle associazioni attive nell’accoglienza delle persone in movimento a Trieste (Consorzio italiano di solidarietà, Linea d’Ombra, Diaconia valdese e No Name Kitchen), pur accogliendo favorevolmente il trasferimento e auspicando che ciò avvenga con una maggior frequenza, ha criticato l’intervento sostenendo che “nonostante venga presentata come un’azione risolutiva ed efficiente, l’operazione odierna rappresenta l’ennesima dimostrazione di una gestione straordinariamente carente. Se infatti i richiedenti asilo avessero avuto accesso, come previsto dalla legge, a un sistema di prima accoglienza adeguato al loro arrivo, con una successiva e rapida redistribuzione sul territorio nazionale, l’indecoroso abbandono nell’area del Porto Vecchio non si sarebbe verificato. La scenografica e onerosa operazione di oggi sarebbe stata così del tutto superflua”. In effetti, per chi segue da almeno alcuni mesi la questione, il copione sembra ripetersi sempre in modo simile senza che poi da parte delle istituzioni ci sia la volontà di trovare delle soluzioni di lungo periodo. Nel frattempo, la città sta cambiando. Al centro di piazza Libertà la statua della principessa Sissi è circondata da circa un anno da alcune transenne per impedire che il retro venisse usato come bagno a cielo aperto. Ora il Comune le sta sostituendo con delle barriere permanenti, sottraendo alla fruizione una parte non piccola della piazza. Da mesi è chiuso il sottopassaggio tra piazza della Libertà e la stazione che in precedenza era stato usato come punto di distribuzione e assistenza durante i giorni di maltempo. Qualche settimana fa il quotidiano locale Il Piccolo ha diffuso la notizia che il Comune starebbe valutando la possibilità di attingere a dei fondi regionali per recintare anche il perimetro più esterno della piazza. Visto che negli anni corsi la stessa cosa è stata fatta anche in un’altra piazza importante (piazza Hortis, sempre in centro) non sembra così impensabile che la stessa scelta venga fatta per una piazza in cui si è creato uno dei pochi spazi di autogestione in città. Inoltre, piazza Hortis, uno spazio alberato su cui affacciano lo storico istituto nautico e la frequentata emeroteca cittadina, fa parte di una delle prime zone di Trieste ad aver cambiato faccia: in pochi anni nuovi locali alla moda hanno affiancato o preso il posto di osterie e altri negozi per i residenti. Le recinzioni comportano degli orari di apertura e di chiusura e sconvolgono le modalità di fruizione di uno spazio pubblico come una piazza. È chiaro l’intento del Comune di scoraggiare una pratica di accoglienza percepita dall’amministrazione come dissonante rispetto all’immagine di città pulita e funzionale che si vuole dare di Trieste, però qui sembra essere in gioco anche la gestione degli spazi pubblici. Poco lontano da piazza Libertà si trova largo Santos, uno spiazzo all’ingresso dell’area del Porto Vecchio su cui fino alla fine del 2022 sorgeva la sala Tripcovich, una struttura usata per concerti e altre iniziative culturali. La sala è stata demolita due anni fa e lo spiazzo che ne è risultato è stato usato in diverse occasioni da alcuni collettivi cittadini per iniziative come concerti o per la partenza o l’arrivo di cortei. In occasione delle festività natalizie del 2024 il largo è stato trasformato in un parcheggio gestito dalla Confcommercio provinciale che fornirà il servizio ancora fino al 31 gennaio. La città sta cambiando anche in modo più eclatante. Come palazzo Kalister in piazza Libertà l’enorme palazzo già delle Ferrovie dello Stato che affaccia sulla centrale piazza Vittorio Veneto sta per essere trasformato in un hotel con una piccola quota di servizi e abitazioni. Anche qui sembra tutto già visto e già sentito: gli affitti sono rincarati molto mentre diversi edifici storici diventano cantieri, in alcuni casi con lo scopo di realizzare delle residenze di lusso. La posizione della giunta comunale è chiara: porre il turismo al centro dell’economia cittadina senza tenere conto di quanto questa scelta influisca in negativo sulla qualità della vita di molti abitanti. Per anni il sindaco Dipiazza si è vantato degli ottimi risultati raggiunti da Triescte nella classifica annuale delle città con la qualità di vita più alta pubblicata dal Sole24Ore. Al di là dell’attendibilità che si vuole attribuire a questo genere di rilevazioni, sembra sempre necessario valutare da che punto di vista si guarda la città. Fino a pochi anni fa la qualità di vita a Trieste non era così determinata solo dalla capacità di spesa mentre ora, anche a causa dei tagli nei servizi pubblici, come la chiusura di due consultori su quattro nel 2024, questa sta diventando un elemento sempre più centrale. (alessandro stoppoloni)
January 8, 2025 / NapoliMONiTOR
Rewind Roma, dicembre # Diritti negati, privilegi in regalo
(disegno di peppe cerillo) Il primo dicembre la preside del Liceo Virgilio organizza una manifestazione contro l’occupazione della scuola (sic!) in piazza Santi Apostoli, convocando insegnanti, studenti e genitori contrari. Il due il tribunale rinvia di un’altra settimana l’udienza per Tiziano L., dopo due mesi di arresti domiciliari per presunta aggressione a un poliziotto che stava caricando contro la manifestazione per la Palestina del 5 ottobre (nonostante i video dimostrino chiaramente che l’accusa è falsa). Due ladri entrano nella villa di Berlusconi sull’Appia antica. Il tre il Movimento per l’abitare manifesta per il blocco degli sfratti sotto la sede di Confedilizia, dietro via Condotti. Nel pomeriggio, a piazza Vittorio, si inaugura la trasformazione degli storici Magazzini Allo Statuto (MAS) in un Museo della Moda. Il cinque maxi operazione di polizia al Quarticciolo, dove a ottobre c’era stata una manifestazione “contro le occupazioni”. Polizia, carabinieri, vigili, uniti per sgomberare le case popolari occupate. Intanto, alla celebrazione per i centoventi anni della sinagoga, il rabbino capo di Roma insiste sull’antisemitismo “in crescita dal 7 ottobre”. Il sei l’Atac inaugura una nuova pensilina “smart” per l’attesa degli autobus: il nome ufficiale è “eterna”, sembra uno scherzo. Condannato a sei anni di carcere l’imprenditore Ricucci per una truffa immobiliare. Sempre il sei, conferenza nazionale autogestita per la salute mentale a San Lorenzo. Il sette un uomo viene ucciso a coltellate durante una lite nell’androne di un palazzo sul litorale, a Nettuno. Manifestazione studentesca verso il Campidoglio contro il Giubileo, contro il caro affitti e contro il sindaco: “Nessuna indulgenza per Gualtieri”, è lo slogan. L’otto a piazza di Spagna un’attivista animalista spagnola si avventa sul Papa con un cartello “Basta benedire le corride”. Il nove a Ostia le onde raggiungono i due metri di altezza, infliggendo il colpo di grazia allo storico stabilimento Kursaal, già danneggiato. Il dieci nuova udienza in tribunale e presidio per Tiziano L., finalmente libero. Arrivano a Roma il re e la regina di Spagna, che dopo una grande festa all’Accademia sul Gianicolo, l’undici partecipano a un’offerta propiziatoria all’Altare della Patria a piazza Venezia. Durante il festeggiamento con Mattarella al Quirinale, la regina rimarrà senza corona per non umiliare il suo omologo repubblicano. Negli stessi giorni gira per Roma anche Thom Yorke, che ha comprato un attico in Campo Marzio; il dodici arriva il presidente argentino Milei, a cui viene regalata la cittadinanza, negata a migliaia di persone nate in Italia. Il tredici sciopero di USB e corteo studentesco da piazzale Aldo Moro; sciopera anche la Rete Università e Ricerca per la Palestina. Sabato quattordici c’è un’enorme manifestazione nazionale contro il DDL 1660: si muovono cento pullman da tutta Italia, il corteo attraversa Villa Borghese, riesce a entrare in centro e riempie tutta piazza del Popolo. Per la questura c’erano solo settemila persone: ma non ci credono neanche loro, visto che la capienza della piazza è di sessantamila. La notte un ragazzo che probabilmente usciva dal lavoro viene investito e lasciato agonizzante sulla Tiburtina, è il cinquantesimo pedone ucciso con una macchina nel 2024. Il sedici l’Università Roma Tre conferisce una laurea honoris causa a una magistrata della Corte Suprema israeliana, confermandosi come l’università della capitale più legata al sionismo e ai suoi tentativi di riscrivere il diritto internazionale. Intanto, dibattiti sulla presenza del trapper Tony F. al concerto di Capodanno. Il diciassette il Prefetto annuncia settecento nuovi agenti per Roma durante il Giubileo. Gli artificieri recuperano una bomba inesplosa a San Lorenzo, un residuo dei bombardamenti statunitensi del 1943, vicino alla sede dei Cavalieri di Colombo. Il diciotto una settantina di manifestanti entrano nella sede romana di Leonardo S.p.A. sulla Tiburtina, in protesta contro l’attacco alla rivoluzione curda in Rojava e al popolo palestinese a Gaza, con armi, elicotteri e dispositivi prodotti anche da Leonardo. Il diciannove si celebra l’ennesimo processo a Stella B. per le manifestazioni studentesche contro la Palestina: la sentenza arriverà a gennaio. Sabato ventuno ancora manifestazione per la Palestina a piazza Vittorio; e il ventidue diverse attiviste e attivisti srotolano una grande bandiera palestinese a piazza del Pantheon. Il ventitre crolla un albero in un parco sulla Tiburtina, uccidendo una donna davanti ai suoi tre figli; nei giorni precedenti c’erano già stati morti sulle strade (a Velletri, a San Basilio) e due pescatori erano annegati davanti a Focene. Il ventiquattro sera arriva l’agognata apertura dell’Anno Santo e della Porta Santa: migliaia di persone si affollano a piazza San Pietro e all’inizio di via della Conciliazione, senza incidenti notevoli, anche grazie alla presenza massiccia di forze dell’ordine dello stato italiano; fermato un gruppo di sette persone “di nazionalità straniera” secondo i giornali, che portavano uno striscione con scritto “Cancellate il debito”. Eppure cancellare i debiti era proprio il senso del Giubileo. Durante la notte, una donna senza casa muore di freddo, proprio lì su via della Conciliazione. Anche il giorno di Natale, il venticinque, muore di freddo un uomo di cinquanta anni che viveva in una tenda a Ostia. Il ventisei il papa apre simbolicamente la porta della cappella del carcere di Rebibbia, che definisce “una cattedrale del dolore e della speranza”. La speranza, filo conduttore di questo Giubileo, la ritroviamo anche nel motto della polizia penitenziaria: diffondere speranza è il nostro dovere. Il ventisette un altro morto in strada, a San Basilio, un altro ancora il ventinove alla Borghesiana, mentre si apre la seconda porta santa, quella della basilica di San Giovanni, ma questa volta il Papa non è presente. Il trenta mattina violento sgombero al ForteLaurentino: poliziotti antisommossa caricano sulla folla che protesta, due feriti, due fermati processati per direttissima (il trentuno presidio davanti al tribunale in solidarietà con i processati). L’anno finisce con la manifestazione intorno al carcere di Rebibbia; perché mentre fuori si celebra, si protesta, si discute, si posta, si twitta, si sparla, si scrive, si scrocca, si specula, si sfratta, si perde, si guadagna, si ride e si scherza, più di sessantamila persone sono tagliate fuori da tutto questo, chi per qualche tempo, chi per anni, chi per sempre. Per chi è rinchiuso in carcere, per chi non ha neanche la libertà di scegliere dove stare, non bastano la speranza nell’anno nuovo, nel Giubileo, nel futuro: ci vuole qualcosa di molto diverso. E finché non si liberano loro, non ci liberiamo neanche noi. (stefano portelli)
January 2, 2025 / NapoliMONiTOR
C’è un clima di merda. Cronaca di un’azione di Extinction Rebellion a Roma
(archivio disegni napolimonitor) Sono arrivato a Roma il 16 novembre per partecipare a un’assemblea nazionale alla Sapienza, indetta per rispondere all’eventuale approvazione del decreto sicurezza 1660. In un’aula magna stracolma, l’assemblea si è svolta attraverso brevi interventi in cui esponenti di varie realtà politiche, associative, sindacali e di movimento, hanno portato il proprio punto di vista sulla questione del decreto. A essere sottolineata è stata soprattutto la necessità di organizzarsi e scendere in piazza coesi, poiché l’attacco del governo potrebbe cambiare la storia giuridica e sociale del nostro paese. La criminalizzazione del dissenso che viene proposta, ha affermato un professore dell’Università romana, è forse peggiore delle misure repressive degli anni Settanta, quando c’era la lotta armata. Ora a essere puniti e considerati criminali e terroristi sono gli attivisti per il clima, le persone migranti, chi rivendica il diritto alla casa, chi lotta per i diritti sul lavoro, chi si oppone a trattamenti degradanti nelle carceri. E a essere tutelate e difese sono le forze dell’ordine. C’è evidentemente un cortocircuito tra ciò che il governo Meloni intende per sicurezza, e quello che il concetto di sicurezza significa in una democrazia. L’assemblea è stata seguita nel pomeriggio dal Climate Pride, una parata colorata e pacifica che ha percorso il centro di Roma in nome della giustizia climatica, per fare pressione nei confronti di chi nelle stesse ore si trovava a Baku, in Azerbaijan, dove si è svolta la COP29. Qualche giorno dopo, all’interno di questo fermento collettivo, è successo qualcosa di diverso al centro della Capitale. Questo è il mio racconto “dal di dentro” con Extinction Rebellion Italia. *     *    *  La sera del 21 novembre partecipo a un briefing per l’azione del giorno seguente. Durante quattro ore di riunione ci vengono spiegati i possibili scenari, i livelli di rischio, il funzionamento della comunicazione, e ci viene impartito un breve addestramento sulle azioni di disobbedienza civile non violenta. Il numero di informazioni è copioso. La preparazione dettagliata. Il giorno dopo arrivo a Termini leggermente in ritardo e incontro i miei buddies per la giornata. Siamo nel gruppo benessere, che durante le azioni si assicura che tutte stiano bene, e provvede con cibo, coperte e acqua ai bisogni primari. Nell’attesa di un messaggio dalla nostra referente ci mettiamo a fare colazione in un bar lì vicino. Sono le 9:30 circa. Con una mezzora di attesa in più del previsto riceviamo la comunicazione che gli altri gruppi stanno procedendo con il piano A. Dopo il segnale di conferma ci dirigiamo nel luogo dell’azione, che si rivela essere piazza del Viminale. Guidate da una crescente puzza di sterco arriviamo in piazza. Il letame portato dal camioncino delle attiviste – circa sei quintali – è già stato scaricato. Di fronte alle tende aperte per occupare la piazza, si schierano i poliziotti a presidio dell’ingresso del palazzo. Agenti in borghese iniziano a rimuovere le attiviste dalle tende, la situazione diventa tesa e concitata. Mentre trascinano fuori le persone sono ripresi da molte telecamere e anche per questo sembrano agire con cautela, anche se c’è chi ha preso qualche calcio e qualche botta in testa. La presenza della polizia sembra aumentare con il passare dei minuti. Quando mi volto, dalla schiera di poliziotti dietro di me sento le parole: “Da qui non esce nessuno”. Dopo poco, la polizia decide di sgomberare l’intera piazza. Le attiviste intonano cori, suonano tamburi e fanno discorsi ad alta voce, raccontando perché sono lì. Mi viene da chiedermi per chi, visto che non ci sono rappresentati politici e le persone comuni che passano, anche volendo assistere non possono perché la polizia ha “chiuso” la piazza. Nemmeno i giornalisti posso entrare, ma ci sono i social. I due police contact discutono animatamente con gli agenti della Digos per arrivare a un accordo e permettere a chi vuole di lasciare la piazza e non finire in questura. È una trattativa laboriosa, perché la polizia sembra non voler far uscire nessuno, senza offrire ragioni. Ma si arriva a un compromesso. Tutte identificate, fotografate, e poi fuori. Le persone che decidono di rimanere dentro la piazza vengono prese una a una e portate come “sacchi di patate” dentro due autobus della polizia, che ricordano quelli delle gite scolastiche. Un poliziotto ci dice che non andranno in questura, ma all’ufficio immigrazione, perché c’è più spazio, a un’ora dal centro, lontano dai palazzi della politica. Alcune di noi intanto si dirigono al bar mentre fuori inizia a piovere forte. Quando spiove, passeggiamo tra i Fori imperiali e il Colosseo per prendere la metro verso l’ufficio immigrazione. Il contrasto tra la bellezza del centro di Roma e il luogo che ci attende è straniante. Saliamo sulla metro B, scendiamo a Rebibbia. Dopo la metro, altri venti minuti di autobus lungo una strada piena di rifiuti per arrivare in una desolante zona industriale: Tor Sapienza. Fuori dall’uscita ma dentro i cancelli, ci sono delle panchine sulle quali ci sediamo. Vengono posizionate cassette con il pranzo che era stato preparato per la giornata e una cassa di arance. Poco dopo escono due militari di turno. Uno di loro, un giovane, ha un atteggiamento amichevole. Chiede cosa abbiamo combinato, ci dice che capisce ma non è d’accordo con gli eccessi e accetta di mangiare un’arancia che gli viene offerta. Poco dopo esce una donna che lavora in questa sede della questura e ci invita ad allontanarci, dicendo che disturbiamo e che non è mica un luogo pubblico (ah no?). Ci mettiamo all’ingresso della strada, di fianco all’entrata. Alcune persone hanno tamburi e suonano, altre danzano. Io chiacchiero con due attivisti, uno di Venezia l’altro emiliano. Sono colpito nel notare il forte senso di comunità che caratterizza questo gruppo di XR, con persone da parti diverse d’Italia. Percepisco una forte condivisione di valori, linguaggi, pratiche. A questo proposito N. mi dice che lui non capisce chi non va a votare, ma che allo stesso tempo il voto rappresenta una parte minoritaria della vita politica in una democrazia, che è fatta invece di queste cose. M. parla di suoi trascorsi in altri cortei, in cui la polizia ha un atteggiamento più violento rispetto a quello che vediamo con le azioni di XR. È un tema che ritorna in varie conversazioni. La polizia li vede come nemici? Io credo che li vedano più come un fastidio, come un problema da risolvere. Parlando con loro mi rendo sempre più conto di quanto il movimento sia fatto di persone “ordinarie”, di varie generazioni e con diverse identità politiche. Sono persone che, stufe o disorientate dal panorama politico, hanno trovato una famiglia dentro questa realtà; ma sono anche persone che lavorano, che pagano le multe, che magari fanno parte di altre realtà sociali e politiche. È necessario decostruire la retorica mediatica dei “ragazzini” che non sanno cosa vuol dire vivere in società, o quella ancora peggiore dei “terroristi”. Le ore passano, il freddo aumenta, da dentro nessuna notizia. Non si può comunicare con le persone detenute né con chi le detiene. Sono più di cinquanta, il numero esatto non si sa. Chiediamo che gli venga dato il cibo che abbiamo preparato, ma non è possibile far entrare nulla. Ci viene detto di aspettare e che le persone non sono né in stato di arresto né di fermo, che si stanno svolgendo “normali” procedure identificative, che richiedono tempo. Intorno alle dieci di sera, dopo circa nove ore, quando il timore che si dovesse passare la notte lì iniziava a farsi concreto, vengono rilasciate le attiviste in gruppi di quattro o cinque. Alcune hanno fogli di via, tutti con durate diverse e completamente arbitrarie. Saranno trentadue in totale, per molti con l’obbligo di lasciare Roma entro due ore. Altre, tutte le restanti, vengono rilasciate senza nulla in mano, come se fosse normale trattenere le persone in questura. Alcune attiviste rientrano dal cancello pretendendo che gli venga rilasciata almeno una dichiarazione sul perché sono state trattenute e rilasciate. Il momento dell’uscita dalla questura è caratterizzato da emozioni contrastanti. Gli abbracci sono intensi. C’è chi ride, chi piange di gioia per rilasciare lo stress accumulato. C’è chi cerca cibo, che è pronto e caldo anche per la cena. La cucina e la logistica del movimento in queste giornate sono state formidabili. Sono arrivati pasti in qualsiasi situazione e in qualunque luogo. Alla fine il conto dei danni “legali” è impressionante. Centosei persone identificate, settantadue trattenute in questura per otto-nove ore, trentadue fogli di via, alcuni anche per persone che vivono, studiano e lavorano a Roma. Dai tre mesi ai due anni e mezzo. È finalmente il momento di tornare a Roma. Il viaggio in autobus è divertente. Il bus che porta a Rebibbia passa dopo poco, ma è la direzione sbagliata della circolare. Lo prendiamo lo stesso, ci faremo il giro dentro per riscaldarci anziché aspettare il prossimo. Quando ripassa dalla fermata più vicina all’ufficio della questura, si aggiungono quelle che aspettavano il successivo, e così un autobus solitario nella borgata sperduta si riempie improvvisamente di vita. Il giorno dopo a mezzogiorno c’è una conferenza stampa indetta in nottata da XR, dopo quanto accaduto il giorno precedente. La conferenza stampa al parco è un momento importante per XR. Oltre a raccontare cos’è successo il giorno prima, a turno alcune tra chi ha ricevuto un foglio di via si presentano e annunciano di volerlo violare pubblicamente in quanto misura illegittima. Una ragazza che lavora come ricercatrice a Venezia tiene un discorso molto chiaro ed elaborato, spiegando i motivi per cui l’azione è stata fatta e rimarcando la questione della sicurezza, al centro della retorica del governo che si accinge ad approvare il famigerato decreto 1660. Spiega che in questa situazione politica e climatica, con queste misure securitarie e questo atteggiamento della questura e delle forze dell’ordine, ci si sente tutt’altro che sicure. Alla conferenza stampa si vedono pochi giornalisti, ma è comunque un momento significativo. Un gruppo di attiviste sta decidendo di violare pubblicamente delle misure cautelari (i fogli di via) pensate per colpire la libertà di movimento di individui considerati socialmente pericolosi. Lo fanno per l’illegittimità giuridica e morale di queste misure. È un gesto forte di disobbedienza, considerando che rischiano denunce penali. Ci sono vari modi per affrontare queste misure, e una di queste è fregarsene, non rispettandole. Questo non vuol dire che sia facile. Non ci riescono tutte, alcune sono preoccupate per il loro posto di lavoro, altre non se la sentono emotivamente. Sono molteplici le facce della repressione, quella preventiva agisce in maniera subdola, fa sentire le persone insicure e impaurite, e spesso le paralizza. Ma è una giornata a suo modo splendida. Il parco è illuminato dal sole, e poco dopo il gruppo cucina dimostra ancora una volta costanza e dedizione, arrivando con un pranzo pronto per essere consumato, anche camminando. È ora di unirci al corteo nazionale di Non Una di Meno nella giornata contro la violenza sulle donne, di marciare e occupare lo spazio pubblico per un’altra giusta causa, nonostante tutto. (francesco dal cerro)
December 23, 2024 / NapoliMONiTOR
Tornare a casa (per una sera). Il trauma dello sradicamento nella diaspora di Scampia
(disegno di giulia landonio) A giugno di oltre quindici anni fa, nel 2009, abbiamo occupato una casa abbandonata con un gruppo di bambine e bambini in parte abitanti del posto, in parte di altre zone del quartiere. Con loro abbiamo dipinto tutto quello che ci sembrava che non potesse proprio mancare in una casa, un armadio gigante, docce, rubinetti, lavatrici, librerie, un pesce rosso nella sua classica boccia di vetro, uno stereo con le cassette che oggi non sapremmo come usare, una televisione, una chitarra, un vaso con i fiori, un tavolo con acqua e bicchieri, specchi, un lavabo sulla terrazza super panoramica per lavare e mettere a scolare i piatti. Poi abbiamo fatto un grande gioco dei mimi, in cui loro hanno liberamente preso possesso dello spazio usando tutto quello che volevano, come volevano. Complice anche il gran caldo, le docce, le lavate di mani faccia piatti, si sono sprecate, ma non è mancata la lettura di un buon libro seduti in poltrona, una partita piuttosto sofferta del Napoli di Lavezzi Cavani e Callejon, balli e saltelli vari, inclusa una danza al ritmo del cestello della lavatrice, e non si sono dimenticati naturalmente di dare da mangiare al pesce rosso. Abbiamo racchiuso in un cortometraggio muto questi semplici gesti quotidiani portati avanti con serenità, dolcezza, serietà, sebbene lo scenario in cui si muovevano fosse uno dei luoghi considerati più precari per l’abitare: il quarto piano della Vela Gialla di Scampia. I protagonisti hanno deciso tutto da soli, e non a caso si sono concentrati sull’utilizzo di quello che più gli manca nella vita reale, come l’acqua corrente soprattutto per i piccoli rom abitanti nel campo vicino di Cupa Perillo e l’armonia di una giornata qualunque in una casa qualunque. Nella totale autogestione, ci hanno poi consegnato un finale poetico affacciandosi da una finestrina dipinta in stile tirolese che apre a una vista mozzafiato sulla Vela di fronte, la Celeste, quella che quest’anno, a luglio, ha visto il crollo di un ballatoio con la conseguente morte di tre persone e decine di feriti, soprattutto bambini. Ma gli sguardi nonostante tutto fiduciosi di quei bambini del 2009 non potevano prevedere questo triste futuro; quello degli adulti e dei pianificatori, più consapevole della lenta catastrofe che si stava già consumando all’epoca, invece forse sì. I piccoli e le piccole italiane e rom che hanno partecipato oggi sono adulti che nella maggior parte dei casi non hanno ancora risolto il problema dell’abitare, per lo meno non nelle forme canoniche che siamo abituati a immaginare. Al seguito dei loro genitori e delle loro famiglie, che non sempre hanno potuto scegliere liberamente dove e come abitare, sono stati i testimoni diretti dello scempio che per oltre venti anni si è consumato sulla loro pelle. Nelle Vele, totale assenza di manutenzione, infiltrazioni, la goccia sulla testa nella cameretta, pavimentazioni fragili dei ballatoi, scale assottigliate, sversatoio di rifiuti, pregiudizi esterni diffusi. Nelle baracche, totale assenza di servizi di base tipo fognature e acqua calda, acqua benevola e acqua malevola di pioggia che allaga e infanga, freddo invernale fronteggiato con le stufe a ghisa, pregiudizi esterni diffusi e stereotipi duri a morire. Passeggiando oggi nella Vela Gialla che sta per essere svuotata, scavalchiamo cocci, balziamo in fila indiana sui ballatoi pericolanti, inciampiamo nei ricordi, ritrovando al quarto piano praticamente intatti i nostri armadi e i vasi dipinti pieni di fiorelloni strani, portate per mano da chi prima ci abitava e oggi continua ad andare su una delle terrazze per godersi il panorama, i tramonti, chiacchiere e sigarette. E riaffiorano i momenti belli – le corse di gruppi di ragazzini da una Vela all’altra, le spighe d’estate, i giochi d’acqua – di quella che è (stata) casa e che ora che è murata val bene un pellegrinaggio, come se fosse una tomba di famiglia a cui portare omaggi e dove far rivivere quelle memorie che nessuna ruspa potrà cancellare. Il lutto del trasferimento, il trauma della demolizione, la pena dello sradicamento, tutti pesi di cui nessuno vuole assumersi responsabilità, tranne tutte le dirette e i diretti interessati che faticosamente e con coraggio pensano a come ricostruirsi una vita senza cadere nella disperazione. Non c’è terapia, non c’è cura, non c’è ascolto per questi tormenti collettivi innanzitutto interiori. Prima o poi si dovevano trasferire, si sapeva, guai a portarla questa disperazione nei luoghi dove si prendono le decisioni, lì non bisogna comportarsi da bambini ma essere seri e accettare questo peso della storia – urbanistica – dell’intera città. E allora perché il trasferimento non è stato organizzato con cura, rispetto e competenze, nella giusta gradualità dei passaggi, trattando le persone come persone, i bambini come bambini, i vecchi come vecchi, i malati come malati, passando da una lentezza pachidermica a uno stato d’emergenza brutale? È una delle molte domande che ci portiamo dietro ossessivamente che non avranno mai una risposta, se non che tutto rientra nell’ordine della brutalità dei sistemi di potere e burocrazia che ci governano. Nel frattempo, strette in cerchio in una delle pochissime terrazze agibili, tra lacrime e risate, ci godiamo qualche momento di una luminosa serata invernale insieme e ci ricordiamo che la vita è fatta soprattutto di questi dettagli preziosi che ci tengono unite e ci consentono di non andare in frantumi. (emma ferulano)
December 16, 2024 / NapoliMONiTOR
È il mercato, bellezza. La diaspora degli abitanti delle Vele abbandonati a sé stessi
(foto di leonardo galanti) A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di “autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad horas. Così si è completata la diaspora. Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il 2025). L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il 2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato consegnato. Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo. (leonardo galanti2) Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano –, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé. Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007». «Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano. Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio, lo devo buttare?”, gli ha detto lei». (foto di leonardo galanti) Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto. Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del 2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di destinazioni incerte e comunque precarie. Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo. Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio. Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…». «Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti, e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia, le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
December 12, 2024 / NapoliMONiTOR
Commissariamento di Bagnoli, siamo già al “salviamo il salvabile”?
(disegno di marta fogliano) Nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerose e trasversali manifestazioni di giubilo relative agli avanzamenti del processo di bonifica e rigenerazione dell’ex area industriale di Bagnoli. È bene sottolineare, però, che nonostante lo sfiancamento dovuto a trent’anni di interventi fatti male o non fatti, e a uno sperpero di denaro pubblico senza pari, sarebbe sbagliato considerare ognuno di questi avanzamenti, a scatola chiusa, una buona notizia. Martedì 19 novembre i giornali hanno parlato di una transazione tra Invitalia e Basi 15 srl (gruppo Cementir): il lotto dell’ex area industriale di proprietà dell’azienda, l’ultimo facente capo a un soggetto privato, è stato acquisito da Invitalia a titolo gratuito, in modo da poter essere inglobato nel progetto di risanamento. La transazione è stata commentata in maniera entusiasta dal sindaco di Napoli e dal governo, come esempio di collaborazione virtuosa tra imprese e istituzioni. Gaetano Caltagirone, proprietario della Cementir, ha detto di aver voluto “rendere un omaggio a Napoli, alla sua storia e al suo futuro”. In realtà, ancora una volta, è il soggetto privato a guadagnare da questo accordo, dal momento che il ritiro dei contenziosi sgrava la Cementir dall’incombenza degli altissimi costi di bonifica e smantellamento degli impianti, di cui ora si dovrà occupare Invitalia (senza contare il ritorno di immagine frutto di una campagna di glorificazione fino a questo momento pienamente riuscita). L’atmosfera che ha accompagnato la firma dell’accordo ricorda quella con cui, qualche mese fa, era stata accolta la notizia dell’arrivo di una nuova pioggia di soldi destinati alla bonifica (soldi che sono stati stanziati ma non versati, e che quindi arriveranno, se tutto va bene, in varie tranche) e persino della modifica della legge 582 che – con la scusa delle difficoltà presunte della rimozione della colmata a mare – eliminava l’obbligo di ripristino della morfologia naturale della linea di costa bagnolese. Intanto, a fine ottobre, la Corte di Appello di Napoli ha assolto tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste” nel processo-bis sul presunto disastro colposo ambientale causato da Bagnoli Futura, le cui indagini erano iniziate quasi vent’anni fa. Con la sentenza, per la quale la Procura di Napoli non farà neppure ricorso in Cassazione, il tribunale ha stabilito che il danno c’è, ma non sono stati gli imputati a provocarlo (e allora chi, non è chiarissimo…). Ma veniamo al futuro. Il PRARU, il programma per la bonifica e la rigenerazione urbana approvato nel 2017, è un accordo tutto sommato accettabile, soprattutto se si considerano le proposte avanzate negli ultimi trent’anni sull’area e alcune balzane idee tipo quelle – sponsorizzate per più di un decennio dalle giunte comunali di “sinistra” – di utilizzare la colmata a mare per manifestazioni e mega-eventi sportivi, o le continue riletture al ribasso dei piani urbanistici elaborati negli anni Novanta. Ed è accettabile soprattutto perché recepisce due istanze che la comunità locale ha portato avanti con forza, quella per il parco urbano e per una grande spiaggia pubblica e gratuita tra Nisida e Pozzuoli (anche se la modifica della 582 la mette oggi pesantemente in discussione). Lo stesso piano, però, si fonda su alcuni presupposti, pericolosamente confermati da quanto accaduto in questi mesi. Il primo riguarda il rapporto tra le opere fatte per produrre profitto e quelle che realmente vanno nell’interesse dei cittadini: se per le prime Invitalia ed ente commissariale stanno avanzando alacremente (per esempio i grossi parcheggi in costruzione al momento), o stanno preparando il terreno per avanzare, le seconde sono quotidianamente messe in discussione e rese incerte da una serie di fattori, a cominciare dalla precarietà dei fondi per realizzarle. Un altro punto è una caratterizzazione della condizione dei suoli che appare ancora superficiale e che rischia di collocarsi in continuità con gli scempi del passato per i quali la magistratura è stata costretta più volte a intervenire. In ultimo, e non certo per importanza, vi è la tendenza per cui si continua a chiedere e a spendere una quantità sproporzionata di soldi pubblici per la bonifica (scegliendo tecniche che molti esperti considerano inutilmente dispendiose) aprendo la strada agli interventi dei privati nel momento in cui ci sarà da capitalizzare, magari con la scusa che “non ci sono abbastanza soldi perché tutto quello che si è realizzato sia a gestione pubblica”. Messi in relazione uno con l’altro, i fatti citati mostrano una pericolosa continuità con le pratiche politico-istituzionali che finora hanno causato il fallimento del progetto Bagnoli, in un quadro in cui l’opposizione sociale, che sempre ha rivestito un ruolo nell’arginare i tentativi speculativi sul territorio, vive un momento di difficoltà organizzativa (anche alla luce delle prescrizioni previste dal Ddl 1660 nei confronti delle lotte sociali, a cominciare da quelle che riguardano le cosiddette “grandi opere”). Non sarà facile rilanciare, in questo contesto, i processi di monitoraggio e proposta politica, nonostante gli enormi sforzi da parte delle comunità del territorio, i cui intenti partecipativi sono disincentivati e spesso frustrati dalla chiusura su sé stesse delle istituzioni. La necessità di una nuova stagione di mobilitazione che coinvolga tutte le realtà sociali e che rompa l’isolamento di chi oggi lotta sul territorio è pressante, ed è forse l’unica strategia possibile per salvare il salvabile in un processo di sviluppo urbano che appare oggi, nel bene e nel male, finalmente in marcia. (riccardo rosa)
December 5, 2024 / NapoliMONiTOR
“Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco?”. A Milano, candele nella nebbia per Ramy
(foto di roberto-c.) A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori. A Corvetto, nella periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove per la vicinanza alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno all’Abbazia di Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare attraversando le vie della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale Gabrio Rosa, il punto di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda metà degli anni Venti dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i poveri e i poverissimi” della città e le espansioni successive, si può scorgere il Parco Agricolo Sud, ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire l’orizzonte. Da giorni, la piazza era presidiata dalla polizia locale per scoraggiare eventuali scontri e incendi nati dalla rabbia per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne che ha perso la vita in seguito allo schianto con cui si è concluso un lungo inseguimento a opera di una pattuglia di carabinieri, nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre. A una settimana di distanza dalla morte del ragazzo e dall’inizio del coma di Fares Bouzidi, l’amico alla guida della moto che ha interrotto la sua corsa in via Ripamonti con una dinamica ancora da accertare, gli amici di Ramy e alcuni solidali si sono dati appuntamento sabato 30 in piazzale Gabrio Rosa per una fiaccolata. L’iniziativa era stata immaginata come un momento di condivisione del dolore e come risposta ai presidi delle giornate precedenti promossi da Lega e Fratelli d’Italia, che chiedevano più sicurezza attraverso la militarizzazione del quartiere. Sabato sera, nel buio lattiginoso della piazza si distinguevano solo i fari led delle videocamere dei giornalisti provenuti da tutta Italia e le luci delle auto della polizia locale. All’orario concordato per il ritrovo c’erano alcuni ragazzi del quartiere all’incrocio con via Mompiani, dove vive la famiglia di Ramy. «Ma tu sei qui per Ramy?», chiedeva un ragazzino sui dodici anni ai volti sconosciuti che scrutava attento, mentre si allontanava dal piccolo gruppo pronto a partire. Nadir, uno degli amici del diciannovenne scomparso e dei promotori della fiaccolata in suo ricordo, era impegnato a far allontanare i giornalisti dallo striscione tenuto da donne e ragazzi del quartiere in lutto che recitava “Verità e giustizia per Ramy e Fares. La morte non è uguale per tutt*”. Nel frattempo, solidali singoli o di varie realtà come Cantiere, Lambretta, Coordinamento Antirazzista Milano, ZAM, Off Topic, Comitato Insostenibili Olimpiadi, Giovani Palestinesi d’Italia, CiSiamo, PRC Municipio 4, ADL Cobas e vari membri della Rete per il diritto all’abitare si sono uniti ai presenti, senza esporre bandiere né striscioni. Il corteo, guidato da Nadir, ha attraversato quasi in silenzio via Mompiani, mentre i presenti si scambiavano sottovoce parole sugli avvenimenti degli ultimi giorni e fumogeni tingevano di rosso e di viola l’atmosfera nebbiosa. In piazza Ferrara, intorno al mercato comunale, tra le mani hanno iniziato a passare candele bianche, mentre due lanterne si alzavano verso il cielo, insieme ai flebili fischi all’indirizzo di Carmela Rozza, esponente del Pd e componente del consiglio regionale della Lombardia. La politica, in un momento di sosta e silenzio del corteo, aveva chiamato intorno a sé alcune telecamere per dichiarare la vicinanza ai ragazzi del quartiere, suscitando la reazione di molti dei presenti, critici verso le azioni intraprese proprio dal suo partito nella zona e in altre aree periferiche della città. La marcia è proseguita verso ovest, ritmata da una preghiera pronunciata dalle donne in testa al corteo e poi dalla trasmissione di alcuni brani del Corano cantati, mentre le oltre cinquecento persone radunate strada facendo uscivano dal tessuto denso del quartiere per percorrere via Bernardo Quaranta, una strada ampia fiancheggiata da capannoni, aree verdi occupate da tralicci, hotel segnalati da insegne al neon incomplete, ampi parcheggi e il lungo muro dell’ex Panificio Automatico Continuo,  che negli anni Venti produceva mille duecento quintali di pane al giorno e che oggi ospita il servizio di ristorazione scolastica che rifornisce le mense della città. Alle spalle del primo gruppo, cinque ragazzi tenevano un altro striscione che recitava “I nostri quartieri uniti nel vostro dolore”, mentre alcuni interventi si alternavano ai momenti di silenzio o alle note del Corano. Ali, esponente dei Giovani Palestinesi d’Italia, ha ricordato come il motivo della rabbia e della richiesta di giustizia non fosse solo una vita persa e come il caso di Ramy non fosse unico, ma fosse l’ennesima spia di dinamiche di stigmatizzazione delle persone migranti e di uno stato di polizia che non si manifesta solo attraverso l’uso della forza. La giovane si è poi rivolta ai giornalisti, numerosi in quel momento al corteo e in quartiere, ritenuti responsabili di narrazioni distorte e amplificate secondo le quali la rabbia delle notti precedenti sarebbe stata causata “da un’incapacità della comunità di mantenere l’ordine” e non da una risposta a razzismo e classismo sistemici. Mentre il corteo proseguiva tra loft in ex aree industriali, industrie farmaceutiche e corsi d’acqua, con alcune soste richieste da Nadir per fare in modo che tutti i partecipanti stessero dietro al primo striscione e che i giornalisti non intralciassero il cammino, i centri sociali Cantiere e Lambretta hanno portato la solidarietà da altri quartieri della città e si sono stretti nel lutto, nella rabbia e nel desiderio di verità e giustizia per Ramy e Fares. Hanno ricordato cosa significa essere giovani, neri, arabi, di una zona periferica e solo per questo venire fermati dalla polizia più volte a settimana e avere la certezza che la propria vita non conta, come è stato nel 2008 per Abba e ora per Ramy. O per essere definiti “maranza”, come hanno titolato ultimamente i giornali a proposito dei giovani di Corvetto, richiamando il termine dispregiativo introdotto negli anni Ottanta a Milano che sintetizza “marocchino” e “zanza” (ladro, in milanese). Il corteo ha rallentato in prossimità dell’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, uno dei principali assi radiali di Milano che collega il centro della città con la zona sud, percorso nella notte tra il 23 e il 24 novembre da Ramy, Fares e dalla pattuglia dei carabinieri che non aveva ancora smesso di inseguirli dopo otto chilometri. Lì, dove è avvenuto lo schianto, i presenti si sono distribuiti ai lati dell’incrocio, mentre Nadir ha invitato alla preghiera, prima che venisse scandito in coro, ripetutamente, il nome di Ramy. Nello spazio vuoto al centro dell’incrocio ha poi preso parola un’esponente del Comitato Antirazzista Milano, che ha sottolineato ancora una volta la dinamica dei fatti della scorsa settimana, ennesima manifestazione del fenomeno della profilazione razziale e degli abusi della polizia. Ha poi invitato ad alzare gli occhi e osservare le telecamere che registrano ciò che accade in quell’incrocio, chiedendo come mai non fossero stati ancora resi pubblici i video dell’accaduto. Infine, è intervenuto un esponente del Comitato Verità e Giustizia Ugo Russo, da Napoli, che ha ricordato la storia del quindicenne dei Quartieri Spagnoli ucciso da un carabiniere fuori servizio alcuni anni fa. Ricollegandosi agli interventi precedenti sulla razzializzazione dei ragazzi di origine straniera nei quartieri popolari di Milano, ha ricordato che nella sua città ci sono «napoletani considerati non degni di diritti e di attenzioni, marginalizzati» all’interno di quegli stessi quartieri «che in questo momento storico sono sovrastati da un turismo» che sembra porti benessere, ma «non ha ricadute sulla reale emancipazione di tutte le persone». Per questo, a nome del Comitato, ha portato un abbraccio fraterno a chi lotta per la verità e giustizia per Ramy e Fares e ha proposto di continuare a confrontarsi per unire le forze. Dopo i saluti di Nadir, che ha ringraziato i presenti per la buona riuscita della fiaccolata, nonostante la tensione creata nei giorni precedenti e anche sul momento dai media, i presenti si sono allontanati a piedi o in bicicletta nella nebbia. Un gruppo di ragazzini è tornato verso Corvetto, seguito a distanza ravvicinata da tre persone con telecamere e microfoni, forse nella speranza che proprio all’ultimo succedesse qualcosa di eclatante. Dal gruppo invece si è alzata la voce di un ragazzino di nove o dieci anni che ha continuato a camminare, senza voltarsi: «Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco, eh?». (gloria pessina)
December 3, 2024 / NapoliMONiTOR