Il diritto di restare: espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia. Un estratto dal libro di Stefano Portelli(disegno di bambi kramer)
Sarà presentato mercoledì 20 novembre, a Ostia, alla Casa sociale degli anziani
e del quartiere (viale del Sommergibile, 71), il nuovo libro di Stefano
Portelli, Il diritto di restare: espulsione e radicamento tra Roma e Ostia
(Carocci). Del volume si parlerà a partire dalle 18:00 con l’autore e con Ilaria
Beltramme, Paolo Berdini, Tina Ragucci e Franca Vannini.
A seguire ne pubblichiamo un estratto.
* * *
È significativo che la prima demolizione importante a Roma fu il 28 ottobre
1930, alla presenza di Mussolini, quando le baracche di Porta Metronia furono
fatte esplodere tutte insieme, nell’anniversario della marcia su Roma. Negli
anni dell’espansione, migliaia di migranti si ammassarono in quartieri
autocostruiti fuori dalle mura, considerati “baraccopoli” ma vibranti di
movimenti per la casa e per i servizi.
Come conseguenza di una grande stagione di rivendicazioni collettive, e
dell’alleanza tra gli schieramenti politici, tra il 1970 e il 1974 circa
diecimila persone furono trasferite da queste zone che gli abitanti chiamavano
borghetti. Gli ex baraccati furono spostati sulla costa, in una zona remota che
oggi è tra le più problematiche dell’area metropolitana. Né le autorità
pubbliche che eseguirono il trasferimento, né le organizzazioni politiche che lo
sostennero – e neanche i ricercatori e le ricercatrici che lo osservarono –
compresero gli effetti che avrebbe avuto quell’evento, a breve e a lungo
termine. Le politiche non sono quasi mai valutate a partire dalle loro
conseguenze sulle persone, o sulla lunga durata. Per questo si riproducono anche
quando provocano danni, sopravvivendo sia a chi le subisce che a chi le esegue.
La storia infatti sembra ripetersi mezzo secolo dopo, in una forma diversa.
Mentre gli ex baraccati cercavano di orientarsi nel nuovo quartiere, privi delle
risorse che avevano permesso loro di sopravvivere nelle zone che avevano
costruito, a poca distanza si sviluppò un nuovo insediamento sul litorale,
anch’esso autocostruito come i vecchi “borghetti”. Lentamente vi si svilupparono
forme autonome di rapporto con l’ambiente, con le istituzioni e tra gli
abitanti, attraverso l’autogestione, l’associazionismo, la celebrazione di feste
e rituali comuni, la gestione dei conflitti, e le continue negoziazioni con le
istituzioni.
Oggi vi abitano circa duemila persone; ma lo “Stato bulldozer” è tornato,
minacciando un nuovo grande trasferimento. A seguito di una “grande opera”
inaugurata nei primi Duemila, infatti, questo quartiere ha subito una crescente
segregazione, culminata a febbraio 2010 con un’incursione massiccia delle forze
dell’ordine che hanno sgomberato una cinquantina di abitanti e demolito
trentacinque case. Grazie all’autorganizzazione degli abitanti questo sgombero
non ha colpito ancora più persone; ma le persone cacciate vivono tuttora in un
“residence per l’emergenza abitativa” ancora più periferico e marginale delle
case da cui furono mandate via quindici anni fa.
Per gli altri, la demolizione ha inaugurato il declino del quartiere, che oggi
vive sotto la minaccia di nuove demolizioni: uno sradicamento fenomenologico sta
disgregando le vite degli abitanti rimasti, diffondendo abbandono, sfiducia e
tensioni interne. Nei dieci anni in cui a Roma gli ordini di sfratto hanno
raggiunto una quantità di abitanti pari alla popolazione di Ragusa, demolizioni
e sgomberi di occupazioni abitative e aree abusive hanno costretto migliaia di
altri a una continua peregrinazione intorno alla città.
Alla vigilia del Giubileo 2025 i vecchi e i nuovi “sfrattati dall’eternità”
rischiano di non riuscire più a radicarsi; la loro precarietà condiziona non
solo le loro vite e i quartieri da cui sono espulsi, ma la città in generale.
Questi movimenti forzati accompagnano tutta la storia di Roma, risuonando tra
epoche e spazi diversi. Le voci dei trasferiti degli anni Settanta echeggiano in
quelle degli sgomberati del 2010; la vita quotidiana nel quartiere autocostruito
ancora in piedi ricorda i racconti di chi abitò e costruì i borghetti storici,
oggi scomparsi. Ma questi eventi sono confinati nelle memorie personali e
familiari di chi li ha vissuti. La città percepisce un’ombra indefinita che
incombe sulla parte di litorale dove furono trasferiti i baraccati; aleggia un
odore di crimine e miseria, sfruttato di volta in volta in modi diversi dal
cinema e dai media. Sui margini della città alcuni “spazi fuori luogo”, matter
out of place, sfuggono alle classificazioni e per questo inquietano o
affascinano chi non vi abita; ma questa alterità non è mai ricondotta al
displacement.
Una serie di espressioni comuni segnalano che i grandi trasferimenti nella
capitale hanno provocato un malessere che richiama sofferenze precedenti ben più
gravi e mai risolte. Per quanto sia mostruoso il parallelismo, i trasferimenti a
Roma sono chiamati deportazioni. Gli sradicati delle baraccopoli sono
chiamati sfollati, come i sopravvissuti ai bombardamenti del 1943; o deportati,
come le migliaia di ebrei rastrellati dalle SS e trascinati nei campi di
concentramento e di sterminio. L’analogia con le deportazioni naziste si ritrova
addirittura nelle memorie di chi ordinò ed eseguì i trasferimenti. Poco prima
della sua morte intervistai il sindaco Clelio Darida, che aveva ordinato gli
sgomberi, e che li ricordava così:
«Queste operazioni di sgombero erano operazioni che addirittura sembravano le
SS. Cioè, arrivavano i camion, caricavano le masserizie, e gli abitanti, con la
polizia; contemporaneamente, le ruspe demolivano, in maniera che non si
riproducesse il fenomeno. Cioè, tutte – per esempio – le costruzioni fra gli
archi, parlando dell’Acquedotto Felice, contestualmente all’uscita venivano rase
al suolo. Gli archi venivano liberati, poi venivano sistemati […]. Se n’andarono
tutti, o con le buone o con le cattive, insomma. […] Un’operazione da
rastrellamento, da ss, come all’Acquedotto Felice: tutto circondato dalla
polizia, i camion, li caricavamo, e portavamo via, e demolivamo; caricavamo e
demolivamo. Un’operazione alla quale ha partecipato il Partito comunista, con la
sua organizzazione».
Perché gli intellettuali allora non si resero conto della natura autoritaria e
dei danni che stavano creando queste operazioni? La demolizione dei quartieri
autocostruiti di Roma fu considerata una vittoria per gli abitanti, che però si
descrissero come “deportati” e “sfollati” sin dal primo giorno. Ma la questione
non riguarda solo loro. I trasferimenti si generalizzarono in un’epoca in cui
fiorivano gli studi sociali e antropologici, e in cui il cinema neorealista
coglieva la trasformazione del paesaggio e lo scontro fra classi. Eppure in
Italia non vi furono ricerche rigorose su quei processi, neanche quando
colpirono luoghi ben più significativi dei borghetti romani. […]
Tra il 2015 e il 2017 ho condotto un centinaio di interviste con ex abitanti del
borghetto autocostruito sotto gli archi dell’Acquedotto Felice, con altri
abitanti trasferiti a Nuova Ostia, e con abitanti attuali dell’Idroscalo di
Ostia. Volevo capire se a Roma si fossero verificati episodi simili a quelli
prodotti dai trasferimenti in altre parti del mondo. In particolare, negli anni
precedenti avevo condotto una lunga ricerca nella periferia di Barcellona, dove
la demolizione di ottocento case popolari storiche e lo spostamento degli
abitanti in nuovi palazzi aveva contribuito alla disgregazione di alcune
tecniche di convivenza e di rapporto con le istituzioni. Iniziai conversando con
Roberto Sardelli, sacerdote rivoluzionario che nel 1968 aveva fondato una scuola
popolare in una “baracca” dell’Acquedotto. Qualche anno prima di morire,
Sardelli mi aiutò a rintracciare i suoi ex alunni trasferiti a Nuova Ostia, che
a loro volta mi misero in contatto con altri trasferiti dai borghetti.
Poi l’urbanista Paula de Jesus e l’ingegnere Andrea Schiavone, di Ostia, mi
fecero conoscere l’Idroscalo; per un anno e mezzo partecipai alle riunioni delle
associazioni del quartiere, frequentando soprattutto la Comunità foce del
Tevere, un’organizzazione prevalentemente femminile. La sua presidentessa,
Franca Vannini, di fatto ha reso possibile questo lavoro; la sua casa e la sua
famiglia sono state le basi da cui ho iniziato a conoscere la società di
Idroscalo e di Nuova Ostia, osservandone anche i legami e le differenze.
Negli anni successivi ho costruito una breve esperienza di osservatorio sulla
trasformazione del quartiere, a partire da un incontro tra abitanti e studenti
dell’università La Sapienza dove frequentavo il corso di dottorato, poi una
trasmissione settimanale per una webradio locale, infine un tentativo di “tavolo
tecnico Idroscalo” per discutere il futuro del quartiere con le istituzioni. Nel
frattempo, provavo a ricostruire le lotte politiche dei borghetti e le vicende
del trasferimento a Nuova Ostia, intervistando abitanti, politici e militanti.
Passato e presente si richiamavano e si scontravano: le “case vere” che allora
erano il loro desiderio, erano diventate una condanna; i quartieri allora
considerati una vergogna, oggi si ricordano come l’ultima possibilità di una
città diversa.
Demolizioni e trasferimenti che erano stati una vittoria per il movimento per la
casa avevano fatto emergere l’importanza del social order of the slum:
l’appaesamento dello spazio, la leggibilità, la convivialità dei “borghetti”,
nascosti sotto lo stigma delle narrazioni dominanti. Come vedremo, Sardelli, che
aveva promosso le proteste per migliorare la vita dei “baraccati”
dell’Acquedotto, dopo il trasferimento si accorse che Nuova Ostia era «una
mattonata sulla testa»: sarebbe stato impossibile ricostruirvi il processo
collettivo creato nel vecchio quartiere.
«La gente si era come messa in ginocchio» – scrisse –. «In quei giorni sembrava
che la speranza avesse disertato le nostre case e al suo posto si fosse
insediata una nevrosi collettiva». Dopo il trasferimento «il tessuto umano che
faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava», scrisse. Come nel Pianto
della scavatrice di Pasolini,
Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’è spento dolore.
In questi luoghi pubblicamente disprezzati, infatti, si erano sviluppate forme
di abitare «più forte della metropoli», delle «densità affettive e modi di
convivialità più forti» di quelli dominanti nella città consolidata, che neanche
i militanti e gli studiosi seppero riconoscere, e che divennero comprensibili
solo dopo la loro fine. Come nelle occupazioni abitative, nelle aree
autocostruite abitano sottoproletari e proletari, famiglie dal doppio reddito e
disperati, immigrati e autoctoni, romani sfollati e anche qualche borghese che
vi trova spazio per realizzare un progetto controculturale. La vicinanza tra
forme di vita più o meno integrate e altre disintegranti, o disintegrate, hanno
prodotto strutture autonome di convivenza e di vita sociale, culturale e
politica.
Per chi ha vissuto la stagione di lotte per la casa degli anni Settanta, oggi è
difficile riconoscere la continuità dello stigma e della segregazione che gli ex
“baraccati” portarono dai borghetti nei nuovi quartieri. I protagonisti di
quelle lotte dovettero esibire la miseria dei quartieri autocostruiti
nascondendone le qualità, per spingere le istituzioni a considerare gli abitanti
cittadini a pieno titolo; ma rimasero impigliati nelle stesse descrizioni che
avevano alimentato. Il quartiere dei trasferiti di Nuova Ostia è tuttora
rappresentato come una zona selvaggia e violenta, abitata da mafiosi e fascisti,
che in qualche modo meritano la desolazione urbana in cui sono confinati.
All’Idroscalo di Ostia si associa una narrazione diffamatoria, solo in parte
contrastata da iniziative come il documentario Puntasacra di Francesca Mazzoleni
(2020), che mostra invece la solidarietà e l’ironia esplosiva del quartiere.
Film e articoli di giornale su Ostia legittimano la promessa di soluzioni forti,
sempre annunciate senza consultare la popolazione, considerata degradata e
colpevole per natura.
Questa danza macabra di manipolazione, disprezzo, disinvestimento, demolizioni,
sradicamento, marginalità, nuova manipolazione, con cui si estrae valore dalla
vita sociale delle periferie urbane, ha catturato le vite di migliaia di persone
a Roma e di incalcolabili altre nel mondo. Essa rende incomprensibile sia il
passato che il presente; ma vi si trovano le radici di molte delle questioni
attuali. Lo strumento che propongo per interrompere questa spirale è
l’intelligenza storica: ripercorrere i nodi della questione, le ombre
inesplorate, anche quelle che mettono in crisi le nostre identità politiche e
culturali.
Chester Hartman nel 1984 scrisse l’articolo The Right to Stay Put, in cui
postulava il diritto legale e politico delle persone sfrattate o minacciate di
sfratto di rimanere nelle case da cui gentrificazione e sviluppo volevano
espellerli. Negli anni Duemila l’urbanista romana Sandra Annunziata,
prematuramente scomparsa, compilò un manuale contro la gentrificazione
nell’Europa del Sud che intitolò Staying Put!; anche un recentissimo rapporto
della Global Platform for the Right to the City si chiama The Right to Remain in
Place. Le rivendicazioni del diritto di restare esprimono ovunque l’esigenza di
opporsi allo sradicamento e di decidere sullo spazio abitato, a volte mettendo
in gioco gli stessi corpi.
Nel 1960 alcuni abitanti di Boston minacciati di demolizione esposero un enorme
cartello con scritto “Non ci muoviamo! All’inferno l’urban renewal”, e, in più
piccolo: “Questa terra è nostra e lo sapete! La difenderemo con le nostre
vite!”. Negli anni Ottanta gli abitanti dei gecekondu, i quartieri autocostruiti
di Istanbul, di fronte alla polizia gridavano “I gecekondu sono un nostro
diritto! Ce lo prenderemo contro ogni previsione”. Negli anni Duemila gli
abitanti degli slums di Nuova Delhi, aiutati da gruppi di architetti, iniziarono
a considerare i loro quartieri “città autoprodotte” da tutelare invece che
demolire; e nei karien marocchini, formalmente quartieri abusivi, dopo la
primavera araba si è diffusa l’idea di un “diritto di abitare” (el haq i skoun).
Nel 2023 gli abitanti di centocinquanta appartamenti a Toronto mantennero un
anno di sciopero dell’affitto contro la compagnia immobiliare proprietaria del
loro palazzo: «Non me ne andrò; è la mia comunità, lotterò fino alla morte»,
dice una di loro. I sindacati inquilini di Barcellona hanno condotto la campagna
no marxem (“non andremo via”) che ha portato anche vittorie, come quando un
gruppo di occupanti ottenne un contratto di “mezzadria urbana”. Le vittorie si
costruiscono anche grazie alle sconfitte, anche grazie a chi ha perso la vita:
come Marielle Franco, uccisa nel 2018 a Rio per la sua difesa dei favelados, o
Breonna Taylor, crivellata di colpi dalla polizia nel 2020 in una zona di
Louisville da cui si tentava di espellere gli afroamericani; o Awaab Ishaak, un
bambino di Manchester morto dopo aver respirato la muffa degli appartamenti con
cui un grande proprietario speculava sulle famiglie razzializzate che teneva in
affitto.
L’obiettivo di questo lavoro è inserire la vicenda dell’autogestione e dello
sradicamento a Roma in questa storia di lunga durata: come scrisse Pasolini:
«Ostia, o Bombay – è uguale». Per fare questo, ho selezionato frasi e passaggi
da alcune delle interviste che ho condotto sul litorale quasi dieci anni fa;
l’interpretazione che ne do è mia, benché in linea con il punto di vista di
molte delle persone intervistate. È evidente che molte delle scelte politiche
degli anni Settanta, per quanto benintenzionate, abbiano pavimentato la strada
al disastro sociale, urbanistico e politico attuale. È necessario immaginare
strategie completamente nuove per adattare la città abitata alle sfide attuali,
smettendo di immedesimarsi nello spirito delle epoche passate, a cui il futuro
che stava costruendo sarebbe apparso come una colossale distopia.
Scrive Marx nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che non si può
giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di sé stessa. Non possiamo
rinfacciare l’esito catastrofico dei trasferimenti a chi nel passato lottò per
la casa ai baraccati. Ma dobbiamo soprattutto leggere la storia a partire dal
punto d’osservazione privilegiato del presente; quel passato ha prodotto una
realtà che noi vediamo, e loro no. «Una tempesta spira dal paradiso», scrive
Benjamin. I protagonisti di questa vicenda erano trascinati dal vento che
portava alla demolizione dei quartieri autocostruiti e al trasferimento degli
abitanti in un’utopia di riscatto sociale. Tanto chi pianificò il trasferimento
come chi lo subì capì troppo tardi i danni che stava producendo. Ma il nostro
sguardo, come quello dell’angelo della storia, non deve andare verso l’ideale di
società che tutti loro immaginavano di star costruendo, bensì al «cumulo delle
rovine» che quell’epoca ha lasciato dietro di sé; non solo al progetto di futuro
che credeva di edificare, ma alla città reale che ha prodotto per noi.
Una ricostruzione storica che cerchi di preservare l’ideologia su cui si
basarono i trasferimenti presenterebbe in primo luogo il rischio del conformismo
positivista, che vede nel progresso materiale il motore della storia, ignorando
le spie di regresso, stasi e involuzione; e anche quello della tautologia, che
trasforma l’obbligatorio in auspicabile: ciò che è stato si considera l’unico
esito possibile, rispetto a tutto quello che sarebbe potuto essere.
Emarginazione, sfruttamento e sofferenza diventano conseguenza di una qualche
essenza intrinseca di chi li subisce, leggi inesorabili di uno spirito della
storia; chi ne trae profitto può appellarsi a un ordine delle cose considerato
immutabile.
Ogni evento storico, invece, è il prodotto di scelte in qualche modo anche
casuali, il cui esito è contingente e precario; per ogni strada presa, ce
n’erano molte altre possibili. Allora non si realizzarono; ma potrebbero ancora
realizzarsi, qui o altrove, in un altro momento. (stefano portelli)