(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
Tag - città
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di mario damiano)
15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la
trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli
nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica
nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le
altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca
convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza
per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie
Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per
Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che
accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi
prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che
obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della
sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e
scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al
mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio
di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa.
6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione
che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo
genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città
catalana.
Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato
contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi
ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del
resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni
di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se
ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience
televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene
spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I
finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro,
mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto
perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa
América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il
lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono
portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare
volontariato.
Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex
vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano
esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande
parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per
tutti.
Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è
operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte
presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio
pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe
essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è
limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento
barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno
ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i
pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da
venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non
hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno
continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo.
11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di
associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex
Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla
competizione.
Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare
il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa
ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de
Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca.
Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti
all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi
militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori
universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano
magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca
il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia
libera.
Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio
Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone,
sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero
del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato
presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel
documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo
metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori
e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che
chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti,
associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene
che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale
per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura
quadruplicare”.
20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna
l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che
fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le
prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per
Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di
risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla
realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei
nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo
dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un
commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come
“contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari
alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa
cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma
non ci sono i soldi per fare questo intervento”).
Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede
poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul
molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti
barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali
(lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a
una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle
questioni non può neppure discuterne.
24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di
“visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una
“collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è
una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente
stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo
ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori
locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al
grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto
“resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi,
e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport.
1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con
l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio.
Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di
dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con
le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte
dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con
vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta
chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della
fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci
cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli
inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però,
rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo.
Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto
il mondo quello che sta succedendo qui”.
8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo,
direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive
dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia,
paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per
l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata
centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura
a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima
accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco
(“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento
delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente
appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione
alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver
informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la
mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella
presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una
vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di
costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un
grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la
baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e
yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa
per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
(disegno di otarebill)
I protagonisti di questa storia sono un piccolo giardino, una prestigiosa
università statunitense e un’amministrazione comunale. Cominciamo, come è
giusto, dal giardino.
TRACCE DI STORIA
Da qualche anno porta il nome di don Tullio Contiero, un prete poco amato dalle
gerarchie ecclesiastiche, chiamato a Bologna agli inizi degli anni Sessanta dal
cardinale Giacomo Lercaro per occuparsi degli studenti universitari, per i quali
organizzava ogni anno viaggi in Africa per far conoscere loro il sud del mondo e
metterli di fronte alle responsabilità e alle contraddizioni dell’Occidente. Ma
in realtà nessuno lo conosce con questo nome. Tutti continuano a chiamarlo come
prima: giardino San Leonardo, dal nome della strada che lo costeggia.
È nel centro di Bologna, nella zona universitaria, ma defilato rispetto ai
grandi flussi che, a poche centinaia di metri, ne caratterizzano la vita
quotidiana. È di piccole dimensioni (circa 1.500 mq), ma è molto amato dagli
abitanti e dai frequentatori della zona, che se ne sono presi cura, nel tempo,
anche attraverso comitati o gruppi informali. Non ha nulla di particolare, se
non il fatto di rappresentare la “normalità”: uno spazio verde e tranquillo,
dove le persone trascorrono del tempo in modo informale, senza essere attratti
da attività o da luoghi di consumo. Troppo normale per resistere alla febbre
della “rigenerazione” che sta dilagando in tutta la città.
Ma prima di descrivere qual è la minaccia che incombe su questo piccolo lembo di
terra, è bene ricordare qual è il contesto urbanistico e sociale in cui si
trova. Si tratta, innanzitutto, di un esercizio di memoria che ci riporta al
1973, anno in cui il comune di Bologna, con la regia dell’architetto Pier Luigi
Cervellati – all’epoca assessore all’urbanistica – adottò una variante al Piano
per l’edilizia economica e popolare (Peep) che estese al centro storico gli
interventi per quella tipologia abitativa, fino ad allora destinata alla
periferia. Il piano coinvolse cinque comparti del centro e portò al risanamento
– per iniziativa pubblica – di circa settecento alloggi, dove tornarono ad
abitare gli stessi nuclei familiari che li occupavano in precedenza, quando
erano fatiscenti. Furono anche realizzati centri civici, studentati, spazi per
attività di quartiere, recuperando complessivamente circa 120 mila mq di
superficie. (Per un approfondimento si rinvia a questo articolo dell’architetto
Carlo De Angelis, che fu tra i protagonisti del piano). Era ben chiaro che i
ceti popolari sarebbero stati progressivamente espulsi dal centro, e il piano
mirava – al contrario – a farli rimanere dove erano sempre vissuti. Via San
Leonardo era una delle strade comprese nel piano.
‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’
Finora – come è facile immaginare – non c’è stato grande dialogo tra questa
strada che ancora oggi conserva un tessuto popolare e la limitrofa Johns Hopkins
University, i cui master costano – come si può ricavare dal sito – tra 65 mila e
89 mila euro all’anno. Ma il muro che divide la strada e il suo giardino dalla
sede bolognese della rinomata università che ha la casa madre a Baltimora sta
per cadere, non solo metaforicamente. Ad aprire la breccia sarà una caffetteria.
Questo è, infatti, il succo di una proposta avanzata dalla Johns Hopkins
University, elaborata dallo studio Betarchitetti. Il Comune la accoglie nella
cornice dei “patti di collaborazione”, una delle articolazioni del sistema di
partecipazione costruito dall’amministrazione comunale con grande enfasi
retorica che ne nasconde l’essenza: imbrigliare la partecipazione entro forme
istituzionalizzate e centralizzate e distoglierla dalle questioni cruciali,
discusse e decise al di fuori delle sedi istituzionali, al riparo da qualsiasi
dibattito pubblico e rese note solo a cose fatte. Nel caso specifico si tratta
di una evidente forzatura: come è possibile utilizzare questo strumento per
autorizzare un intervento urbanistico su un intero comparto? Si tratta di una
corsia preferenziale? O di un esperimento per introdurre senza far rumore una
ulteriore forma di deregolamentazione?
Ma torniamo alla caffetteria della Johns Hopkins. Il succo della proposta è
tutta qui: l’università chiede di poterla espandere aprendola verso il giardino,
in cambio si farà carico delle spese per la sua ristrutturazione. Come da
copione, anche stavolta non mancherà l’abbattimento di alberi (in questo caso
tre esemplari tutelati), un elemento che caratterizza tutti i progetti di
“rigenerazione” in corso o in previsione in tutta la città e che sta assumendo
dimensioni enormi e intollerabili, i cui effetti non saranno mitigati dalle
promesse di “compensazione” tramite nuove piantumazioni.
Ovviamente una richiesta del genere – che comporta la modifica della
configurazione di uno spazio pubblico a favore di un interesse privato – va
addolcita con qualche zolletta di zucchero. Ecco allora che si prospettano
“eventi e festival” (in un fazzoletto di terra!). E poi la formula magica:
“riconfigurazione del margine”. Abbassando il muro di contenimento del giardino
– secondo i promotori – si otterrà una maggiore “permeabilità” rispetto al
comparto oggetto dell’intervento, “favorendone il presidio sociale”. Per
supportare queste affermazioni generiche e prive di sostanza non poteva mancare
il richiamo alla “sicurezza”: la “permeabilità” servirebbe infatti a “far fronte
all’annoso problema della mala frequentazione durante le ore notturne”. Quindi
un bar, un muro più basso, una migliore illuminazione e – non poteva mancare –
un impianto di videosorveglianza.
Certi che la parola magica – “sicurezza” – rappresenti la chiave che apre tutte
le porte (e non hanno tutti i torti, dal loro punto di vista, considerando il
clima culturale e politico dominante, anche a livello locale), i redattori del
progetto non si preoccupano delle evidenti contraddizioni. Se la “mala
frequentazione” riguarda le ore notturne, come può la caffetteria garantire un
presidio per scongiurarla? Se, come è scritto in un passaggio del progetto, “il
rigido protocollo di sicurezza dell’università ha reso impensabile fino a ora
favorire una permeabilità incontrollata degli accessi verso lo spazio pubblico”,
cosa è cambiato ora? Forse la caffetteria non sarà aperta al pubblico (e quindi
addio “presidio”?). Oppure dobbiamo aspettarci una caffetteria con “rigidi
protocolli di sicurezza”?
Una versione precedente del progetto conteneva una proposta lasciata cadere
nella versione definitiva, che merita però di essere citata: “Si propone inoltre
la possibilità di trasformare l’attuale unità abitativa di proprietà comunale
[che si affaccia sul giardino, ndr] in una attività ristorativa a carattere
sociale che possa fornire una cucina interculturale di tipo kosher. Questa
attività sociale consoliderebbe il carattere interculturale del comparto […].
Tale operazione potrà essere effettuata previo ricollocamento della famiglia
ospitata nell’immobile”.
È un passaggio significativo, che illustra la protervia del soggetto privato che
si spinge fino a invocare lo spostamento di un nucleo familiare insediato in un
alloggio popolare per ricavarne un ristorante, e svela la vera natura del
progetto. Il fatto che questa richiesta sia stata accantonata, infatti, non ne
muta il significato: si tratta di un interesse privato su suolo pubblico. Tutto
il resto è scenografia.
PICCOLO E GRANDE
Colpisce che nella relazione tecnica, nel paragrafo dedicato all’inquadramento
storico e urbanistico, manchi qualsiasi riferimento al piano di edilizia
popolare realizzato nel 1973. In sostanza, l’intervento proposto ignora
completamente il contesto sociale nel quale va a incidere. Colpisce anche che il
Comune non rilevi questa mancanza, che riguarda un aspetto di grande rilievo.
Evidentemente l’amministrazione comunale ne ha perso la memoria, o forse non sa
che farsene di una cultura urbanistica attenta ai bisogni sociali, al disegno
complessivo della città e all’equilibrio tra interessi privati e interessi
pubblici.
Del nuovo giardino San Leonardo il Comune è molto soddisfatto. I toni
del comunicato con cui lo annuncia alla città (senza alcun confronto preliminare
con il quartiere e i suoi abitanti) sono entusiasti: “Il progetto punta ad
aprire il giardino verso la città, mettendolo in relazione con le attività e i
servizi circostanti, attraverso la riqualificazione dei margini, la
riorganizzazione degli accessi e la valorizzazione delle connessioni urbane […].
Gradini, sedute, rampe e gradoni ridisegneranno il perimetro del giardino per
renderlo più accessibile, vivibile e connesso al tessuto urbano, trasformandolo
in uno spazio di relazione e incontro per residenti, studenti e cittadini”.
Questo passaggio illustra bene quella che potremmo definire la neolingua della
rigenerazione urbana. Si prende qualche termine dal lessico specialistico
(riqualificazione, margini, connessioni…), lo si combina con qualche aggettivo
comparativo che metta un po’ di enfasi nel discorso (più accessibile, più
vivibile) e con qualche verbo che evoca il cambiamento (riorganizzare,
trasformare), si condisce il tutto con una formula buona per tutti gli usi
(spazio di relazione e incontro), e il gioco è fatto. Ma se si gratta sotto la
superficie, quella frase non significa nulla.
Dietro al vuoto del discorso pubblico, però, ci sono processi rilevanti che
stanno trasformando il volto della città. Da questo punto di vista la vicenda
del giardino San Leonardo non è importante solo di per sé, per chi ne ha cura e
lo frequenta, per chi abita nei dintorni, ma è anche una spia estremamente
significativa delle tendenze in atto. Nella dimensione micro si possono leggere
con chiarezza le distorsioni in atto nella dimensione macro. I 1.500 mq del
giardino non sono diversi – per esempio – dalle decine di ettari delle grandi
caserme dismesse, né meno importanti. La logica che regola la loro
trasformazione è la stessa, e il suo nucleo è la profonda alterazione del
rapporto tra pubblico e privato. In questo passaggio d’epoca, che ha inizio
almeno trent’anni fa e che ora giunge a piena maturazione, i poteri pubblici
hanno abdicato al loro ruolo di regolazione delle trasformazioni urbane in
relazione ai bisogni della collettività. Non sanno né vogliono indirizzare gli
interessi privati verso una funzione sociale, anzi, li assecondano al punto di
modellare gli spazi pubblici sulla base delle loro esigenze. Bologna è ricca di
esempi di questa sistematica distruzione dello spazio pubblico – che assume
forme diverse a seconda dei contesti.
Il caso del giardino San Leonardo aggiunge a questo quadro un elemento
specifico. Si tratta del fatto che – nella strategia dell’amministrazione
comunale – la “rigenerazione” intesa nella sua accezione distorta deve
riguardare anche le piccole aree, le zone interstiziali. Nulla deve sfuggire a
questa ridefinizione dello spazio che è anche, necessariamente, una
ridefinizione delle relazioni. I luoghi liberi, informali, dove non succede
nulla di particolare perché vivono della ricchezza della quotidianità risultano
d’intralcio a una visione dello spazio pubblico in cui i fattori dominanti sono
il consumo, il controllo, l’organizzazione centralizzata di ciò che in quello
spazio deve accadere. Ecco perché è così importante preservare la “normalità” di
quel piccolo giardino. Se – partendo da lì – allarghiamo lo zoom, c’è la città
intera, che vive ovunque le stesse tensioni. (mauro boarelli)
(disegno di peppe cerillo)
Il 1 giugno il Giro d’Italia raggiunge la capitale: sia a Roma che a Ostia la
popolazione accoglie i ciclisti israeliani sventolando bandiere della Palestina.
Il 2 le frecce tricolori sorvolano il centro della capitale, e le parate
annunciano la nuova militarizzazione della vita pubblica, l’entrata in guerra,
l’aumento della spesa militare, la difesa di uno stato genocida. Il 5, mentre in
Senato si approva il Decreto Sicurezza (poi fortemente messo in discussione
dalla Corte di Cassazione), c’è un tentativo di sgombero nel residence per
l’emergenza abitativa di Val Cannuta: le famiglie che lo abitano occupano la
strada e affrontano la polizia. Il 7 giugno scende in piazza per Gaza
addirittura il Pd: è la più grande manifestazione dall’inizio del genocidio, ma
dal palco parla anche chi si definisce “orgogliosamente sionista”. Nel
frattempo, a Villa Pamphili viene trovato il cadavere di una bambina neonata, e
il corpo di una donna rinchiuso in un sacco nero.
Referendum dell’8 e 9, al seggio si presentano meno del venticinque per cento
dei votanti romani, anche se le periferie danno miglior prova del centro. Lunedì
9 dei picchetti fermano due sfratti a Cinecittà Don Bosco e a Casalbruciato.
Pomeriggio al Pantheon: presidio di solidarietà con la Freedom Flotilla,
bloccata da Israele in acque internazionali. Il 10 il Comune annuncia l’acquisto
futuro di ben mille e trecento case, di cui mille da Enasarco, ente
previdenziale privatizzato che ne aveva più di diciassettemila a Roma. L’11
grande manifestazione antisionista a Garbatella. Nel frattempo, la giunta
regionale approva l’ennesimo piano di sblocco della cementificazione. Sabato 14
un corteo di centinaia di migliaia di persone, forse un milione, sfila per il
Pride, da piazza della Repubblica a Terme di Caracalla, anche con tante bandiere
palestinesi: alle cinque si sospende la musica per cinque minuti, in ricordo
delle vittime del genocidio. Nel pomeriggio c’è un presidio di solidarietà di
alcune decine di persone davanti all’ambasciata iraniana a Roma, dopo i
bombardamenti israeliani sull’Iran. Circa cinquecento persone manifestano per la
Palestina anche in Tuscia, a Orvieto.
Il 17 un nubifragio si abbatte su tutta Roma. Il 19 a Ostia va a fuoco il
Village, lo stabilimento “sottratto ai clan”. Sempre a Ostia c’è un incidente
mortale tra una moto, una smart e un motorino: i familiari delle persone
coinvolte aggrediscono i medici dell’ospedale Grassi. Il 20 bruciano otto
macchine sul lungotevere in zona Marconi. Sciopero generale: proteste sotto la
sede di Leonardo sulla Tiburtina. Sabato 21 due grandi cortei contro guerra e
riarmo, uno da piazza Vittorio, l’altro da Porta San Paolo. Il 23, alla vigilia
di San Giovanni, cade una banda di trafficanti marocchini che spacciava il fumo
per le strade di San Lorenzo: la banda contava sulla complicità di ben sette
poliziotti del commissariato di zona, che da anni restituivano loro l’hashish
sequestrato, falsificavano i documenti, e naturalmente incassavano i proventi.
Due sono arrestati e gli altri cinque indagati. Il 24 il sindaco annuncia un
“rimpasto di giunta” che riequilibra le varie correnti Pd: a guidare i progetti
Pnrr per Torbellamonaca e Corviale mette una vecchia guardia del partito;
l’assessore al personale diventa vice-capo di gabinetto; una consigliera (e
presidente del Pd romano) si dimette per diventare capa della segreteria del
sindaco, in barba a chi l’aveva votata per esercitare un altro ruolo. La notte
un ragazzo di trentacinque anni in scooter viene travolto e ucciso da un’auto
rubata, su viale Kant.
Il 25 notte una bomba carta devasta una palestra di boxe a Ostia, forse una
ritorsione dopo la sentenza del processo dell’ultrà Diabolik. Il 26 inizia il
caldo estremo, e con il caldo gli incendi: brucia il pratone di Torrespaccata,
una grossa area verde della periferia est, su cui ci sono forti mire
speculative. Due incidenti durante la notte: muoiono un cinquantenne sullo
scooter a Torvaianica e un motociclista di quarant’anni sulla Lauentina:
diciassette morti sulle strade dall’inizio di giugno. Il 27 il Comune annuncia
l’installazione di una ruota panoramica sul lungomare di Ostia. La Regione
intanto approva una variazione del bilancio di oltre dodici milioni di euro, che
però andranno solo all’efficientamento energetico delle proprietà Ater (non si
sa se le case popolari, o solo gli uffici), per il trasporto disabili su gomma,
e per la partecipazione all’iniziativa “Vie e cammini di San Francesco”. Il 28
pomeriggio un ragazzo del Bangladesh di ventisette anni viene accoltellato e
ucciso durante un picnic, forse da un ladro, al parco della Montagnola.
In tutto ciò, in Vaticano si continua a giubilare: tra il 23 e il 28 si
celebrano il giubileo dei seminaristi, dei vescovi, dei presbiteri e delle
Chiese Orientali. (stefano portelli)
(disegno di martina di gennaro)
(segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo
nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il
suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da
piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le
arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma
le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di
essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti
anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche
di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a
quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e
tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere,
Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è
bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io
a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che
faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un
regalo di ceramica».
Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di
Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della
madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche
il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e
l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in
casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo
quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il
lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che
il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un
quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue
attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo
in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare
da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi
nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde
pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La
Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino
delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro
area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche
del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle
che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice
del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a
Scampia.
A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti.
Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme
a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna.
Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori,
figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto
ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono
allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto
numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di
parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le
donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche
il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua
figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello
stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul
lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una
sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile
somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle
foto dal telefono.
Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita
di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita
dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese
di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva
di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a
causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a
stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più
di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a
Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio
in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la
testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla
testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito
alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di
ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto
bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco:
mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu
culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco
strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è
dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta
di Rosa è riuscita molto bene.
O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO?
Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli,
aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei
manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che
associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione
psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato
unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la
cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta
dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì
all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di
trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della
riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova
considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto
sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò
al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale
psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò
i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di
riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –,
niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e
dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia:
perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti
palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro».
Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che
Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi
rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un
centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente
[…]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona».
Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio
del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di
Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona,
perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si
fa ogni giorno sui territori».
Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i
gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e
sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a
farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu
entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che
facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo
proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche
Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di
avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e
conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li
separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare
inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”,
dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i
pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le
innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni,
come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di
Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria,
l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e
soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del
Gattablu.
Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una
contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato
un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte
collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura:
il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio
non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del
quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del
Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione,
scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per
rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la
quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il
principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere.
Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e
da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare
pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la
zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di
“rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi
sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono
invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi.
La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo
slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio
clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un
concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure
professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle
degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non
fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e
centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di
licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto
di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima
del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri
operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute
mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco
avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal
prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per
non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori
artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel
tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega
Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che
sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo
andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il
momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del
battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate
a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le
scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare
un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà
quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh…
combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte
andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’
‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che
aiutiamo il quartiere…».
Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra
ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la
mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro,
un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il
Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le
fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in
diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata.
Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è
“itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico
a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui
Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e
mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in
cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno.
Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele
stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno.
Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi
decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e
Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né
aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla
cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di
decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a
lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie
palestinesi. (maria reitano)
In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le
interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio
2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23
aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e
11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista
del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal
Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella
ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione
Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La
Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta
pubblicamente il 27 settembre 2024.
(disegno di martina di gennaro)
Lucia è figlia del sarto del campo Arar di Poggioreale, ex deposito di residuati
bellici diventato nel dopoguerra uno degli insediamenti di baraccati della città
di Napoli. «Con Mirella abitavamo da piccoli a Poggioreale; e Mirella era il
nostro… faceva la scuola a tutti i bambini delle baracche. […] Eravamo tutti
piccolini quando c’era Felice, Mirella… E dopo tanti anni, l’ho incontrata al
Gridas; e lei mi ha abbracciata forte; ha detto: “Guarda un po’! Tu sei
Lucia!”».
Mirella La Magna e Felice Pignataro – che nel 1981, insieme ad altri, fonderanno
il Gridas, Gruppo Risveglio dal Sonno, stabilendosi nel centro sociale del rione
Monterosa di Scampia – erano arrivati al campo Arar nel 1967, dando inizio a una
scuola popolare ispirata alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani,
che prese poi il nome di Scuola 128. Come ha scritto anche Felice in Pasquale
Passaguai e altri racconti dalla Scuola 128, Mirella ricorda spesso che per
illuminare la baracca utilizzavano una lampada a gas, ma per le proiezioni,
anche se solo per un’ora o due alla settimana, non potevano fare a meno della
corrente elettrica, offerta proprio dalla baracca del sarto.
È l’anno scolastico 1968-69 e nella baracca 128 si fa scuola e si organizzano
assemblee e mobilitazioni per il diritto alla casa. Nel novembre 1969, la scuola
ha un improvviso calo di frequenze: le famiglie baraccate stanno finalmente
ottenendo le case e si stanno trasferendo. Alle 186 famiglie presenti nel campo
Arar alla fondazione della Scuola 128 sono state destinate le nuove case
popolari costruite a Secondigliano, vicino il rione Monterosa, le case Ises,
realizzate dall’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Nel ’69, ci sono
moltissime occupazioni di case popolari da parte di persone senza fissa dimora o
che abitavano in alloggi impropri. Secondo Antonino Drago, che nel 1974 riassume
in un testo le inchieste dei volontari sui campi baraccati di Napoli e le lotte
per l’assegnazione delle case, si tratta di circa novecento alloggi in tutta
Napoli. Le rivendicazioni si risolvono però in un sussidio mensile per gli
occupanti e in trasferimenti forzati di baraccati e altre assegnatarie nelle
case appena liberate, che come sottolineano Mirella e Felice “erano tutte
fetenti, senza vetri alle finestre, né acqua, né fogne, né luce elettrica, né
strade, all’altro capo di Napoli”.
Seguendo i trasferimenti, anche Mirella e Felice spostano la Scuola 128 e
trovano posto in uno scantinato delle nuove case Ises. Da questo momento in poi,
gli sradicamenti di persone dai quartieri in cui sono nate verso nuove zone di
lottizzazione edilizia, sconosciute, isolate e senza alcuna infrastruttura,
segnano l’urbanizzazione di Scampia e la vita di tante sue abitanti. «Io sono
venuta all’età di sette anni al Monterosa – spiega Lucia –; dove, prima, Scampia
era tutte terre; e le mie palazzine, dove abitavo [nel] ’70, erano le ultime
palazzine… le ultime; […] c’era il pullman, l’autobus 111, era l’ultima fermata;
e poi era tutto campagna: e che aria che c’era!».
ERA TUTTE TERRE
Nella casa di tre stanze del rione Ises, Lucia trascorse infanzia e adolescenza
con i suoi sei fratelli e sorelle e i suoi genitori. Cominciò a lavorare come
sarta, affiancando il padre nel lavoro. A tredici anni trovò lavoro come
parrucchiera, poi come macchinista in una fabbrica conciaria. A diciotto anni,
qualche mese prima del terremoto del 1980, andò via dalla casa dei genitori, si
sposò e, insieme a un gruppo di persone che voleva ottenere le case in nuova
costruzione a Scampia, occupò un ex sanatorio nel Vallone San Rocco, Villa
Caputi. «Volevamo le case… sono uscita pure sul giornale a fare lo sciopero, co’
‘na panza tanta. […] Eh, andavo a fare lo sciopero a piazza Municipio, io ero
incinta di otto mesi. Occupavamo i pullman…».
Dopo il terremoto, abitò ancora in occupazione in una scuola a Piscinola. «Sono
stata occupata là, avevo la bambina di diciassette giorni, stavo allattando. La
rimanevo a mia cognata e andavo là a scuola. Poi, dalla scuola, uscì questa casa
e sono andata a occupare questa casa: non c’erano le porte, non c’erano le
fontane, non c’erano i vetri, non c’era niente, abbiamo fatto tutto noi».
Dopo sei mesi di occupazione in un appartamento ai Sette Palazzi – rione di
Scampia nei pressi di quella che solo successivamente diventerà la stazione
della metropolitana – rientrò nella graduatoria per le case popolari. Si sarebbe
dovuta trasferire di nuovo in un altro quartiere, ma rifiutò, riuscendo poi a
ottenere l’assegnazione di quella casa, in cui ancora oggi abita con la sua
famiglia. Lucia mi racconta che all’inizio non voleva stare ai Sette Palazzi.
Rispetto al rione Ises, caratterizzato da dimensioni architettoniche a misura di
vicinato, il nuovo rione le sembrava troppo grande e dispersivo. «Mo, male a chi
me la tocca casa mia. Io rimango, fino alla morte. Esco da casa mia morta!».
Marco è di un paio d’anni più giovane di Lucia e anche lui si trasferì a Scampia
all’età di circa sette anni, ma da un altro quartiere di Napoli, Ponticelli. La
sua famiglia ottenne la casa in un rione costruito tra la fine degli anni
Sessanta e i primi anni Settanta, appena dopo il rione Ises, e conosciuto oggi
come “le Cappe”. Marco mi spiega che, poiché la zonizzazione della legge 167 ha
successivamente frammentato il quartiere in lotti distinti da lettere
dell’alfabeto, le persone impropriamente pensano che il modo di definire quel
rione derivi dal “lotto K”. Quello è invece il lotto U e la toponomastica con
cui lo si identifica si riferisce alla forma a “K” degli edifici. Marco abita
ancora in quella casa, nell’edificio a pianta semicircolare con i balconi tondi
che si affacciano sui campi sportivi dell’Arci Scampia e, oltre via Fratelli
Cervi, sul Parco Corto Maltese e sul Giardino dei Cinque Continenti e della
Nonviolenza, un tempo discarica abusiva in un cantiere edile abbandonato, oggi
giardino rivendicato dalla rete di associazioni Pangea di Scampia, informalmente
costituitasi nel quartiere. Gli chiedo che cosa si veda dal suo balcone: «Del
quartiere che vedo? Gente buona e gente cattiva… e poi vedo ‘e cose della
Gattablu, che abbiamo cambiato noi».
Il Gattablu, centro diurno di riabilitazione di Scampia, è negli anni diventato
famoso nel quartiere per aver associato, grazie a laboratori artistici
collettivi, educatori e operatrici socio-sanitarie illuminate, l’arte pubblica
alla riabilitazione psico-sociale e per aver diffuso a Scampia, e non solo,
installazioni artistiche negli spazi pubblici e sociali. Nel tempo, dallo stesso
balcone, Marco ha assistito all’urbanizzazione di quel rione: quando ci si
trasferì da bambino, c’erano le case e basta, intorno neanche le strade. «Perché
era tutt’ terre, tutte terre: e noi giocavamo sulle terr… sul terreno; non
c’era… purtroppo, calcetti, non c’era niente; con le bici, giocavamo per strada,
era terra però. […] Tutte terre, tutte terre: andavamo pure a coltivare le
arance; le arance, la verdura; noi ragazzi andavamo a prendere la verdura…».
Anche Simona conserva la memoria rurale di Scampia. Anche se molto nitida, è una
memoria tramandata più che vissuta, dato che Simona è di una generazione più
giovane di Lucia e Marco. Si è trasferita anche lei a Scampia da bambina,
proveniente da San Pietro a Patierno, all’inizio degli anni Novanta. Mi confida
che ancora oggi le capita di sognare la sua vecchia casa. La famiglia non poté
più rimanere in quell’appartamento e si spostò nella casa popolare in cui
abitava la nonna di Simona e in cui sua madre aveva trascorso l’infanzia. È
infatti sua madre a raccontarle com’era Scampia. «Erano tutte terre. Infatti,
Scampia era un borgo rurale, erano solo terre, si coltivava e basta… poi vennero
cacciati i contadini per fare… […] La Villa dei Serpenti, o la Villa
dell’Imperatore, è stata abbattuta all’inizio degli anni Sessanta per fare
spazio a strade e palazzi. È rimasta solo quell’aiuola al centro là, ma quella
doveva essere bellissima…».
Simona abita nello stesso rione di Marco e anche lei è stata testimone della
trasformazione dei luoghi vicini. Tra i suoi ricordi, c’è la fatica, ma anche
l’orgoglio, di trasportare litri d’acqua fino al giardino di Pangea, quando gli
allacci dell’acqua non c’erano e gli alberi piantati sulla discarica venivano
ostinatamente innaffiati con i secchi. L’acqua è arrivata due anni dopo, nel
2018, e l’evento eccezionale è stato riconosciuto dalle attiviste e abitanti che
avevano preso in cura lo slargo abbandonato come “miracolo dell’acqua” a opera
di San Ghetto Martire, carro allegorico creato dal Gridas e Santo Protettore
delle Periferie.
Tra le persone che intervisto, chi è arrivata a Scampia dopo il terremoto da
zone della città più vicine come Marianella e Piscinola, lega il ricordo rurale
a queste ultime e a Scampia quello dei “palazzoni” da poco costruiti. Luca non
ricorda l’anno in cui è arrivato a Scampia. Sa che quando ci fu il terremoto
abitava a Marianella con i suoi genitori, che morirono quando lui era ancora
molto piccolo. A Scampia arrivò con una delle sorelle e la sua famiglia,
trovarono casa in occupazione nella Vela Rossa. Luca mi racconta che nelle Vele
succedevano sempre “tarantelle” e che lui e la sorella venivano continuamente
minacciati perché lasciassero la casa. Si sono poi trasferiti nelle case nuove,
quelle costruite nel lotto delle prime tre Vele abbattute e consegnate nel 2016.
Oggi, dalla casa nuova, Luca può affacciarsi sulla Villa di Scampia, il parco
Ciro Esposito.
Alla famiglia di Carla invece, originaria di Piscinola, la casa fu assegnata già
nel ’74, nel rione don Guanella. Carla però vi si trasferì solo anni dopo,
proprio nell’80, uscita dal collegio in cui aveva trascorso tutta l’infanzia con
la sorella. La madre le aveva raccontato che quando arrivarono in quella casa,
al contrario di quanto accadeva spesso nel quartiere, i lavori di costruzione
erano stati completati. Mancavano solo gli ascensori e loro abitavano al settimo
piano. Così, all’inizio, suo padre portò sulle spalle la lavatrice e altre cose
strettamente necessarie, mentre i mobili li sistemarono dopo che si erano
trasferiti, un po’ alla volta, pagandoli a rate con quello che i suoi genitori
guadagnavano facendo il muratore e la fruttivendola. Sara non ha bei ricordi di
Scampia, me ne parla poco. I suoi ricordi d’infanzia sono tutti legati a
Marianella: quello è il suo quartiere. Fu costretta a trasferirsi a Scampia con
la sua famiglia nelle Case dei Puffi, o lotto P, subito dopo il terremoto. Mi
racconta che li “appoggiarono” lì temporaneamente, in attesa che fosse
riconosciuta loro l’assegnazione di un’altra casa.
Sara aveva diciassette anni. Usciva solo per andare a lavorare in una fabbrica
di borse a Marianella e fare qualche commissione. In quella casa di due stanze
da letto e un bagno rimase con i suoi genitori, il suo ex-marito e i suoi primi
due figli fino al ’96, quando finalmente la sua famiglia ottenne il “rientro” a
Marianella, in una casa, questa volta, che Sara riconosce come sua. «È
bellissima, è una bella casa. È chiamato il Parco delle Rose, perché papà poi ci
piaceva piantare e piantò le rose… Sta l’insegna fuori: Parco delle Rose».
(maria reitano – continua…)
(disegno di bruttebestie)
La struttura al civico 1 di vico Trinità delle Monache, edificata nel 1600 per
ospitare un convento e adibita negli ultimi due secoli a ospedale militare, è
oggi conosciuta come il Parco dei Quartieri Spagnoli, uno spazio di 26 mila mq
ben celati dalle costruzioni successive, dal vicolo che costeggia le sue mura,
dal silenzio interno rotto solo dai motorini e dalle auto che scendono di qui
per arrivare a una delle strade più “appese” di Napoli: via Pasquale Scura nel
quartiere Montesanto.
Dal 1999, anno in cui il Demanio ha ceduto a titolo oneroso per vent’anni
l’enorme spazio al comune di Napoli, all’Università Federico II e all’Istituto
Suor Orsola Benincasa, ci sono stati tentativi di integrazione del luogo con il
resto della città ma con tempi mai certi e contraddistinti spesso da chiusure.
Un primo processo di progettazione partecipata è avvenuto nel 2016 quando la
Commissione europea ha ammesso Napoli, insieme ad altre città europee, al
progetto “2nd Chance – Waking up the sleeping giants”, nell’ambito del programma
internazionale Urbact III, con l’obiettivo di confrontarsi sul tema del riuso
dei grandi immobili abbandonati o parzialmente utilizzati ed elaborare strategie
e piani di azione locale. Nel 2018, durante la conferenza stampa per la chiusura
della fase partecipata, l’allora assessore al diritto alla città, Carmine
Piscopo, riportò alcuni dei risultati e gli obiettivi ancora da raggiungere
riassunti nel recupero di tutta la rete ecologica dei percorsi che dalla Certosa
di San Martino arriva alla struttura dell’ex ospedale, il completo recupero
degli spazi interni, oltre alla generazione di nuove economie tra cittadini e
istituzioni.
Nel 2023 si torna a parlare dell’ospedale militare con un nuovo accordo
temporaneo, stavolta non oneroso, tra il Demanio e la nuova amministrazione
comunale, finanziato nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo “Napoli
– Centro Storico” con sei milioni di euro per la riqualificazione delle aree
verdi e di alcuni edifici del complesso SS. Trinità delle Monache all’interno
del Parco. “Community Hub – Incubatore di cittadinanza attiva” è il nome del
progetto, simile nelle sue fasi a quello del 2016. C’è stata una call to action
(2024) rivolta alle proposte dei cittadini con incontri e dibattiti con i
progettisti che dovranno deciderne la fattibilità e in ogni caso rendere
possibile la fruizione del parco e dei locali entro il 2026, pena la perdita del
finanziamento.
Nel marzo scorso, durante un’indagine preliminare sulle aree verdi, gli agronomi
chiamati dal Comune hanno constatato la pericolosità di circa venti tra le
specie arboree presenti, per cui si è reso necessario un intervento di messa in
sicurezza e la chiusura del parco. Trattandosi di un bene vincolato non è chiaro
se esista anche un vincolo paesaggistico e quindi se ci sarà poi l’obbligo di
piantare altri alberi dopo l’abbattimento. Questa volta i tempi per l’intervento
e la riapertura del parco sono stati relativamente più brevi perché, se da
sempre mancano le risorse per la manutenzione ordinaria, grazie al finanziamento
del CIS è invece possibile attivare subito quella straordinaria. Il parco è
stato riaperto il 5 giugno scorso.
LA GESTIONE PRIVATA
Se una parte dell’ex ospedale militare fatica a trovare un’identità che risponda
alle richieste e ai bisogni dei cittadini, un’altra spiccatamente più
commerciale non ha avuto difficoltà a esprimersi in meno di un anno.
All’inizio del 2024 l’Agenzia del demanio ha infatti affidato per quarantotto
mesi alla società privata Urban Value s.r.l., l’edificio principale del
complesso, per una estensione di circa 7.500 mq. E così l’estate scorsa, con
l’avvio dei lavori, in tanti nel quartiere hanno assistito al “risveglio” del
gigante. I camion dell’Asia hanno sgomberato gli enormi spazi da faldoni zeppi
di documenti, probabilmente risalenti all’attività dell’ex ospedale, mentre i
cortili hanno accolto le piante di banano cresciute nel palazzo Fondi in via
Medina, sede del precedente intervento della società Urban Value a Napoli.
L’edificio non ha subito abbellimenti né interventi strutturali ma solo le prove
di carico per permetterne l’apertura al pubblico. Una nuova umanità ha
cominciato a frequentare il complesso, mostre d’arte, musica dal vivo e mercati
sono stati organizzati negli spazi de La Santissima, il nome scelto per questo
contenitore, anzi questo “hub” come si legge dalla descrizione sui social.
Dopo quattro mesi di attività, a seguito di un controllo della polizia
municipale durante un evento privato di musica elettronica, alcune sale della
Santissima sono state sottoposte a sequestro giudiziario preventivo per la
mancanza di autorizzazioni. Riguardo l’accaduto i responsabili hanno diffuso a
mezzo stampa numerose dichiarazioni per riportare l’attenzione sulla complessità
del progetto e sul lavoro in corso: “Da più di un anno lavoriamo con fondi
privati per riaprire e dare nuova vita a uno spazio rimasto chiuso per oltre
trent’anni. E ci stiamo ancora lavorando. La Santissima è un progetto in
divenire, che cresce giorno dopo giorno, e di cui oggi si percepisce solo una
parte del potenziale”. Improvvisamente la città e le sue diverse anime hanno
perso Filippo e il Panaro, così commentavano i custodi rimasti a presidiare il
malandato cancello del parco su cui sono stati apposti i due provvedimenti.
LA TERZA VIA. I COMITATI DEI PARCHI PUBBLICI
Oltre alla gestione privata e ai tentativi istituzionali di riqualificazione del
Parco esiste una terza via, una visione comune del verde portata avanti
caparbiamente dai cittadini dei diversi quartieri della città, la comunità dei
parchi pubblici. Cristiano è un educatore, collaborava al doposcuola dello
Scugnizzo Liberato, nell’ex carcere Filangieri, e in questo contesto ha
incontrato alcuni dei gruppi che poi hanno dato vita alla comunità dei parchi
pubblici. “I comitati nascono alla fine del 2024 – racconta – dalle esperienze
di alcuni parchi pubblici e in particolare il San Gennaro alla Sanità, in cui
erano previsti dei lavori nelle aree verdi di cui si voleva conoscere la natura
e la durata. Esistevano già delle comunità che hanno deciso di organizzarsi per
mettere in relazione le esperienze e muoversi meglio nel dialogo con le
istituzioni. Anche la travagliata scrittura di una regolamentazione del verde da
parte del consiglio comunale ha acceso l’interesse dei cittadini che vogliono
essere coinvolti nelle decisioni. Si sente forte la preoccupazione di vedere
ulteriormente ridotto lo spazio all’aria aperta, come è accaduto con la
questione abitativa e la fruizione del suolo pubblico nel centro storico. Si
protesta contro l’approvazione del regolamento comunale del verde perché, avendo
letto la bozza gli attivisti vedono nella parola ‘gestione’, riferita ad
associazioni e soggetti privati, il pericolo di creare luoghi con un utilizzo
limitato da parte degli abitanti. Inoltre la possibilità che la gestione di
terzi possa durare fino a dieci anni viene considerato un tempo davvero lungo
per un affidamento”.
Nel comunicato della Commissione salute e verde del Comune si legge della
conclusione di un percorso di confronto con i rappresentanti dei comitati
cittadini e delle associazioni ambientaliste. A fronte di diverse criticità e
dubbi espressi dalle associazioni, soprattutto sul tema del possibile
coinvolgimento dei privati nella gestione e/o manutenzione dei parchi cittadini,
la presidente Saggese ha chiarito che la gestione del verde, così come il
servizio di guardiania nei parchi, resteranno integralmente in capo al servizio
pubblico, escludendo ogni forma di privatizzazione o speculazione economica. Ciò
che potrà invece essere oggetto di collaborazione tra pubblico e privato saranno
le attività di manutenzione del verde urbano, sempre senza finalità di lucro e
coerenti con le possibilità offerte dal regolamento sul mecenatismo. “Conclusa
questa fase di ascolto – continua Cristiano –, bisogna aspettare che il
regolamento venga votato per capire se le istanze dei cittadini sono state
ascoltate o meno, in particolare il punto 3 della bozza riguardante la gestione
privata temporanea delle aree verdi che abbiamo chiesto di rivedere”.
Le proposte dei comitati riguardano anche alcune pratiche che in passato hanno
funzionato, come la manutenzione di una parte del verde affidata ai disoccupati
organizzati del progetto Bros, spesso abitanti degli stessi quartieri dove
andavano a intervenire, da cui poi sono stati allontanati e spostati alla
manutenzione stradale fuori città. “Una buona gestione è possibile perché
l’abbiamo vissuta – sostiene Cristiano –. Oltre al progetto Bros, va ricordato
che a oggi circa settecento persone sono state formate per la cura del verde ma
non hanno mai iniziato a lavorare. Una nuova platea di disoccupati per i quali
si è investito in formazione senza un chiaro obiettivo di occupazione. Per
fortuna nell’ultimo incontro con la commissione erano presenti anche loro a
rendere chiaro che oggi ci sono tanto le risorse quanto i lavoratori. Le
pratiche per assumere queste persone non vanno avanti e nemmeno c’è una
richiesta alla regione Campania per riavere i Bros, circa milleduecento persone,
magari per una sperimentazione in alcuni quartieri, un investimento che
porterebbe benefici anche a livello sociale”. (grazia della cioppa)
(disegno di dalila amendola)
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto
della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e
quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più
approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti
a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo
contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha
conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti,
la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che
tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in
virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo
– gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi
provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si
chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e
desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha
minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un
questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno
concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali,
dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le
loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato
il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono
dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai
metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce
avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa
una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno
identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via
Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o
no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero
accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero
lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno
passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani
accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di
pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono
invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via
crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo
indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi
un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e
scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto
alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si
standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili
basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i
gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro
imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si
stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il
prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al
di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse
le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi,
non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di
qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole
rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non
conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano
negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un
protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai
clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in
gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato,
saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare
in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta
proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa
generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura
dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente
integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità
operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere
Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella
storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo
testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della
mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e
soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E
quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere
rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono
proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e
si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito,
ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il
plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza
dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un
rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno
violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno
violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è
una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e
ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non
uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali
sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o
crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il
più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una
psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al
centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo
importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per
l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro
il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi
pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena
dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che
del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali
di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti,
negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché
abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che
qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione
del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e
concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti
della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o
ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale
attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i
sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle
contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la
dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il
Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando
cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro,
sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che
agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo,
perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie,
brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come
qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse.
Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento
produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici –
quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi
mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i
metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso
ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la
procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in
mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un
qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno
cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia”
si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da
mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine
di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e
ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato.
A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha
reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei
binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità
e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di
cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che
si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta
paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile,
non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo
stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno,
specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana
costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36
della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un
tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza
privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e
degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la
maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di
cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato
neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni
cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente
collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e
incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i
benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non
regge più? (giovanni iozzoli)
(disegno di ottoeffe)
Io e Paola ci saremmo dovute incontrare dopodomani, ma il suo spettacolo è
saltato a causa di una cisti tendinea alla mano e una brutta cervicale.
«Solitamente insorge intorno ai quarant’anni», mi dice con un sorriso strozzato
ma tenace, lo stesso con cui ha affrontato gli ultimi cinque anni in alcune
delle tante aziende, disseminate tra Napoli e Caserta, che producono conto terzi
per i grandi brand del lusso. Se ne contano circa settemila in quest’area. La
regione Campania, che copre il quindici per cento della produzione calzaturiera
nazionale, è una delle nove regioni europee con il maggior numero di dipendenti
nel settore.
Sono appena le otto di sera e Paola già si strofina gli occhi dalla stanchezza,
mi ricorda che domani deve svegliarsi presto e quindi mi affretto a chiederle
come è iniziato il suo percorso. «Quando mi sono diplomata – dice –, la mia idea
era di proseguire con l’accademia di moda, mi sarebbe piaciuto cucire vestiti di
scena». Nonostante conservi ancora a casa macchina da cucire, busto sartoriale e
cartamodelli, molto presto ha dovuto fare i conti con la realtà: quindicimila
euro l’anno la retta necessaria per accedere alle accademie di moda, per lei
insostenibile – «però mi avrebbero regalato matita, squadretta e album con logo
dell’istituto», sottolinea ironicamente.
Così, scorrendo gli annunci sui siti di lavoro, forse anche per restare
aggrappata a quel sogno, si è ritrovata alle porte di un’impresa calzaturiera
nell’hinterland a nord di Napoli. «Mio nonno ha fatto questo mestiere tutta la
vita, ricordo ancora l’odore nauseante di colla in casa. Ironia della sorte sono
stata l’unica in famiglia a seguire le sue orme. Alla fine, è come se fossi un
po’ una designer delle scarpe».
All’esterno dell’edificio neppure un’insegna col nome della ditta, ma solo una
targa impolverata con su scritto “tomaificio”. All’interno non è raro che alcuni
dei trenta dipendenti – per lo più donne e senza contratto – svengano per via
delle esalazioni provenienti dai collanti e dal taglio della pelle, che l’unico
finestrone semiaperto del piccolo stabile non riesce a filtrare. «Nella prima
azienda – continua Paola – ho trascorso solo sei mesi, lavoravo dalle 8 alle 17
per venti euro al giorno, quindi poco più di quattrocento euro al mese.
Producevamo per Ferragamo e Vuitton. All’inizio ero eccitata di produrre per
queste grandi firme, quasi non mi sentivo all’altezza, poi sono dovuta scappare:
la vista è iniziata a peggiorare, ho scoperto dopo per via dell’assenza di
aeratori vicino ai macchinari che erogavano colla, sempre senza etichetta».
La produzione si suddivide in grandi commesse da circa trecento pezzi a cui
lavorano una decina di banconiste, svolgendo affannosamente anche più fasi del
processo; e una produzione più selettiva a cui lavorano solo in poche operaie,
spesso le più anziane. Nonostante Paola non avesse esperienza nel settore,
nessuna tra queste ultime le ha mai insegnato come svolgere correttamente il suo
compito, nel timore di essere sostituite da una giovane tirocinante
eventualmente capace di svolgere più mansioni, più velocemente. Quando poi, a
causa di consigli “inesatti”, ha danneggiato più di un paio di scarpe, attirando
su di sé l’ira e gli insulti del datore di lavoro, ha compreso l’unico
imperativo da tenere in conto: non fidarsi di nessuno.
Nonostante l’ambiente ostile, è in quei sei mesi che ha maturato buona parte
delle competenze che le hanno permesso di approdare nella seconda azienda, in
cui lavora da quattro anni, il primo con un contratto di rimborso spese, gli
ultimi tre con uno di tirocinio. «Qui le cose vanno meglio: ho un contratto con
ferie pagate e malattia, si svolgono visite mediche periodiche e controlli da
parte dell’ispettorato del lavoro e dell’azienda committente». Eppure, qualcosa
non torna ancora: la busta paga segna sei ore al giorno per milleduecento euro
mensili, ma Paola in fabbrica ne trascorre otto per ottocento euro al mese, lo
stesso prezzo di uno solo delle centinaia di stivali di Hermes e Vuitton che
lasciano la fabbrica quotidianamente. Il capannone, in provincia di Napoli, è
molto più grande e ospita fino a settanta dipendenti, anche in questo caso in
maggioranza donne, tutte con forme contrattuali differenti (le neoassunte sono
retribuite appena venticinque euro al giorno). Diversamente dall’azienda
precedente, la produzione è automatizzata e avviene in manovia: tra banchi molto
stretti scorre un nastro, lungo il quale la singola addetta svolge una sola fase
produttiva, a un ritmo che (in)segue le richieste dell’azienda committente. «È
questa la cosa disumana; se, per esempio, dobbiamo produrre cento scarpe abbiamo
a disposizione cinque minuti per ogni fase, ma se la settimana successiva la
commessa è di trecento o quattrocento paia, la caporeparto aumenta il ritmo, e
quindi ti ritrovi a svolgere la stessa operazione in due minuti». Questo perché,
mentre gli ordini più grandi sono evasi in Asia, al mercato europeo, che può
sfruttare il sistema di distribuzione su gomma, sono destinati ordini più
piccoli e brevi, che rendono impossibile pianificare la produzione e inducono a
ripiegare su subappaltatori e lavoro a domicilio. Come testimoniano alcuni
produttori nel report Clean Clothes Campaign, tutto il sistema moda si fonda su
una profonda asimmetria di potere contrattuale: da un lato l’azienda committente
e i rivenditori impongo il prezzo, con contratti che vincolano unicamente al
rispetto degli standard qualitativi e delle tempistiche di consegna, e non un
impegno sulle quantità da produrre. Dall’altro i produttori accettano prezzi
bassi per non essere estromessi dal mercato, operando con un margine di profitto
tra il cinque e il dieci per cento, corrispondente a pochi centesimi a pezzo,
che il marchio rivende a un prezzo decuplicato. Ai fornitori non resta dunque
che puntare sulla quantità, ma a risentirne in termini di salari e di salute
sono le lavoratrici: «All’inizio – racconta Paola – per recuperare uscivo anche
alle sette di sera, poi il corpo si abitua, ma molte non riescono a reggere,
vivono tutti i giorni con l’ansia: alcune sono tornate a casa piangendo, altre
iniziano a lavorare prima che suoni la sirena o non vanno in bagno per tutto il
turno».
Anche il suo di corpo sembra mostrare i primi segni di cedimento, ostacolandola
sempre più nell’unica attività che la sottrae al grigiore di quello stabile e al
fracasso delle macchine da cucire. Me lo racconta lei stessa quando le chiedo a
cosa pensa durante il turno: «Io metto le cuffiette con la musica e immagino le
coreografie di ballo, balli di gruppo, di coppia. Non ci sono in fabbrica, c’è
il mio corpo ma non la mia testa. Penso a quello e basta, perché in realtà io là
non ci voglio stare».
La sua insofferenza, oltre che dalle pessime condizioni salariali in un settore
che costituisce il cinque per cento del Pil nazionale, pare essere motivata
proprio dall’ambiente di lavoro, che sembra accomunare entrambe le sue
esperienze. Le aziende assumono principalmente donne, molto anziane o molto
giovani: le prime hanno iniziato a lavorare a domicilio quando avevano appena
dodici anni, spesso attendendo anni prima di vedersi riconosciute una qualche
forma di retribuzione; per le seconde, giovani madri poco più che ventenni, il
salario costituisce solo un’integrazione secondaria del reddito familiare. «Lei
vent’anni, lui trenta, contratto a tempo indeterminato, casa, una brava ragazza.
Ma che gli manca? Niente. Lei, che lo conosce da dieci anni, che gli manca?
Tutto, dipende da lui anche per la macchina. Mi dicono “sono felicissima, ma
tornassi indietro…”, allora forse non lo sei veramente, penso io». Tutte poco
scolarizzate, spaventate dall’idea di cambiare azienda o semplicemente di
chiedere un aumento, finiscono per accettare salari da fame.
Ormai è l’una di notte e mi sento tremendamente in colpa per aver fatto tardare
così tanto Paola. Lei, che di giorno sogna le coreografie e di notte la manovia,
scende dall’auto salutandomi, ma prima di chiudere la portiera mi dice: «Lo sai,
prima non ci pensavo nemmeno io, ma ora me lo chiedo spesso, chissà se loro si
chiedono chi c’è dietro quelle scarpe». (maddalena de simone)