(disegno di andrea nolè)
Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della
struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla
fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di
dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle
operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche
il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura.
Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato
sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli
esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le
immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili.
L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe
rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris
è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro
processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco.
Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse
impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata
scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno
in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata
riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento
delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati,
qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non
c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della
Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola)
andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a
testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato
non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e
cura a carattere scientifico”.
La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si
sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che
assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate
all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva
assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi
doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e
lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi
doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono
state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e
organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura
dei ragazzi con disabilità.
Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar:
dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in
appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle
assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che
Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di
Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono
state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla
fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le
argomentazioni nella motivazione della sentenza).
Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne
presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin
dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto
avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per
maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le
telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice
non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata:
ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di
violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente
negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la
giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di
soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del
processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e
irrispettosi.
In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato
nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando
qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di
fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di
simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte
degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente
affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e
neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione
dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di
civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di
contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere
utilizzati, producendo fratture e traumi vari).
Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto
un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto
di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine
della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate
motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali,
si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili)
un applauso lungo e liberatorio.
Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris
sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel
2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una
ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e
schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il
direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle
intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura
lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro
stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte
le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”.
Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria
Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola
che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il
tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I
genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale
ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la
struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole,
tratte dalla sua Carta dei servizi:
“La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare,
ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra
organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da
educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da
‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano
concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi
di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base
delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di
affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”.
HANNO VINTO I POTENTI
Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella
sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni.
Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia
inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo
l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della
presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli
strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale:
elettroshock, contenzioni, Tso.
La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di
milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal
costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di
premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima
onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi
più calde.
D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro
livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori,
cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di
parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa,
zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da
sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle
stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di
fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un
processo che è andato avanti per anni.
Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni
che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia – afferma ancora il
comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza – abbiamo impegnato tutte le
nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il
nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e
soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”.
A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da
quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun
visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono
accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo,
all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun
tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a
ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa
Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità
Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo
Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini),
Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità
Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze,
contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni.
Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e,
malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture
che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di
accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove,
di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e
fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
______________________
¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
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(archivio disegni napolimonitor)
La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del
carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul
funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa
circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava
una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a
fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della
regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo,
l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione
sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria
materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di
accesso civico agli atti.
Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco
immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto
materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di
attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri
istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria
Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha.
* * *
Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure
estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La
struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre
centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo
contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente
compromesso.
Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è
presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici
complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione
diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto
concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli
spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi
incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie
rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza
supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento
tempestivo.
La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo
psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero
elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di
tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi
vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico,
aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche
esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui
medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento
psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico.
Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di
polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella
prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico
e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con
ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti.
Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità.
Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche
possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze
nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli
appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda
sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono
rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle
prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate.
Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di
patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o
inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla
produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime
detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati
e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli.
Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano
cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati
e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di
infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività
nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo
significativamente la qualità della presa in carico sanitaria.
Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano
ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza,
Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati
e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti
ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento
da remoto.
Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in
crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato
espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza
interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un
tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla
salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
(disegno di otarebill)
Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può
vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo
in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa
dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione
Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha
scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di
potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza
nella fiera promozionale.
«Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci
accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.
«Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della
mattinata…».
In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand,
ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte
gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche
scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e
colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per
l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio
De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli
affari esteri Edmondo Cirielli.
Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza
regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati
e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un
“principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e
poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue
dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il
tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà
straordinario”).
Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con
circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli
stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni
più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”:
può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e
inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire
sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i
cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per
monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree
contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici
blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone
al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si
confonde con una fiera campionaria del business bellico.
Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il
2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le
spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi
per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti
strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul
Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9
investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).
Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della
statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento.
È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i
sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà
ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta
milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre
settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica
di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione
della spesa pubblica.
All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della
rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una
fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle
superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita
scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una
di loro, l’altra fa spallucce.
Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero,
l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari
mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una
passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante
alla rotonda. L’aria è quella di una calda mattinata autunnale, tre signori
prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica
da una radiolina, i gabbiani sono in acqua.
Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari
locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio,
mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a
tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito
dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure
e con la modulistica.
Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi
allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro
ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di
O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito.
(edoardo benassai)
(archivio disegni napoli monitor)
Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni
di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi
ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle
spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento
milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono
partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di
vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la
turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra
loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non
volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.
Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e
persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che
entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla
mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo
dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in
un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le
complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.
È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e
Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e
di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante,
pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta
succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto
(la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa
a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa
“velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa
America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile
ancora maggiore di quello già esistente sul territorio.
* * *
Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni
comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025),
abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro
internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa).
Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere
politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci
focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti
tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più
sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la
salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte
tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare.
In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie
oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico
in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente
allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non
si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di
Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United
States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo,
2024b; 2025a, b).
Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la
necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della
legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione,
con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione
politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa
(come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali
con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i
terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte,
decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa,
sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero
anch’essi essere bonificati utilizzando l’Istd.
In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà
effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in
sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la
costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la
bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup.
Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in
sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento
definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua
superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi
all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile
costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire
la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici
presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere
bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in
Danimarca.
Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra
tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle
stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale,
specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale
approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro:
sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte
della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della
colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una
valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie
dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile.
CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI
L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e
per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente
inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente
prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti
marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli
ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati,
che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni
(combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente
cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo
stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche:
rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento
di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del
vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il
mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi
Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha
riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare
la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce
vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei).
Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è
un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico,
negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla
combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata,
Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di
Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni
negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per
cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio,
dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria
chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si
accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella
catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo,
inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici,
chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca
nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono
persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali,
sulle comunità locali.
La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito
di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al
contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di
conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno
parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte
lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del
rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per
definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali,
all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone,
prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili
scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo
assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili
con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito
di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea.
Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici
secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei
gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di
cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno
volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio
maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini
che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati
e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica
ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio,
soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate
in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale
rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno
necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i
siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli,
il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con
l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento
di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate
viene infatti generalmente privilegiato l’Istd.
Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe
necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni,
Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di
bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la
salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica.
Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di
sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati
(Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano
tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il
dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp,
causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli,
fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti
delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb
totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che
sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di
Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover
vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli.
Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati
per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹.
Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per
la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in
realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire.
Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste
comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano
essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non
vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con
phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di
pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli,
si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b).
Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo
et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli
pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003)
oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da
sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei
valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati,
alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana
(rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa).
Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella
raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli
impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica
più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli
(De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata.
____________________________
¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in
Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da
Icram/Ispra.
(disegno di francesca ferrara)
Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio
di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente,
con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate
d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a
dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a
sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi
della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni
angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in
tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che
li guida rende la loro azione più di una semplice protesta.
Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi
dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del
futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È
anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri,
che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia,
spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato.
Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al
primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi
della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie;
discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian
piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice
una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in
modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro
intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni
denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e
Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che
sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera
a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel
genocidio.
Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che
alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo
sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di
civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si
continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando
le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può
andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa
Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la
rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come
il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La
Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione,
nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva
sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le
lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a
costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo
dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le
responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più
rispetto agli altri».
Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della
scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone.
Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia:
una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare
di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non
sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece
di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti
hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i
materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più
obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per
molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri,
non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai
Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta
chiamati “alternanza scuola-lavoro”.
L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare
l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi
nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati
incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per
carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in
centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice
addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza.
Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un
comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa
Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e
marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice
degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e
simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come
Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e
all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il
carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”.
D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento
che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà
hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio
rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo
che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che
l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è
cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e
formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito
il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli,
con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto
periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il
coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione
all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e
studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo
qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non
rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha
spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”. L’obiettivo
di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche
faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita».
L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande
più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un
luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno
raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro
aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la
scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente.
(pasquale frattini)
(disegno di ottoeffe)
Chiamatemi Selma. È un nome di fantasia, voi mi capite. Il mio nome vero è un
altro e vi dico come si pronuncia. Come? Apri la tua bocca e muovi la dentiera
superiore e inferiore, sbattendo i denti, e poi apri un sorriso: senti il vero
nome mio. Un nome di origine latina, periodo di colonizzazione, quando i bianchi
sprofondavano nel mondo nuovo a sfruttare, rubare e distruggere l’America
latina. Proprio la mia origine biologica è il Brasile, ma il mio nome proviene
da questo mischio di rivolta oggi chiamato libertà. Dove devo stare? Non sceglie
il Brasile dove sono nata e ho vissuto per trentatré anni, non sceglie l’Italia
dove vivo ormai da vent’anni. Sono libera perché scelgo io.
Ogni tanto scrivo articoli per Napoli Monitor, o faccio da autonoma dei piccoli
video documentari su momenti di rivolta nella città dove vivo, Torino. L’ultima
mia mossa nel movimento per la strada a Torino è stata nella manifestazione pro
Palestina, che ormai è diventata una sfilata da borghesi per farsi vedere in
abiti firmati, spronando la democrazia fallita sopra la pelle di un popolo sotto
le macerie. Questo mio documentario video della manifestazione dove ballavo
sotto la pioggia di lacrimogeni aveva un titolo: “La polizia di stato umiliata
da una corrente umana”. C’è una canzone, un pagode del poeta Bizerra da Silva,
brasiliano, che dice in una strofa: “Se Leonardo dà venti, perché io non posso
darne due?”. Pausa; mi giro una sigaretta.
In venticinque fogli protocollati dalla “Questura di Torino e il prefetto della
provincia di Torino” appare il mio nome per venti volte. A proposito: Torino è
una metropoli, ma il prefetto vive ancora nell’era dell’Augusta Taurinorum.
Ventunesimo secolo, ottobre 2025, Torino. Ancora oggi la grande fetta della
popolazione immigratoria appartenente a questo territorio vive lo sconforto
della discriminazione che arriva direttamente dallo stato.
Nei fogli protocollati in meno di ventiquattro ore il prefetto di Torino mi ha
espulso per ben due volte e il questore ha preso parte al festino della
colonizzazione e ha sequestrato il mio passaporto e mi ha obbligato a firmare in
questura. Non convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di
Torino, il giudice di pace ritiene che io appartengo a questa
città. Non convalidata la misura di sequestro di passaporto e obbligo di firma
richiesta dal questore, il giudice di pace ritiene che sono libera.
A chi rivolgere queste frasi aperte, chi ha interesse di leggere o sapere della
vita di un altro, cosa passa una persona con il timbro da stranieri, che ormai
vive da decadi in un paese? Chi decide per noi? Quando la libertà appartiene a
un popolo libero, un paese democratico? La burocrazia di stato gioca e fa affari
con il braccio di forza contro individui che ritiene avere le caratteristiche
biologiche diverse. Le caratteristiche diverse? La troglodita non sono io.
Ma andiamo con ordine, ecco la mia storia di espulsa due volte in pochi giorni.
Sono da vent’anni in Italia, con una figlia cittadina italiana nata nella
metropoli di Torino, con un permesso di assistenza a minore, aspetto il rinnovo
del permesso di soggiorno da ormai due anni, quando mia figlia ancora era
minorenne. Oggi maggiorenne, questo permesso mi offre la possibilità di
convertirlo in permesso subordinato, o anche come permesso di disoccupazione.
Entrambe le domande collegate, abbandonate e smarrite nella questura di Torino
dove allegano mancanza di passaporto. Rido, ridete anche voi che leggete queste
righe.
Questo martedì 21 ottobre mi sono recata alla questura di Torino situata presso
Porta Susa, covo della polizia di stato. Una volta, non tanto tempo fa, gli
uffici per gli immigrati erano situati in corso Verona, un luogo indegno dove ci
trattenevano in un cortile abbandonato sotto sole e tempesta mentre la sala
d’attesa rimaneva vuota e senza la possibilità di usare il bagno, un
flagellamento e umiliazione totale.
Oggi non cambia, con due bagni chimici davanti all’ingresso di entrata, già si
osserva la merda che è. Dentro l’ufficio dove ogni singola persona va a
ritirare, rinnovare un documento per convalidare obblighi e diritti da
cittadini in questa penisola naufragata, si trova un labirinto di Cnosso. Tra
persone di varia età ed etnia si trovano anziani con stampelle, bambini, neonati
e in questo miserabile labirinto siamo divisi in sala d’attesa e il
riscaldamento è spento e nel freddo gelido si è costretti ad aspettare.
Questo martedì mi sono diretta al riscaldamento e ho girato la valvola
termostatica, in dieci minuti si sentiva l’eco delle voci in sala d’attesa a
dire grazie. Un paio di minuti dopo passava l’ispettore a sussurrare al vento:
che caldo. Gli infami esistono e stanno vicini, per questo dobbiamo decidere da
che parte stare. Quando è toccato a me di andare dall’attendente questurino di
statura corporea elevata, siamo sempre a martedì, mi è stato detto: «Porta
domani la ricevuta della seconda richiesta di permesso di soggiorno subordinato,
che annulliamo la pratica della prima richiesta che è aperta».
Mercoledì 22 ottobre arrivo alle otto del mattino e senza battere ciglio
l’ispettore mi invita a entrare direttamente. Mi dirigo dall’attendente
questurino di statura corporea elevata, senza una identificazione. Mi viene
comunicato: «Il tuo permesso è sospeso»; sequestrano il mio passaporto valido
fino al 2028, la mia carta d’identità valida fino al 2028 e il mio codice
fiscale valido. E mi mandano, tra un labirinto e l’altro, al cortile dove si
fanno le impronte. Sono nel corridoio e appare una placca dorata con la scritta
“ufficio immigrazione”, una foto di una donna di origine africana appesa al
muro, mentre nel fondo del corridoio vedo la fotografia di un bambino con una
mitragliatrice lucida.
Mi comunicano quattro misure: due di rigetto del rinnovo del permesso di
soggiorno, una espulsione richiesta dal prefetto con accompagnamento al confine
verso l’aeroporto di Bologna e infine la convocazione a un’udienza in
direttissima con il giudice di pace dove il mio destino sarebbe quello di non
salutare mia figlia e neanche prendere i miei averi, la macchinetta moca.
Andarsene e basta.
Dalle otto del mattino, senza poter comunicare con nessuno, con due sbirri
affiancati a controllare se usavo il telefono. Centomila poliziotti non saranno
in grado di dominare il mio cervello, figuriamoci un questore e un pinco pallino
di prefetto. Mi sono recata al bagno con due giovani poliziotti che assieme non
facevano la mia età e io ho solo cinquantatré anni vissutissimi metà nella
strada di Torino. Un fiore del male.
Nel bagno si infligge la loro legge. Gli sbirri vanno fino alla porta del bagno,
io dentro chiudo la porta e mi spoglio, lo sbirro spacca la porta e mi guarda:
già avevo inviato dei messaggi. Arriva la sbirra che mi vede svestita, mentre mi
alzavo dopo una lunga pisciata. Arrivano i miei due avvocati per la
direttissima. La giudice di pace è in udienza online, in videochiamata. Non
convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di Torino. Gli
avvocati vanno via per primi mentre aspetto che mi restituiscano il passaporto.
Appaiono un paio di fogli nelle mani dello sbirro smisurato senza una
identificazione, mi chiede di firmare, firma, firma questo, questo altro,
questo, c’è anche questo, questo ancora. Io non firmo niente. Comunicano che il
questore mi obbliga a firmare dal lunedì al venerdì, o il lunedì e il venerdì,
non si capisce, e mi sequestra il passaporto. «Deve venire domani a firmare,
giovedì». Loro ci sono o ci fanno? Nel dubbio lascio voi lettori a concludere,
perché io ho le idee ben precise. Va bene, vi do una indicazione: comincia con
“I”.
Giovedì presto vado allo studio del mio avvocato e ricevo il comunicato di non
convalida della misura del questore di Torino: il sequestro di passaporto e
l’obbligo di firma sono respinti. Vado in questura a ritirare il passaporto.
Mentre parlo con gli sbirri pali di luce presso l’entrata della questura, arriva
in fretta un uomo di statura un metro e cinquanta a chiedere: «Che fai qua?». Il
mio pensiero è chi ti conosce, ma in silenzio rimango; lui si volge a domandare
allo sbirro Palo Di Luce Due cosa facevo lì. Palo Di Luce Due chiede all’uomo di
statura un metro e cinquanta se mi conosce. Intanto muove la testa verso il
basso e l’alto come un segno di croce. Amen! Arriva Palo Di Luce Uno a dire che
potevo entrare, dopo avere letto tutto un documento privato.
Sono nel corridoio dell’ufficio immigrazione, percepisco la loro fantasia e il
tempo sprecato con soldi pubblici. Arrivano in meno di dieci minuti tre sbirri
della digos, quelli che sono noti nella strada, entrano e vanno verso il
cortile. Con le idee chiare esco in un cortile pieno di sbirri, oltrepasso il
cortile e li lascio alle spalle. Questo tutto in prima mattinata. Nel
pomeriggio, l’avvocato comunica che posso andare a ritirare il passaporto e
ritorno in quel luogo indegno. Due nuovi pali di luce, gli sbirri: «Spostati,
stai dietro alla sbarra». Una sbarra di ferro che rimane sul marciapiede a
dividere il cimento del concreto e il vento dell’area. Una sbarra di ferro che
sta lì, a produrre una barriera architettonica e niente di più.
Io rimango in strada, in strada non si può stare, sul marciapiede neanche, e si
perdono dieci minuti a discutere: la loro concezione di libertà. Vedo il
cancello del portone del cortile aperto: entro. Mi vengono dietro con
mitragliatrici in mano gli sbirri Palo Uno e Palo Due e mi riempiono di pugni e
spintoni. Urlo: «Ispettore!». Il portone è aperto e appare il poliziotto che mi
ha accompagnato all’uscita mercoledì: «Lascia stare», dice, mentre Palo Uno e
Palo Due mi lasciano. Entro nell’ufficio immigrazione per la seconda volta nella
stessa giornata.
Fogli vari compaiono: firma, questo, questo ancora e questo, c’è anche
questo. Io non firmo niente. Ancora il prefetto di Torino mi espelle e
il questore di Torino mi sequestra il passaporto e mi obbliga a firmare. E
ancora non si sa de dal lunedì al venerdì, o lunedì e venerdì. Oggi è venerdì,
sto ad aspettare la nuova sentenza del giudice di pace, intanto cambio l’arredo
di casa e i gatti giocano sul nuovo divano.
Per non annoiarmi, vi lascio la mia ricetta del pane: venticinque grammi di
lievito, due cucchiai di zucchero, un pizzico di sale, cento grammi di semi di
zucca, cento grammi di semi di sesamo, quattrocento grammi di farina zero, cento
grammi di farina di grano saraceno, trecento millilitri d’acqua della fontana di
Torino. Siete tutti buongustai? Anche io. Alla prossima, ci si vede in strada.
Buona lotta gente ribelle. (selma arnaldo)
(incisione di felice pignataro)
Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato
un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera
di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta
antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una
contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente
contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un
comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato
emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta
per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti
della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un
gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per
stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della
democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale,
non solo locale.
* * *
Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il
dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025
mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere
considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto
gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli
adulti presenti.
Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla
scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna
scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto
antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli
studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant.
L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei
confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano
semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso
con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel
silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica.
In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è
uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle
aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così
violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e
degli studenti, lasciati soli.
Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza,
davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere
un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe
insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e
non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli
studenti che la frequentano.
Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade
mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione
vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico,
compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo.
Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha
accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di
tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera
comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è
avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché
fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se
dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e
della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti.
(alcuni genitori dell’einstein)
(disegno di otarebill)
Ayoub è seduto sulla bordura di porfido che delimita un angolo di verde, con i
gomiti sulle ginocchia. Claudia, accanto, ha un’espressione sconsolata che non
le è propria. Ha sfogato poco prima la sua indignazione, rovesciando con rabbia,
in mezzo alla strada, le merci che porta con il suo carrello trainato da una
bicicletta: i suoi dipinti colorati, qualche zaino, un paio di giacche pesanti.
Mentre si accendeva una sigaretta, nervosamente, l’abbiamo aiutata a raccogliere
le sue cose e spostarsi a margine della carreggiata. «Tu sei senza documenti?»,
chiede ora Claudia ad Ayoub, ottenendo un cenno affermativo in risposta. «Ma da
quanto è che sei qua? Solo due anni! Io da venti, venti anni!». «Vent’anni?»,
esclama lui sorridendo con disapprovazione: «Ah no, io me ne vado prima!».
È meta mattina, insieme a pochi amici ho raggiunto i venditori informali che il
sabato si raccolgono vicino alla Dora in occasione del Balon, e nonostante la
repressione. Ci sono volanti della polizia municipale in diversi angoli del
quartiere – agli ingressi del ponte, in cima alla salita verso corso Giulio
Cesare, accanto al marciapiede – e una ventina di agenti presidiano o
pattugliano la zona. Come accade ogni sabato ormai da alcuni mesi, impediscono
agli straccivendoli senza licenza di piazzare la loro merce.
Fino a qualche tempo fa un centinaio di ambulanti poveri esponeva su stuoie e
lenzuola scarpe vecchie e vestiti usati, oggetti trovati in giro, minutaglia
raccolta dai bidoni, recuperata da cantine e magazzini da sgomberare. La
presenza si estendeva libera e compatta dal ponte Carpanini sul lato sud della
Dora, sino in cima alla salita che si ricongiunge con corso Giulio Cesare e il
ponte Mosca.
STORIA DI UNA REPRESSIONE CICLICA
Da più di centocinquant’anni il Balon ospita venditori di oggetti usati, anche
molto poveri. Dal 2002 si creò una distinzione, un mercato di serie A e uno di
serie B, e fu deciso di spostare gli straccivendoli dal lungofiume all’area
vicina, ma più nascosta, di San Pietro in Vincoli e canale Molassi. Poi, nel
2019, il Movimento Cinque Stelle al governo della città impose con una delibera
comunale lo spostamento degli impresentabili più lontano, in via Carcano,
accanto al cimitero monumentale.
Per diversi mesi i venditori si opposero all’esilio, che avvenne solo a seguito
di uno sgombero violento della polizia e multe considerevoli. Già allora a Borgo
Dora la povertà rimossa riemergeva inesorabile, nonostante la delibera della
giunta e l’azione dispendiosa delle forze dell’ordine, mentre al mercato di via
Carcano si rendevano evidenti le conseguenze dell’esclusione. Per anni i segni
di quella violenza rimasero nel deserto urbano. Poi, due anni fa, furono le
gradinate del ponte Carpanini a prendere vita e accogliere nuovi mercanti
informali fino a che i contingenti di polizia municipale giunsero in forze per
sequestrare gli oggetti e vietare la vendita.
Ancora, più di un anno fa, è nato un nuovo mercato informale lungo la Dora. Lo
scorso autunno la polizia arrivava all’alba per presidiare la zona: solo per
poche ore però, così i venditori tornavano a disporre a metà mattinata. Ma
all’alba dello scorso 26 luglio, e nei sabati a seguire, le forze dell’ordine
sono giunte per rimanere fino al pomeriggio, rendendo impossibile agli
straccivendoli di lavorare. Li vediamo attendere a lungo con gli oggetti
raccolti in valigie e borsoni, aggrappandosi alla possibilità di fare il mercato
almeno qualche ora nel pomeriggio, anche se, quando il sole inizia a calare,
anche il passaggio di clienti si dirada.
Mi dà il capogiro cercare con la scrittura di mettere in fila e in ordine i
momenti: la repressione degli indesiderati appare una ruota che si ripete
monotona. Ma qualcosa ha avviato questo nuovo accanimento. Il 25 giugno e il 4
luglio giungono in consiglio comunale e di circoscrizione due interpellanze che
denunciano la presenza dei “venditori abusivi” nell’area del ponte Carpanini e
del Balon. Le presentano un consigliere della Lega e il gruppo consiliare
Fratelli d’Italia della Circoscrizione 7, appellandosi alla necessità di
“tutelare il decoro urbano, la legalità e la sicurezza”. Vi si legge che “la
presenza degli abusivi” che rappresenta “concorrenza sleale” verso i venditori
regolari del Balon, “rischia di compromettere in modo serio la vivibilità e
l’immagine della zona”.
Il 7 agosto i consiglieri della Lega presentano una mozione per l’istituzione di
presidi di sicurezza nelle zone di Aurora e Borgo Dora “soggette da anni a
fenomeni di microcriminalità, degrado urbano, spaccio e occupazioni abusive”,
individuando tra i punti di presidio strategici anche il ponte Carpanini,
“soprattutto nelle giornate del sabato”. La mozione richiede al presidente di
circoscrizione (afferente al Pd) di coinvolgere il tavolo della sicurezza per
istituire presidi di polizia, anche attraverso le risorse previste da un
emendamento regionale che destina fondi specifici al pagamento degli
straordinari della polizia locale. L’amministrazione della città anticipa le
richieste: già dal 26 luglio invia i contingenti di polizia municipale a
occupare il lungofiume.
È curioso notare che nello stesso periodo la destra si muove anche contro il
mercato in esilio di via Carcano. Con la legge regionale 9/2025, datata 8
luglio, la giunta Cirio impone ai mercatini sociali un tetto di dodici mercati
all’anno e promette sanzioni in caso di mancati controlli. Sarebbe la fine per i
mercanti allontanati al cimitero. La Città di Torino a settembre rinnova la
concessione all’associazione che gestisce quel mercato e concede le stesse
condizioni in vigore. Se la destra dimostra di non avere alcuna lettura della
città, ma solo fame di voti, la maggioranza Pd governa con efficacia la povertà
e soffoca o contiene gli ultimi.
PRESENZE SUL PONTE
Ritorno con la mente agli ultimi sabati trascorsi tra il ponte Carpanini e Borgo
Dora. Qualche straccivendolo ci saluta chiamando il nostro nome a gran voce
quando ci vede arrivare. Da qualche tempo, insieme ad alcuni amici, portiamo tè
caldo e caffè da condividere per colazione. In primavera il grande barilotto e i
termos finivano in fretta. Osservando le mosse del potere, con i bicchieri di
carta a scaldarci le mani, abbiamo imparato a conoscerci.
Alcuni, per me, sono vecchie conoscenze, incontrate un tempo in un centro diurno
per persone senza fissa dimora di questa città, che oggi ha chiuso. Dormono
ancora per strada, o occupano un posto letto più o meno temporaneamente nei
dormitori cittadini. Ci sono persone senza documenti, ma so che anche coloro che
sono in regola conoscono la marginalità, la precarietà abitativa, il lavoro nero
o lo sfruttamento. Qualcuno ha una famiglia, magari lontana, altri sono soli;
sono arrivati in città più di recente, o sono a Torino da tempo. Alcuni
aspettano per tutta la settimana che arrivi il sabato, per guadagnare quel poco
denaro che consente loro di sopravvivere e di concedersi un pacco di sigarette e
una bottiglia di birra.
Distinguo bene tra i ricordi recenti anche la presenza delle guardie. «Dovresti
vendere monili africani, basta con questi vestiti usati», dice un vigile a un
venditore. Gli agenti eseguono gli ordini, anche coloro che ci dicono che gli
dispiace impedire ai presenti la vendita di qualche scarpa vecchia: devono fare
il proprio lavoro. Un giorno, sorge un dissidio tra due venditori in attesa di
piazzare la stuoia, discutono sullo spazio da occupare. «Non potete fare un
sabato a testa?», dice un uomo in divisa. Ancora, dicono i vigili ai venditori:
è la legge, potete andare in via Carcano. Ma non sanno della separazione del
mercato a inizio secolo, e dello spostamento forzato sei anni fa? Non si rendono
conto che molti non possono permettersi di pagare uno stallo in via Carcano o
che è preclusa loro la possibilità stessa di mettere in atto quanto suggerito
per via delle leggi ostili di questo paese?
Per la seconda volta nell’arco della giornata, Claudia prova a esporre i suoi
oggetti per terra, ma è prontamente circondata da un numero impressionante di
divise. I vigili minacciano di sequestrare gli oggetti. «Lasciatela stare,
lasciate stare solo lei per favore, noi non ci mettiamo!», dice qualche suo
compagno di sventura. Ma i vigili si apprestano a mettere le mani sulle tele che
lei stessa dipinge, così si raccolgono i dipinti per lei, che deve cedere.
«Questo mercato che vedete – grida Claudia, la voce nitida – questo mercato che
vedete! Voi state tutti zitti, che ci sono cento famiglie che devono lavorare, e
voi state tutti zitti, sopra la loro merda! Dovete venire qua, appoggiare queste
persone e non stare zitti nel vostro borgo di merda!».
Il flusso degli avventori intanto scorre. Più avanti, in piazza Borgo Dora, nel
cuore del mercato, un coro anarchico intona canti della tradizione libertaria.
Al pomeriggio le strade della città si riempiranno per il corteo in solidarietà
alla Palestina. Sono lontani i tempi della resistenza del Balon e abbiamo
incassato il colpo di quella sconfitta. Comprendo che la repressione funziona
grazie all’indifferenza di tutti, e forse soprattutto alla paura, ricattabilità,
e isolamento dei venditori. Quali vie non abbiamo percorso? È giusto non
assumere alcun ruolo direttivo, ci ripetiamo, d’altronde sappiamo bene che non
siamo noi a rischiare. Allora siamo presenti, solo per accompagnarli, per non
lasciarli soli. Ma che cos’è che ci sfugge? (stefania spinelli)
(disegno di roberto-c.)
Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli
Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al
volume.
Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la
necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione
di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi
oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello
dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è
scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un
po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha
funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo
urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva
accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre,
marginale.
Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa
si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande
muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle
infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il
primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica
della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non
si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi
viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e
il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2
della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.
Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli
che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui
raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di
Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi
pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in
rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.
Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei
luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale,
ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale
dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’
tutti i contributi.
Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il
litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni
residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna
del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena
raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa
che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante
fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.
Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un
paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni
che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale
non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e
storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno
fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie
insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive,
rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi
ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.
Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una
traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge
speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero,
alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel
Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del
deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione,
che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed
economiche.
Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia
Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento
nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di
mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda
Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare.
Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti
diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo
gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela
Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi
essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri
esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che
l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle
parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici
che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli
con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso
e trascurato.
Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un
polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese
qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle
multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di
Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e
il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le
malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state
tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo
simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.
A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come
una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto
ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che
legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna
questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.
Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze
vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati
civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De
Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via
Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per
smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale
di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa
restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della
storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha
segnato la storia di questi luoghi.
Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia
ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali,
esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche,
stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura
collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità
a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che
attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa
condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha
prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno
spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e
riconoscimento.
(disegno di adriana marineo)
Palermo, martedì 18 marzo 2025. Per tutto il pomeriggio un elicottero sorvola
Ballarò. Pattuglie di carabinieri, polizia e vigili urbani battono le strade,
passano e ripassano accanto al campo di bocce di via Albergheria, davanti al
pensionato San Saverio, nei punti in cui si sono accese le vampe negli anni
passati. Di solito, il pomeriggio del 18 marzo si vedono ragazzini girare per il
quartiere spingendo cassonetti pieni di legna, cercando un posto dove
accatastarla. Oggi no. “St’annu, unn’a fannu fari a nuddu” (“quest’anno non la
fanno fare a nessuno”, la vampa), commentano alcuni parrocchiani sugli scalini
di San Giuseppe Cafasso, gli occhi in su a guardare gli elicotteri, le
conversazioni accompagnate dal rumore del flappeggio delle pale del rotore.
Alle 18 si alza una colonna di fumo bianco davanti al Civico. Un elicottero
della polizia staziona sopra l’ospedale. Un’ora prima non c’erano segni di
preparativi. Hanno rovesciato i cassonetti dell’immondizia e li hanno disposti
lungo due file; alcuni sono incendiati, l’immondizia all’interno brucia,
squagliando il polietilene insieme all’asfalto della strada. Nell’area del
parcheggio di via Carmelo Lazzaro, delimitata dai cassonetti, arde una piccola
vampa. Tra l’immondizia sono stati affastellati in fretta e furia alcuni
pannelli di compensato, gli unici pezzi di legno che i ragazzini sono riusciti a
trasportare senza farsi notare. Per il resto, le fiamme sono alimentate dalla
plastica. L’aria è irrespirabile.
Mi avvicino alla vampa, scatto una fotografia – l’unica della serata. Intorno al
fuoco non c’è nessuno. Il falò propiziatorio di legna vecchia, preparato e
acceso dai ragazzi all’imbrunire della vigilia della festa del santo, brucia
nonostante i divieti. Ma non c’è nessuno a scaldarsi e a mangiare intorno alle
fiamme, non ci sono adolescenti che giocano a saltarle e ad alimentarle con
altra legna. Il centro del rito si è spostato, il fuoco principale sarà un
altro, l’attenzione della gente del quartiere è rivolta a uno spettacolo
diverso.
Accanto ai cassonetti bruciati, è stata rovesciata una campana del vetro.
Diversi ragazzi camminano con bottiglie di vetro in mano, le trasportano ai lati
della strada, ammucchiandole tra le auto e i motorini, sul marciapiede. Molti
indossano il passamontagna, altri si coprono il volto con cappucci, fazzoletti,
bandane, sciarpe, magliette annodate dietro alla nuca. Si muovono veloci, si
chiamano a voce alta, osservano attenti quello che succede intorno. Scherzano
tra loro, giocano. Aspettano la polizia. La gente guarda la scena, appoggiata ai
muri delle case, alle saracinesche dell’edicola, davanti alle vetrine della
salumeria, della pizzeria, del centro scommesse, o in piccoli gruppi in mezzo
alla strada, sotto gli alberi dell’aiuola davanti al Civico.
Si sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi; i ragazzi si muovono compatti
verso le barricate in fiamme, si calano i passamontagna sul volto. Poco dopo,
arrivano due autoblindo della celere e un’autopompa dei vigili del fuoco. I
ragazzini gli tirano contro una grandinata di bottiglie, alcuni restando in
sella ai motorini accesi, suonando i clacson all’impazzata. Il vetro si schianta
contro l’asfalto, il parabrezza del blindato e le fiancate delle automobili
parcheggiate. I poliziotti scendono in tenuta antisommossa, sparano due
lacrimogeni sui ragazzini a pochi metri di distanza, che si disperdono. Alcuni
continuano a lanciare bottiglie: si staccano dal gruppo, corrono verso la
polizia, caricano il braccio e scagliano una bottiglia, poi ritornano nel
gruppo. I lanci si fanno più frequenti, le bottiglie volano più vicine agli
agenti, i ragazzini si avvicinano sempre di più, fanno a gara tra loro. Uno
arriva a pochi metri dalla fiancata dell’autoblindo aperto, prende la mira e
tira una bottiglia di birra vuota sugli agenti; tre di questi si staccano dal
cordone e partono all’inseguimento, appesantiti dall’equipaggiamento. Il
ragazzino resta a guardarli, aspetta che arrivino a pochi passi da lui, si gira
e corre veloce guadagnando terreno in pochi istanti.
Mi allontano per stare al riparo dalle bottiglie, mi sposto vicino a un gruppo
di adulti che osservano lo scontro da un’aiuola. Fanno il tifo per i ragazzi,
ridono della goffaggine della polizia. Inizio a sentirmi meno sconvolto dalla
scena, recupero in parte il senso del rito, della comunità che osserva i giovani
maschi esibire il proprio coraggio intorno alle fiamme. C’è qualcosa di
radicalmente diverso però: il gioco è diventato più pericoloso, le fiamme fanno
solo da contorno, la prova di iniziazione è molto più violenta. Sento che non
c’è controllo collettivo, gli adulti commentano spaesati: “Ai tempi i nuatri un
c’era tuttu stu finimunnu! Chisti parunu scene i guierra”. Qualcuno prende le
distanze, un esercente dice ai ragazzini di spostarsi dai tavolini del suo
locale.
I poliziotti si schierano su due fronti ai lati del furgone, gli scudi compatti
uno sull’altro. Gli assembramenti si sciolgono, si riformano rapidamente poco
lontano, al riparo da eventuali cariche. I ragazzi continuano a tirare
bottiglie, si muovono in continuazione tra i capannelli di persone, attraversano
la strada, girano intorno all’isolato, si confondono tra gli spettatori, poi
scattano di corsa, lanciano quello che trovano e tornano indietro. I poliziotti
rientrano dentro il mezzo che parte a sirene spiegate, sfonda la barricata di
cassonetti ancora in fiamme. Il fronte dei ragazzini si disperde veloce, alcuni
retrocedono su via Giuseppe Basile e dal centro della strada continuano a
lanciare bottiglie. La polizia spara due lacrimogeni sui ragazzi, nel frattempo
i vigili del fuoco azionano la pompa sui cassonetti, mentre volano ancora
bottiglie.
È buio ormai. Le fiamme si spengono, il rito si è consumato. Le macchine e i
motorini riprendono a circolare tra i resti carbonizzati, le persone si
allontanano. Pian piano, i ragazzini sciolgono i fazzoletti e tolgono i
passamontagna. L’elicottero della polizia si sposta finalmente, ci sono altri
fuochi accesi in altre periferie. La città continua altrove la sua guerra alle
vampe e ai bambini che le accendono.
QUINDICI ANNI DOPO
Quindici anni fa, quando lavoravo come operatore di un centro sociale allo Zen
2, avevo seguito i bambini del quartiere nella preparazione della vampa di San
Giuseppe. I preparativi erano iniziati a fine febbraio, ogni pomeriggio i
ragazzini giravano per le case, le botteghe e le officine, raccogliendo mobili
vecchi, persiane e porte dismesse, che accatastavano in una piramide al centro
dello sterrato davanti all’insula dove abitavano molti di loro. C’erano anche
ragazzine a raccogliere la legna e a giocare, a comporre insieme la piramide di
legno, ogni giorno più alta, ad arrampicarsi e a saltare giù dalla vetta a
turno, atterrando su un vecchio materasso. Dall’altro lato della strada, altri
facevano un’altra vampa. I due gruppi rivaleggiavano, si contendevano il legno
portato dagli Ape degli sbarazzi e dai furgoni dei giardinieri, che di solito
scaricavano vicino a quelli che gridavano più forte, o che erano più svelti a
vederli arrivare dallo stradone e a chiamarli. Poi, la sera del 18 marzo, gli
adulti accendevano le vampe, il quartiere scendeva in strada, o si affacciava al
balcone a guardarle. Arrivava la polizia, gli agenti scendevano dalle volanti,
controllavano, poi risalivano e se ne andavano. La vampa continuava a bruciare
fino a mezzanotte passata, con i bambini che giocavano tra i tizzoni
semi-consumati. Alla fine, avevano vinto entrambi i gruppi: ogni ragazzino del
quartiere, nei giorni seguenti, avrebbe detto che la sua vampa era più grande
dell’altra, oppure che squagghiò pi ultima, si è spenta dopo.
La stridente differenza tra i resoconti di due vampe a quindici anni di distanza
mostra quanto Palermo sia cambiata in questo lasso di tempo. Nei due piazzali
dello Zen dove i ragazzini facevano le vampe, ora ci sono un campo di calcetto e
un piccolo parco giochi progettato da Renzo Piano. A Ballarò, facciate diroccate
che venivano lambite dalle fiamme di San Giuseppe ora sono coperte da murales
d’artista alti quindici metri, meta di passeggiate artistiche e turismo
“alternativo”. A largo Gerbasi, dove i ragazzini dell’Albergheria montavano la
vampa nello slargo della strada non ancora asfaltata davanti all’Ex Karcere
(centro sociale occupato nel 2001, oggi in via San Basilio), ora c’è una ricca
residenza universitaria.
La turistificazione, il mercato, la politica hanno profondamente modificato
alcuni spazi urbani, specialmente nel centro storico. Le voragini lasciate dallo
spopolamento del secondo dopoguerra, dalla speculazione edilizia in periferia,
dai crolli dovuti all’abbandono, sono state in parte riempite, in parte
camuffate da qualcos’altro. Il controllo istituzionale sul territorio è
aumentato, quello mafioso è meno visibile, si è trasformato. Le narrative dei
luoghi sono cambiate drasticamente – basti pensare a Ballarò.
Per molte persone che ci abitano, la trasformazione è preferibile. Giovani
adulti cresciuti facendo le vampe dicono che ormai è tutto cambiato, che negli
ultimi anni le cataste di legna si fanno troppo alte, troppo vicine alle case e
alle macchine posteggiate, che si brucia troppa plastica, che i ragazzini di
oggi sono troppo esagerati, troppo violenti, troppo scafazzati, maleducati.
Meglio non farle più le vampe, ormai sono solo degrado.
Il discorso sulla trasformazione dei quartieri è delicato. Questo articolo non è
certamente un’ode nostalgica a un’antica tradizione. Le preoccupazioni e i
desideri degli abitanti che sperano nella riqualificazione urbana del centro
sono certamente legittimi, e se il rito delle vampe dovesse in futuro
estinguersi autonomamente, non ci sarebbe niente da aggiungere. Il punto è che
sta avvenendo l’esatto contrario: il fenomeno delle vampe a Palermo continua a
crescere, sebbene stia diventando qualcosa di molto diverso dalla festa
tradizionale, con significati rituali stravolti, inediti attori e nuovi scenari
urbani e digitali, modificate percezioni da parte degli spettatori.
Le violente trasformazioni del rito raccontano gli altrettanto violenti
cambiamenti della città, la disgregazione dei quartieri, l’indebolimento della
solidarietà e dei tradizionali strumenti di coesione delle classi popolari,
l’aumento del conflitto e della rabbia sociale e l’esponenziale aumento della
repressione istituzionale.
Protagonisti di questa storia sono i ragazzini dei quartieri popolari, nati
negli anni della crisi, cresciuti nella dissoluzione del welfare pubblico e di
quello mafioso, in famiglie sempre più precarie. La maggiore presenza dello
stato nei loro territori non ha determinato per loro maggiore protezione, ma
ulteriore destabilizzazione. La famiglia, la scuola, la chiesa cattolica, i
servizi sociali, le reti clientelari, il lavoro informale… tutte le istituzioni
preposte alla cura, alla riproduzione sociale, alla produzione, stanno vivendo
un periodo di forte crisi e di conseguente perdita di autorità. D’altra parte,
questi ragazzini hanno subito negli ultimi anni nuove e pesanti forme di
controllo, rafforzate dalle restrizioni pandemiche, che hanno determinato una
crescente e attiva presenza delle forze dell’ordine in quartieri come lo Zen e
Ballarò, in cui fino a dieci anni fa la polizia in genere neanche entrava e dove
invece adesso interrompe falò con gli elicotteri.
Le vampe di San Giuseppe sono esemplificative della nuova politica dello spazio
pubblico a Palermo: espressione di forte identità culturale delle classi
popolari, pratica di gestione autonoma dello spazio pubblico attraversata da
conflitti tra le diverse componenti sociali dei quartieri, non esente da
violenza e prevaricazioni, le vampe sono continuate attraverso i decenni nella
sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine, in zone marginali della città,
nel centro storico abbandonato e nelle periferie di edilizia popolare. Oggi, la
tolleranza è finita. Le vampe sono diventate oggetto di una vera e propria
guerra, che mobilita ingenti risorse e dispiega forze di polizia, vigili del
fuoco e tribunali per cercare di scongiurare la preparazione delle cataste di
legna, per spegnere i fuochi una volta accesi, e per indagare i responsabili
dopo.
I ragazzini resistono, sentono ancora forte il valore della prova del fuoco,
della manifestazione pubblica di coraggio, per strada e su TikTok. La
repressione esaspera il conflitto, lo scontro è inevitabile e, in quanto tale,
diventa il centro del rito; i ragazzini lo cercano, lo pianificano, lo
gestiscono; la polizia ne diventa coprotagonista in negativo, pupazzo di
carnevale in carne e ossa. Una forma tradizionale di appropriazione dello spazio
pubblico attraverso il rito si trasforma in tattica di guerriglia, irrisione del
potere attraverso la provocazione fisica, sovversione violenta dei divieti. E
come ogni rito, anche le vampe riescono nell’impresa di imporre l’ordine al
mondo, di dare agli esseri umani la parvenza del controllo sulle grandi forze
che regolano l’universo intorno a loro: ogni anno, i ragazzini, da soli riescono
ad accendere i fuochi, nonostante i divieti e gli elicotteri, gli idranti e i
mezzi blindati, le telecamere e i lacrimogeni. Per un fugace momento, il buio
della sera di fine inverno viene illuminato dalle fiamme. Anche se a bruciare è
più plastica che legno. Anche se il coraggio va mostrato a volto coperto. Anche
se comporterà denunce, arresti e processi. La festa del santo compie il prodigio
di coordinare il malcontento, di dare ai ragazzi le energie per sfidare il
potere e per tenere testa alla polizia; ma il meccanismo rituale intrappola il
conflitto sociale, gli impedisce di entrare nella storia, di formularsi
politicamente. Spentosi il fuoco delle vampe, si spegne la protesta.
La persistenza delle vampe di San Giuseppe è certamente una forma di resistenza
al controllo da parte dei ragazzi di quartiere, ma l’esercizio di tale
resistenza produce effetti disgreganti. Le comunità si spaccano, il pubblico si
allontana dagli attori, ne prende le distanze. Gli adulti partecipano meno. I
ragazzini sperimentano uno spazio di totale autonomia, ma perdono la protezione
dei grandi, che si divertono a guardarli far la guerra con la polizia, ma li
lasciano soli a giocare. La festa di passaggio non celebra nessun passaggio:
saltato il fuoco delle vampe non si diventa grandi. Il rito urbano di San
Giuseppe, sempre più legato alla marginalità, turba gli spettatori, anche coloro
che ne sono stati attori qualche anno fa, quando andavano in scena copioni
rituali meno violenti. La comunità degli adulti consuma lo spettacolo dei
ragazzini ribelli, ma non vi si rispecchia, non approva. La repressione esacerba
la violenza rituale, scaricandone la responsabilità sui ragazzini. È un gioco
troppo pericoloso, troppo crudele. Come nel film I miserabili di Ladj Ly, la
violenza collettiva dei ragazzini esprime la loro estrema vulnerabilità sociale,
la perdita del controllo da parte degli adulti, la deresponsabilizzazione delle
istituzioni di riferimento, che esercitano coercizione e controllo senza
assumersi alcuna responsabilità di cura.
UN PUGNO DI VANDALI
Una città in guerra con i ragazzini è una città malata. La guerra non si svolge
solo nelle piazze dei quartieri la sera del 18 marzo, continua nei social, sui
giornali e in televisione, si nutre di narrazioni che colpevolizzano i ragazzi e
invitano all’intervento deciso delle forze dell’ordine, circoscrivendo la
questione a un problema di ordine pubblico, di volgare vandalismo. Sulle pagine
online dei quotidiani locali, i commenti sono pressoché unanimi: si tratta di
delinquenti che meritano la galera, o forse sarebbe meglio prenderli a pietrate,
come fanno loro con poliziotti e vigili del fuoco. Sono ragazzi, quasi bambini,
ma questo elemento la stampa lo menziona di passaggio. Le vampe sono un uso
barbaro, inconcepibile in una città “moderna”, che solo l’arretratezza e
l’ignoranza di un pugno di vandali mantiene viva.
La condanna delle vampe è una delle contraddizioni amare di una città che per
alimentare il mercato turistico cavalca il mito della convivenza pacifica tra
arabi e normanni, patrimonializza le tradizioni folkloriche di un secolo fa, ma
disconosce ogni forma di cultura popolare contemporanea che manifesti conflitto
sociale anche in forma indiretta, bollandola come rozza, incivile, retrograda.
Pelle meridionale, maschere europee.
Le vampe, per San Giuseppe o per altri santi in altri momenti dell’anno, sono
una tradizione millenaria che continua in molti centri siciliani senza
richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli elementi sono gli stessi:
cataste di legna in spazi urbani, fuoco, ragazzini protagonisti, comunità in
festa. L’antropologia l’ha già raccontato. I lavori di Ignazio Buttitta (Le
fiamme dei santi, Meltemi, 1999), Orietta Sorgi e Nara Bernardi (Le vampe di
Palermo, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 1985) ricostruiscono la
storia millenaria della tradizione, il senso rituale del ciclo delle stagioni
della natura, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, del cosmo e della
società che si rinnova. Eppure, dire tutto questo oggi non basta a sovvertire i
discorsi dominanti. Le narrazioni ufficiali, nei rari casi in cui viene
riconosciuta la profondità storica e la ricchezza culturale del rito delle
vampe, leggono i fenomeni violenti degli ultimi anni come perdita dei valori,
secolarizzazione del rito, pretesto per fare casino. Esemplare, in tal senso,
l’immancabile servizio di Striscia la notizia sulle vampe, raccontate come
vandalismo “in nome della tradizione, ormai trasformata in distruzione”.
L’auspicio formulato dall’inviata nel 2022 è “più controllo” per evitare
devastazioni. La cronaca degli ultimi anni l’ha smentita: aumenta il
dispiegamento di polizia ma anche la violenza degli scontri, il volume delle
inchieste e i Daspo emanati ai ragazzini nei giorni successivi.
Le narrazioni ufficiali fanno eco alle azioni istituzionali, mirate a reprimere
i comportamenti illeciti senza farsi carico della responsabilità politica della
violenza. Due anni fa, il questore Laricchia, parlando alla festa della polizia
qualche settimana dopo San Giuseppe, fece “il punto sul crimine nel capoluogo
siciliano” denunciando la connessione tra traffico mafioso di stupefacenti,
diffusione del crack tra i giovanissimi, “atti di violenza inconsulta e fine a
sé stessa” e “azioni criminali” in occasione delle vampe, “branchi selvaggi” di
adolescenti e baby gang arabe. La droga non c’entra. La violenza delle vampe
sarà anche fine a sé stessa, ma non è inconsulta. È effetto della campagna di
criminalizzazione, legata al quadro più generale della nuova politica degli
spazi pubblici a Palermo, segnata dal crescente esercizio di controllo e da una
sempre maggiore intolleranza per le forme di socialità autonoma e popolare. A
farne le spese sono principalmente i ragazzini, dipinti come vandali
irredimibili e sempre più esposti alla violenza, con sempre minori protezioni.
(eugenio giorgianni)