(disegno di -rc)
San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla
notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita
dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi
Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per
arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante
procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di
buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo
di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi.
Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo
referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La
Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi
più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario.
Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e
la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi
protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora
corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni.
Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che
istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si
voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San
Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di
fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al
resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista
della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli
investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre –
apparentemente RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una
serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva
composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata
operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli
asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si
battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti
più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a
niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno
rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti.
E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e
strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri
cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei
Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto
edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle
squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale
che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come
di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla
frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i
prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi,
e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre
cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa.
Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni
di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80
milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza
interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla
fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto
continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni
l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i
profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di
edifici di lusso sono immensi.
Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più
inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti
per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto
trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il
dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano
e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo
persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di
edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla
soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito
all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre
(mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a
protezione della controparte.
Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si
è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della
destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente
lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico
effetto positivo da un certo punto di vista.
“La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è
stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno
chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la
volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”.
Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È
una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della
vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica –
completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di
potere e denaro.
Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il
passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del
consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la
logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E
affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione,
l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida
del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello
vagante del capitale.
La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo
è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su
qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie,
come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)
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Misure pesantissime contro due studenti di un liceo milanese fermati durante lo
sciopero generale del 22 settembre a Milano. La giudice del Tribunale per i
minorenni Antonella De Simone ha disposto gli arresti domiciliari e il divieto
di frequenza a scuola per i due studenti. Il commento di Raja, del Csa
Lambretta, prima della conferenza […]
Martedì 23 settembre davanti al minorile Cesare Beccaria è stato indetto un
presidio che, popolatosi, si è infretta tramutato in un corteo, al grido di
“Ettore e Mina liberi”. Il presidio è nato a sostegno dei due minori che sono
stati portati al minorile dopo l’arresto avvenuto durante lo sciopero generale
in sostegno della Palestina, […]
(copertina di cyop&kaf)
Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città
La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a
Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo
nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola.
Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli
studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della
lezione apportando ognuno le proprie competenze.
«Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere
di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a
partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza.
Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu
molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli
abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì
questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del
collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo
rivendicarli.
«L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti,
con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da
realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo
dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di
prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per
poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e
i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta.
Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti
avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i
compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i
presenti e le presenti, senza delega.
«Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di
far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come
prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e
dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere
interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di
termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di
lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando
poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche
culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano
assodati, non venivano capiti dagli abitanti.
«Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse
tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta,
decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la
possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte,
con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera.
Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli,
occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare
quello che emergeva.
«Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al
Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea,
faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi
allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che
caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice
ma al tempo stesso meno ricco.
«Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per
distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far
capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un
coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel
percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un
po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo…
«Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella
struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e
si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e
musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un
elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti
rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa
volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre
la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la
difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove
persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha
caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo.
«Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita
comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era
entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere
contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso
l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare
reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti
è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche
interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose.
«Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da
una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per
esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi,
capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di
sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti,
ricattabili sotto molti punti di vista.
«In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad
abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare
il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle
teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le
storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano
momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per
aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello
sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli
abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo,
non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine
delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova
colonizzazione.
«Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi
continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno
sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di
lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche
interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita
dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era
sempre quella di spostarsi tra le tematiche.
«Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a
reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in
parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di
riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono.
Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono
sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de
Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri
africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni
molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano
nell’altra per momenti di festa condivisi.
«Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno
all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti
singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era
una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli
abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia
felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età
che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini,
mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo.
«Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si
immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che
proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi
dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi
Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e
la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende
personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi.
«Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno
dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà
era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il
collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole
persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di
persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con
espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno
messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza
tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma
probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali…
«Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci
Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che
insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio,
che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più
politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto
che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata
avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati
episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il
collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova
struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli
abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione.
«Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore
autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli
appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per
l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere
entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario
e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine…
Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini
che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni
vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi
migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di
accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni,
uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a
situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad
altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si
vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti
di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi
doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me,
c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva
politica.
«Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di
rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no,
all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello
che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a
misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è
riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi
assembleari condivisi.
«Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte
del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è
spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere
parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere
questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che
porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo.
«A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del
quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti
collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze
linguistiche.
«In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata
riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo
un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in
contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto,
Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio
lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella
richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più
attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli
abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro
“scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato
tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e
isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera.
«In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee
erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di
preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti
insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è
uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di
decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano.
«Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva
di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze
che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore
passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”…
Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze
linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica
quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a
contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di
difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un
fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro…
«In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si
erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal
vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la
passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro
lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la
chiacchieravano in italiano.
«Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e
giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un
paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a
fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si
chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale,
quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di
negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di
rappresentarlo davanti agli altri.
«La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo
di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il
verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque
l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo
faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso
didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche
dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è
necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche
per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non
c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un
po’ tutti i presenti.
«Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia.
«Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al
Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto
ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali
sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare
avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho
sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so,
lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto
le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però
da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che
vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però
questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)
(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
Nella notte tra martedì 21 e mercoledì 22 maggio un giovane 21enne di origini
libiche, Mahmoud Mohamed muore contro un semaforo a bordo dello scooter che
stava guidando, inseguito da una volante di polizia. Il quartiere, Corvetto, è
lo stesso in cui ha perso la vita Ramy Elgaml, il giovane diciannovenne morto
schiantato contro un […]
Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza
da parte della polizia, abbiamo avuto il piacere di una chiacchierata in studio
con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle
trasformazioni dei quartieri di Roma, alla luce della speculazione abitativa che
ha comportato il giro di […]
Per la giornata di domani, Sabato 12 Aprile, è stata indetta una Manifestazione
Nazionale a Milano per richiedere lo stop dell’ingranaggio bellico e una
Palestina libera. La partenza è prevista alle 14.30 e il percorso previsto parte
dalla Piazza Duca D’Aosta e terminerà all’Arco Della Pace. Il corteo è indetto
da Giovani Plaestinesi e Unione […]
(disegno di federica pagano)
Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid
(2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è
stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente
classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della
città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del
welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è
trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata
quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che
garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici.
Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui
cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto
sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le
leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati
al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa
vita civile.
Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al
minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche
regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per
“sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che
imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto
edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di
consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto
che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la
Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola
autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per
ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che
consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico.
Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa
l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal
riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un
labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e
semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio
da parte dei capitali immobiliari.
DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO
Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti,
comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la
narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per
il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione
urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi
minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro
le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale,
contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di
migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata
di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in
relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della
concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato
dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più
al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti,
malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte.
A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di
inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro
interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli
abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di
concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia
perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa
volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione
ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive
pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove
di una politica deliberatamente classista ed escludente.
L’ARROCCAMENTO DEL POTERE
Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati
così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori,
informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente
costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di
incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia
negli investitori.
La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea e
bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici
coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la
“SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come
“interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che
estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano.
Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude
gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per
inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione
giudiziaria.
Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello
di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana
e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un
piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in
Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema
urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un
concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri
irregolari.
A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo
in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica
eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma
soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si
ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il
processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di
Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani,
manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano.
Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per
l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla
rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che
ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano.
In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per
concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo
abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un
vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un
incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e
le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che
rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a
loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con
buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai
grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa
popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per
l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi
di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal
ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su
un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre
all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per
estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca
europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso
truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi
pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento
in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere
l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e
che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito
sull’urbanistica e sui fatti di Milano.
I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando
chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli
acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando
l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia
dell’immagine milanese”.
Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche
qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il
conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio
sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di
partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle
informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo
sull’esaurimento delle energie di chi si oppone.
La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo
smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la
città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della
redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia
tozzi)
(disegno di martina di gennaro)
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via
Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della
giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato
effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima
dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le
persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così
improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il
mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo
contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti
celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia.
«Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la
laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a
lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto
che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara
legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti
per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da
pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli
durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto
“Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato.
Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un
appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria
recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia,
critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela
dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud
Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era
critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un
anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a
collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a
scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era
uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare
attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di
essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un
gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo,
venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il
radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito
dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A
Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per
sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio.
Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso.
Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto
Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali
tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un
lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce
dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di
Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo
aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno,
ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano.
«Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro,
proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso
rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino
che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di
arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro
stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per
sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere:
ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a
sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate,
Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un
posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in
qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la
biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza
era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero
così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi
hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in
Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però,
un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza
nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un
anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene
assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità
di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un
lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie,
non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma
pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità
di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso
gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni
modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una
volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a
cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In
Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai
dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di
aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione,
anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli
procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di
San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo
e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei
cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è
sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in
uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma
arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui
risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e
poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo
portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva
perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa
contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani
finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un
letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare.
Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare
così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è
nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le
vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo
che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona
con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però
ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi
hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza
vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via,
che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così,
con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con
ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale,
passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a
riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi
secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento
davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere
le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa
dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così
sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire:
prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la
faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo
avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano
spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del
tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E
ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma
si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa
fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a
Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla
storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta
alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei
persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per
giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne
queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi,
lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid.
Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella
micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di
nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come
aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che
gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone
che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani,
volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare
mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di
sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano
disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto,
quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può
aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a
cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno
posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al
loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno
può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale.
Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la
prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una
stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero
contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche
in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato
da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo
qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un
chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro
scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza
successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa
albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure
con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si
attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una
soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di
lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di
rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione,
ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia,
bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di
uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che
indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa.
Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno
aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei
problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)