(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
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Nella notte tra martedì 21 e mercoledì 22 maggio un giovane 21enne di origini
libiche, Mahmoud Mohamed muore contro un semaforo a bordo dello scooter che
stava guidando, inseguito da una volante di polizia. Il quartiere, Corvetto, è
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Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza
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con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle
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ha comportato il giro di […]
Per la giornata di domani, Sabato 12 Aprile, è stata indetta una Manifestazione
Nazionale a Milano per richiedere lo stop dell’ingranaggio bellico e una
Palestina libera. La partenza è prevista alle 14.30 e il percorso previsto parte
dalla Piazza Duca D’Aosta e terminerà all’Arco Della Pace. Il corteo è indetto
da Giovani Plaestinesi e Unione […]
(disegno di federica pagano)
Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid
(2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è
stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente
classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della
città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del
welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è
trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata
quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che
garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici.
Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui
cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto
sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le
leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati
al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa
vita civile.
Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al
minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche
regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per
“sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che
imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto
edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di
consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto
che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la
Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola
autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per
ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che
consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico.
Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa
l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal
riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un
labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e
semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio
da parte dei capitali immobiliari.
DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO
Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti,
comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la
narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per
il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione
urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi
minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro
le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale,
contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di
migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata
di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in
relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della
concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato
dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più
al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti,
malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte.
A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di
inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro
interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli
abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di
concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia
perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa
volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione
ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive
pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove
di una politica deliberatamente classista ed escludente.
L’ARROCCAMENTO DEL POTERE
Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati
così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori,
informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente
costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di
incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia
negli investitori.
La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea e
bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici
coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la
“SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come
“interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che
estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano.
Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude
gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per
inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione
giudiziaria.
Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello
di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana
e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un
piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in
Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema
urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un
concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri
irregolari.
A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo
in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica
eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma
soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si
ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il
processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di
Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani,
manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano.
Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per
l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla
rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che
ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano.
In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per
concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo
abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un
vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un
incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e
le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che
rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a
loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con
buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai
grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa
popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per
l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi
di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal
ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su
un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre
all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per
estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca
europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso
truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi
pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento
in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere
l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e
che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito
sull’urbanistica e sui fatti di Milano.
I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando
chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli
acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando
l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia
dell’immagine milanese”.
Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche
qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il
conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio
sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di
partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle
informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo
sull’esaurimento delle energie di chi si oppone.
La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo
smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la
città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della
redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia
tozzi)
(disegno di martina di gennaro)
Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via
Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della
giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato
effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima
dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le
persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così
improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il
mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo
contro la chiusura della Casa albergo.
«Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti
celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia.
«Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la
laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a
lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia».
Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto
che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara
legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti
per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da
pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli
durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto
“Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato.
Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un
appartamento in città.
Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria
recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia,
critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela
dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud
Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era
critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un
anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a
collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a
scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni.
«Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era
uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare
attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di
essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un
gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo,
venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il
radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito
dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A
Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per
sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio.
Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso.
Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto
Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali
tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un
lavoro”.
Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce
dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di
Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo
aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno,
ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano.
«Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro,
proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso
rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino
che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di
arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro
stato dell’Unione.
La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per
sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere:
ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a
sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate,
Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un
posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in
qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la
biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza
era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero
così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi
hanno rovinato tante cose dentro me».
Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in
Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però,
un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza
nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un
anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene
assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità
di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un
lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie,
non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma
pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità
di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso
gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere».
Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni
modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una
volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a
cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In
Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai
dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di
aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione,
anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli
procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza.
Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di
San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo
e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei
cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è
sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in
uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma
arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui
risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e
poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo
portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva
perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa
contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani
finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un
letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare.
Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare
così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è
nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le
vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo
che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona
con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però
ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi
hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza
vestiti, in ospedale».
Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via,
che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così,
con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con
ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale,
passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a
riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi
secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento
davvero non lo dimenticherò mai».
Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere
le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa
dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così
sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire:
prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la
faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo
avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano
spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del
tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E
ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma
si ritrova a cambiare solo dormitorio.
Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa
fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a
Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla
storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta
alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei
persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per
giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne
queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi,
lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid.
Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella
micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di
nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come
aiuto cuoco e lavapiatti.
È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che
gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone
che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani,
volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare
mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di
sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano
disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto,
quindi ho cercato una stanza singola solo per me».
Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può
aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a
cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno
posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al
loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno
può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale.
Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la
prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una
stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero
contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche
in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato
da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo
qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un
chiodo fisso nel mio cervello».
La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro
scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza
successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa
albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure
con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si
attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una
soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di
lavoro e senza alcuna invalidità.
Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di
rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione,
ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia,
bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di
uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che
indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa.
Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno
aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei
problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha inviato una direttiva ai
prefetti per spingerli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove
vietare la presenza di soggetti definiti “pericolosi con precedenti penali” e
poterne quindi disporre l’allontanamento. Viene in tal modo esteso ad altre
città questo strumento già sperimentato a Firenze e Bologna. Il ricorso alle
cosiddette […]
(disegno di cyop&kaf)
Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di
diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite
ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili
pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione
della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre
l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone
rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo
zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto.
Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il
l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore
fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25
mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo
urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da
diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo
tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo
più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi.
Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di
soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e
anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa
Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi
ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares,
inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa
oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i
carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a
fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e
si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano
su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il
petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo
casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato.
L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima
ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul
posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la
scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa
nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due
agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno
impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello
schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità,
se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via
Quaranta, se e altri se.
Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa
della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito
amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove
anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da
tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy
sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di
stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe
bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e
invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto
sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le
gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza
della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto.
Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle
sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona,
San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle
malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio,
dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si
rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di
luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali,
palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il
silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le
strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile
poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi
ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere
come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio?
Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di
registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario
apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie
di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a
causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa,
diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere
gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al
minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la
deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse,
l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri
affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte
d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi
all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la
forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo
da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi.
I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che
non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una
criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza
rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i
locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si
può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella
ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per
questi giovani?
Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e
soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi
italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto
di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta
di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei
canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera,
prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare
legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti
per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter
richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di
soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà
il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più
sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e
cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in
linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con
la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano,
non è considerato benvenuto.
E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti
di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la
realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero
costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di
avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni
differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di
mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di
molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di
Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla
presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri.
Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente.
Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945,
quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a
Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente
cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se
avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata
svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le
ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le
contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti
dall’alto. (rajaa ibnou)
(foto di roberto-c.)
A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si
faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i
contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si
distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori.
A Corvetto, nella periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove
per la vicinanza alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno
all’Abbazia di Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare
attraversando le vie della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale
Gabrio Rosa, il punto di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda
metà degli anni Venti dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i
poveri e i poverissimi” della città e le espansioni successive, si può scorgere
il Parco Agricolo Sud, ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire
l’orizzonte.
Da giorni, la piazza era presidiata dalla polizia locale per scoraggiare
eventuali scontri e incendi nati dalla rabbia per la morte di Ramy Elgaml, il
diciannovenne che ha perso la vita in seguito allo schianto con cui si è
concluso un lungo inseguimento a opera di una pattuglia di carabinieri, nella
notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre.
A una settimana di distanza dalla morte del ragazzo e dall’inizio del coma di
Fares Bouzidi, l’amico alla guida della moto che ha interrotto la sua corsa in
via Ripamonti con una dinamica ancora da accertare, gli amici di Ramy e alcuni
solidali si sono dati appuntamento sabato 30 in piazzale Gabrio Rosa per una
fiaccolata. L’iniziativa era stata immaginata come un momento di condivisione
del dolore e come risposta ai presidi delle giornate precedenti promossi da Lega
e Fratelli d’Italia, che chiedevano più sicurezza attraverso la militarizzazione
del quartiere.
Sabato sera, nel buio lattiginoso della piazza si distinguevano solo i fari led
delle videocamere dei giornalisti provenuti da tutta Italia e le luci delle auto
della polizia locale. All’orario concordato per il ritrovo c’erano alcuni
ragazzi del quartiere all’incrocio con via Mompiani, dove vive la famiglia di
Ramy. «Ma tu sei qui per Ramy?», chiedeva un ragazzino sui dodici anni ai volti
sconosciuti che scrutava attento, mentre si allontanava dal piccolo gruppo
pronto a partire. Nadir, uno degli amici del diciannovenne scomparso e dei
promotori della fiaccolata in suo ricordo, era impegnato a far allontanare i
giornalisti dallo striscione tenuto da donne e ragazzi del quartiere in lutto
che recitava “Verità e giustizia per Ramy e Fares. La morte non è uguale per
tutt*”. Nel frattempo, solidali singoli o di varie realtà come Cantiere,
Lambretta, Coordinamento Antirazzista Milano, ZAM, Off Topic, Comitato
Insostenibili Olimpiadi, Giovani Palestinesi d’Italia, CiSiamo, PRC Municipio 4,
ADL Cobas e vari membri della Rete per il diritto all’abitare si sono uniti ai
presenti, senza esporre bandiere né striscioni.
Il corteo, guidato da Nadir, ha attraversato quasi in silenzio via Mompiani,
mentre i presenti si scambiavano sottovoce parole sugli avvenimenti degli ultimi
giorni e fumogeni tingevano di rosso e di viola l’atmosfera nebbiosa. In piazza
Ferrara, intorno al mercato comunale, tra le mani hanno iniziato a passare
candele bianche, mentre due lanterne si alzavano verso il cielo, insieme ai
flebili fischi all’indirizzo di Carmela Rozza, esponente del Pd e componente del
consiglio regionale della Lombardia. La politica, in un momento di sosta e
silenzio del corteo, aveva chiamato intorno a sé alcune telecamere per
dichiarare la vicinanza ai ragazzi del quartiere, suscitando la reazione di
molti dei presenti, critici verso le azioni intraprese proprio dal suo partito
nella zona e in altre aree periferiche della città.
La marcia è proseguita verso ovest, ritmata da una preghiera pronunciata dalle
donne in testa al corteo e poi dalla trasmissione di alcuni brani del Corano
cantati, mentre le oltre cinquecento persone radunate strada facendo uscivano
dal tessuto denso del quartiere per percorrere via Bernardo Quaranta, una strada
ampia fiancheggiata da capannoni, aree verdi occupate da tralicci, hotel
segnalati da insegne al neon incomplete, ampi parcheggi e il lungo muro dell’ex
Panificio Automatico Continuo, che negli anni Venti produceva mille duecento
quintali di pane al giorno e che oggi ospita il servizio di ristorazione
scolastica che rifornisce le mense della città. Alle spalle del primo gruppo,
cinque ragazzi tenevano un altro striscione che recitava “I nostri quartieri
uniti nel vostro dolore”, mentre alcuni interventi si alternavano ai momenti di
silenzio o alle note del Corano.
Ali, esponente dei Giovani Palestinesi d’Italia, ha ricordato come il motivo
della rabbia e della richiesta di giustizia non fosse solo una vita persa e come
il caso di Ramy non fosse unico, ma fosse l’ennesima spia di dinamiche di
stigmatizzazione delle persone migranti e di uno stato di polizia che non si
manifesta solo attraverso l’uso della forza. La giovane si è poi rivolta ai
giornalisti, numerosi in quel momento al corteo e in quartiere, ritenuti
responsabili di narrazioni distorte e amplificate secondo le quali la rabbia
delle notti precedenti sarebbe stata causata “da un’incapacità della comunità di
mantenere l’ordine” e non da una risposta a razzismo e classismo sistemici.
Mentre il corteo proseguiva tra loft in ex aree industriali, industrie
farmaceutiche e corsi d’acqua, con alcune soste richieste da Nadir per fare in
modo che tutti i partecipanti stessero dietro al primo striscione e che i
giornalisti non intralciassero il cammino, i centri sociali Cantiere e Lambretta
hanno portato la solidarietà da altri quartieri della città e si sono stretti
nel lutto, nella rabbia e nel desiderio di verità e giustizia per Ramy e Fares.
Hanno ricordato cosa significa essere giovani, neri, arabi, di una zona
periferica e solo per questo venire fermati dalla polizia più volte a settimana
e avere la certezza che la propria vita non conta, come è stato nel 2008
per Abba e ora per Ramy. O per essere definiti “maranza”, come hanno titolato
ultimamente i giornali a proposito dei giovani di Corvetto, richiamando il
termine dispregiativo introdotto negli anni Ottanta a Milano che sintetizza
“marocchino” e “zanza” (ladro, in milanese).
Il corteo ha rallentato in prossimità dell’incrocio tra via Quaranta e via
Ripamonti, uno dei principali assi radiali di Milano che collega il centro della
città con la zona sud, percorso nella notte tra il 23 e il 24 novembre da Ramy,
Fares e dalla pattuglia dei carabinieri che non aveva ancora smesso di
inseguirli dopo otto chilometri. Lì, dove è avvenuto lo schianto, i presenti si
sono distribuiti ai lati dell’incrocio, mentre Nadir ha invitato alla preghiera,
prima che venisse scandito in coro, ripetutamente, il nome di Ramy. Nello spazio
vuoto al centro dell’incrocio ha poi preso parola un’esponente del Comitato
Antirazzista Milano, che ha sottolineato ancora una volta la dinamica dei fatti
della scorsa settimana, ennesima manifestazione del fenomeno della profilazione
razziale e degli abusi della polizia. Ha poi invitato ad alzare gli occhi e
osservare le telecamere che registrano ciò che accade in quell’incrocio,
chiedendo come mai non fossero stati ancora resi pubblici i video dell’accaduto.
Infine, è intervenuto un esponente del Comitato Verità e Giustizia Ugo Russo, da
Napoli, che ha ricordato la storia del quindicenne dei Quartieri Spagnoli ucciso
da un carabiniere fuori servizio alcuni anni fa. Ricollegandosi agli interventi
precedenti sulla razzializzazione dei ragazzi di origine straniera nei quartieri
popolari di Milano, ha ricordato che nella sua città ci sono «napoletani
considerati non degni di diritti e di attenzioni, marginalizzati» all’interno di
quegli stessi quartieri «che in questo momento storico sono sovrastati da un
turismo» che sembra porti benessere, ma «non ha ricadute sulla reale
emancipazione di tutte le persone». Per questo, a nome del Comitato, ha portato
un abbraccio fraterno a chi lotta per la verità e giustizia per Ramy e Fares e
ha proposto di continuare a confrontarsi per unire le forze.
Dopo i saluti di Nadir, che ha ringraziato i presenti per la buona riuscita
della fiaccolata, nonostante la tensione creata nei giorni precedenti e anche
sul momento dai media, i presenti si sono allontanati a piedi o in bicicletta
nella nebbia. Un gruppo di ragazzini è tornato verso Corvetto, seguito a
distanza ravvicinata da tre persone con telecamere e microfoni, forse nella
speranza che proprio all’ultimo succedesse qualcosa di eclatante. Dal gruppo
invece si è alzata la voce di un ragazzino di nove o dieci anni che ha
continuato a camminare, senza voltarsi: «Giornalista, pensavi che facevamo il
fuoco, eh?». (gloria pessina)
(disegno di valentina galluccio)
A Milano, una famiglia con minori che si rivolge all’amministrazione comunale
perché è in difficoltà, senza casa a causa di uno sfratto o dell’impossibilità
di affittarla, quasi sicuramente finisce per essere presa in carico dai servizi
sociali piuttosto che da quelli abitativi. Lo affermano gli attivisti della Rete
solidale Ci Siamo che, in seguito agli sgomberi delle occupazioni abitative
degli stabili di via Siusi e di via Esterle, e all’incendio del capannone di via
Fracastoro, hanno seguito diverse famiglie di lavoratori stranieri prese in
carico dai servizi sociali del comune di Milano e ha potuto constatare quanto
segue.
Con l’intervento del servizio sociale territoriale, il bisogno di una casa, che
fino a quel momento rappresentava la necessità prevalente, passa in secondo
piano a causa di una lettura erronea del disagio che si concentra sulle “colpe”
del nucleo familiare piuttosto che inquadrare la sua condizione all’interno di
un contesto sempre più escludente, precario e razzista. Questo pregiudizio verso
le persone povere, molto radicato tra gli assistenti sociali, porta a una
conseguenza altrettanto dannosa, cioè quella di considerare il nucleo familiare
divisibile, da una parte la mamma con i figli minori, dall’altra il padre con
quelli maggiori, come se per la tutela e il benessere dei minori non fossero
importanti l’unità della famiglia e la figura paterna.
Una consuetudine ormai diffusa, che prevede l’individuazione di soluzioni
abitative temporanee e in emergenza solo per i soggetti fragili del nucleo
familiare, a cui viene offerta nell’immediato ospitalità in strutture di
accoglienza definite di bassa soglia come i dormitori pubblici. L’accesso in
queste strutture, costituite da spazi angusti e asettici con regole rigide e
vessatorie, avviene nella maggioranza dei casi senza rendere noto il tempo che
si resterà al loro interno e neppure quale altra soluzione più stabile e
duratura verrà individuata dal servizio sociale territoriale.
Dunque, si resta a lungo separati, in una condizione di incertezza sul futuro,
precarietà quotidiana e di assoluta dipendenza e assoggettamento alle scelte
degli assistenti sociali. Questi agiscono in totale autonomia individuando, tra
le risorse a disposizione del pubblico, quella che ritengono più adeguata ai
soggetti “fragili” del nucleo familiare, ed escludendo sistematicamente gli
altri: padre e figli maggiorenni. Si tratta di soluzioni abitative temporanee,
come le case di accoglienza o le residenze sociali, gestite dal privato sociale
con costi molto elevati per il pubblico, che nella maggioranza dei casi non
rispondono al bisogno di casa espresso al momento della presa in carico, ma
infantilizzano gli adulti e prolungando a tempo indeterminato la loro condizione
emergenziale, fino a trasformarla in “ordinaria”.
Il più delle volte queste “soluzioni”, presentate come l’unica risorsa che
l’Amministrazione può mettere in campo, vengono imposte dagli assistenti sociali
alle sole donne, in assenza dei mariti e solo verbalmente, con notevoli
pressioni affinché queste siano accettate o meno in tempi molto brevi, un paio
di giorni al massimo. Se la famiglia, nonostante le pressioni ricevute, mostra
dubbi sulla proposta individuata oppure la rifiuta chiedendo una soluzione
abitativa dignitosa, stabile e duratura per l’intero nucleo familiare, allora
gli assistenti sociali cambiano registro: prima minacciano la segnalazione al
Tribunale dei minori, successivamente intimano alla donna con i figli minori di
lasciare la struttura in cui sono ospitati, per poi allontanarli con la forza.
In questo modo, il servizio sociale territoriale, con arbitrio e ostilità,
sposta ulteriormente il piano del discorso, da quello abitativo a quello
assistenziale a quello penale, cioè ti dice in modo brusco e netto: “O fai
esattamente quello che diciamo noi, oppure te ne puoi andare e lasciare il posto
a qualcun altro. Se non lo fai, ti cacciamo e ti denunciamo!”.
STORIA DI UNA FAMIGLIA SFOLLATA DA UNO STABILE OCCUPATO A CAUSA DI UN INCENDIO
Marito: Io, mia moglie e mia figlia piccola siamo in Italia dal giugno 2023.
Abbiamo deciso di venire qua perché in Perù abbiamo avuto problemi con le
persone che chiedono soldi senza lavorare e, se non li dai, ammazzano qualcuno
della tua famiglia. Io lavoravo nel comune della mia città, ero responsabile dei
mezzi di trasporto e queste persone venivano da me a chiedere soldi. Io però ho
detto di no. Dopo che sono andato a fare la denuncia, ci hanno chiamato, hanno
detto che noi siamo fregati, che ammazzano qualcuno di noi. Allora siamo
scappati perché la polizia non dà protezione a chi denuncia. Due mesi dopo la
persona che ha preso il mio posto è stata ammazzata. Neanche lui voleva dare
soldi ed è morto perché quello che ti dicono: “Se non mi dai i soldi, ti
ammazzo”, è vero.
Prima di partire abbiamo venduto tutto quello che avevamo in Perù: materasso,
letto, macchina, e abbiamo fatto un bonifico di tremila euro a una persona che
diceva di essere nostra amica così lei poteva trovarci una casa a Milano. Ma
quando siamo arrivati in Italia, le abbiamo scritto su Facebook, ma non abbiamo
ricevuto risposta, lei è sparita. A Malpensa abbiamo preso un pullman che ci ha
portato alla Stazione Centrale. Lì siamo scesi e abbiamo incontrato una donna
peruviana che ci ha dato da mangiare e dopo ci ha portato al Centro Sammartini,
ma a Sammartini ci hanno detto che i posti al dormitorio erano tutti occupati.
Per due giorni abbiamo dormito sotto un ponte, dopo un’altra signora peruviana
ci ha detto che potevamo andare nella casa dove lei lavorava. Lei faceva la
badante, si prendeva cura di una donna che adesso è morta. Così ci ha dato un
posto dove dormire da mezzanotte fino alle sei di mattina. Io facevo prima la
pulizia dei vetri, dopo consegnavo le pizze, così raccoglievo un po’ di soldi
per vivere.
Poi siamo arrivati a Fracastoro (occupazione abitativa sostenuta dalla Rete
solidale Ci Siamo). Andavamo sempre a Loreto, lì ci sono tanti nostri
connazionali. Un giorno abbiamo conosciuto un uomo, che ci ha detto: “Andate a
questo indirizzo, lì troveranno una soluzione per la vostra famiglia”.
La prima volta sono andato da solo, perché mia moglie quel giorno lavorava a
casa della donna che ci aveva dato un aiuto. Era un mercoledì, le persone che
c’erano mi hanno detto di tornare domenica, perché la domenica c’è un’assemblea
con tutti gli abitanti. Sono tornato e mi hanno detto che il mercoledì dopo
avrebbero trovato una soluzione. Allora ho detto a mia moglie di venire con me
così loro guardano che io dico la verità, che non sono una persona che fa
casino, non sono violento, non consumo droghe, sono un tecnico elettricista,
sono una persona che è venuta in Italia per una vita migliore. Quindi siamo
andati insieme e ci hanno detto che potevamo restare in quel posto finché non
trovavamo un lavoro e qualche cosa di meglio da affittare a Milano.
A Fracastoro la nostra vita è cambiata. Quando siamo arrivati, non avevamo i
documenti, non avevamo lavoro, non capivamo la lingua italiana, poi ci siamo
sistemati, ho trovato lavoro, ho fatto i documenti e ho iniziato a mandare i
soldi ai miei figli in Perù, anche alla mia mamma e alla mamma della mia moglie.
Ma a settembre è successo questo evento brutto, l’incendio, e dopo di questo
siamo finiti un’altra volta in strada.
Cosa è successo la mattina dell’incendio?
Marito: La prima cosa che ho fatto è stata prendere mia figlia e portarla fuori
da questo posto con mia moglie, poi sono rientrato per dire alle persone che
erano dentro, che in quel momento dormivano, di uscire subito. Dopo ho preso da
solo cinque-sei bombole perché tutti prendevano le loro cose e scappavano. Poi
sono rientrato un’altra volta per prendere i vestiti di mia figlia e di mia
moglie. Ho buttato tutto dalla finestra. Quindi ho visto che il fuoco era tanto
e sono scappato via, lasciando tutte le altre nostre cose dentro: il mio
monopattino, con cui andavo a lavoro, e i soldi che avevamo messo da parte, che
erano in un posto nascosto.
Un’ora dopo l’incendio sono arrivati i vigili del fuoco. Dopo quattro ore è
arrivata anche la Protezione civile. In quel momento ci hanno detto che ci
spostavano in un posto sicuro: al dormitorio comunale di viale Ortles, dove alla
data di oggi siamo da quasi due mesi. Per tre giorni abbiamo dormito tutti
insieme al secondo piano del dormitorio. Lì ci hanno chiesto se lavoravamo, se
avevamo i documenti, cosa facevamo qua in Italia. Ci hanno fatto tante domande.
Il terzo giorno ci hanno diviso: mia moglie e mia figlia sono andati in un
padiglione, io in un altro.
Moglie: La situazione in Ortles è così, la colazione è dalle 7:30 alle 8:30, il
pranzo è dalle 12:00 alle 13:00, la cena dalle 18:30 alle 19:30. Alle 9:00
dobbiamo uscire dalla stanza e stare fuori fino alle 13:00. Le persone che
lavorano lì, quando noi usciamo dalle stanze, cercano tra le tue cose,
controllano tutto, non puoi tenere niente, neppure il cibo, né un frutto, né un
biscotto, niente. Mia figlia è abituata a mangiare il cibo che cucino io, il
cibo peruviano. La prima volta in Ortles ha mangiato un po’ perché per lei era
qualcosa di nuovo, ma dopo non ha mangiato più. Anche per questo lei è stata una
settimana con la febbre, la tosse, proprio male. E quando è stata male, la
mattina comunque dovevamo uscire dalla stanza. Se il dottore non dice che puoi
restare, non ti lasciano stare, devi andare fuori come tutti. Per me quella non
è vita, lei è piccola, ha solo due anni, e fuori fa tanto freddo. Anche io, che
sono incinta al settimo mese, a volte sto un po’ male con la pancia, mi fa male
la schiena, ma non possiamo restare lì a riposare, dobbiamo andare fuori,
dobbiamo stare in giro.
A un certo punto vi hanno chiamato per farvi una proposta. Ci raccontate come è
andata?
Moglie: Un giorno mi ha chiamato l’assistente sociale e mi ha detto che c’era
una proposta buonissima, che dovevo andare con mia figlia in una comunità in un
paesino in provincia di Pavia. Io ho pensato che intendesse insieme con mio
marito, però lui mi ha detto di no: da sola con mia figlia. Mi ha detto che
dovevo accettare questa proposta, e che non sarei potuta stare più lì dopo il
parto. Io ho detto che prima dovevo parlare con mio marito per capire cosa fare,
perché per me non andava bene che io dovevo andare lì, lontana da mio marito.
Marito: Quando lei mi ha chiamato, piangeva ed era spaventata. Gli ho detto di
stare calma, che qualsiasi decisione la prenderemo quando io torno da lavoro.
Quindi quel giorno non ho fatto neanche lo straordinario, ho preso i mezzi di
trasporto e sono andato subito da mia moglie. Poi ho chiamato le persone della
Rete Ci Siamo, per sapere cosa dovevamo fare. Mi hanno detto che dovevamo stare
tranquilli, che non ci avrebbero tolto la nostra figlia, di non accettare, né
firmare. Abbiamo fatto quello che ci hanno consigliato, perché noi non sappiamo
nulla dei diritti qua in Italia.
Moglie: Il giorno dopo l’incontro con l’assistente sociale, sono andata insieme
con mio marito anche dalla direttrice di Ortles. Lei ci ha detto che era una
buona soluzione per noi, per la nostra famiglia, che mio marito poteva venire a
trovarci. Ma se per venire da noi deve rinunciare al lavoro, come sostiene la
famiglia, come manda i soldi al paese? Per quello noi non abbiamo accettato la
proposta. Così mi hanno detto che non avendo accettato la proposta, dovevano
chiamare il Tribunale dei minori. Io non bevo alcool, non fumo, sono una persona
che apprende giorno per giorno la lingua italiana, che ha sempre fatto le cose
per bene. Io ho paura di questa cosa che mi hanno detto, che loro possono
allontanare la mia figlia da me. Per quello ho detto a mio marito che preferivo
andare via da questo paese prima che mi tolgono mia figlia. Sono andata anche a
un’agenzia per comprare il biglietto, però la dottoressa mi ha detto che non
potevo più viaggiare dopo la trentaseiesima settimana di gravidanza, che era
pericoloso per me.
Marito: Alla data di oggi, noi siamo tranquilli, sì, però non è vero che lo
siamo, perché abbiamo ancora un po’ di paura, perché se compro il biglietto
aereo a mia moglie, per farla tornare al paese, questo non va bene perché io
invece non posso tornare, perché le persone che ho denunciato nel mio paese mi
cercano per farmi qualcosa, magari ammazzarmi. Ma se rimaniamo qua in Italia non
abbiamo un posto dove stare anche se abbiamo il lavoro, paghiamo i contributi,
siamo persone tranquille. A questo punto non sappiamo cosa fare. Stiamo
aspettando una soluzione dal comune di Milano, ma alla data di oggi non abbiamo
ancora una risposta, non sappiamo cosa aspettarci domani. (redazione monitor
milano)
PRESIDIO
Per protestare contro l’attuale politica sociale del comune di Milano, per
riportare al centro del dibattito la questione della casa, per l’autonomia,
l’emancipazione e la responsabilizzazione degli individui, la Rete solidale Ci
Siamo ha indetto un presidio davanti all’assessorato al Welfare in via Sile, 8
per martedì 26 novembre alle ore 10.