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La cattedra non c’è più. Insegnare italiano nelle occupazioni abitative
(copertina di cyop&kaf) Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città  La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola. Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della lezione apportando ognuno le proprie competenze. «Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza. Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo rivendicarli. «L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti, con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta. Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i presenti e le presenti, senza delega. «Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano assodati, non venivano capiti dagli abitanti. «Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta, decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte, con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera. Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli, occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare quello che emergeva. «Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea, faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice ma al tempo stesso meno ricco. «Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo… «Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo. «Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose. «Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi, capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti, ricattabili sotto molti punti di vista. «In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo, non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova colonizzazione. «Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era sempre quella di spostarsi tra le tematiche. «Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono. Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano nell’altra per momenti di festa condivisi. «Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini, mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo. «Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi. «Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali… «Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio, che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione. «Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine… Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni, uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me, c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva politica. «Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no, all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi assembleari condivisi. «Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo. «A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze linguistiche. «In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto, Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro “scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera. «In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano. «Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”… Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro… «In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la chiacchieravano in italiano. «Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale, quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di rappresentarlo davanti agli altri. «La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un po’ tutti i presenti. «Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia. «Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so, lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)
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L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
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La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia
(disegno di federica pagano) Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid (2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici. Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa vita civile. Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per “sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico. Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio da parte dei capitali immobiliari. DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti, comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale, contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti, malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte. A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove di una politica deliberatamente classista ed escludente. L’ARROCCAMENTO DEL POTERE Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori, informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia negli investitori. La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea  e bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la “SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come “interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano. Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione giudiziaria. Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri irregolari. A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani, manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano. Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano. In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito sull’urbanistica e sui fatti di Milano. I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia dell’immagine milanese”. Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo sull’esaurimento delle energie di chi si oppone. La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia tozzi)
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Milano, l’odissea per la casa di un rifugiato politico
(disegno di martina di gennaro) Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo contro la chiusura della Casa albergo. «Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia. «Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia». Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto “Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato. Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un appartamento in città. Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia, critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni. «Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo, venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio. Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso. Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un lavoro”. Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno, ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano. «Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro, proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro stato dell’Unione. La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere: ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate, Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi hanno rovinato tante cose dentro me». Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però, un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie, non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere». Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione, anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza. Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare. Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza vestiti, in ospedale». Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via, che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così, con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale, passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento davvero non lo dimenticherò mai». Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire: prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma si ritrova a cambiare solo dormitorio. Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi, lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid. Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come aiuto cuoco e lavapiatti. È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani, volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto, quindi ho cercato una stanza singola solo per me». Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale. Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un chiodo fisso nel mio cervello». La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di lavoro e senza alcuna invalidità. Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione, ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia, bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa. Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
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Le nuove “zone rosse”
Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha inviato una direttiva ai prefetti per spingerli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti definiti “pericolosi con precedenti penali” e poterne quindi disporre l’allontanamento. Viene in tal modo esteso ad altre città questo strumento già sperimentato a Firenze e Bologna. Il ricorso alle cosiddette […]
L'informazione di Blackout
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La Milano di Ramy e quella delle zone rosse
(disegno di cyop&kaf) Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto. Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25 mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi. Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares, inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato. L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità, se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via Quaranta, se e altri se. Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto. Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona, San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio, dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali, palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio? Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa, diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse, l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi. I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per questi giovani? Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera, prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano, non è considerato benvenuto. E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri. Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente. Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945, quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti dall’alto. (rajaa ibnou)
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“Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco?”. A Milano, candele nella nebbia per Ramy
(foto di roberto-c.) A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori. A Corvetto, nella periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove per la vicinanza alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno all’Abbazia di Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare attraversando le vie della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale Gabrio Rosa, il punto di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda metà degli anni Venti dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i poveri e i poverissimi” della città e le espansioni successive, si può scorgere il Parco Agricolo Sud, ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire l’orizzonte. Da giorni, la piazza era presidiata dalla polizia locale per scoraggiare eventuali scontri e incendi nati dalla rabbia per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne che ha perso la vita in seguito allo schianto con cui si è concluso un lungo inseguimento a opera di una pattuglia di carabinieri, nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre. A una settimana di distanza dalla morte del ragazzo e dall’inizio del coma di Fares Bouzidi, l’amico alla guida della moto che ha interrotto la sua corsa in via Ripamonti con una dinamica ancora da accertare, gli amici di Ramy e alcuni solidali si sono dati appuntamento sabato 30 in piazzale Gabrio Rosa per una fiaccolata. L’iniziativa era stata immaginata come un momento di condivisione del dolore e come risposta ai presidi delle giornate precedenti promossi da Lega e Fratelli d’Italia, che chiedevano più sicurezza attraverso la militarizzazione del quartiere. Sabato sera, nel buio lattiginoso della piazza si distinguevano solo i fari led delle videocamere dei giornalisti provenuti da tutta Italia e le luci delle auto della polizia locale. All’orario concordato per il ritrovo c’erano alcuni ragazzi del quartiere all’incrocio con via Mompiani, dove vive la famiglia di Ramy. «Ma tu sei qui per Ramy?», chiedeva un ragazzino sui dodici anni ai volti sconosciuti che scrutava attento, mentre si allontanava dal piccolo gruppo pronto a partire. Nadir, uno degli amici del diciannovenne scomparso e dei promotori della fiaccolata in suo ricordo, era impegnato a far allontanare i giornalisti dallo striscione tenuto da donne e ragazzi del quartiere in lutto che recitava “Verità e giustizia per Ramy e Fares. La morte non è uguale per tutt*”. Nel frattempo, solidali singoli o di varie realtà come Cantiere, Lambretta, Coordinamento Antirazzista Milano, ZAM, Off Topic, Comitato Insostenibili Olimpiadi, Giovani Palestinesi d’Italia, CiSiamo, PRC Municipio 4, ADL Cobas e vari membri della Rete per il diritto all’abitare si sono uniti ai presenti, senza esporre bandiere né striscioni. Il corteo, guidato da Nadir, ha attraversato quasi in silenzio via Mompiani, mentre i presenti si scambiavano sottovoce parole sugli avvenimenti degli ultimi giorni e fumogeni tingevano di rosso e di viola l’atmosfera nebbiosa. In piazza Ferrara, intorno al mercato comunale, tra le mani hanno iniziato a passare candele bianche, mentre due lanterne si alzavano verso il cielo, insieme ai flebili fischi all’indirizzo di Carmela Rozza, esponente del Pd e componente del consiglio regionale della Lombardia. La politica, in un momento di sosta e silenzio del corteo, aveva chiamato intorno a sé alcune telecamere per dichiarare la vicinanza ai ragazzi del quartiere, suscitando la reazione di molti dei presenti, critici verso le azioni intraprese proprio dal suo partito nella zona e in altre aree periferiche della città. La marcia è proseguita verso ovest, ritmata da una preghiera pronunciata dalle donne in testa al corteo e poi dalla trasmissione di alcuni brani del Corano cantati, mentre le oltre cinquecento persone radunate strada facendo uscivano dal tessuto denso del quartiere per percorrere via Bernardo Quaranta, una strada ampia fiancheggiata da capannoni, aree verdi occupate da tralicci, hotel segnalati da insegne al neon incomplete, ampi parcheggi e il lungo muro dell’ex Panificio Automatico Continuo,  che negli anni Venti produceva mille duecento quintali di pane al giorno e che oggi ospita il servizio di ristorazione scolastica che rifornisce le mense della città. Alle spalle del primo gruppo, cinque ragazzi tenevano un altro striscione che recitava “I nostri quartieri uniti nel vostro dolore”, mentre alcuni interventi si alternavano ai momenti di silenzio o alle note del Corano. Ali, esponente dei Giovani Palestinesi d’Italia, ha ricordato come il motivo della rabbia e della richiesta di giustizia non fosse solo una vita persa e come il caso di Ramy non fosse unico, ma fosse l’ennesima spia di dinamiche di stigmatizzazione delle persone migranti e di uno stato di polizia che non si manifesta solo attraverso l’uso della forza. La giovane si è poi rivolta ai giornalisti, numerosi in quel momento al corteo e in quartiere, ritenuti responsabili di narrazioni distorte e amplificate secondo le quali la rabbia delle notti precedenti sarebbe stata causata “da un’incapacità della comunità di mantenere l’ordine” e non da una risposta a razzismo e classismo sistemici. Mentre il corteo proseguiva tra loft in ex aree industriali, industrie farmaceutiche e corsi d’acqua, con alcune soste richieste da Nadir per fare in modo che tutti i partecipanti stessero dietro al primo striscione e che i giornalisti non intralciassero il cammino, i centri sociali Cantiere e Lambretta hanno portato la solidarietà da altri quartieri della città e si sono stretti nel lutto, nella rabbia e nel desiderio di verità e giustizia per Ramy e Fares. Hanno ricordato cosa significa essere giovani, neri, arabi, di una zona periferica e solo per questo venire fermati dalla polizia più volte a settimana e avere la certezza che la propria vita non conta, come è stato nel 2008 per Abba e ora per Ramy. O per essere definiti “maranza”, come hanno titolato ultimamente i giornali a proposito dei giovani di Corvetto, richiamando il termine dispregiativo introdotto negli anni Ottanta a Milano che sintetizza “marocchino” e “zanza” (ladro, in milanese). Il corteo ha rallentato in prossimità dell’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, uno dei principali assi radiali di Milano che collega il centro della città con la zona sud, percorso nella notte tra il 23 e il 24 novembre da Ramy, Fares e dalla pattuglia dei carabinieri che non aveva ancora smesso di inseguirli dopo otto chilometri. Lì, dove è avvenuto lo schianto, i presenti si sono distribuiti ai lati dell’incrocio, mentre Nadir ha invitato alla preghiera, prima che venisse scandito in coro, ripetutamente, il nome di Ramy. Nello spazio vuoto al centro dell’incrocio ha poi preso parola un’esponente del Comitato Antirazzista Milano, che ha sottolineato ancora una volta la dinamica dei fatti della scorsa settimana, ennesima manifestazione del fenomeno della profilazione razziale e degli abusi della polizia. Ha poi invitato ad alzare gli occhi e osservare le telecamere che registrano ciò che accade in quell’incrocio, chiedendo come mai non fossero stati ancora resi pubblici i video dell’accaduto. Infine, è intervenuto un esponente del Comitato Verità e Giustizia Ugo Russo, da Napoli, che ha ricordato la storia del quindicenne dei Quartieri Spagnoli ucciso da un carabiniere fuori servizio alcuni anni fa. Ricollegandosi agli interventi precedenti sulla razzializzazione dei ragazzi di origine straniera nei quartieri popolari di Milano, ha ricordato che nella sua città ci sono «napoletani considerati non degni di diritti e di attenzioni, marginalizzati» all’interno di quegli stessi quartieri «che in questo momento storico sono sovrastati da un turismo» che sembra porti benessere, ma «non ha ricadute sulla reale emancipazione di tutte le persone». Per questo, a nome del Comitato, ha portato un abbraccio fraterno a chi lotta per la verità e giustizia per Ramy e Fares e ha proposto di continuare a confrontarsi per unire le forze. Dopo i saluti di Nadir, che ha ringraziato i presenti per la buona riuscita della fiaccolata, nonostante la tensione creata nei giorni precedenti e anche sul momento dai media, i presenti si sono allontanati a piedi o in bicicletta nella nebbia. Un gruppo di ragazzini è tornato verso Corvetto, seguito a distanza ravvicinata da tre persone con telecamere e microfoni, forse nella speranza che proprio all’ultimo succedesse qualcosa di eclatante. Dal gruppo invece si è alzata la voce di un ragazzino di nove o dieci anni che ha continuato a camminare, senza voltarsi: «Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco, eh?». (gloria pessina)
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