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La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia
(disegno di federica pagano) Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid (2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici. Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa vita civile. Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per “sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico. Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio da parte dei capitali immobiliari. DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti, comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale, contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti, malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte. A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove di una politica deliberatamente classista ed escludente. L’ARROCCAMENTO DEL POTERE Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori, informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia negli investitori. La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea  e bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la “SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come “interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano. Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione giudiziaria. Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri irregolari. A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani, manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano. Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano. In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito sull’urbanistica e sui fatti di Milano. I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia dell’immagine milanese”. Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo sull’esaurimento delle energie di chi si oppone. La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia tozzi)
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Milano, l’odissea per la casa di un rifugiato politico
(disegno di martina di gennaro) Questa testimonianza è stata raccolta dopo lo sgombero della Casa albergo di via Fogagnolo a Sesto San Giovanni, avvenuto il 31 luglio 2024 su richiesta della giunta comunale che aveva dichiarato l’edificio inagibile. Lo sgombero è stato effettuato senza alcun preavviso e senza che fossero individuate, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, soluzioni alternative per tutte le persone che vi risiedevano. Dara, nome di fantasia, si è trovato così improvvisamente senza una casa ed è stato ospitato temporaneamente per tutto il mese di agosto nella sede locale di Unione Inquilini che si era battuta a lungo contro la chiusura della Casa albergo. «Sono nato a Shiraz, una città grande, bella, storica, nota per alcuni poeti celebri», racconta con orgoglio Dara, un uomo iraniano da molti anni in Italia. «Fino all’età di ventuno anni ho vissuto nella mia città natale, poi, dopo la laurea in letteratura, ho deciso di trasferirmi a Teheran, dove ho iniziato a lavorare per l’editoria come correttore di bozze di libri di storia». Durante il suo primo anno a Teheran, «una città difficile in cui vivere, tanto che se riesci a sopravviverci potrai vivere in qualsiasi parte del mondo», Dara legge un annuncio dell’Unicef per un concorso letterario destinato a racconti per bambini malati di cancro, che selezionerà e premierà tre storie da pubblicare. Avendo già scritto e pubblicato alcuni racconti per i più piccoli durante gli studi di letteratura, decide di partecipare. Intitola il racconto “Un pianto dentro di me” e lo invia al concorso: viene selezionato e premiato. Pubblica così il suo primo libro e, con i soldi del premio, affitta un appartamento in città. Dopo un paio d’anni, avvia una collaborazione con una rivista letteraria recensendo racconti e incontrando giovani studenti per discutere di storia, critica e letteratura. Scrivere di libri e insegnare ai ragazzi cosa si cela dietro un testo, lo appassiona molto. Ma, nel 2005, dopo l’elezione di Mahmud Ahmadinejad a presidente dell’Iran, la rivista con cui collabora, che era critica nei confronti del regime, viene chiusa e lui resta senza lavoro. Per un anno è costretto a fare il lavapiatti in un ristorante, poi riprende a collaborare con alcune riviste, ma solo saltuariamente, fino a quando inizia a scrivere radiodrammi per la radio nazionale iraniana dove lavorerà per sei anni. «Anche la radio nazionale era sotto il controllo del regime islamico, non era uno spazio aperto dove tu potevi scrivere liberamente, dovevi sempre stare attento a non superare la linea rossa». I radiodrammi, spiega Dara, prima di essere affidati agli attori o ai registi, venivano sottoposti alla lettura di un gruppo di censura. Se c’era qualcosa che non piaceva, senza comunicarlo, venivano cancellate le frasi o i dialoghi incriminati. Anche dopo che il radiodramma andava in onda, la censura monitorava come questo veniva percepito dalla popolazione; se riceveva commenti negativi, lo scrittore veniva punito. A Dara successe tre volte di essere messo sotto accusa e, in ogni occasione, per sei lunghi mesi non poté scrivere nulla, si trovò senza lavoro e stipendio. Passati i sei mesi, veniva obbligato a scrivere un radiodramma a tema religioso. Per questo motivo, crebbe in lui il desiderio di andare via. “Se prendo un visto Shengen – pensava tra sé – posso raggiungere l’Inghilterra dove ci sono canali tv e radio persiani, e come scrittore o giornalista potrò trovare facilmente un lavoro”. Nel 2014 Dara ottiene un visto dall’ambasciata d’Italia a Teheran ed esce dall’Iran con alcuni suoi connazionali per partecipare alla Fiera del libro di Bologna. La sua intenzione è di proseguire il viaggio verso l’Inghilterra. Dopo aver trascorso un mese a Bologna, prova a raggiungere la Svizzera con il treno, ma alla prima città di frontiera viene fermato, arrestato e riportato a Milano. «Alla polizia ho detto: “Non mi interessa quante volte mi riportate indietro, proverò ancora a uscire dall’Italia perché ho altri desideri e non posso rimanere qua”». Scopre così che in Europa è in vigore il regolamento di Dublino che prevede la possibilità di richiedere asilo politico solo nel primo paese di arrivo e non consente di attraversare la frontiera per raggiungere un altro stato dell’Unione. La polizia gli dà l’indirizzo di un dormitorio in via Saponaro dove resta per sette mesi. «Non era ciò che immaginavo né quello che pensavo dovesse essere: ogni mattina dovevo alzarmi alle 7:30, uscire e girare senza una meta fino a sera, quando potevo rientrare nel dormitorio». Durante quelle lunghe giornate, Dara aveva con sé solo un piccolo zaino e del cibo; girava alla ricerca di un posto dove trascorrere il tempo; se pioveva, andava in un supermercato o in qualche centro commerciale, o in un luogo coperto e riscaldato come la biblioteca comunale. Ma anche nel dormitorio la vita non era facile, la stanza era sporca, la gente maleducata e violenta. «Tante volte volevo piangere, ma ero così arrabbiato che non riuscivo neppure a piangere. Davvero quei sette mesi hanno rovinato tante cose dentro me». Dara prova di nuovo a scappare dall’Italia, ma ancora una volta viene fermato in Svizzera e riportato a Milano, dove torna in un dormitorio. Un mese dopo, però, un assistente sociale gli trova ospitalità in un progetto di accoglienza nazionale per richiedenti asilo e rifugiati chiamato Sprar. Vi resterà per un anno e mezzo. La struttura, simile a una chiesa, è gestita da suore. Gli viene assegnata una stanza in condivisione con altri ragazzi africani e la possibilità di usare gli spazi comuni. Ma il progetto finisce senza che riesca a trovare un lavoro, perché quelli che gli offrono, come giardiniere o addetto alle pulizie, non corrispondono alle sue aspettative. «Non avevo paura di lavorare, ma pensavo: io ho talento, sono abbastanza intelligente, se mi danno la possibilità di imparare un lavoro diverso, più compatibile con la mia personalità, posso gestire la mia vita invece di andare a lavare i piatti o a fare il giardiniere». Per anni la storia di Reza nel nostro paese sarà quella di chi tenta in ogni modo di oltrepassare il confine, ma continuamente viene respinto indietro. Una volta prova ad andare in Francia con il treno, ma è costretto continuamente a cambiarlo perché da una porta entra la polizia e dall’altra porta esce lui. «In Iran avevo una vita normale, ero in difficoltà per la censura, ma non avevo mai dormito per strada né ero mai scappato dalla polizia». Dentro di sé sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma non si sentiva responsabile della sua condizione, anzi trovava profondamente ingiusto ciò che gli stava accadendo e questo gli procurava rabbia, lo rendeva pessimista, gli faceva perdere subito la pazienza. Scaturisce così l’idea di andare a Roma a protestare davanti alla Basilica di San Pietro, con la speranza che magari il Papa o qualcun altro possa ascoltarlo e comprendere il suo malessere. Una volta raggiunta la piazza, prepara dei cartelli su cui scrive che è un rifugiato politico, che vive da solo, che è sotto minaccia, che ha bisogno di aiuto. Poi si siede davanti alla Basilica, in uno spazio vuoto, e alza in alto i cartelli che ha appena realizzato. Ma arrivano subito le forze dell’ordine, che gli ordinano di andare via. Lui risponde che da lì non si sposterà. Poco dopo arriva una vettura della polizia e poi un’altra, lo isolano dalla vista dei turisti, lo prendono di forza e lo portano via. Condotto in un ufficio, poco distante dalla piazza, Dara, che aveva perso ogni controllo su stesso, viene spinto in una stanza e sbatte la testa contro il muro. Si arrabbia, inizia a urlare e a colpirsi il volto con le mani finché la stanchezza e il dolore non lo calmano. Tornato a Milano, affitta un letto in un dormitorio con l’idea di restarci pochi giorni per capire cosa fare. Si convince invece che la vita non ha più valore, che non ha senso continuare così; decide allora di andare in bagno, è passata la mezzanotte, in giro non c’è nessuno che lo può notare, va sotto la doccia, apre l’acqua calda, si taglia le vene, il sangue inizia a scorrere velocemente, perde coscienza. «Mi ricordo solo che qualcuno è entrato e ha preso la mia mano, dopo ho visto un’altra persona con i vestiti del personale delle ambulanze che stava chiudendo i tagli. Io però ero fuori controllo e ho provato ad aprirli ancora. È venuta poi la polizia, mi hanno bloccato, quindi mi hanno fatto una puntura e mi hanno portato nudo, senza vestiti, in ospedale». Dopo due giorni di ricovero, gli infermieri dicono a Dara che deve andare via, che non possono più tenerlo ricoverato lì perché hanno bisogno del letto. Così, con dei vestiti usati forniti dal personale ospedaliero, viene dimesso con ancora nei capelli e sul corpo delle tracce di sangue. Uscito dall’ospedale, passa davanti a una vetrina, vede una persona riflessa nel vetro e fatica a riconoscere se stesso. «Davvero pensavo che c’era un’altra persona, ma pochi secondi dopo ho capito che quello era il riflesso della mia faccia. Quel momento davvero non lo dimenticherò mai». Rientrato al dormitorio, gli dicono che non può più restare, che deve prendere le sue cose e andarsene. Chiede aiuto al Comune e viene accolto alla Casa dell’Accoglienza “Enzo Jannacci”. «Ancora un dormitorio, sporchissimo, così sporco che non potevo usare il bagno. Quindi ogni mattina dovevo uscire: prendevo dentifricio e spazzolino e andavo al supermercato, lavavo i denti e la faccia». Gli assistenti sociali dicevano a Dara di avere pazienza, che lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro, ma le indicazioni che gli davano erano spesso datate, le aziende trasferite o chiuse. Così, con il trascorrere del tempo, si rende conto che quello che fanno gli assistenti sociali è inutile. E ancora una volta, dopo un anno e mezzo, decide di cercare un’altra soluzione, ma si ritrova a cambiare solo dormitorio. Viene accolto alla Casa Rossa, vicino piazzale Lotti, una struttura della stessa fondazione che gestiva quella in via Saponaro dove era stato all’arrivo a Milano. Dara si confida con il responsabile del centro, e lui, colpito dalla storia che ascolta, riesce a trovargli una micro-comunità che meglio si adatta alle sue esigenze. Gli assegnano una stanza in condivisione con altre sei persone e lo indirizzano verso una cooperativa che offre tirocini lavorativi per giardiniere e aiuto cuoco. «Ho visto che non c’erano altre possibilità tranne queste e ho scelto aiuto cuoco, ma in realtà era lavapiatti». Per sei mesi, lavora come tirocinante in un ristorante, dopodiché arriva l’epidemia di Covid. Tutti i locali commerciali vengono chiusi e lui si ritrova confinato nella micro-comunità, senza alcuna certezza sul futuro. Dopo un anno, si mette di nuovo alla ricerca di un lavoro, trovandone uno dove lavorerà per due anni come aiuto cuoco e lavapiatti. È un momento positivo per la vita di Dara, ha un lavoro stabile e un reddito che gli consente di affittare un appartamento in condivisione con altre due persone che ha conosciuto nel dormitorio di viale Ortles. «Erano ragazzi afgani, volevano affittare una casa, c’era spazio per tre persone, bisognava pagare mille e duecento euro. “Se tu ci sei possiamo dividere la spesa”. Ho detto di sì, quattrocento euro andavano bene, ma dopo tre mesi ho visto che loro erano disordinati, fumavano dentro la stanza, consumavano droga. Non mi è piaciuto, quindi ho cercato una stanza singola solo per me». Si rivolge a un assistente sociale che lo conosce da tempo e gli chiede se può aiutarlo a trovare una soluzione diversa. Riceve un foglio con alcuni contatti a cui rivolgersi. Dara chiama, molti dicono che sono occupati, che non hanno posto, ma la Casa albergo di Sesto gli risponde che possono ospitarlo. Va al loro ufficio, racconta che lavora, mostra il contratto. Gli chiedono se qualcuno può garantire per lui, lascia il numero di telefono dell’assistente sociale. Dopo una settimana gli dicono che hanno una stanza doppia, per un mese. Dara la prende perché non vuole rimanere dov’è. Dopo un mese gli dicono che c’è una stanza singola dove può spostarsi, prende la singola e inizia a vivere là. «Ero contento perché abitavo da solo. Per me stare da solo è come una medicina. Anche in Iran, negli ultimi quindici anni che ho vissuto a Teheran, ho sempre abitato da solo. Sono una persona che vuole avere tutto in ordine, e quando vedo qualcuno che non ha rispetto, mi dà davvero fastidio. Quello che fa è come un chiodo fisso nel mio cervello». La serenità raggiunta da Dara non dura a lungo. Il suo contratto di lavoro scade, il ristorante chiude e perde il posto. Cerca un nuovo impiego, ma senza successo. Improvvisamente, scopre che il Comune ha deciso di chiudere la Casa albergo e dovrà andarsene. Si mette alla ricerca di una soluzione, ne parla pure con l’assistente sociale che lo conosce e sa dei suoi problemi. Anche lei si attiva per aiutarlo, ma entrambi sono consapevoli che sarà difficile trovare una soluzione abitativa stabile per una persona singola, senza un contratto di lavoro e senza alcuna invalidità. Intanto Dara continua a pagare l’affitto della stanza e coltiva la speranza di rimanere alla Casa albergo il tempo necessario per trovare un’altra soluzione, ma purtroppo un giorno di fine di luglio, di mattina presto, arriva la polizia, bussano alle porte delle camere e con tono minaccioso intimano a tutti di uscire. «Sono rimasto senza casa, senza le mie cose, solo con i vestiti che indossavo, senza sapere cosa fare, senza avere alcuna alternativa. Fortunatamente, alcune persone del sindacato, che prima non conoscevo, mi hanno aiutato, ma purtroppo anche loro non possono fare molto per risolvere i miei problemi. La mia situazione è così, instabile, finora». (salvatore porcaro)
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Le nuove “zone rosse”
Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha inviato una direttiva ai prefetti per spingerli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti definiti “pericolosi con precedenti penali” e poterne quindi disporre l’allontanamento. Viene in tal modo esteso ad altre città questo strumento già sperimentato a Firenze e Bologna. Il ricorso alle cosiddette […]
L'informazione di Blackout
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La Milano di Ramy e quella delle zone rosse
(disegno di cyop&kaf) Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto. Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25 mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi. Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares, inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato. L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità, se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via Quaranta, se e altri se. Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto. Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona, San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio, dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali, palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio? Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa, diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse, l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi. I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per questi giovani? Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera, prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano, non è considerato benvenuto. E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri. Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente. Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945, quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti dall’alto. (rajaa ibnou)
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“Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco?”. A Milano, candele nella nebbia per Ramy
(foto di roberto-c.) A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori. A Corvetto, nella periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove per la vicinanza alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno all’Abbazia di Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare attraversando le vie della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale Gabrio Rosa, il punto di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda metà degli anni Venti dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i poveri e i poverissimi” della città e le espansioni successive, si può scorgere il Parco Agricolo Sud, ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire l’orizzonte. Da giorni, la piazza era presidiata dalla polizia locale per scoraggiare eventuali scontri e incendi nati dalla rabbia per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne che ha perso la vita in seguito allo schianto con cui si è concluso un lungo inseguimento a opera di una pattuglia di carabinieri, nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre. A una settimana di distanza dalla morte del ragazzo e dall’inizio del coma di Fares Bouzidi, l’amico alla guida della moto che ha interrotto la sua corsa in via Ripamonti con una dinamica ancora da accertare, gli amici di Ramy e alcuni solidali si sono dati appuntamento sabato 30 in piazzale Gabrio Rosa per una fiaccolata. L’iniziativa era stata immaginata come un momento di condivisione del dolore e come risposta ai presidi delle giornate precedenti promossi da Lega e Fratelli d’Italia, che chiedevano più sicurezza attraverso la militarizzazione del quartiere. Sabato sera, nel buio lattiginoso della piazza si distinguevano solo i fari led delle videocamere dei giornalisti provenuti da tutta Italia e le luci delle auto della polizia locale. All’orario concordato per il ritrovo c’erano alcuni ragazzi del quartiere all’incrocio con via Mompiani, dove vive la famiglia di Ramy. «Ma tu sei qui per Ramy?», chiedeva un ragazzino sui dodici anni ai volti sconosciuti che scrutava attento, mentre si allontanava dal piccolo gruppo pronto a partire. Nadir, uno degli amici del diciannovenne scomparso e dei promotori della fiaccolata in suo ricordo, era impegnato a far allontanare i giornalisti dallo striscione tenuto da donne e ragazzi del quartiere in lutto che recitava “Verità e giustizia per Ramy e Fares. La morte non è uguale per tutt*”. Nel frattempo, solidali singoli o di varie realtà come Cantiere, Lambretta, Coordinamento Antirazzista Milano, ZAM, Off Topic, Comitato Insostenibili Olimpiadi, Giovani Palestinesi d’Italia, CiSiamo, PRC Municipio 4, ADL Cobas e vari membri della Rete per il diritto all’abitare si sono uniti ai presenti, senza esporre bandiere né striscioni. Il corteo, guidato da Nadir, ha attraversato quasi in silenzio via Mompiani, mentre i presenti si scambiavano sottovoce parole sugli avvenimenti degli ultimi giorni e fumogeni tingevano di rosso e di viola l’atmosfera nebbiosa. In piazza Ferrara, intorno al mercato comunale, tra le mani hanno iniziato a passare candele bianche, mentre due lanterne si alzavano verso il cielo, insieme ai flebili fischi all’indirizzo di Carmela Rozza, esponente del Pd e componente del consiglio regionale della Lombardia. La politica, in un momento di sosta e silenzio del corteo, aveva chiamato intorno a sé alcune telecamere per dichiarare la vicinanza ai ragazzi del quartiere, suscitando la reazione di molti dei presenti, critici verso le azioni intraprese proprio dal suo partito nella zona e in altre aree periferiche della città. La marcia è proseguita verso ovest, ritmata da una preghiera pronunciata dalle donne in testa al corteo e poi dalla trasmissione di alcuni brani del Corano cantati, mentre le oltre cinquecento persone radunate strada facendo uscivano dal tessuto denso del quartiere per percorrere via Bernardo Quaranta, una strada ampia fiancheggiata da capannoni, aree verdi occupate da tralicci, hotel segnalati da insegne al neon incomplete, ampi parcheggi e il lungo muro dell’ex Panificio Automatico Continuo,  che negli anni Venti produceva mille duecento quintali di pane al giorno e che oggi ospita il servizio di ristorazione scolastica che rifornisce le mense della città. Alle spalle del primo gruppo, cinque ragazzi tenevano un altro striscione che recitava “I nostri quartieri uniti nel vostro dolore”, mentre alcuni interventi si alternavano ai momenti di silenzio o alle note del Corano. Ali, esponente dei Giovani Palestinesi d’Italia, ha ricordato come il motivo della rabbia e della richiesta di giustizia non fosse solo una vita persa e come il caso di Ramy non fosse unico, ma fosse l’ennesima spia di dinamiche di stigmatizzazione delle persone migranti e di uno stato di polizia che non si manifesta solo attraverso l’uso della forza. La giovane si è poi rivolta ai giornalisti, numerosi in quel momento al corteo e in quartiere, ritenuti responsabili di narrazioni distorte e amplificate secondo le quali la rabbia delle notti precedenti sarebbe stata causata “da un’incapacità della comunità di mantenere l’ordine” e non da una risposta a razzismo e classismo sistemici. Mentre il corteo proseguiva tra loft in ex aree industriali, industrie farmaceutiche e corsi d’acqua, con alcune soste richieste da Nadir per fare in modo che tutti i partecipanti stessero dietro al primo striscione e che i giornalisti non intralciassero il cammino, i centri sociali Cantiere e Lambretta hanno portato la solidarietà da altri quartieri della città e si sono stretti nel lutto, nella rabbia e nel desiderio di verità e giustizia per Ramy e Fares. Hanno ricordato cosa significa essere giovani, neri, arabi, di una zona periferica e solo per questo venire fermati dalla polizia più volte a settimana e avere la certezza che la propria vita non conta, come è stato nel 2008 per Abba e ora per Ramy. O per essere definiti “maranza”, come hanno titolato ultimamente i giornali a proposito dei giovani di Corvetto, richiamando il termine dispregiativo introdotto negli anni Ottanta a Milano che sintetizza “marocchino” e “zanza” (ladro, in milanese). Il corteo ha rallentato in prossimità dell’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti, uno dei principali assi radiali di Milano che collega il centro della città con la zona sud, percorso nella notte tra il 23 e il 24 novembre da Ramy, Fares e dalla pattuglia dei carabinieri che non aveva ancora smesso di inseguirli dopo otto chilometri. Lì, dove è avvenuto lo schianto, i presenti si sono distribuiti ai lati dell’incrocio, mentre Nadir ha invitato alla preghiera, prima che venisse scandito in coro, ripetutamente, il nome di Ramy. Nello spazio vuoto al centro dell’incrocio ha poi preso parola un’esponente del Comitato Antirazzista Milano, che ha sottolineato ancora una volta la dinamica dei fatti della scorsa settimana, ennesima manifestazione del fenomeno della profilazione razziale e degli abusi della polizia. Ha poi invitato ad alzare gli occhi e osservare le telecamere che registrano ciò che accade in quell’incrocio, chiedendo come mai non fossero stati ancora resi pubblici i video dell’accaduto. Infine, è intervenuto un esponente del Comitato Verità e Giustizia Ugo Russo, da Napoli, che ha ricordato la storia del quindicenne dei Quartieri Spagnoli ucciso da un carabiniere fuori servizio alcuni anni fa. Ricollegandosi agli interventi precedenti sulla razzializzazione dei ragazzi di origine straniera nei quartieri popolari di Milano, ha ricordato che nella sua città ci sono «napoletani considerati non degni di diritti e di attenzioni, marginalizzati» all’interno di quegli stessi quartieri «che in questo momento storico sono sovrastati da un turismo» che sembra porti benessere, ma «non ha ricadute sulla reale emancipazione di tutte le persone». Per questo, a nome del Comitato, ha portato un abbraccio fraterno a chi lotta per la verità e giustizia per Ramy e Fares e ha proposto di continuare a confrontarsi per unire le forze. Dopo i saluti di Nadir, che ha ringraziato i presenti per la buona riuscita della fiaccolata, nonostante la tensione creata nei giorni precedenti e anche sul momento dai media, i presenti si sono allontanati a piedi o in bicicletta nella nebbia. Un gruppo di ragazzini è tornato verso Corvetto, seguito a distanza ravvicinata da tre persone con telecamere e microfoni, forse nella speranza che proprio all’ultimo succedesse qualcosa di eclatante. Dal gruppo invece si è alzata la voce di un ragazzino di nove o dieci anni che ha continuato a camminare, senza voltarsi: «Giornalista, pensavi che facevamo il fuoco, eh?». (gloria pessina)
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Più case e autonomia! Un presidio contro le politiche sociali del comune di Milano
(disegno di valentina galluccio) A Milano, una famiglia con minori che si rivolge all’amministrazione comunale perché è in difficoltà, senza casa a causa di uno sfratto o dell’impossibilità di affittarla, quasi sicuramente finisce per essere presa in carico dai servizi sociali piuttosto che da quelli abitativi. Lo affermano gli attivisti della Rete solidale Ci Siamo che, in seguito agli sgomberi delle occupazioni abitative degli stabili di via Siusi e di via Esterle, e all’incendio del capannone di via Fracastoro, hanno seguito diverse famiglie di lavoratori stranieri prese in carico dai servizi sociali del comune di Milano e ha potuto constatare quanto segue. Con l’intervento del servizio sociale territoriale, il bisogno di una casa, che fino a quel momento rappresentava la necessità prevalente, passa in secondo piano a causa di una lettura erronea del disagio che si concentra sulle “colpe” del nucleo familiare piuttosto che inquadrare la sua condizione all’interno di un contesto sempre più escludente, precario e razzista. Questo pregiudizio verso le persone povere, molto radicato tra gli assistenti sociali, porta a una conseguenza altrettanto dannosa, cioè quella di considerare il nucleo familiare divisibile, da una parte la mamma con i figli minori, dall’altra il padre con quelli maggiori, come se per la tutela e il benessere dei minori non fossero importanti l’unità della famiglia e la figura paterna. Una consuetudine ormai diffusa, che prevede l’individuazione di soluzioni abitative temporanee e in emergenza solo per i soggetti fragili del nucleo familiare, a cui viene offerta nell’immediato ospitalità in strutture di accoglienza definite di bassa soglia come i dormitori pubblici. L’accesso in queste strutture, costituite da spazi angusti e asettici con regole rigide e vessatorie, avviene nella maggioranza dei casi senza rendere noto il tempo che si resterà al loro interno e neppure quale altra soluzione più stabile e duratura verrà individuata dal servizio sociale territoriale. Dunque, si resta a lungo separati, in una condizione di incertezza sul futuro, precarietà quotidiana e di assoluta dipendenza e assoggettamento alle scelte degli assistenti sociali. Questi agiscono in totale autonomia individuando, tra le risorse a disposizione del pubblico, quella che ritengono più adeguata ai soggetti “fragili” del nucleo familiare, ed escludendo sistematicamente gli altri: padre e figli maggiorenni. Si tratta di soluzioni abitative temporanee, come le case di accoglienza o le residenze sociali, gestite dal privato sociale con costi molto elevati per il pubblico, che nella maggioranza dei casi non rispondono al bisogno di casa espresso al momento della presa in carico, ma infantilizzano gli adulti e prolungando a tempo indeterminato la loro condizione emergenziale, fino a trasformarla in “ordinaria”. Il più delle volte queste “soluzioni”, presentate come l’unica risorsa che l’Amministrazione può mettere in campo, vengono imposte dagli assistenti sociali alle sole donne, in assenza dei mariti e solo verbalmente, con notevoli pressioni affinché queste siano accettate o meno in tempi molto brevi, un paio di giorni al massimo. Se la famiglia, nonostante le pressioni ricevute, mostra dubbi sulla proposta individuata oppure la rifiuta chiedendo una soluzione abitativa dignitosa, stabile e duratura per l’intero nucleo familiare, allora gli assistenti sociali cambiano registro: prima minacciano la segnalazione al Tribunale dei minori, successivamente intimano alla donna con i figli minori di lasciare la struttura in cui sono ospitati, per poi allontanarli con la forza. In questo modo, il servizio sociale territoriale, con arbitrio e ostilità, sposta ulteriormente il piano del discorso, da quello abitativo a quello assistenziale a quello penale, cioè ti dice in modo brusco e netto: “O fai esattamente quello che diciamo noi, oppure te ne puoi andare e lasciare il posto a qualcun altro. Se non lo fai, ti cacciamo e ti denunciamo!”. STORIA DI UNA FAMIGLIA SFOLLATA DA UNO STABILE OCCUPATO A CAUSA DI UN INCENDIO Marito: Io, mia moglie e mia figlia piccola siamo in Italia dal giugno 2023. Abbiamo deciso di venire qua perché in Perù abbiamo avuto problemi con le persone che chiedono soldi senza lavorare e, se non li dai, ammazzano qualcuno della tua famiglia. Io lavoravo nel comune della mia città, ero responsabile dei mezzi di trasporto e queste persone venivano da me a chiedere soldi. Io però ho detto di no. Dopo che sono andato a fare la denuncia, ci hanno chiamato, hanno detto che noi siamo fregati, che ammazzano qualcuno di noi. Allora siamo scappati perché la polizia non dà protezione a chi denuncia. Due mesi dopo la persona che ha preso il mio posto è stata ammazzata. Neanche lui voleva dare soldi ed è morto perché quello che ti dicono: “Se non mi dai i soldi, ti ammazzo”, è vero. Prima di partire abbiamo venduto tutto quello che avevamo in Perù: materasso, letto, macchina, e abbiamo fatto un bonifico di tremila euro a una persona che diceva di essere nostra amica così lei poteva trovarci una casa a Milano. Ma quando siamo arrivati in Italia, le abbiamo scritto su Facebook, ma non abbiamo ricevuto risposta, lei è sparita. A Malpensa abbiamo preso un pullman che ci ha portato alla Stazione Centrale. Lì siamo scesi e abbiamo incontrato una donna peruviana che ci ha dato da mangiare e dopo ci ha portato al Centro Sammartini, ma a Sammartini ci hanno detto che  i posti al dormitorio erano tutti occupati. Per due giorni abbiamo dormito sotto un ponte, dopo un’altra signora peruviana ci ha detto che potevamo andare nella casa dove lei lavorava. Lei faceva la badante, si prendeva cura di una donna che adesso è morta. Così ci ha dato un posto dove dormire da mezzanotte fino alle sei di mattina. Io facevo prima la pulizia dei vetri, dopo consegnavo le pizze, così raccoglievo un po’ di soldi per vivere. Poi siamo arrivati a Fracastoro (occupazione abitativa sostenuta dalla Rete solidale Ci Siamo). Andavamo sempre a Loreto, lì ci sono tanti nostri connazionali. Un giorno abbiamo conosciuto un uomo, che ci ha detto: “Andate a questo indirizzo, lì troveranno una soluzione per la vostra famiglia”. La prima volta sono andato da solo, perché mia moglie quel giorno lavorava a casa della donna che ci aveva dato un aiuto. Era un mercoledì, le persone che c’erano mi hanno detto di tornare domenica, perché la domenica c’è un’assemblea con tutti gli abitanti. Sono tornato e mi hanno detto che il mercoledì dopo avrebbero trovato una soluzione. Allora ho detto a mia moglie di venire con me così loro guardano che io dico la verità, che non sono una persona che fa casino, non sono violento, non consumo droghe, sono un tecnico elettricista, sono una persona che è venuta in Italia per una vita migliore. Quindi siamo andati insieme e ci hanno detto che potevamo restare in quel posto finché non trovavamo un lavoro e qualche cosa di meglio da affittare a Milano. A Fracastoro la nostra vita è cambiata. Quando siamo arrivati, non avevamo i documenti, non avevamo lavoro, non capivamo la lingua italiana, poi ci siamo sistemati, ho trovato lavoro, ho fatto i documenti e ho iniziato a mandare i soldi ai miei figli in Perù, anche alla mia mamma e alla mamma della mia moglie. Ma a settembre è successo questo evento brutto, l’incendio, e dopo di questo siamo finiti un’altra volta in strada. Cosa è successo la mattina dell’incendio? Marito: La prima cosa che ho fatto è stata prendere mia figlia e portarla fuori da questo posto con mia moglie, poi sono rientrato per dire alle persone che erano dentro, che in quel momento dormivano, di uscire subito. Dopo ho preso da solo cinque-sei bombole perché tutti prendevano le loro cose e scappavano. Poi sono rientrato un’altra volta per prendere i vestiti di mia figlia e di mia moglie. Ho buttato tutto dalla finestra. Quindi ho visto che il fuoco era tanto e sono scappato via, lasciando tutte le altre nostre cose dentro: il mio monopattino, con cui andavo a lavoro, e i soldi che avevamo messo da parte, che erano in un posto nascosto. Un’ora dopo l’incendio sono arrivati i vigili del fuoco. Dopo quattro ore è arrivata anche la Protezione civile. In quel momento ci hanno detto che ci spostavano in un posto sicuro: al dormitorio comunale di viale Ortles, dove alla data di oggi siamo da quasi due mesi. Per tre giorni abbiamo dormito tutti insieme al secondo piano del dormitorio. Lì ci hanno chiesto se lavoravamo, se avevamo i documenti, cosa facevamo qua in Italia. Ci hanno fatto tante domande. Il terzo giorno ci hanno diviso: mia moglie e mia figlia sono andati in un padiglione, io in un altro. Moglie: La situazione in Ortles è così, la colazione è dalle 7:30 alle 8:30, il pranzo è dalle 12:00 alle 13:00, la cena dalle 18:30 alle 19:30. Alle 9:00 dobbiamo uscire dalla stanza e stare fuori fino alle 13:00. Le persone che lavorano lì, quando noi usciamo dalle stanze, cercano tra le tue cose, controllano tutto, non puoi tenere niente, neppure il cibo, né un frutto, né un biscotto, niente. Mia figlia è abituata a mangiare il cibo che cucino io, il cibo peruviano. La prima volta in Ortles ha mangiato un po’ perché per lei era qualcosa di nuovo, ma dopo non ha mangiato più. Anche per questo lei è stata una settimana con la febbre, la tosse, proprio male. E quando è stata male, la mattina comunque dovevamo uscire dalla stanza. Se il dottore non dice che puoi restare, non ti lasciano stare, devi andare fuori come tutti. Per me quella non è vita, lei è piccola, ha solo due anni, e fuori fa tanto freddo. Anche io, che sono incinta al settimo mese, a volte sto un po’ male con la pancia, mi fa male la schiena, ma non possiamo restare lì a riposare, dobbiamo andare fuori, dobbiamo stare in giro. A un certo punto vi hanno chiamato per farvi una proposta. Ci raccontate come è andata? Moglie: Un giorno mi ha chiamato l’assistente sociale e mi ha detto che c’era una proposta buonissima, che dovevo andare con mia figlia in una comunità in un paesino in provincia di Pavia. Io ho pensato che intendesse insieme con mio marito, però lui mi ha detto di no: da sola con mia figlia. Mi ha detto che dovevo accettare questa proposta, e che non sarei potuta stare più lì dopo il parto. Io ho detto che prima dovevo parlare con mio marito per capire cosa fare, perché per me non andava bene che io dovevo andare lì, lontana da mio marito. Marito: Quando lei mi ha chiamato, piangeva ed era spaventata. Gli ho detto di stare calma, che qualsiasi decisione la prenderemo quando io torno da lavoro. Quindi quel giorno non ho fatto neanche lo straordinario, ho preso i mezzi di trasporto e sono andato subito da mia moglie. Poi ho chiamato le persone della Rete Ci Siamo, per sapere cosa dovevamo fare. Mi hanno detto che dovevamo stare tranquilli, che non ci avrebbero tolto la nostra figlia, di non accettare, né firmare. Abbiamo fatto quello che ci hanno consigliato, perché noi non sappiamo nulla dei diritti qua in Italia. Moglie: Il giorno dopo l’incontro con l’assistente sociale, sono andata insieme con mio marito anche dalla direttrice di Ortles. Lei ci ha detto che era una buona soluzione per noi, per la nostra famiglia, che mio marito poteva venire a trovarci. Ma se per venire da noi deve rinunciare al lavoro, come sostiene la famiglia, come manda i soldi al paese? Per quello noi non abbiamo accettato la proposta. Così mi hanno detto che non avendo accettato la proposta, dovevano chiamare il Tribunale dei minori. Io non bevo alcool, non fumo, sono una persona che apprende giorno per giorno la lingua italiana, che ha sempre fatto le cose per bene. Io ho paura di questa cosa che mi hanno detto, che loro possono allontanare la mia figlia da me. Per quello ho detto a mio marito che preferivo andare via da questo paese prima che mi tolgono mia figlia. Sono andata anche a un’agenzia per comprare il biglietto, però la dottoressa mi ha detto che non potevo più viaggiare dopo la trentaseiesima settimana di gravidanza, che era pericoloso per me. Marito: Alla data di oggi, noi siamo tranquilli, sì, però non è vero che lo siamo, perché abbiamo ancora un po’ di paura, perché se compro il biglietto aereo a mia moglie, per farla tornare al paese, questo non va bene perché io invece non posso tornare, perché le persone che ho denunciato nel mio paese mi cercano per farmi qualcosa, magari ammazzarmi. Ma se rimaniamo qua in Italia non abbiamo un posto dove stare anche se abbiamo il lavoro, paghiamo i contributi, siamo persone tranquille. A questo punto non sappiamo cosa fare. Stiamo aspettando una soluzione dal comune di Milano, ma alla data di oggi non abbiamo ancora una risposta, non sappiamo cosa aspettarci domani. (redazione monitor milano) PRESIDIO Per protestare contro l’attuale politica sociale del comune di Milano, per riportare al centro del dibattito la questione della casa, per l’autonomia, l’emancipazione e la responsabilizzazione degli individui, la Rete solidale Ci Siamo ha indetto un presidio davanti all’assessorato al Welfare in via Sile, 8 per martedì 26 novembre alle ore 10.
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L’Isola che non c’è più. Librerie e negozi di dischi espulsi dalla Milano olimpica
(disegno di escif) A Milano, l’aumento esponenziale dei valori immobiliari in vista delle Olimpiadi del 2026 sta aggravando l’emergenza abitativa e la pressione su spazi sociali ed esercizi commerciali diversi da ristoranti e bar. Nel quartiere Isola, che da anni ha perso gli storici abitanti, artisti e artigiani che lo animavano, ad andarsene sono ora la libreria Spazio BK e Volume Dischi e Libri, pochi mesi dopo il trasferimento della storica Isola Libri.  Per salutare il quartiere prima di spostarsi in un’area più periferica, la sera del 7 novembre BK e Volume hanno organizzato un “rito corale di passaggio”. Sono intervenuti giornalisti, musicisti, artisti e abitanti che si sono sentiti a casa in questo tratto di via Porro Lambertenghi che per anni è riuscito a resistere alle dinamiche di espulsione e sostituzione in corso nel quartiere Isola e nell’intera città. Pubblichiamo di seguito l’intervento di Lucia Tozzi in occasione della serata di saluto.  BK e Volume non sono le prime librerie che lasciano l’Isola: sono state precedute da Isola Libri, a pochi metri da qua, che per ora si è spostata a Dergano, e che è stata cacciata per lo stesso motivo, l’aumento radicale dell’affitto, ed è stata rimpiazzata da un ennesimo ristorante. L’anno in cui BK ha aperto, il 2012, era l’anno in cui nacque Macao (e per inciso anche mio figlio, ma non c’entra niente), e sembrava che una critica alla gentrificazione e finanziarizzazione della città stesse prendendo forza, che una piccola moltitudine stesse cominciando a lottare per riprendersi gli spazi, a Milano come in Italia. Poi invece arrivò l’Expo e spazzò via tutto, prima censurando e poi catturando il dissenso, e trasformando qualsiasi azione dal basso in un pezzo di rigenerazione urbana, di brandizzazione volta a favorire l’aumento del prezzo del metro quadro. Così Macao è stato protagonista della valorizzazione di Porta Vittoria ed ex Macello, ed è stato sloggiato per fare posto al progetto ARIA e alla nuova BEIC, una biblioteca dove si potrà fare di tutto tranne che leggere, e i prezzi in zona hanno superato i 4.700 euro al metro quadrato. Così è successo a tante associazioni, centri culturali, giardini condivisi, spazi animati da persone il cui obiettivo era esattamente agli antipodi, ma che non hanno saputo riconoscere il pericolo della comunicazione, della sussunzione per usare una parola di Marx, o non hanno avuto la forza di contrastarlo. Eppure il pericolo della gentrificazione, della desertificazione, della foodification era già ben noto, raccontato da attivisti e scrittori e reportage e studiosi per città come Manhattan, Barcellona, San Francisco, Berlino e mille altre. Rileggete per esempio il capitolo sulla Bowery in Vanishing New York di Jeremiah Moss: nel 2006 il locale storico che aveva ospitato il debutto dei Ramones chiudeva i battenti per sempre, con un rito officiato da Patti Smith; dopo sei mesi il suo fondatore Hilly Kristal moriva e al suo posto si installò un fashion brand di lusso, che lanciò una serie di prodotti brandizzati con il nome dell’ultimo quartiere di frontiera a Manhattan, il birthplace of Punk: i Bowery jeans, i Bowery boots, eccetera. La cosa più assurda è che il fashion designer in questione vendette questa operazione estrema di mercificazione come una battaglia contro la mercificazione: “CBGB non diventerà una banca o uno Starbucks!”. Mentre la cosa più triste è che Arturo Vega, direttore artistico dei Ramones, era lì a confermare: “È una cosa naturale. Le cose muoiono e si trasformano”. Un po’ come dice un cantante isolano, Francesco Bianconi dei Baustelle, che ha sostenuto che chi denuncia l’andazzo milanese “ha scoperto l’acqua calda” e che queste cose succedono dappertutto, d’altra parte anche lui vorrebbe una casa al Marais ma non se la può permettere. E tuttavia si guarda bene dall’attaccare il sindaco perché a) non è colpa sua b) attaccare la sinistra da sinistra significa darsi la zappa sui piedi. E infatti, a forza di non criticare la sinistra neoliberale, negli Stati Uniti Trump è tornato presidente. Che cosa è successo alla Bowery dopo? È diventato un “quartiere di lusso in cui dei punk di mezz’età difendono le ragioni della rendita contro gli attivisti antigentrification”. È diventato il quartiere del New Museum (progettato dalla giapponese Sejima di SANAA, quella del campus Bocconi) che vende tra i gadget delle capsule d’oro 24 carati da mangiare; del Bowery bar, con i party di Louis Vuitton; degli hotel di lusso come il Cooper Square Hotel, odiato dagli abitanti che lo chiamano “the Dubai Dildo”. Dove Basquiat morì di overdose oggi c’è una macelleria giapponese che vende wagyu beef a prezzi esorbitanti. Il boutique hotel Bowery House invece considera gli homeless sul marciapiede rimasti una “experience” da offrire ai clienti. Nonostante le scritte di protesta come “Save the city, kill a Yuppie” o più classicamente “The end is near”, anche il Mars Bar, un altro monumento della New York underground, è stato rimpiazzato da un luxury condo, Jupiter 21. Non c’è niente di naturale in tutto questo. È il frutto di scelte politiche ben precise, a favore della rendita. Come il decreto che il Pd, per difendere il mercato immobiliare milanese e l’operato della giunta, ha elaborato spalla a palla con il governo Meloni-Salvini che dice di combattere, e che tra poco darà una nuova spinta a questo sviluppo urbano classista e violento. Sono politiche che possono essere contrastate, a cui possiamo opporci. Se non ci opponiamo, l’Isola e Milano e Roma e Napoli e tutte o quasi le città diventeranno sempre più dei deserti urbani tavolinizzati, popolati esclusivamente da ricchi che si ingozzano. Se non vogliamo finire come nel film di Truffaut, imboscati nelle campagne a tramandarci i libri imparati a memoria prima dei roghi, conviene lottare. Viva BK e Volume! Facciamo in modo che non debbano spostarsi ancora più in là, teniamocele strette.
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Milano. Fake week contro la Green week del comune
Dal 26 al 28 settembre si è tenuta nel capoluogo lombardo la Fake Week organizzata da Rete dei Comitati, C.I.O. – Comitato Insostenibili Olimpiadi, Movimento per il trasporto pubblico, AspettaMi in contestazione della Green Week promossa dal Comune e dalla giunta Sala, tra le principali protagoniste della svendita della città pubblica e delle aree verdi urbane […]
L'informazione di Blackout
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Nuova occupazione a Milano!
Nuova occupazione a Milano, nel quartiere Bicocca. Lo stabile, conosciuto come l’occupazione CasaLoca, era stato sgomberato dalle forze dell’ordine coordinate dalla Questura lo scorso agosto. Lo scopo della rioccupazione è quello di ospitare le 70 persone senza casa. A seguito degli sgomberi delle occupazioni abitative di Via Fortezza, Via Esterle, Via Iglesias, Via Siusi da […]
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