Maltrattamenti ai disabili nel centro Stella Maris. Per i giudici i dirigenti non hanno responsabilità

NapoliMONiTOR - Wednesday, November 26, 2025
(disegno di andrea nolè)

Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura.

Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco.

Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati, qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola) andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e cura a carattere scientifico”.

La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità.

Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le argomentazioni nella motivazione della sentenza).

Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi.

In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari).

Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio.

Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”. Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole, tratte dalla sua Carta dei servizi:

“La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”.

HANNO VINTO I POTENTI
Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, Tso.

La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi più calde.

D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori, cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni.

Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia ­– afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza ­– abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”.

A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo, all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni.

Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove, di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)

______________________

¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)