Tag - altre città

Catania, la palestra Lupo sotto sgombero e le trame della “rigenerazione”
  Il 4 dicembre scorso la giunta comunale ha deliberato l’approvazione del progetto definitivo di “demolizione della palestra, realizzazione di parcheggio multipiano e sistemazione a verde piazza Pietro Lupo, giardino pubblico tecnologico”. L’edificio in questione, una ex palestra comunale di Catania, è al centro di una piazza considerata un “margine urbano” da riqualificare. Da un mese, un’assemblea cittadina si riunisce per opporsi allo sgombero della LUPo. Laboratorio Urbano Popolare occupato, realtà autogestita che ha sede proprio nell’ex palestra. L’assemblea iniziale è numerosa, partecipata, sentita. Oltre a chi si prende cura del posto, a esporsi sono anche i frequentatori occasionali sensibili alla questione, o chi è attivo in altri gruppi cittadini, come il comitato per il centro storico, il collettivo di Officina Rebelde e il collettivo del Consultorio Mi cuerpo es mio!, sgomberato nel dicembre 2023 e ancora nomade. Insieme si commenta il progetto appena approvato, si ragiona sul movente dello sgombero mettendolo in relazione con ciò che accade in altre città italiane, ci si confronta su come affrontare lo sgombero e le sue conseguenze. Qualcuno si chiede se questa volta lo sgombero ci sarà davvero o se non si tratta, invece, dell’ennesima trovata politica che cadrà nel nulla. Il passato della “palestra Lupo” legittima questo interrogativo, mostrando il retaggio di un copione antico, fatto di connivenze rodate eppure tremolanti, pochi colpi di scena con finali prevedibili. L’idea di radere al suolo l’edificio per rimpiazzarlo con un parcheggio interrato multipiano risale al 2002, quando la palestra era da poco rimasta abbandonata, dopo essere stata usata per decenni dalla squadra di scherma del Cus Catania. L’allora sindaco Umberto Scapagnini (2000-2008), appena nominato commissario straordinario per l’emergenza traffico dal governo Berlusconi, aveva pianificato la costruzione di cinque parcheggi. Le sorti del progetto di piazza Lupo, legato ai nomi più radicati e potenti dell’imprenditoria catanese (Ciancio e Virlinzi in testa), seguiranno quelle di un altro parcheggio in costruzione, in piazza Europa, bloccato per anni dalla magistratura. In questo arco di tempo l’ex palestra abbandonata, ormai divenuta un rifugio per senzatetto, verrà più volte sgomberata e rioccupata, mentre la prospettiva di un parcheggio in quella piazza continuerà a eccitare i sogni degli speculatori. Il progetto si ripresenta nel 2018, quando un bando regionale che finanziava la costruzione di parcheggi scambiatori fa attivare non solo la giunta Pogliese (2018-2022), ma anche l’ex sindaco democratico Enzo Bianco, che invoca l’intervento del prefetto per accelerare lo sgombero. Neanche quel tentativo, però, andò in porto. Al suo fallimento contribuì un fronte decisamente eterogeneo di oppositori: la borghesia colta della sostenibilità ambientale, del decoro urbano e dell’antimafia; l’associazionismo della democrazia partecipata, della riqualificazione dal basso, dei beni comuni; partiti e sindacati; movimenti e spazi sociali. Oggi questo fronte è meno compatto: la “rigenerazione urbana”, teoricamente “inclusiva” e “sostenibile”, riesce a catturare molti attori locali; eppure in altri quartieri “marginali”, essa ha già mostrato la sua natura classista e razzista, disciplinante e punitiva. Riportare la voce della minoranza che resiste creando spazi informali in cui esercitare un agire critico collettivo sembra allora più urgente che perdersi nel labirinto di soggetti, cifre e interessi coinvolti. Uno sguardo al progetto attuale servirà solo a conoscere meglio “il vuoto” a cui l’assemblea contro lo sgombero vuole opporsi. LA RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA Fallito anche il progetto del 2018, il Piano nazionale di ripresa e resilienza offre l’occasione ideale per riesumare l’idea del parcheggio. Il decreto legge di riferimento affida alle Città Metropolitane il compito di elaborare i Piani urbani integrati, strumenti finalizzati a “favorire una migliore inclusione sociale riducendo l’emarginazione e le situazioni di degrado sociale, promuovere la rigenerazione urbana attraverso il recupero, la ristrutturazione e la rifunzionalizzazione ecosostenibile delle strutture edilizie e delle aree pubbliche”. Così, nel marzo del 2022 in Comune si avvia l’iter per l’approvazione di undici progetti, tra cui quello approvato con la delibera del 4 dicembre. Alla demolizione della palestra, costruzione del parcheggio e di un “giardino tecnologico” è destinata una spesa di 3,9 milioni di euro. Nella relazione che accompagna la delibera si legge che la piazza “non svolge la sua funzione di luogo di aggregazione ma viene percepita come una grande area di sosta per veicoli a motore”. “L’unico luogo di aggregazione sociale – viene precisato – è rappresentato dalla palestra Lupo, che presenta gravi criticità strutturali e manutentive che ne compromettono l’uso e il godimento in totale sicurezza”. Per questo motivo, anziché recuperarla, si preferisce abbatterla. Al suo posto, recita ancora il testo, verrà creato un ambiente “piacevole”, fatto di “zone d’ombra” e “arredi urbani in grado di accogliere la collettività”. Così, la “Piazza Libera” diventerà “uno spazio urbano aperto a più funzioni, incoraggiando l’emergenza di usi informali della sfera pubblica […] che favoriscano l’interazione tra gli utenti e la nascita di nuove attività”. La relazione parla poi di un info-point/presidio culturale, una struttura semisferica che fungerà da “punto di gestione e controllo della componente impiantistica evoluta della piazza, basata sulla sostenibilità ambientale”. Esso “garantirà un controllo naturale sulla piazza […] attraverso la presenza continua degli operatori e degli addetti che gestiranno le attività racchiuse all’interno del presidio, aumentando, così, la percezione di sicurezza anche grazie alle mixité di funzioni ospitate dalla piazza”. La semisfera, poi, accoglierà “il vano ascensore che collega la piazza all’autorimessa sottostante”. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è infatti la “realizzazione di nuovi posti auto e moto a raso […] con una dimensione tale da poter ospitare circa 150 posti”. A questo punto non si capisce quale sia l’intenzione degli amministratori, si commenta in assemblea: nel passaggio appena citato si parla di posti a raso, nel titolo del progetto di parcheggio multipiano. “È probabile che alla fine faranno solo una zona destinata a dehors per i locali che ci sono attorno”, suggerisce uno degli occupanti. L’ipotesi non sembra campata in aria, perché piazza Lupo si trova in una zona di passaggio tra due quartieri cruciali per il turismo: la Civita, il quartiere del porto, già in gran parte gentrificato, perché è il punto in cui arrivano i crocieristi, a due passi dal Duomo; e San Berillo, quello che chiamano “la ferita della città”. I Piani urbani integrati prevedono anche 1,9 milioni per la “riqualificazione di piazza Teatro Massimo e aree adiacenti, fino a piazza Pietro Lupo”. La via Teatro Massimo, che connette le due piazze, è stata “ripulita” negli anni passati e oggi è sorvegliata da volanti e videocamere. L’intento dichiarato è quello di estendere questo palcoscenico della sicurezza borghese. Al di là delle contraddizioni e delle ipocrisie su cui si regge tutta l’operazione, l’assemblea degli occupanti teme che lo sgombero possa arrivare davvero, perché il finanziamento obbliga all’apertura del cantiere entro sessanta giorni dalla delibera e il completamento dei lavori entro la fine del 2026. LE AUTOGESTIONI Alla fine del 2012, mentre l’ex palestra è ancora attraversata da presenze occasionali e gli amanti del decoro pressano le istituzioni per “sottrarre la piazza al degrado”, entra in scena il Gruppo Azione Risveglio, un “movimento di cittadinanza creativa” nato con la missione di ripulire spazi comunali abbandonati per restituirli all’amministrazione stessa, una volta ultimato il recupero. Questo gruppo ottiene le chiavi della Lupo dall’amministrazione Stancanelli (2008-2013) e, concluso il suo intervento di pulizia, decide però di mantenerle, per “restituire lo spazio alla città” fino alla sua eventuale demolizione. Le dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano alla stampa locale parlano chiaro: “non è un’occupazione”, ma una “riappropriazione 2.0” che incentiverà progetti di “innovazione sociale e imprenditoria culturale”. L’intento è quello di trasformare la Lupo in una Palestra delle Arti e delle Culture, un bene comune istituzionalmente riconosciuto e regolamentato. Numerose associazioni aderiscono all’iniziativa, ma il loro tentativo di istituzionalizzazione rimarrà sospeso, e all’interno di quella parentesi di incertezza si farà spazio un mutamento graduale, che riguarderà tanto il gruppo di autogestione quanto le attività offerte dallo spazio. Alcuni occupanti attuali ne ricordano l’evoluzione. “La prima parte di vita della Lupo è stata dedicata principalmente al riutilizzo creativo, soprattutto finalizzato alla creazione di opere d’arte; si facevano meno serate musicali ma più workshop e mostre. Per un periodo è stato occupata anche ad uso abitativo, con tutto quello che ne consegue. Con l’arrivo del Covid si è sospeso tutto, ma subito dopo il posto è stato riattivato. Diverse crew musicali che bazzicavano la Lupo da tempo si sono ritrovate qui. Catania Hardcore, per esempio, è una crew punk hard-core che esiste più o meno dal 2000 e che ha sempre organizzato concerti in posti occupati. Oppure Tifone Crew, che organizza concerti metal, o i rapper della scena hip hop locale, che hanno deciso di fondare una propria etichetta musicale, la Tomato Sauce. Insieme abbiamo portato avanti le iniziative culturali preesistenti e abbiamo ampliato le proposte cercando di dialogare con le persone che c’erano prima, e questo lavoro ha arricchito un po’ tutti. Da quello che dico sembra una situazione legata solo alla scena musicale, ma in realtà è inserita in un movimento di gente che frequenta e autogestisce i posti occupati. Oltre ai concerti facciamo presentazioni di libri, laboratori e mostre con artisti locali e internazionali; ma ci occupiamo anche di osservare la gestione del territorio, la turistificazione, la riqualificazione. C’è stata una fase a Catania in cui fare politica era legato a un collettivo specifico con la sua identità, e quindi se tu non avevi un’identità chiara o eri una collettività magari più ampia ed eterogenea, quello che facevi non era considerata politica. Questo aspetto per noi è importante: tuttora non utilizziamo definizioni e non facciamo riferimento a un’area ideologica precisa, anche perché molti di noi hanno alle spalle esperienze politiche diverse tra loro”. Insieme agli eventi musicali e artistici, la Lupo propone anche un calendario di iniziative sportive. In questo momento sono attivi un corso di fitness e uno di autodifesa personale. C’è anche una squadra di ping pong che si allena da cinque anni. Si chiama The Wolf. “Rispetto a quando siamo arrivati – continuano gli occupanti –, la Lupo è cambiata radicalmente. L’abbiamo sempre considerato un posto libero da certe logiche, ma non era così vivo cinque anni fa. Abbiamo iniziato a fare ping pong principalmente per creare aggregazione, socialità; siamo partiti in due e oggi siamo almeno una ventina; qualcuno viene più assiduamente alle assemblee, altri, tramite la Lupo sono riusciti ad avviare anche altre attività, musicali, ecc. Noi siamo un gruppo totalmente informale, c’è chi pratica lo sport anche a livello agonistico, però non abbiamo mai creato un’associazione; non partecipiamo a tornei ufficiali però siamo riusciti fare cose importanti rimanendo sempre qui”. Mutando la composizione del gruppo che si prende cura dello spazio, anche il modo di organizzare le attività è cambiato negli ultimi anni. “L’assemblea della Lupo fino a qualche tempo fa era solo una, era aperta a chiunque e si discuteva tutti e tutto insieme. Siamo andati avanti così per tre anni, poi ci siamo resi conto che era un po’ limitante e abbiamo deciso di riorganizzarci, non chiudendo l’assemblea, ma facendone due: una con chi vuole proporre qualcosa per la prima volta e un’altra tra chi si occupa della gestione dello spazio, dove però è invitato a partecipare chiunque sia interessato. Il nostro obiettivo è che ogni persona che si avvicina diventi quanto più autonoma possibile, in modo che tutto sia veramente orizzontale. Visto che questo è rimasto l’unico posto che ti permette di organizzare delle cose, mezza città si è riversata sul nostro calendario. Quando riceviamo le proposte cerchiamo di comprendere di cosa si stratta, chi abbiamo di fronte, poi se ne parla tutti insieme e si sceglie cosa fare. Con qualcuno ci si capisce di più, con altri meno, ma se siamo qui a parlarne è perché sta funzionando. Con l’assemblea di gestione invece l’obiettivo è anche di costruire una linea politica, non solo relativa alla Lupo ma più in generale alla città e al contesto nazionale, come sta succedendo con la lotta contro il decreto sicurezza”. Le persone più giovani e arrivate da meno tempo raccontano come si sono inserite nel gruppo che oggi mantiene il posto attivo, e cosa significa per loro farne parte. “La prima volta sono entrata alla Lupo per la Tattoo Circus, poi ho cominciato a frequentare il laboratorio ‘L’arte è pericolosa’, nato in un momento in cui sui giornali si dava del pericoloso a qualsiasi cosa. Poi c’è lo spazio per serigrafare – posso farlo anche a casa, ma qui si è creata una situazione più interessante. Il laboratorio di serigrafia esisteva già, ma per un periodo era rimasto inattivo; lo abbiamo ripreso e stampiamo parecchio. Le varie crew che organizzano concerti fanno qui le loro magliette, hanno imparato a serigrafare e lo fanno insieme a noi, quindi tutto quello che succede alla fine si contamina e ti permette di ragionare sulle cose in modo più complessivo. “Man mano che scoprivo la Lupo, anche grazie agli striscioni che vedevo durante i concerti o altri eventi, mi rendevo conto che quello che offriva non era un semplice ‘servizio’ ma qualcosa che ti permette di evadere dalla gabbia del mondo. Se la frequenti un po’, scopri che questa cosa di autogestirsi è possibile, e questo cambia la tua prospettiva, sia rispetto allo spazio sia rispetto al modo in cui puoi fare le cose”. Se si scorre il calendario della Lupo, nel corso degli ultimi anni si nota un interesse crescente verso questioni più esplicitamente politiche. “Quando abbiamo aperto alla città è nato un dibattito che ha assunto una prospettiva prettamente politica per necessità. Penso alla minaccia di sgombero di due anni fa: qualcuno veniva e chiedeva conto del perché non avessimo intenzione di dialogare con le istituzioni, e allora fu necessario prendere una posizione precisa, consapevole di quali sono i pro e i contro di un percorso di interlocuzione con il Comune. Il politicizzarsi dello spazio è avvenuto anche perché diversi gruppi hanno cominciato a frequentare la Lupo – il collettivo del Parco Falcone, lo studentato, i collettivi artistici che in città non hanno uno spazio – e fatalmente sono stati coinvolti nella gestione, hanno dovuto fare delle scelte, prendere delle decisioni. L’assemblea contro lo sgombero è cresciuta insieme a un’altra a livello cittadino, anch’essa dettata da un’emergenza: il decreto 1660, contestato in tutta Italia. L’ultimo corteo contro decreto, sgomberi e guerre del 21 dicembre è stato vivace, e per quanto poco numeroso ha portato in piazza realtà che solitamente camminano separate. La consapevolezza che non esiste alcuna garanzia di successo non sta impedendo agli abitanti della Lupo di offrire una base fisica e un contributo discorsivo a questo tentativo di convergenza”. Il 4 febbraio 2025 segna il termine entro il quale ci si aspetta lo sgombero. Nel frattempo la Lupo sta continuando a proporre momenti di svago, impegno e respiro a chi rifiuta la bolla del consumo cittadino e l’inganno delle politiche culturali e sociali volte al profitto. Un nuovo corteo è previsto per il 21 gennaio. “Non si sgombera un’idea”, dice una frase scritta sulle pareti dello spazio, quella che forse più di tutte oggi suona come un avvertimento e un auspicio per il futuro. (alessandra ferlito)
January 17, 2025 / NapoliMONiTOR
Decoro e recinzioni. Il declino degli spazi pubblici a Trieste
(disegno di davide nespolino) “PalazzoKalister: straordinaria manutenzione e restauro per la conservazione dei caratteri architettonici e tipologici con cambio di destinazione da residenziale a turistico-ricettiva”. Questa chiara dichiarazione di intenti è scritta nel cartello di descrizione dei lavori su uno dei palazzi più importanti di piazza Libertà, a Trieste. Fu costruito in stile eclettico alla fine dell’Ottocento poco dopo la vicina stazione ferroviaria. Dopo esser stato abbandonato per anni, palazzo Kalister si prepara così a diventare un albergo di grandi dimensioni. Il cartello che annuncia l’operazione si trova nei pressi di un’alta gru che di notte viene illuminata con due strisce di luci rosse verticali per segnalarne la presenza. Oltre a essere la piazza della stazione centrale di Trieste piazza Libertà è anche molto altro. È lì che tutti i giorni, da anni, i volontari dell’associazione Linea d’Ombra e di altre organizzazioni accolgono chi arriva dalla rotta balcanica, oltre a chi vive a Trieste da più tempo ma si trova ancora in condizioni molto precarie e disagiate. In questo periodo basta passare un po’ di tempo in piazza dopo le 19 e ci si accorge di quanti cambiamenti avvengano nell’arco di un paio d’ore, a seconda del cibo, delle bevande e/o dei vestiti che arrivano e che vengono distribuiti. Le persone, provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, si dispongono in file al momento delle distribuzioni, altrimenti si spostano nella parte centrale della piazza. Chi vuole raggiungere o lasciare la stazione preferisce fare un giro più largo, anche a costo di allungare un po’. Fino allo scorso 21 giugno buona parte delle persone migranti che frequentavano la piazza abitavano nel Silos, un grande edificio semi-diroccato che costeggia i binari della stazione dei treni. Quel giorno le forze di polizia, agendo in seguito a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, preoccupato per le condizioni sanitarie del luogo, ma anche temendo un danno d’immagine per la città, sgomberarono l’edificio trasferendo altrove le persone presenti all’interno e altre che si trovavano nei paraggi e preferivano non rimanere a Trieste. Ora il Silos è costeggiato da un parcheggio privato, mentre l’interno è stato bonificato. Coop 3.0, proprietaria dell’immobile, dovrebbe essere ora sul punto di vendere l’intera struttura a un gruppo austriaco. L’atto non ha cambiato la postura delle amministrazioni pubbliche rispetto all’accoglienza delle persone in movimento; al contrario di quanto era stato promesso, nel frattempo non sono stati resi disponibili più posti in accoglienza e soprattutto non è stato attivato quel servizio a bassa soglia, cioè accessibile a tutti senza formalità, che le associazioni reclamano da tempo per rispondere alle esigenze delle molte persone che arrivano a Trieste e si fermano poche ore prima di riprendere il viaggio. La conseguenza è stata che per tutta l’estate chi arrivava in città trovava rifugio sotto una tettoia all’ingresso del Porto Vecchio, un’area costituita da magazzini portuali abbandonati costruiti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Lì le persone si sono accampate con sacchi a pelo e altri materiali, proprio come avveniva nel Silos, senza nemmeno la protezione, comunque parziale, delle arcate in muratura. L’arrivo dell’autunno non ha cambiato le cose e lo scorso 20 novembre le istituzioni hanno deciso di intervenire sgomberando la tettoia con modalità simili a quelle adottate a giugno per il Silos. Le forze dell’ordine sono arrivate prima delle otto e intorno a mezzogiorno la tettoia era occupata solo dagli impiegati di un’azienda di pulizie che stavano ultimando il lavoro coperti da spesse tute bianche. Un comunicato congiunto delle associazioni attive nell’accoglienza delle persone in movimento a Trieste (Consorzio italiano di solidarietà, Linea d’Ombra, Diaconia valdese e No Name Kitchen), pur accogliendo favorevolmente il trasferimento e auspicando che ciò avvenga con una maggior frequenza, ha criticato l’intervento sostenendo che “nonostante venga presentata come un’azione risolutiva ed efficiente, l’operazione odierna rappresenta l’ennesima dimostrazione di una gestione straordinariamente carente. Se infatti i richiedenti asilo avessero avuto accesso, come previsto dalla legge, a un sistema di prima accoglienza adeguato al loro arrivo, con una successiva e rapida redistribuzione sul territorio nazionale, l’indecoroso abbandono nell’area del Porto Vecchio non si sarebbe verificato. La scenografica e onerosa operazione di oggi sarebbe stata così del tutto superflua”. In effetti, per chi segue da almeno alcuni mesi la questione, il copione sembra ripetersi sempre in modo simile senza che poi da parte delle istituzioni ci sia la volontà di trovare delle soluzioni di lungo periodo. Nel frattempo, la città sta cambiando. Al centro di piazza Libertà la statua della principessa Sissi è circondata da circa un anno da alcune transenne per impedire che il retro venisse usato come bagno a cielo aperto. Ora il Comune le sta sostituendo con delle barriere permanenti, sottraendo alla fruizione una parte non piccola della piazza. Da mesi è chiuso il sottopassaggio tra piazza della Libertà e la stazione che in precedenza era stato usato come punto di distribuzione e assistenza durante i giorni di maltempo. Qualche settimana fa il quotidiano locale Il Piccolo ha diffuso la notizia che il Comune starebbe valutando la possibilità di attingere a dei fondi regionali per recintare anche il perimetro più esterno della piazza. Visto che negli anni corsi la stessa cosa è stata fatta anche in un’altra piazza importante (piazza Hortis, sempre in centro) non sembra così impensabile che la stessa scelta venga fatta per una piazza in cui si è creato uno dei pochi spazi di autogestione in città. Inoltre, piazza Hortis, uno spazio alberato su cui affacciano lo storico istituto nautico e la frequentata emeroteca cittadina, fa parte di una delle prime zone di Trieste ad aver cambiato faccia: in pochi anni nuovi locali alla moda hanno affiancato o preso il posto di osterie e altri negozi per i residenti. Le recinzioni comportano degli orari di apertura e di chiusura e sconvolgono le modalità di fruizione di uno spazio pubblico come una piazza. È chiaro l’intento del Comune di scoraggiare una pratica di accoglienza percepita dall’amministrazione come dissonante rispetto all’immagine di città pulita e funzionale che si vuole dare di Trieste, però qui sembra essere in gioco anche la gestione degli spazi pubblici. Poco lontano da piazza Libertà si trova largo Santos, uno spiazzo all’ingresso dell’area del Porto Vecchio su cui fino alla fine del 2022 sorgeva la sala Tripcovich, una struttura usata per concerti e altre iniziative culturali. La sala è stata demolita due anni fa e lo spiazzo che ne è risultato è stato usato in diverse occasioni da alcuni collettivi cittadini per iniziative come concerti o per la partenza o l’arrivo di cortei. In occasione delle festività natalizie del 2024 il largo è stato trasformato in un parcheggio gestito dalla Confcommercio provinciale che fornirà il servizio ancora fino al 31 gennaio. La città sta cambiando anche in modo più eclatante. Come palazzo Kalister in piazza Libertà l’enorme palazzo già delle Ferrovie dello Stato che affaccia sulla centrale piazza Vittorio Veneto sta per essere trasformato in un hotel con una piccola quota di servizi e abitazioni. Anche qui sembra tutto già visto e già sentito: gli affitti sono rincarati molto mentre diversi edifici storici diventano cantieri, in alcuni casi con lo scopo di realizzare delle residenze di lusso. La posizione della giunta comunale è chiara: porre il turismo al centro dell’economia cittadina senza tenere conto di quanto questa scelta influisca in negativo sulla qualità della vita di molti abitanti. Per anni il sindaco Dipiazza si è vantato degli ottimi risultati raggiunti da Triescte nella classifica annuale delle città con la qualità di vita più alta pubblicata dal Sole24Ore. Al di là dell’attendibilità che si vuole attribuire a questo genere di rilevazioni, sembra sempre necessario valutare da che punto di vista si guarda la città. Fino a pochi anni fa la qualità di vita a Trieste non era così determinata solo dalla capacità di spesa mentre ora, anche a causa dei tagli nei servizi pubblici, come la chiusura di due consultori su quattro nel 2024, questa sta diventando un elemento sempre più centrale. (alessandro stoppoloni)
January 8, 2025 / NapoliMONiTOR
“Lottiamo per sessant’anni di storia”. Voci dalla fabbrica occupata di Statte, Taranto
(archivio disegni napolimonitor) “La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”. C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti, dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze operaie. Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre. «Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte, inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche altro pezzo di mondo. *     *    * La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore, mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a cambiare davvero. La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar (movimentazione di container) e la stessa Hiab. A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una S.p.a. autonoma. In mezzo a queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio. La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi, ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del made in Italy. Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del Made in Italy. Gli operai ci hanno creduto. Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione, Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori, carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è lavoro solo per poche settimane ancora. Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda. Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione dello stabilimento che scade a novembre del 2025. I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale, credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite, fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti. «I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci spiega uno degli operai che si occupa del magazzino. A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio perché non sanno cosa produrre». Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita. *     *    * È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri, quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone. I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del 5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti: «Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini». Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento, lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita. Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre. Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio altoforno 1 dell’acciaieria.  «Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione, di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani. È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte. Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede.
November 12, 2024 / NapoliMONiTOR