(disegno di india santella)
Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini.
La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di
un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio
il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui
nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu
salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio,
raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile
associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco
Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la
battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi
respinti dalla popolazione della vicina Massafra.
A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante
le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del
Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché
le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare
che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici.
Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante
contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte
integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale
costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone
fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua
dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche
la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume
rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente
caratterizzata dalle attività antropiche.
Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano
essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma
negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato
da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società
partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le
dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia,
quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e
Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026.
Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di
euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione
temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International,
Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa,
società molto attiva nel settore dei rifiuti.
Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il
via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la
modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri.
Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità,
salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi
“no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa
Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la
maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione
d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che
consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul
peso della componente politica rispetto a quella tecnica.
Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma
la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe
realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e
che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche
Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza
naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del
fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia. Arpa fa
notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento
ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento
alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto
Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove,
e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove
aree ed eventualmente ad avere frutti.
Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo
delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel
fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata
media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti
negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A
oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese
pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di
Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il
progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei
prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico
(quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso.
Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non
si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se
strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante
la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti
gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate.
In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di
associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche
tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e
impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha
prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È
prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri,
condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici
chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in
prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La
somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi
all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da
calcio.
Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la
comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno
di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in
corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici
chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si
dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti
e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta
cittadini.
Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per
desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto,
costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente
sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per
produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più
salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero
in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti
a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat
marino.
Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di
dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno
dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo
rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato
che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo
aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei
documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione
pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre
parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento
strutturale del piano iniziale.
Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il
quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico,
mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità
che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero
rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da
porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante
soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda.
Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la
costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione
ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la
Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è
giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte
della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso
problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso
di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo
territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini
continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica
pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il
caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi?
(domenico colucci)
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Il 4 dicembre scorso la giunta comunale ha deliberato l’approvazione del
progetto definitivo di “demolizione della palestra, realizzazione di parcheggio
multipiano e sistemazione a verde piazza Pietro Lupo, giardino pubblico
tecnologico”. L’edificio in questione, una ex palestra comunale di Catania, è al
centro di una piazza considerata un “margine urbano” da riqualificare. Da un
mese, un’assemblea cittadina si riunisce per opporsi allo sgombero della LUPo.
Laboratorio Urbano Popolare occupato, realtà autogestita che ha sede proprio
nell’ex palestra. L’assemblea iniziale è numerosa, partecipata, sentita. Oltre a
chi si prende cura del posto, a esporsi sono anche i frequentatori occasionali
sensibili alla questione, o chi è attivo in altri gruppi cittadini, come il
comitato per il centro storico, il collettivo di Officina Rebelde e il
collettivo del Consultorio Mi cuerpo es mio!, sgomberato nel dicembre 2023 e
ancora nomade. Insieme si commenta il progetto appena approvato, si ragiona sul
movente dello sgombero mettendolo in relazione con ciò che accade in altre città
italiane, ci si confronta su come affrontare lo sgombero e le sue conseguenze.
Qualcuno si chiede se questa volta lo sgombero ci sarà davvero o se non si
tratta, invece, dell’ennesima trovata politica che cadrà nel nulla. Il passato
della “palestra Lupo” legittima questo interrogativo, mostrando il retaggio di
un copione antico, fatto di connivenze rodate eppure tremolanti, pochi colpi di
scena con finali prevedibili.
L’idea di radere al suolo l’edificio per rimpiazzarlo con un parcheggio
interrato multipiano risale al 2002, quando la palestra era da poco rimasta
abbandonata, dopo essere stata usata per decenni dalla squadra di scherma del
Cus Catania. L’allora sindaco Umberto Scapagnini (2000-2008), appena nominato
commissario straordinario per l’emergenza traffico dal governo Berlusconi, aveva
pianificato la costruzione di cinque parcheggi. Le sorti del progetto di piazza
Lupo, legato ai nomi più radicati e potenti dell’imprenditoria catanese (Ciancio
e Virlinzi in testa), seguiranno quelle di un altro parcheggio in costruzione,
in piazza Europa, bloccato per anni dalla magistratura. In questo arco di tempo
l’ex palestra abbandonata, ormai divenuta un rifugio per senzatetto, verrà più
volte sgomberata e rioccupata, mentre la prospettiva di un parcheggio in quella
piazza continuerà a eccitare i sogni degli speculatori. Il progetto si
ripresenta nel 2018, quando un bando regionale che finanziava la costruzione di
parcheggi scambiatori fa attivare non solo la giunta Pogliese (2018-2022), ma
anche l’ex sindaco democratico Enzo Bianco, che invoca l’intervento del prefetto
per accelerare lo sgombero. Neanche quel tentativo, però, andò in porto. Al suo
fallimento contribuì un fronte decisamente eterogeneo di oppositori: la
borghesia colta della sostenibilità ambientale, del decoro urbano e
dell’antimafia; l’associazionismo della democrazia partecipata, della
riqualificazione dal basso, dei beni comuni; partiti e sindacati; movimenti e
spazi sociali.
Oggi questo fronte è meno compatto: la “rigenerazione urbana”, teoricamente
“inclusiva” e “sostenibile”, riesce a catturare molti attori locali; eppure in
altri quartieri “marginali”, essa ha già mostrato la sua natura classista e
razzista, disciplinante e punitiva. Riportare la voce della minoranza che
resiste creando spazi informali in cui esercitare un agire critico collettivo
sembra allora più urgente che perdersi nel labirinto di soggetti, cifre e
interessi coinvolti. Uno sguardo al progetto attuale servirà solo a conoscere
meglio “il vuoto” a cui l’assemblea contro lo sgombero vuole opporsi.
LA RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA
Fallito anche il progetto del 2018, il Piano nazionale di ripresa e resilienza
offre l’occasione ideale per riesumare l’idea del parcheggio. Il decreto legge
di riferimento affida alle Città Metropolitane il compito di elaborare i Piani
urbani integrati, strumenti finalizzati a “favorire una migliore inclusione
sociale riducendo l’emarginazione e le situazioni di degrado sociale, promuovere
la rigenerazione urbana attraverso il recupero, la ristrutturazione e la
rifunzionalizzazione ecosostenibile delle strutture edilizie e delle aree
pubbliche”. Così, nel marzo del 2022 in Comune si avvia l’iter per
l’approvazione di undici progetti, tra cui quello approvato con la delibera del
4 dicembre. Alla demolizione della palestra, costruzione del parcheggio e di un
“giardino tecnologico” è destinata una spesa di 3,9 milioni di euro.
Nella relazione che accompagna la delibera si legge che la piazza “non svolge la
sua funzione di luogo di aggregazione ma viene percepita come una grande area di
sosta per veicoli a motore”. “L’unico luogo di aggregazione sociale – viene
precisato – è rappresentato dalla palestra Lupo, che presenta gravi criticità
strutturali e manutentive che ne compromettono l’uso e il godimento in totale
sicurezza”. Per questo motivo, anziché recuperarla, si preferisce abbatterla. Al
suo posto, recita ancora il testo, verrà creato un ambiente “piacevole”, fatto
di “zone d’ombra” e “arredi urbani in grado di accogliere la collettività”.
Così, la “Piazza Libera” diventerà “uno spazio urbano aperto a più funzioni,
incoraggiando l’emergenza di usi informali della sfera pubblica […] che
favoriscano l’interazione tra gli utenti e la nascita di nuove attività”.
La relazione parla poi di un info-point/presidio culturale, una struttura
semisferica che fungerà da “punto di gestione e controllo della componente
impiantistica evoluta della piazza, basata sulla sostenibilità ambientale”. Esso
“garantirà un controllo naturale sulla piazza […] attraverso la presenza
continua degli operatori e degli addetti che gestiranno le attività racchiuse
all’interno del presidio, aumentando, così, la percezione di sicurezza anche
grazie alle mixité di funzioni ospitate dalla piazza”. La semisfera, poi,
accoglierà “il vano ascensore che collega la piazza all’autorimessa
sottostante”. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è infatti la
“realizzazione di nuovi posti auto e moto a raso […] con una dimensione tale da
poter ospitare circa 150 posti”. A questo punto non si capisce quale sia
l’intenzione degli amministratori, si commenta in assemblea: nel passaggio
appena citato si parla di posti a raso, nel titolo del progetto di parcheggio
multipiano.
“È probabile che alla fine faranno solo una zona destinata a dehors per i locali
che ci sono attorno”, suggerisce uno degli occupanti. L’ipotesi non sembra
campata in aria, perché piazza Lupo si trova in una zona di passaggio tra due
quartieri cruciali per il turismo: la Civita, il quartiere del porto, già in
gran parte gentrificato, perché è il punto in cui arrivano i crocieristi, a due
passi dal Duomo; e San Berillo, quello che chiamano “la ferita della città”.
I Piani urbani integrati prevedono anche 1,9 milioni per la “riqualificazione di
piazza Teatro Massimo e aree adiacenti, fino a piazza Pietro Lupo”. La via
Teatro Massimo, che connette le due piazze, è stata “ripulita” negli anni
passati e oggi è sorvegliata da volanti e videocamere. L’intento dichiarato è
quello di estendere questo palcoscenico della sicurezza borghese. Al di là delle
contraddizioni e delle ipocrisie su cui si regge tutta l’operazione, l’assemblea
degli occupanti teme che lo sgombero possa arrivare davvero, perché il
finanziamento obbliga all’apertura del cantiere entro sessanta giorni dalla
delibera e il completamento dei lavori entro la fine del 2026.
LE AUTOGESTIONI
Alla fine del 2012, mentre l’ex palestra è ancora attraversata da presenze
occasionali e gli amanti del decoro pressano le istituzioni per “sottrarre la
piazza al degrado”, entra in scena il Gruppo Azione Risveglio, un “movimento di
cittadinanza creativa” nato con la missione di ripulire spazi comunali
abbandonati per restituirli all’amministrazione stessa, una volta ultimato il
recupero. Questo gruppo ottiene le chiavi della Lupo dall’amministrazione
Stancanelli (2008-2013) e, concluso il suo intervento di pulizia, decide però di
mantenerle, per “restituire lo spazio alla città” fino alla sua eventuale
demolizione. Le dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano alla stampa locale
parlano chiaro: “non è un’occupazione”, ma una “riappropriazione 2.0” che
incentiverà progetti di “innovazione sociale e imprenditoria culturale”.
L’intento è quello di trasformare la Lupo in una Palestra delle Arti e delle
Culture, un bene comune istituzionalmente riconosciuto e regolamentato. Numerose
associazioni aderiscono all’iniziativa, ma il loro tentativo di
istituzionalizzazione rimarrà sospeso, e all’interno di quella parentesi di
incertezza si farà spazio un mutamento graduale, che riguarderà tanto il gruppo
di autogestione quanto le attività offerte dallo spazio. Alcuni occupanti
attuali ne ricordano l’evoluzione.
“La prima parte di vita della Lupo è stata dedicata principalmente al riutilizzo
creativo, soprattutto finalizzato alla creazione di opere d’arte; si facevano
meno serate musicali ma più workshop e mostre. Per un periodo è stato occupata
anche ad uso abitativo, con tutto quello che ne consegue. Con l’arrivo del Covid
si è sospeso tutto, ma subito dopo il posto è stato riattivato. Diverse crew
musicali che bazzicavano la Lupo da tempo si sono ritrovate qui. Catania
Hardcore, per esempio, è una crew punk hard-core che esiste più o meno dal 2000
e che ha sempre organizzato concerti in posti occupati. Oppure Tifone Crew, che
organizza concerti metal, o i rapper della scena hip hop locale, che hanno
deciso di fondare una propria etichetta musicale, la Tomato Sauce. Insieme
abbiamo portato avanti le iniziative culturali preesistenti e abbiamo ampliato
le proposte cercando di dialogare con le persone che c’erano prima, e questo
lavoro ha arricchito un po’ tutti. Da quello che dico sembra una situazione
legata solo alla scena musicale, ma in realtà è inserita in un movimento di
gente che frequenta e autogestisce i posti occupati. Oltre ai concerti facciamo
presentazioni di libri, laboratori e mostre con artisti locali e internazionali;
ma ci occupiamo anche di osservare la gestione del territorio, la
turistificazione, la riqualificazione. C’è stata una fase a Catania in cui fare
politica era legato a un collettivo specifico con la sua identità, e quindi se
tu non avevi un’identità chiara o eri una collettività magari più ampia ed
eterogenea, quello che facevi non era considerata politica. Questo aspetto per
noi è importante: tuttora non utilizziamo definizioni e non facciamo riferimento
a un’area ideologica precisa, anche perché molti di noi hanno alle spalle
esperienze politiche diverse tra loro”.
Insieme agli eventi musicali e artistici, la Lupo propone anche un calendario di
iniziative sportive. In questo momento sono attivi un corso di fitness e uno di
autodifesa personale. C’è anche una squadra di ping pong che si allena da cinque
anni. Si chiama The Wolf.
“Rispetto a quando siamo arrivati – continuano gli occupanti –, la Lupo è
cambiata radicalmente. L’abbiamo sempre considerato un posto libero da certe
logiche, ma non era così vivo cinque anni fa. Abbiamo iniziato a fare ping pong
principalmente per creare aggregazione, socialità; siamo partiti in due e oggi
siamo almeno una ventina; qualcuno viene più assiduamente alle assemblee, altri,
tramite la Lupo sono riusciti ad avviare anche altre attività, musicali, ecc.
Noi siamo un gruppo totalmente informale, c’è chi pratica lo sport anche a
livello agonistico, però non abbiamo mai creato un’associazione; non
partecipiamo a tornei ufficiali però siamo riusciti fare cose importanti
rimanendo sempre qui”.
Mutando la composizione del gruppo che si prende cura dello spazio, anche il
modo di organizzare le attività è cambiato negli ultimi anni.
“L’assemblea della Lupo fino a qualche tempo fa era solo una, era aperta a
chiunque e si discuteva tutti e tutto insieme. Siamo andati avanti così per tre
anni, poi ci siamo resi conto che era un po’ limitante e abbiamo deciso di
riorganizzarci, non chiudendo l’assemblea, ma facendone due: una con chi vuole
proporre qualcosa per la prima volta e un’altra tra chi si occupa della gestione
dello spazio, dove però è invitato a partecipare chiunque sia interessato. Il
nostro obiettivo è che ogni persona che si avvicina diventi quanto più autonoma
possibile, in modo che tutto sia veramente orizzontale. Visto che questo è
rimasto l’unico posto che ti permette di organizzare delle cose, mezza città si
è riversata sul nostro calendario. Quando riceviamo le proposte cerchiamo di
comprendere di cosa si stratta, chi abbiamo di fronte, poi se ne parla tutti
insieme e si sceglie cosa fare. Con qualcuno ci si capisce di più, con altri
meno, ma se siamo qui a parlarne è perché sta funzionando. Con l’assemblea di
gestione invece l’obiettivo è anche di costruire una linea politica, non solo
relativa alla Lupo ma più in generale alla città e al contesto nazionale, come
sta succedendo con la lotta contro il decreto sicurezza”.
Le persone più giovani e arrivate da meno tempo raccontano come si sono inserite
nel gruppo che oggi mantiene il posto attivo, e cosa significa per loro farne
parte.
“La prima volta sono entrata alla Lupo per la Tattoo Circus, poi ho cominciato a
frequentare il laboratorio ‘L’arte è pericolosa’, nato in un momento in cui sui
giornali si dava del pericoloso a qualsiasi cosa. Poi c’è lo spazio per
serigrafare – posso farlo anche a casa, ma qui si è creata una situazione più
interessante. Il laboratorio di serigrafia esisteva già, ma per un periodo era
rimasto inattivo; lo abbiamo ripreso e stampiamo parecchio. Le varie crew che
organizzano concerti fanno qui le loro magliette, hanno imparato a serigrafare e
lo fanno insieme a noi, quindi tutto quello che succede alla fine si contamina e
ti permette di ragionare sulle cose in modo più complessivo.
“Man mano che scoprivo la Lupo, anche grazie agli striscioni che vedevo durante
i concerti o altri eventi, mi rendevo conto che quello che offriva non era un
semplice ‘servizio’ ma qualcosa che ti permette di evadere dalla gabbia del
mondo. Se la frequenti un po’, scopri che questa cosa di autogestirsi è
possibile, e questo cambia la tua prospettiva, sia rispetto allo spazio sia
rispetto al modo in cui puoi fare le cose”.
Se si scorre il calendario della Lupo, nel corso degli ultimi anni si nota un
interesse crescente verso questioni più esplicitamente politiche.
“Quando abbiamo aperto alla città è nato un dibattito che ha assunto una
prospettiva prettamente politica per necessità. Penso alla minaccia di sgombero
di due anni fa: qualcuno veniva e chiedeva conto del perché non avessimo
intenzione di dialogare con le istituzioni, e allora fu necessario prendere una
posizione precisa, consapevole di quali sono i pro e i contro di un percorso di
interlocuzione con il Comune. Il politicizzarsi dello spazio è avvenuto anche
perché diversi gruppi hanno cominciato a frequentare la Lupo – il collettivo del
Parco Falcone, lo studentato, i collettivi artistici che in città non hanno uno
spazio – e fatalmente sono stati coinvolti nella gestione, hanno dovuto fare
delle scelte, prendere delle decisioni. L’assemblea contro lo sgombero è
cresciuta insieme a un’altra a livello cittadino, anch’essa dettata da
un’emergenza: il decreto 1660, contestato in tutta Italia. L’ultimo corteo
contro decreto, sgomberi e guerre del 21 dicembre è stato vivace, e per quanto
poco numeroso ha portato in piazza realtà che solitamente camminano separate. La
consapevolezza che non esiste alcuna garanzia di successo non sta impedendo agli
abitanti della Lupo di offrire una base fisica e un contributo discorsivo a
questo tentativo di convergenza”.
Il 4 febbraio 2025 segna il termine entro il quale ci si aspetta lo sgombero.
Nel frattempo la Lupo sta continuando a proporre momenti di svago, impegno e
respiro a chi rifiuta la bolla del consumo cittadino e l’inganno delle politiche
culturali e sociali volte al profitto. Un nuovo corteo è previsto per il 21
gennaio. “Non si sgombera un’idea”, dice una frase scritta sulle pareti dello
spazio, quella che forse più di tutte oggi suona come un avvertimento e un
auspicio per il futuro. (alessandra ferlito)
(disegno di davide nespolino)
“PalazzoKalister: straordinaria manutenzione e restauro per la conservazione dei
caratteri architettonici e tipologici con cambio di destinazione da residenziale
a turistico-ricettiva”. Questa chiara dichiarazione di intenti è scritta nel
cartello di descrizione dei lavori su uno dei palazzi più importanti di piazza
Libertà, a Trieste. Fu costruito in stile eclettico alla fine dell’Ottocento
poco dopo la vicina stazione ferroviaria. Dopo esser stato abbandonato per anni,
palazzo Kalister si prepara così a diventare un albergo di grandi dimensioni. Il
cartello che annuncia l’operazione si trova nei pressi di un’alta gru che di
notte viene illuminata con due strisce di luci rosse verticali per segnalarne la
presenza.
Oltre a essere la piazza della stazione centrale di Trieste piazza Libertà è
anche molto altro. È lì che tutti i giorni, da anni, i volontari
dell’associazione Linea d’Ombra e di altre organizzazioni accolgono chi arriva
dalla rotta balcanica, oltre a chi vive a Trieste da più tempo ma si trova
ancora in condizioni molto precarie e disagiate. In questo periodo basta passare
un po’ di tempo in piazza dopo le 19 e ci si accorge di quanti cambiamenti
avvengano nell’arco di un paio d’ore, a seconda del cibo, delle bevande e/o dei
vestiti che arrivano e che vengono distribuiti. Le persone, provenienti
soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, si dispongono in file al momento
delle distribuzioni, altrimenti si spostano nella parte centrale della piazza.
Chi vuole raggiungere o lasciare la stazione preferisce fare un giro più largo,
anche a costo di allungare un po’.
Fino allo scorso 21 giugno buona parte delle persone migranti che frequentavano
la piazza abitavano nel Silos, un grande edificio semi-diroccato che costeggia i
binari della stazione dei treni. Quel giorno le forze di polizia, agendo in
seguito a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, preoccupato per le
condizioni sanitarie del luogo, ma anche temendo un danno d’immagine per la
città, sgomberarono l’edificio trasferendo altrove le persone presenti
all’interno e altre che si trovavano nei paraggi e preferivano non rimanere a
Trieste. Ora il Silos è costeggiato da un parcheggio privato, mentre l’interno è
stato bonificato. Coop 3.0, proprietaria dell’immobile, dovrebbe essere ora sul
punto di vendere l’intera struttura a un gruppo austriaco.
L’atto non ha cambiato la postura delle amministrazioni pubbliche rispetto
all’accoglienza delle persone in movimento; al contrario di quanto era stato
promesso, nel frattempo non sono stati resi disponibili più posti in accoglienza
e soprattutto non è stato attivato quel servizio a bassa soglia, cioè
accessibile a tutti senza formalità, che le associazioni reclamano da tempo per
rispondere alle esigenze delle molte persone che arrivano a Trieste e si fermano
poche ore prima di riprendere il viaggio. La conseguenza è stata che per tutta
l’estate chi arrivava in città trovava rifugio sotto una tettoia all’ingresso
del Porto Vecchio, un’area costituita da magazzini portuali abbandonati
costruiti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Lì le persone si sono
accampate con sacchi a pelo e altri materiali, proprio come avveniva nel Silos,
senza nemmeno la protezione, comunque parziale, delle arcate in muratura.
L’arrivo dell’autunno non ha cambiato le cose e lo scorso 20 novembre le
istituzioni hanno deciso di intervenire sgomberando la tettoia con modalità
simili a quelle adottate a giugno per il Silos. Le forze dell’ordine sono
arrivate prima delle otto e intorno a mezzogiorno la tettoia era occupata solo
dagli impiegati di un’azienda di pulizie che stavano ultimando il lavoro coperti
da spesse tute bianche. Un comunicato congiunto delle associazioni attive
nell’accoglienza delle persone in movimento a Trieste (Consorzio italiano di
solidarietà, Linea d’Ombra, Diaconia valdese e No Name Kitchen), pur accogliendo
favorevolmente il trasferimento e auspicando che ciò avvenga con una maggior
frequenza, ha criticato l’intervento sostenendo che “nonostante venga presentata
come un’azione risolutiva ed efficiente, l’operazione odierna rappresenta
l’ennesima dimostrazione di una gestione straordinariamente carente. Se infatti
i richiedenti asilo avessero avuto accesso, come previsto dalla legge, a un
sistema di prima accoglienza adeguato al loro arrivo, con una successiva e
rapida redistribuzione sul territorio nazionale, l’indecoroso abbandono
nell’area del Porto Vecchio non si sarebbe verificato. La scenografica e onerosa
operazione di oggi sarebbe stata così del tutto superflua”.
In effetti, per chi segue da almeno alcuni mesi la questione, il copione sembra
ripetersi sempre in modo simile senza che poi da parte delle istituzioni ci sia
la volontà di trovare delle soluzioni di lungo periodo. Nel frattempo, la città
sta cambiando. Al centro di piazza Libertà la statua della principessa Sissi è
circondata da circa un anno da alcune transenne per impedire che il retro
venisse usato come bagno a cielo aperto. Ora il Comune le sta sostituendo con
delle barriere permanenti, sottraendo alla fruizione una parte non piccola della
piazza. Da mesi è chiuso il sottopassaggio tra piazza della Libertà e la
stazione che in precedenza era stato usato come punto di distribuzione e
assistenza durante i giorni di maltempo. Qualche settimana fa il quotidiano
locale Il Piccolo ha diffuso la notizia che il Comune starebbe valutando la
possibilità di attingere a dei fondi regionali per recintare anche il perimetro
più esterno della piazza. Visto che negli anni corsi la stessa cosa è stata
fatta anche in un’altra piazza importante (piazza Hortis, sempre in centro) non
sembra così impensabile che la stessa scelta venga fatta per una piazza in cui
si è creato uno dei pochi spazi di autogestione in città. Inoltre, piazza
Hortis, uno spazio alberato su cui affacciano lo storico istituto nautico e la
frequentata emeroteca cittadina, fa parte di una delle prime zone di Trieste ad
aver cambiato faccia: in pochi anni nuovi locali alla moda hanno affiancato o
preso il posto di osterie e altri negozi per i residenti. Le recinzioni
comportano degli orari di apertura e di chiusura e sconvolgono le modalità di
fruizione di uno spazio pubblico come una piazza.
È chiaro l’intento del Comune di scoraggiare una pratica di accoglienza
percepita dall’amministrazione come dissonante rispetto all’immagine di città
pulita e funzionale che si vuole dare di Trieste, però qui sembra essere in
gioco anche la gestione degli spazi pubblici. Poco lontano da piazza Libertà si
trova largo Santos, uno spiazzo all’ingresso dell’area del Porto Vecchio su cui
fino alla fine del 2022 sorgeva la sala Tripcovich, una struttura usata per
concerti e altre iniziative culturali. La sala è stata demolita due anni fa e lo
spiazzo che ne è risultato è stato usato in diverse occasioni da alcuni
collettivi cittadini per iniziative come concerti o per la partenza o l’arrivo
di cortei. In occasione delle festività natalizie del 2024 il largo è stato
trasformato in un parcheggio gestito dalla Confcommercio provinciale che fornirà
il servizio ancora fino al 31 gennaio.
La città sta cambiando anche in modo più eclatante. Come palazzo Kalister in
piazza Libertà l’enorme palazzo già delle Ferrovie dello Stato che affaccia
sulla centrale piazza Vittorio Veneto sta per essere trasformato in un hotel con
una piccola quota di servizi e abitazioni. Anche qui sembra tutto già visto e
già sentito: gli affitti sono rincarati molto mentre diversi edifici storici
diventano cantieri, in alcuni casi con lo scopo di realizzare delle residenze di
lusso.
La posizione della giunta comunale è chiara: porre il turismo al centro
dell’economia cittadina senza tenere conto di quanto questa scelta influisca in
negativo sulla qualità della vita di molti abitanti. Per anni il sindaco
Dipiazza si è vantato degli ottimi risultati raggiunti da Triescte nella
classifica annuale delle città con la qualità di vita più alta pubblicata
dal Sole24Ore. Al di là dell’attendibilità che si vuole attribuire a questo
genere di rilevazioni, sembra sempre necessario valutare da che punto di vista
si guarda la città. Fino a pochi anni fa la qualità di vita a Trieste non era
così determinata solo dalla capacità di spesa mentre ora, anche a causa dei
tagli nei servizi pubblici, come la chiusura di due consultori su quattro nel
2024, questa sta diventando un elemento sempre più centrale. (alessandro
stoppoloni)
(archivio disegni napolimonitor)
“La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella
durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo
da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più
lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”.
C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia
ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del
conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in
catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano
quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti,
dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze
operaie.
Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed
escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso
processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre.
«Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce
stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose
per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte,
inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di
annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche
altro pezzo di mondo.
* * *
La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu
fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno
stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo
si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore,
mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La
Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani
nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio
di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la
proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a
cambiare davvero.
La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei
carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno
scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in
borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e
quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto
da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar
(movimentazione di container) e la stessa Hiab.
A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre
si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una S.p.a. autonoma. In mezzo a
queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda
più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno
ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai
specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per
le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio.
La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto
male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha
registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli
ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori
interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi,
ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale
dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che
ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task
force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato
senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato
l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di
fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo
stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del
made in Italy.
Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era
fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e
tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di
chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle
sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al
presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si
sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai
cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una
multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del Made in Italy.
Gli operai ci hanno creduto.
Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse
impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non
sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in
presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione,
Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo
stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda
dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento
rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una
piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e
Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo
di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori,
carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è
lavoro solo per poche settimane ancora.
Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo
stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda.
Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha
offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente
per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare
acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei
prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione
dello stabilimento che scade a novembre del 2025.
I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale,
credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di
mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie
specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i
modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del
trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite,
fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di
mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da
rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo
avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i
lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per
affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti.
«I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato
a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose
per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci
spiega uno degli operai che si occupa del magazzino.
A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru
pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima
di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto
collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori
bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee
andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo
noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio
perché non sanno cosa produrre».
Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati
a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le
parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di
alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita.
* * *
È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È
stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri,
quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i
lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno
spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che
continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante
i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere
di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve
essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e
dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i
lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti
sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la
principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata
di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati
bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad
azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un
aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse
di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a
noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone.
I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In
quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del
5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da
negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti:
«Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei
cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli
con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un
presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i
guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini».
Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la
contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo
stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di
trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine
speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e
verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero
di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento,
lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita.
Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento
ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa
operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e
la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli
operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre.
Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in
Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio
altoforno 1 dell’acciaieria.
«Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione,
di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo
noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani.
È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora
aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la
cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a
erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i
fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il
cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una
serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte.
Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede.