Il passato in soffitta. Tre lavori sul Novecento industriale napoletano

NapoliMONiTOR - Tuesday, October 15, 2024
(foto di federico patellani da: bagnoli anni cinquanta. 1911-1961)

L’Italsider di Bagnoli ha chiuso da più di trent’anni ma l’ex area industriale e il suo quartiere restano un territorio sospeso tra passato e futuro. L’immobilismo è solo un pretesto, anche perché la spesa di novecento milioni in bonifiche farlocche, le opere inutili a loro volta dismesse, la costante attività di chi fraveca e sfraveca per andare più indietro rispetto al punto di partenza, hanno responsabili ben precisi. Nel frattempo il paesaggio fisico, e il tessuto sociale ed economico del quartiere hanno subito trasformazioni enormi, di cui nessuno, se non gli stessi abitanti, vuole accorgersi. 

La recente accelerazione nei processi di bonifica e pianificazione, però, ha avuto ripercussioni anche sul dibattito pubblico. Sembra esserci infatti una gran voglia di parlare di Bagnoli, di rileggere gli anni della fabbrica senza sottrarsi, almeno a parole, ai conti col presente. Una voglia assecondata dal mercato che ci propone film, libri, spettacoli teatrali, mostre spesso di dubbia qualità sul tema.

Circa un anno fa è uscito per Rizzoli il secondo libro della scrittrice napoletana Maria Rosaria Selo, un romanzo di formazione intitolato Vincenzina ora lo sa, con richiamo ai versi scritti e musicati da Jannacci nel 1975, in piena crisi industriale. Vincenzina, protagonista del libro, deve abbandonare gli studi all’università e impiegarsi in fabbrica a causa della morte del padre, una delle tante vittime della civiltà dell’acciaio. Lo fa scoprendo un mondo di solidarietà umana, “sorellanza”, mutuo riconoscimento nell’ambito di una classe, quella operaia, a cui forse non aveva ancora capito di appartenere. Ossessionata dall’idea di rendere giustizia a quel mondo, però, Selo scivola di continuo su espedienti retorici di linguaggio e di contenuto, a cominciare dalla frattura manichea e, a suo avviso, generazionale, tra il modo di concepire il mondo da parte di chi porta il pane a casa con il sudore (Vincenzina) e chi invece non vuole saperne (sua sorella). Una contrapposizione che diventa quasi comica quando le ragazze si trovano a dialogare, e che non rende giustizia alla complessità di percezioni, contraddizioni, rabbiosi rifiuti alternati a illusori rifugi in una presunta “sicurezza”, quella della fabbrica, che almeno tre generazioni hanno dovuto vivere a Bagnoli da quando si è cominciato a capire che l’acciaio possedeva la capacità di salvare vite e distruggerne contemporaneamente altre.

La fascinazione per il mondo operaio – anche nella sua più ruvida espressione culturale, nel maschilismo imperante, nella brutalità di alcuni ragionamenti – pervade dall’inizio alla fine anche Mare di ruggine. La favola dell’Ilva, spettacolo di Antimo Casertano che ha avuto successo al Piccolo Bellini. L’obiettivo di Casertano è ancora più ambizioso rispetto quello di Selo: ricostruire la vita della fabbrica attraverso quella di alcune famiglie bagnolesi, esistenze legate reciprocamente, ma in cui micro e macrocosmo vengono restituiti allo spettatore in maniera troppo didascalica. Anche in questo caso la complessità è ridotta all’osso: l’universo della fabbrica e l’epopea dei suoi abitanti si snodano attraverso una parabola che nasce dalla povertà, poi cresce con il progresso, il lavoro, l’emancipazione sociale, e in fase discendente crolla seguendo le traiettorie della crisi, la malattia, la morte, l’assenza di prospettive future.

Non ci sono fratture in questa parabola, anzi quelle che renderebbero il racconto più complesso – e onesto – vengono eliminate. Le lotte operaie sembrano aver avuto inizio negli anni Settanta, quando i caschi gialli bagnolesi riuscivano a condizionare le scelte dirigenziali con scioperi e proteste, supportati da un contesto disponibile a valorizzarle. In tutta la narrazione precedente, invece, la figura dell’operaio è infantilizzata, il lavoratore dell’Ilva della prima metà del Novecento sembra una bestia da soma disposta a subire tutto in nome dello stipendio (vale la pena ricordare che già nel 1914 i lavoratori dell’acciaieria ebbero un ruolo negli eventi della Settimana Rossa¹). Anche gli anni che precedono la chiusura avrebbero meritato una trattazione più articolata, tanto più in uno spettacolo che si candida a piccolo Bignami di un secolo di storia. In maniera troppo superficiale sono affrontati i delicati passaggi che portarono all’allineamento di Pci, sindacati e partiti di governo verso la deindustrializzazione, e alla scelta di puntare sugli impianti di Taranto e Cornigliano. L’unico nome che viene fatto è quello del “povero” De Michelis, preso a fischi e pernacchi dagli operai bagnolesi a cui aveva parlato nel 1981 di sacrifici e cassa integrazione.

La complessità del passato è azzerata anche nella suggestiva installazione artistica che in questi giorni è visibile sui terreni dell’ex fabbrica, la proiezione di raggi colorati immaginata da Franz Cerami per illuminare le strutture di archeologia industriale di Bagnoli, a cui gli spettatori assistono andandosene in giro sui pullman del Napoli City Sightseeing. Tralasciando alcuni aspetti organizzativi discutibili (il contrasto tra i bus giganti rosso fiammante e l’atmosfera dark-industrial dell’area; la piattezza della voce registrata che funge da guida; il fatto che metà dei visitatori vedano pochissimo perché hanno davanti quelli seduti sull’altra fila di poltroncine del bus), il vero tema è la descrizione che viene fatta della fabbrica, e l’idea che rimanda, molto simile a quella dei libri e video celebrativi che l’Ilva prima, e l’Italsider poi, producevano per propagandare la loro funzione economica e sociale.

Il robot-guida turistica parla della vecchia fabbrica come un sogno appartenente a un’epoca lontana, esaltando la potenza industriale e la forza motrice di emancipazione sociale per i bagnolesi, senza mai far menzione delle problematicità – a partire dai tanti lavoratori che dentro la fabbrica ci sono morti – che quel passato e le sue conseguenze sul presente hanno provocato. Anche in questo caso esiste il futuro (le prossime destinazioni d’uso degli edifici e gli scenari che verranno) ma non il presente, mentre, per esempio, un elemento interessante per connettere la mostra e il quartiere avrebbe potuto essere la messa a dialogo tra le luci artistiche e quelle reali degli edifici di via Diocleziano, come il supermercato Conad, l’hotel Nubvò, la pizzeria Vitagliano (edifici che illuminano h24 la strada antistante l’altoforno, e che – piaccia o meno – rappresentano per i bagnolesi, da più di un decennio, l’immagine di quella porzione di territorio assai più della fabbrica).

È difficile dire se le semplificazioni che accomunano questi e altri lavori siano un effetto collaterale o una precisa linea in relazione con ciò che sta succedendo a Bagnoli. Il mantra che accompagna nell’ultimo triennio gli avanzamenti dei lavori è infatti: “Basta star fermi! Si sbagli anche, ma si faccia!”. Una linea molto pericolosa, soprattutto in presenza di un piano di azione (il PRARU) che, pur nelle sue criticità, rappresenta la sintesi di spinte arrivate da direzioni diverse, in particolare gli interessi (pubblici e privati) verso la capitalizzazione economica e lo sfruttamento del territorio, e le istanze dei cittadini che reclamavano la restituzione di enormi aree che nell’ultimo quarantennio gli hanno portato solo malattie e decessi. I recenti eventi, e per esempio i cambi normativi promossi da governo e commissario per poter evitare la rimozione totale della colmata, sfruttano invece un sentire sociale talmente provato da rendere possibile (quasi) ogni operazione, persino la progressiva e silente rilettura di quel piano. Eppure, a partire non dalla stanchezza dei cittadini, ma dall’interesse comune, dovrebbe muovere ogni azione di un governante.

Da questo punto di vista la propaganda che quotidianamente ci comunica che i bagnolesi sono stanchi e che bisogna muoversi (sottinteso: a qualunque costo) trova supporto non solo nella prefigurazione di un presunto futuro migliore, ma anche nell’idealizzazione tout court di un passato che avrebbe, secondo queste rappresentazioni, avuto un lineare percorso di crescita e caduta, per cui voltare pagina senza se e senza ma sarebbe l’unica soluzione possibile. Bisognerebbe invece evidenziare che le crisi congiunturali che hanno portato alla deindustrializzazione sono state tante, si sono susseguite dal 1920 in poi (quando l’Ilva chiuse per ben quattro anni!), e che sono un elemento fondante e ciclico di ogni sviluppo capitalistico; che gli operai napoletani non sono stati dei lazzaroni raccattati per strada dagli industriali prima privati e poi di Stato, istruiti chissà da chi a diventare forza lavoro civilizzata e poi resi obsoleti dal progresso in un ineluttabile dramma sociale; che il conflitto all’interno della fabbrica non era tutto rose e fiori, ma aspra dialettica tra partito, sindacato, consigli di fabbrica, operai politicizzati e altri piuttosto apatici, complessità che si rifletteva negli equilibri sociali del territorio, dove anche durante i decenni tra il Sessanta e il Novanta, seppur in maniera contenuta, a Bagnoli esisteva la camorra, la disoccupazione, persino sezioni della Dc e dell’Msi; che ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalla chiusura, e con l’ex area industriale così ridotta, gli abitanti del quartiere si chiedono quanto la crescita sociale ed economica promossa dalla fabbrica sia valsa la candela della devastazione e dell’impoverimento.

Oltre a non rendere giustizia a una storia lunga come quella operaia che si è vissuta per oltre un secolo in questo territorio, le narrazioni semplificate rischiano di avere un effetto sul presente e sul futuro: isolare quel passato idealizzato e congelare le complesse eredità sociali e culturali di cui si dovrebbe invece tener conto nei processi di rigenerazione di una zona sempre più ad alto rischio, pronta per gli assalti di pescecani locali (vedi il porto di Nisida) e neoliberismi internazionali (vedi gli interessamenti di americani e arabi per investimenti nel terziario). Indipendentemente dal fatto che si riesca o meno – in tempi assai difficili – a resistere a questi assalti, servirebbero letture più coscienziose e informate da parte di artisti e intellettuali, ma anche dell’ente commissariale, della sovrintendenza e degli istituti culturali pubblici, per impedire che il Novecento bagnolese resti a impolverarsi in un faldone per i giorni che verranno. (riccardo rosa)

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¹ Si veda il volume di Giuseppe Aragno: La settimana Rossa a Napoli. Giugno 1914: due ragazzi caduti per noi (La città del Sole, 2006)