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Tornare a casa (per una sera). Il trauma dello sradicamento nella diaspora di Scampia
(disegno di giulia landonio) A giugno di oltre quindici anni fa, nel 2009, abbiamo occupato una casa abbandonata con un gruppo di bambine e bambini in parte abitanti del posto, in parte di altre zone del quartiere. Con loro abbiamo dipinto tutto quello che ci sembrava che non potesse proprio mancare in una casa, un armadio gigante, docce, rubinetti, lavatrici, librerie, un pesce rosso nella sua classica boccia di vetro, uno stereo con le cassette che oggi non sapremmo come usare, una televisione, una chitarra, un vaso con i fiori, un tavolo con acqua e bicchieri, specchi, un lavabo sulla terrazza super panoramica per lavare e mettere a scolare i piatti. Poi abbiamo fatto un grande gioco dei mimi, in cui loro hanno liberamente preso possesso dello spazio usando tutto quello che volevano, come volevano. Complice anche il gran caldo, le docce, le lavate di mani faccia piatti, si sono sprecate, ma non è mancata la lettura di un buon libro seduti in poltrona, una partita piuttosto sofferta del Napoli di Lavezzi Cavani e Callejon, balli e saltelli vari, inclusa una danza al ritmo del cestello della lavatrice, e non si sono dimenticati naturalmente di dare da mangiare al pesce rosso. Abbiamo racchiuso in un cortometraggio muto questi semplici gesti quotidiani portati avanti con serenità, dolcezza, serietà, sebbene lo scenario in cui si muovevano fosse uno dei luoghi considerati più precari per l’abitare: il quarto piano della Vela Gialla di Scampia. I protagonisti hanno deciso tutto da soli, e non a caso si sono concentrati sull’utilizzo di quello che più gli manca nella vita reale, come l’acqua corrente soprattutto per i piccoli rom abitanti nel campo vicino di Cupa Perillo e l’armonia di una giornata qualunque in una casa qualunque. Nella totale autogestione, ci hanno poi consegnato un finale poetico affacciandosi da una finestrina dipinta in stile tirolese che apre a una vista mozzafiato sulla Vela di fronte, la Celeste, quella che quest’anno, a luglio, ha visto il crollo di un ballatoio con la conseguente morte di tre persone e decine di feriti, soprattutto bambini. Ma gli sguardi nonostante tutto fiduciosi di quei bambini del 2009 non potevano prevedere questo triste futuro; quello degli adulti e dei pianificatori, più consapevole della lenta catastrofe che si stava già consumando all’epoca, invece forse sì. I piccoli e le piccole italiane e rom che hanno partecipato oggi sono adulti che nella maggior parte dei casi non hanno ancora risolto il problema dell’abitare, per lo meno non nelle forme canoniche che siamo abituati a immaginare. Al seguito dei loro genitori e delle loro famiglie, che non sempre hanno potuto scegliere liberamente dove e come abitare, sono stati i testimoni diretti dello scempio che per oltre venti anni si è consumato sulla loro pelle. Nelle Vele, totale assenza di manutenzione, infiltrazioni, la goccia sulla testa nella cameretta, pavimentazioni fragili dei ballatoi, scale assottigliate, sversatoio di rifiuti, pregiudizi esterni diffusi. Nelle baracche, totale assenza di servizi di base tipo fognature e acqua calda, acqua benevola e acqua malevola di pioggia che allaga e infanga, freddo invernale fronteggiato con le stufe a ghisa, pregiudizi esterni diffusi e stereotipi duri a morire. Passeggiando oggi nella Vela Gialla che sta per essere svuotata, scavalchiamo cocci, balziamo in fila indiana sui ballatoi pericolanti, inciampiamo nei ricordi, ritrovando al quarto piano praticamente intatti i nostri armadi e i vasi dipinti pieni di fiorelloni strani, portate per mano da chi prima ci abitava e oggi continua ad andare su una delle terrazze per godersi il panorama, i tramonti, chiacchiere e sigarette. E riaffiorano i momenti belli – le corse di gruppi di ragazzini da una Vela all’altra, le spighe d’estate, i giochi d’acqua – di quella che è (stata) casa e che ora che è murata val bene un pellegrinaggio, come se fosse una tomba di famiglia a cui portare omaggi e dove far rivivere quelle memorie che nessuna ruspa potrà cancellare. Il lutto del trasferimento, il trauma della demolizione, la pena dello sradicamento, tutti pesi di cui nessuno vuole assumersi responsabilità, tranne tutte le dirette e i diretti interessati che faticosamente e con coraggio pensano a come ricostruirsi una vita senza cadere nella disperazione. Non c’è terapia, non c’è cura, non c’è ascolto per questi tormenti collettivi innanzitutto interiori. Prima o poi si dovevano trasferire, si sapeva, guai a portarla questa disperazione nei luoghi dove si prendono le decisioni, lì non bisogna comportarsi da bambini ma essere seri e accettare questo peso della storia – urbanistica – dell’intera città. E allora perché il trasferimento non è stato organizzato con cura, rispetto e competenze, nella giusta gradualità dei passaggi, trattando le persone come persone, i bambini come bambini, i vecchi come vecchi, i malati come malati, passando da una lentezza pachidermica a uno stato d’emergenza brutale? È una delle molte domande che ci portiamo dietro ossessivamente che non avranno mai una risposta, se non che tutto rientra nell’ordine della brutalità dei sistemi di potere e burocrazia che ci governano. Nel frattempo, strette in cerchio in una delle pochissime terrazze agibili, tra lacrime e risate, ci godiamo qualche momento di una luminosa serata invernale insieme e ci ricordiamo che la vita è fatta soprattutto di questi dettagli preziosi che ci tengono unite e ci consentono di non andare in frantumi. (emma ferulano)
December 16, 2024 / NapoliMONiTOR
È il mercato, bellezza. La diaspora degli abitanti delle Vele abbandonati a sé stessi
(foto di leonardo galanti) A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di “autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad horas. Così si è completata la diaspora. Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il 2025). L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il 2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato consegnato. Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo. (leonardo galanti2) Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano –, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé. Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007». «Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano. Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio, lo devo buttare?”, gli ha detto lei». (foto di leonardo galanti) Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto. Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del 2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di destinazioni incerte e comunque precarie. Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo. Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio. Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…». «Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti, e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia, le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
December 12, 2024 / NapoliMONiTOR
Commissariamento di Bagnoli, siamo già al “salviamo il salvabile”?
(disegno di marta fogliano) Nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerose e trasversali manifestazioni di giubilo relative agli avanzamenti del processo di bonifica e rigenerazione dell’ex area industriale di Bagnoli. È bene sottolineare, però, che nonostante lo sfiancamento dovuto a trent’anni di interventi fatti male o non fatti, e a uno sperpero di denaro pubblico senza pari, sarebbe sbagliato considerare ognuno di questi avanzamenti, a scatola chiusa, una buona notizia. Martedì 19 novembre i giornali hanno parlato di una transazione tra Invitalia e Basi 15 srl (gruppo Cementir): il lotto dell’ex area industriale di proprietà dell’azienda, l’ultimo facente capo a un soggetto privato, è stato acquisito da Invitalia a titolo gratuito, in modo da poter essere inglobato nel progetto di risanamento. La transazione è stata commentata in maniera entusiasta dal sindaco di Napoli e dal governo, come esempio di collaborazione virtuosa tra imprese e istituzioni. Gaetano Caltagirone, proprietario della Cementir, ha detto di aver voluto “rendere un omaggio a Napoli, alla sua storia e al suo futuro”. In realtà, ancora una volta, è il soggetto privato a guadagnare da questo accordo, dal momento che il ritiro dei contenziosi sgrava la Cementir dall’incombenza degli altissimi costi di bonifica e smantellamento degli impianti, di cui ora si dovrà occupare Invitalia (senza contare il ritorno di immagine frutto di una campagna di glorificazione fino a questo momento pienamente riuscita). L’atmosfera che ha accompagnato la firma dell’accordo ricorda quella con cui, qualche mese fa, era stata accolta la notizia dell’arrivo di una nuova pioggia di soldi destinati alla bonifica (soldi che sono stati stanziati ma non versati, e che quindi arriveranno, se tutto va bene, in varie tranche) e persino della modifica della legge 582 che – con la scusa delle difficoltà presunte della rimozione della colmata a mare – eliminava l’obbligo di ripristino della morfologia naturale della linea di costa bagnolese. Intanto, a fine ottobre, la Corte di Appello di Napoli ha assolto tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste” nel processo-bis sul presunto disastro colposo ambientale causato da Bagnoli Futura, le cui indagini erano iniziate quasi vent’anni fa. Con la sentenza, per la quale la Procura di Napoli non farà neppure ricorso in Cassazione, il tribunale ha stabilito che il danno c’è, ma non sono stati gli imputati a provocarlo (e allora chi, non è chiarissimo…). Ma veniamo al futuro. Il PRARU, il programma per la bonifica e la rigenerazione urbana approvato nel 2017, è un accordo tutto sommato accettabile, soprattutto se si considerano le proposte avanzate negli ultimi trent’anni sull’area e alcune balzane idee tipo quelle – sponsorizzate per più di un decennio dalle giunte comunali di “sinistra” – di utilizzare la colmata a mare per manifestazioni e mega-eventi sportivi, o le continue riletture al ribasso dei piani urbanistici elaborati negli anni Novanta. Ed è accettabile soprattutto perché recepisce due istanze che la comunità locale ha portato avanti con forza, quella per il parco urbano e per una grande spiaggia pubblica e gratuita tra Nisida e Pozzuoli (anche se la modifica della 582 la mette oggi pesantemente in discussione). Lo stesso piano, però, si fonda su alcuni presupposti, pericolosamente confermati da quanto accaduto in questi mesi. Il primo riguarda il rapporto tra le opere fatte per produrre profitto e quelle che realmente vanno nell’interesse dei cittadini: se per le prime Invitalia ed ente commissariale stanno avanzando alacremente (per esempio i grossi parcheggi in costruzione al momento), o stanno preparando il terreno per avanzare, le seconde sono quotidianamente messe in discussione e rese incerte da una serie di fattori, a cominciare dalla precarietà dei fondi per realizzarle. Un altro punto è una caratterizzazione della condizione dei suoli che appare ancora superficiale e che rischia di collocarsi in continuità con gli scempi del passato per i quali la magistratura è stata costretta più volte a intervenire. In ultimo, e non certo per importanza, vi è la tendenza per cui si continua a chiedere e a spendere una quantità sproporzionata di soldi pubblici per la bonifica (scegliendo tecniche che molti esperti considerano inutilmente dispendiose) aprendo la strada agli interventi dei privati nel momento in cui ci sarà da capitalizzare, magari con la scusa che “non ci sono abbastanza soldi perché tutto quello che si è realizzato sia a gestione pubblica”. Messi in relazione uno con l’altro, i fatti citati mostrano una pericolosa continuità con le pratiche politico-istituzionali che finora hanno causato il fallimento del progetto Bagnoli, in un quadro in cui l’opposizione sociale, che sempre ha rivestito un ruolo nell’arginare i tentativi speculativi sul territorio, vive un momento di difficoltà organizzativa (anche alla luce delle prescrizioni previste dal Ddl 1660 nei confronti delle lotte sociali, a cominciare da quelle che riguardano le cosiddette “grandi opere”). Non sarà facile rilanciare, in questo contesto, i processi di monitoraggio e proposta politica, nonostante gli enormi sforzi da parte delle comunità del territorio, i cui intenti partecipativi sono disincentivati e spesso frustrati dalla chiusura su sé stesse delle istituzioni. La necessità di una nuova stagione di mobilitazione che coinvolga tutte le realtà sociali e che rompa l’isolamento di chi oggi lotta sul territorio è pressante, ed è forse l’unica strategia possibile per salvare il salvabile in un processo di sviluppo urbano che appare oggi, nel bene e nel male, finalmente in marcia. (riccardo rosa)
December 5, 2024 / NapoliMONiTOR
Contro i tagli del governo e l’economia di guerra. Una giornata di mobilitazioni a Napoli
(disegno di escif) Venerdì 29 novembre, sette del mattino. Un anziano in giallo fluo corre a ritmo sostenuto lungo via Felice Pirozzi, Pomigliano d’Arco, costeggiando un alto muro protetto dal filo spinato. Ha tutta l’aria, questo posto, di una zona militare, e infatti è lo stabilimento napoletano della Leonardo Spa, la multinazionale pubblica che opera nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza, non disdegnando di produrre neppure armi nucleari. È uno stabilimento chiave, quello di Pomigliano, per il settore “aerostrutture” dell’azienda, che pure, nonostante gli oltre centocinquanta milioni di euro di fondi pubblici drenati negli ultimi anni, è stato messo in discussione dallo stesso amministratore delegato Cingolani, che aveva paventato un possibile scorporo e addirittura la costruzione di “nuove alleanze” (tradotto vuol dire la dismissione del comparto, ritenuto evidentemente non abbastanza produttivo quanto la fabbricazione di armi). Ai cancelli della Leonardo ci sono un centinaio di persone che, da un lato, portano solidarietà ai lavoratori dell’azienda, dall’altro denunciano il coinvolgimento dell’Italia e della sua industria pubblica nell’economia di guerra, l’unica risposta individuata a livello internazionale alla crisi economica strutturale. È un tema centrale, questo, nella giornata di sciopero che ha coinvolto tutto il paese, e che ha portato in piazza rivendicazioni eterogenee, così come differenti aree sindacali e politiche. A Napoli ci sono i lavoratori e i disoccupati, che rivendicano il diritto a un’esistenza dignitosa e alla difesa del proprio salario; i ricercatori precari universitari, attesi da un biennio, il prossimo, di tagli devastanti dopo l’orgia di contratti Pnrr; i solidali con il popolo palestinese, oggetto di un genocidio che va avanti da più di un anno a dispetto della carta straccia prodotta, in ammonimento a Israele, dalle istituzioni internazionali; attivisti e militanti che evidenziano l’abominio legislativo del Ddl 1660 in via di approvazione, che instaura una serie di misure repressive nei confronti di chiunque si appresti a rappresentare il proprio dissenso in pubblico, anche in maniera pacifica. In Campania la giornata comincia  presto, a Pomigliano, con le code di auto davanti allo stabilimento, le bandiere del sindacato SiCobas, dei Carc, del Fronte della gioventù comunista e del laboratorio politico Iskra, e soprattutto con due grossi striscioni che rallentano l’ingresso in azienda dei lavoratori, a cui la polizia garantisce un corridoio d’accesso protetto. Il primo recita: “Con gli operai della Leonardo. Contro le guerre della Leonardo”; il secondo: “Luigi libero! Liberi di lottare contro la guerra”. Il riferimento è ovviamente a Luigi Spera, il pompiere che insieme a un gruppo di persone aveva manifestato nel novembre del 2022 fuori la sede palermitana della Leonardo, finendo nel carcere di massima sicurezza di Alessandria con l’accusa di “attentato (un fumogeno, ndr) per finalità terroristiche”. Nonostante la Cassazione abbia fatto cadere l’ipotesi del fine eversivo, Spera si trova ancora in prigione, nell’attesa che i giudici riconfigurino le misure cautelari. Anche a Napoli, d’altronde, la Procura aveva emesso nel mese di luglio quattro misure cautelari per altrettanti attivisti che, tra le altre cose, avevano partecipato a un presidio davanti la Leonardo. Una volta lasciata Pomigliano, intorno alle nove, il gruppo di manifestanti si sposta a Napoli, dove a piazza Mancini è in partenza il corteo convocato dai due sindacati confederali Cgil e Uil per protestare contro la manovra di bilancio proposta dal governo. Lavoratori del commercio, funzionari pubblici, insegnanti e metalmeccanici sfilano lungo corso Umberto I sulle note dei pezzi di Rino Gaetano. Tra i metalmeccanici ci sono gli operai della Ex-Irisbus di Avellino, quelli di Stellantis di Pomigliano e Pratola Serra e quelli della Leonardo di Nola e Pomigliano. Lavoratori e organizzazioni sindacali chiedono un aumento dei salari agganciato all’inflazione, si oppongono ai tagli alla sanità, all’istruzione e ai servizi pubblici e rivendicano una politica industriale per una transizione socialmente sostenibile. A rischio sono soprattuto i posti di lavoro – quasi ventimila in Campania – negli stabilimenti di assemblaggio dell’ex gruppo Fiat e quelli nell’industria della componentistica automotive. I lavoratori denunciano il taglio di 4,6 miliardi al Fondo automotive previsto dalla legge di bilancio e chiedono che le risorse pubbliche erogate a favore dell’unico costruttore di automobili presente nel paese, la multinazionale a trazione francese guidata da Carlos Tavares, siano vincolate alla produzione di nuovi modelli negli stabilimenti italiani e alle garanzie occupazionali. «Il gruppo pubblicamente sostiene che si impegnerà a produrre in Italia nuovi modelli, ma di fatto continua a privilegiare gli stabilimenti di assemblaggio localizzati nell’Europa dell’est e i rapporti di fornitura con aziende situate in Nord Africa, alle quali l’ex gruppo PSA era storicamente legato», racconta un delegato sindacale della Fiom dello stabilimento di Pomigliano.  All’altezza della sede centrale della Federico II il corteo si imbatte in un presidio organizzato da varie realtà in lotta. I manifestanti accendono torce ed espongono striscioni sulla scalinata che affaccia sul corso. Altri distribuiscono volantini e intonano cori. Sono più o meno i lavoratori e gli studenti che erano dall’alba a Pomigliano, a cui si sono aggiunti i precari della ricerca, che scioperano – pur non avendo un contratto stabile – contro un altro disegno di legge, quello firmato dalla ministra Bernini (qui un resoconto dettagliato del provvedimento a cura dell’associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia). Dal corteo arriva qualche applauso di supporto, ma si intravede anche qualche espressione perplessa, soprattutto da parte dei dirigenti dei confederali, troppo spesso chiamati alla piazza invano dalle realtà più conflittuali, e che invece non convocano uno sciopero unitario (delle tre sigle principali è stata la Cisl, questa volta, a sfilarsi dalla mobilitazione) da quasi dodici anni. A piazza Borsa, nel frattempo, i lavoratori della Gls, protagonisti di una vertenza assai complicata, e organizzati dal sindacato Sol Cobas, dispiegano un lungo striscione per denunciare gli ingiusti licenziamenti subiti a causa delle rivendicazioni portate avanti negli ultimi mesi.    Dopo l’azione all’università, i due cortei tornano a separarsi. Il primo sfilerà fino a piazza Matteotti; il secondo si unirà a quello che nel frattempo è in partenza da piazza Municipio, dove sono radunati i lavoratori che fanno capo alle sigle del sindacalismo di base. «Siamo in sciopero – spiega al microfono un delegato dei Cobas – contro il genocidio in Palestina, ma anche contro le politiche di guerra in Italia, e la corsa agli armamenti direttamente collegata ai tagli di questa legge di bilancio. I sindacati confederali si sono ricordati che lo sciopero è un’arma per i lavoratori, ma tacciono sui diritti negati ai sindacati conflittuali e ai loro iscritti, come quello di svolgere assemblee sui luoghi di lavoro». Gli interventi vanno avanti ancora per un po’, poi la pioggia allontana anche i più irriducibili tra i manifestanti. Molti di loro sono attesi da una nuova giornata di lotta domani, a Roma: il corteo nazionale contro il genocidio in Palestina e il massacro della popolazione libanese. Il concentramento è previsto per le 14 in piazza Vittorio. (giuseppe d’onofrio / riccardo rosa)
November 29, 2024 / NapoliMONiTOR
Vertenza Gls e lotte nella logistica in Campania. Un’assemblea operaia all’ex Asilo Filangieri
(foto di redazione) Dopo sette mesi di battaglie contro l’assenza di ogni regola contrattuale, il lavoro nero e carichi di lavoro disumani, i lavoratori della logistica in Campania, sulla strada tracciata nel decennio precedente al centro-nord, hanno cominciato a cambiare la propria condizione. Partita dai lavoratori della Gls, tale battaglia sta contagiando operai di altre aziende per arrestare le pratiche di super-sfruttamento imposte finora dai padroni. Una situazione inaccettabile per chi controlla la Gls in Campania (la TEMI di Francesco Tavassi) che ha scatenato un’offensiva contro i protagonisti di questa lotta: provvedimenti disciplinari pretestuosi, sospensioni dei lavoratori sindacalizzati, infine, meno di una settimana fa, i licenziamenti di più di sessanta facchini, con l’obiettivo di distruggere la rappresentanza sindacale e tornare a imporre un dominio incontrastato. Gli operai hanno risposto a muso duro, senza farsi intimorire. Tra la notte del 14 e la giornata del 15 novembre vi è stato prima il blocco del centro di smistamento regionale in Campania gestito direttamente dalla Gls Enterprise e poi lo sciopero nazionale che ha riguardato tutti i magazzini da nord a sud; mercoledì 20 il blocco dell’hub Gls di Marcianise, e altre iniziative sono in cantiere sul piano locale e nazionale, fino al ritiro di licenziamenti, sospensioni e provvedimenti disciplinari. “A nessuno dovrebbe sfuggire la rilevanza dello scontro in atto per il futuro dei rapporti tra capitale e lavoro in Campania e per tutto il meridione – scrive in un comunicato il Sol Cobas che organizza i lavoratori in Gls -. Se la lotta degli operai della logistica riuscirà a respingere le provocazioni padronali può trasformarsi in uno stimolo e incoraggiamento per i tanti lavoratori sottoposti a trattamenti salariali e normativi anche peggiori e che non trovano la forza per organizzarsi e lottare a loro volta. […] È decisivo che intorno a questa vertenza si crei un clima di solidarietà e di consenso da parte degli altri lavoratori e degli attivisti anticapitalisti”. Per un confronto sul significato di questa esperienza e la possibilità di contribuire a un suo rafforzamento è convocata oggi alle ore 18 una assemblea nei locali dell’ex Asilo Filangieri, in vico Maffei 4, Napoli.
November 22, 2024 / NapoliMONiTOR
Mo’ basta! La protesta dei lavoratori Gls a Napoli
Fotografie di Mario Spada Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.  I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane. In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.  
November 17, 2024 / NapoliMONiTOR
Spina Tremula. Le foto di Spada e Ippolito negli spazi del Chikù a Scampia
(foto da: spina tremula) Fino al 31 dicembre sarà possibile visitare Spina Tremula, la mostra di Mario Spada e Gaetano Ippolito allestita negli spazi del centro Chikù (largo della Cittadinanza attiva – viale della Resistenza, Comparto 12) a Scampia. Insieme all’esposizione, quindici giovani della città verranno coinvolti in un laboratorio di narrazione e di fotografia stenopeica. Martedì 12 novembre, alle 12:00, sempre da Chikù, sarà possibile incontrare e discutere con gli autori della mostra.  Spina Tremula è il lavoro presentato il 24 ottobre nella sede di Chi rom e chi no da Mario Spada e Gaetano Ippolito, artisti napoletani di casa al Centro di fotografia indipendente di piazza Guglielmo Pepe, in zona Porta Nolana. Spada ne è fondatore e insegnante; Gaetano, cresciuto nell’area nord, vi è entrato come studente e ora insegna anche lui, specializzato nelle pratiche di sviluppo e stampa in camera oscura. Se appare evidente la differenza generazionale in Gaetano e Mario, entrambi i loro lavori sono realizzati a Napoli e partono dalla raccolta di migliaia di fotografie. La selezione qui riunita corrode i confini tra le due sequenze per la scelta di abbandonare l’ordine autoriale. Ragionano entrambi sulla possibilità della perdita del nome, confondono le ricerche per smarrirsi e spostare chi osserva; e chi legge, a partire dal titolo. La firma che sgomita per accedere agli spazi espositivi del mondo dell’arte e del mercato, a Napoli e altrove, dove bandi, call e residenze basano festival e campagne di produzione sul principio della competizione, trova spazio di rivolta in Spina Tremula. Lo stesso vale per la produzione del lavoro durante il processo di realizzazione. Una sincerità asciutta e reciproca vive nel confronto quotidiano tra i due. Ciascuno ha scelto per l’altro le immagini da selezionare e da escludere per la costruzione della mostra, portando a confondersi i due sguardi sulla città. “Nelle opere si vuole uscire da uno sguardo confortevole – incide Spada – su una città che non è possibile raccontare attraverso la fotografia”. Il suo lavoro è radicato nell’incertezza; le fotografie non descrivono, ma fanno sussultare direttamente la vista, e tremano non soltanto nello scatto, ma amplificano tale tremore sino al corpo eretto di chi guarda. Arrivare a chiedersi: se questa non è la città che viene raccontata, e neppure quella che conosco, dunque dove ci si trova, per dove arrivare? La posizione è altresì spinosa, e tremula; si abbassa china sulle zampe del cane che incontrano i piedi minuti del neonato; e si apre al cielo, affrontando la gravità del tuffo dall’alto; sta alle spalle di una muta alata, piccola e pronta all’incontro con il paesaggio scuro; avverte posizioni laterali, del passeggero attratto dall’incavo del vagone, che distrattamente possono sfuggire allo sguardo addomesticato. La possibilità di veder stampate in tali dimensioni e in qualità fine art queste fotografie può provocare l’inciampo di percorsi di vita di ragazzi e di ragazze che quotidianamente attraversano il centro Chikù; chissà che qualcuna e qualcuno, di fronte a queste non si innamori dell’atto, e trovi nei laboratori che verranno avviati nel centro la possibilità di comunicare le proprie inquietudini. Raggiungere lo sguardo di più ragazzi potrebbe essere il proseguimento della tensione sprigionata da questa iniziativa, alimentando il discorso e l’incontro intorno alla fotografia, che in quanto scrittura con luce non si riduca alla stampa posizionata, ma che allacci un percorso cominciato dalla postura dell’artista che sceglie di essere occhio testimone, e di non voltarsi di fronte agli eventi quotidiani speciali, orrendi, semplici o normali, ma di sostare prossimo a questi, qualificandoli nel quadro, tramite ciò che sta al di fuori, ciò che sta alle spalle, nella creazione di un proprio tempo che tenta di sabotare il dispositivo. La mostra è per Spada anche un’occasione che consente di guardare a muro le fotografie, per alimentare la motivazione a cercare gli ultimi fondi che mancano alla pubblicazione dell’atteso libro Spina, dopo un anno di lavoro di editing condiviso con Patrizio Esposito. La mostra rientra nella cornice dell’Ecomuseo diffuso di Scampia, un tentativo di unire il patrimonio materiale e immateriale del quartiere, che attraversa lo spazio pubblico con uno sguardo critico che taglia la neutralità apparente rispetto la narrazione dei luoghi, e risalta le trasformazioni avviate dal basso e contro le possibilità negate a quegli spazi a oggi chiusi e inaccessibili, ancora una volta privati ai cittadini. L’ultimo lavoro apparso in città di Gaetano Ippolito era stato installato al Giardino Liberato, per i due eventi Family Jewels curati da Chiara Pannunzio. Insieme a Lia Morreale, Gaetano aveva allestito la stanza come fosse l’occhio saturato dallo stratificarsi delle immagini di violenza, che nell’esporsi si abitua. Centinaia di immagini al muro, a terra tre schermi di televisori catodici, mostravano i resti dei materiali dai quali le immagini venivano estrapolate. Uno di questi una scritta: nell’invito a prenderne parte attivamente. Invito alla distruzione. Nello strappare le immagini, e portarle con sé. Spina Tremula, citando l’intervento di Maurizio Zanardi durante l’apertura, vuole “fare inciampare quella maledetta fotografia della città. L’immagine di Napoli non compare mai nelle foto di Spina. Napoli viene dimenticata. Solo così è possibile ricordarla, attraversandone le membra scritte con la luce”. (leonardo galanti)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
La violenza e l’attesa. Gli ultimi nove mesi degli abitanti del Frullone
(disegno di martina di gennaro) L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente a Gaza e in Libano.           Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”. La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’), suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”. Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti recenti. Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone, nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.  In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia, congedandoli dopo vaghe promesse. Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto. Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma l’Asl non aspetta». L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male? Sono mesi che stiamo così». Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi, invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che le videocamere non funzionano». In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni, violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto che non si sa bene cosa significhino. L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga. Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra». Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese, minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non avessero lasciato l’edificio pacificamente. Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato. Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene scandito da intimidazioni e incertezze. In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi, mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a scomparsa”. (barbara russo)
November 11, 2024 / NapoliMONiTOR
Rewind Napoli, ottobre # Spari, torture e incendi dolosi
(disegno di malov) Il primo ottobre i giornali raccontano la morte di Luigi Procopio, quarantacinque anni, ucciso alla Duchesca il pomeriggio del giorno precedente, mentre era in compagnia di suo figlio undicenne. Qualche giorno dopo per l’omicidio verrà fermato a Milano Antonio Amoroso, nipote della vittima, vicino agli ambienti criminali di Forcella. Il movente parrebbe essere un debito di cinquemila euro non saldato. Leandro Del Gaudio (Il Mattino) se la prende quasi più con le persone che avrebbero assistito all’omicidio e non denunciato, che con la barbarie del delitto. Parla di “omertà e paura a fette”, “un misto di rassegnazione e indifferenza”, che incredibilmente accomuna i commercianti e i lavoratori (descrive minuziosamente le attività commerciali del vicolo), stranieri e napoletani. Sempre Il Mattino titola in spalla: “Quartiere sospeso tra droga e rilancio. Tanti turisti, ma servono più controlli”. Gennaro Di Biase scrive: “Il boom turistico da queste parti non ha fatto capolino: qui persiste un melting pot di etnie. Cinesi, georgiani, magrebini, napoletani e nigeriani dal vicinissimo Vasto occupano gli stessi spazi”. Francesco Emilio Borrelli invoca “fermezza totale e presenza frontale delle forze dell’ordine”. Il giorno successivo sempre sulle colonne del Mattino si dà conto con compiaciuta ambiguità del gesto di una banda di ladri che ha restituito, dopo gli appelli pubblicati sul giornale, il cagnolino a una famiglia a cui aveva svaligiato la casa. Il cagnolino era un supporto fondamentale per la dodicenne R., che soffre di una grave malattia genetica degenerativa. In un biglietto, il cui contenuto è riportato integralmente dal Mattino, i ladri hanno scritto: “Siamo ladri, ma onesti”. Sempre il 2, si conteggiano le domande per la partecipazione all’ultimo concorso indetto dal comune di Napoli. I posti sono centotrenta, le domande quasi dodicimila. Per gli otto posti a tempo determinato di vigile urbano, le domande sono duemila centoquarantotto. Sabato 5 un ventiseienne viene arrestato a piazza Garibaldi con l’accusa di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, e denunciato per porto irregolare d’armi. Ai militari e ai carabinieri intervenuti è necessario un grosso sforzo per bloccare l’uomo che se ne andava in giro brandendo una katana giapponese. Il 6 Daniela Di Maggio, madre di Giovanbattista Cutolo, ventiquattrenne ucciso a piazza Municipio il 31 agosto 2023, si esprime sulla condanna (vent’anni) emessa nei confronti dell’assassino del figlio: “Sono soddisfatta perché la condanna è diventata definitiva ma mi batterò perché le leggi penali minorili siano al passo coi tempi e non concedano tanti sconti come avviene ora. […] La stretta sulle armi ai minori, l’introduzione del reato di stesa, il ripensamento della messa alla prova, che non deve essere concessa a chi commette reati tanto gravi, sono frutto delle mie battaglie che hanno trovato ascolto in sede governativa. […] Bisogna auspicare che si intervenga al più presto per garantire deterrenza e riabilitazione, rigore ed effettività della pena. In sintesi: niente abbreviato (sconto di un terzo della pena), niente Cartabia (sconto di un sesto per chi accetta di non inoltrare appello) e rafforzare il processo minorile”. Il 7 settanta famiglie lasciano la loro abitazione nelle Vele, che le istituzioni hanno scoperto “non sicure” e “non abitabili” dopo il crollo di quest’estate. Il Comune rende noto che entro novembre sarà allestito il cantiere per l’abbattimento delle vele Rossa e Gialla e che la totalità delle nuove case sarà completata entro il 2026. Intanto, gli abitanti “in uscita” denunciano di continuo di non riuscire a trovar casa, sia per i prezzi altissimi che per la poca predisposizione da parte dei proprietari ad affittare a chi proviene dai palazzoni di Scampia. La Curia mette a disposizione degli immobili transitori: ogni famiglia vi potrà stare quindici giorni. Venerdì 11 la prefettura comunica i risultati di una settimana di task force e interventi che hanno coinvolto carabinieri, guardia di finanza, polizia locale e ausiliari dell’Anm. Tra i risultati: trentasei verbali ad altrettanti parcheggiatori abusivi, cinquantacinque denunce per recidiva, centotrentacinque veicoli rimossi per sosta irregolare, trecentoventi verbali per violazioni del codice della strada. La prefettura non lo dice ma è evidente come, senza bisogno di scomodare Batman, la città ora possa dormire sonni tranquilli. Il 12 due enormi striscioni con scritto “No war” e “No G7” vengono calati da un gruppo di attivisti da uno dei balconi principali di Palazzo Reale. Dal 18 al 20 ottobre si terrà a Napoli, per la prima volta nella storia, un meeting tra i ministri della difesa dei “grandi sette”. Fin dal giorno 17 il palazzo sarà circondato da una “zona rossa”. Il 13 indignazione sul Mattino, e pubblicazione di un “Dossier sulla borghesia”. Il quotidiano di Caltagirone prende atto che “senso civico e ceto sociale non sono sinonimi”, come dimostrano “i dati sui parcheggiatori abusivi e le loro clientele” e “i marciapiedi intasati dagli scooter in via Nazario Sauro”. Lo stupore più grande è rappresentato dai numeri sulla raccolta differenziata che evidenziano come “i virtuosi non sono residenti di Chiaia ma di San Giovanni a Teduccio e Barra”. A corollario viene pubblicata un’intervista allo scrittore Maurizio De Giovanni. Titolo: “Stop indecisioni. Il ceto illuminato sia da esempio”. Il 14 De Luca torna sulla sua possibile terza candidatura consecutiva a presidente della regione Campania. Citando numerosi esponenti del Pd o vicini al partito, afferma: “Io mi ricandido comunque. Potete immaginare che tutto il lavoro in corso lo buttiamo a mare per fare un favore a questi cafoni?”. Il 15 il garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, spiega a margine di un convegno gli effetti del Decreto Caivano e della stretta legislativa contro i minori: “La giustizia minorile è in crisi, si è avviata verso un modello meramente criminalizzante e privo di prospettive. Da ottobre a oggi c’è stato un aumento di più di duecento adolescenti entrati in cella”. Il 21 otto persone rimangono ferite e quattro vengono arrestate dopo un’aggressione a danno dei veterinari della clinica universitaria di Napoli. Gli aggressori attribuivano al personale sanitario le responsabilità della morte del proprio cane. Particolarmente importante nella cronaca del fatto, per Piero Rossano (Corriere del Mezzogiorno), riportare le frasi in dialetto, con annessa traduzione, anzi parafrasi, pronunciate dagli aggressori mentre pestavano i medici.   Il 22 Dalma Maradona, figlia del campione argentino, denuncia lo spiacevole trattamento che riceve dal presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ogni qual volta prova a mettere piede nello stadio che porta il nome di suo padre: “Non mi ci fanno entrare”, spiega. “Credo sia iniziato tutto quando il Napoli ha realizzato la maglia con il volto di mio padre. Noi ci complimentammo ma chiedemmo dei soldi per lo sfruttamento dei diritti di immagine, dicendo che li avremmo utilizzati per fare beneficenza, a Napoli. Avremmo voluto aiutare una scuola o un ospedale per bambini. Su queste cose nostro padre non si è mai tirato indietro. De Laurentiis disse di no”. Lo stesso giorno si apprende delle torture subite un paio di settimane prima da un uomo colpevole di aver truffato altre persone con un “pacco” (la vendita di un certo quantitativo di telefoni cellulari, molti dei quali non funzionanti). Il truffatore è un nordafricano di circa trent’anni, i truffati (che per riavere i soldi avevano inviato svariate foto via whatsapp ai familiari della vittima, chiedendo un riscatto) sono napoletani vicini al clan Mazzarella. L’autore del pacco è stato torturato con bruciature di sigarette su tutto il corpo, percosse e l’estrazione di alcuni denti con una pinza. In Colombia, intanto, viene arrestato dopo anni di latitanza Gustavo Nocella, principale intermediario tra i clan napoletani Rinaldi, Formicola, Amato-Pagano, De Micco, e i cartelli della droga centro-sudamericana. Il boss è stato incastrato grazie alla sua passione per il biliardo: in ognuno degli appartamenti, che di continuo cambiava nella città di Medellin, veniva fatto portare infatti un tavolo verde per poter tirare di stecca. Il 23 si apprende dai giornali della confessione di un sedicenne che ammette di aver ucciso il suo amico ventenne Gennaro Ramondino per questioni legate ai traffici criminali di Pianura, su indicazione di più importanti elementi dei clan della zona. Il giorno dopo, per mano di un suo coetaneo, a morire, al corso Umberto, è un quindicenne, Emanuele Tufano, vittima di una sparatoria tra due gruppi di giovanissimi. La polizia fa fatica a ricostruire i motivi del conflitto a fuoco e i nomi dei circa venti partecipanti che si sono sparati addosso per quasi duecento metri (ne abbiamo parlato qui). Il 28 vengono arrestati Antonio e suo padre Rosario Piccirillo, quest’ultimo elemento di spicco dei clan della zona della Torretta. L’accusa è estorsione aggravata dal metodo mafioso, per richieste nei confronti di imprenditori che gestiscono gli ormeggi per imbarcazioni sui moli di Mergellina. Antonio Piccirillo era noto alle cronache per essersi dissociato dalle attività camorristiche del padre, e aver organizzato numerosi eventi (cortei, manifestazioni, presentazioni di libri) contro la criminalità organizzata. Lo stesso giorno più di cinquecento persone sfilano e presidiano dall’esterno l’aula bunker del carcere di Poggioreale, in protesta contro le vessazioni giudiziarie di cui sono oggetto i disoccupati organizzati che lottano in città, da quasi dieci anni, per ottenere un lavoro sicuro, stabile e dignitoso. Il 29 la Corte di appello di Napoli si pronuncia in chiusura del secondo processo sul presunto disastro ambientale che riguarda i dirigenti di Bagnoli Futura. Gli imputati vengono tutti assolti: Gianfranco Caligiuri, Sabatino Santangelo, Mario Hubler, Giuseppe Pulli e Alfonso De Nardo. La Corte li aveva già assolti in precedenza, ma la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza, rinviando la decisione a un’altra sezione di Appello. In serata, il Napoli batte per due a zero il Milan a San Siro, consolidando il primo posto in classifica e dando vita alla prima fuga del campionato. La notte tra il 30 e il 31 alcune persone vengono scoperte mentre tentano di incendiare la propria casa per intascare i soldi dell’assicurazione. Avvertiti da una telefonata anonima, i carabinieri intervengono pochi minuti prima che il rogo venga appiccato. Ne nasce una rissa, tre denunciati. (redazione)
November 6, 2024 / NapoliMONiTOR
Napoli, in piazza contro il processo ai disoccupati organizzati
  28 ottobre è la data di inizio del maxi-processo a quarantatré disoccupati del Movimento di lotta 7 Novembre, del Cantiere 167 Scampia, militanti del laboratorio politico Iskra e del SI Cobas Napoli, processo che si svolgerà all’interno dell’aula bunker del carcere di Poggioreale. Il procedimento arriva al termine di un’indagine che aveva comportato la pesantissima accusa di associazione a delinquere per i qurantatré indagati, sulla base di avvenimenti incorsi durante nove manifestazioni svoltesi tra il 19 dicembre 2022 e il 24 marzo 2023. Tre mesi nei quali la vertenza era in stallo e la pressione per il suo sblocco era particolarmente forte. In particolare, l’obiettivo a breve termine dei movimenti che lottano per un lavoro dignitoso e sicuro in città era in quella fase l’avvio della formazione attraverso corsi organizzati da cooperative convenzionate con la Città Metropolitana e il Comune di Napoli. Per l’attivazione dei corsi era necessaria una modifica all’articolo 33 del Codice del terzo settore che regolamenta il processo di assunzione dei lavoratori all’interno delle cooperative e che impedisce nuovi ingressi, se non in caso di turn over dei lavoratori in pensionamento. Una modifica che, però, poteva arrivare a seguito di interventi ministeriali e governativi. Nei tre mesi a cavallo tra il 2022 e il 2023, dopo diversi incontri a Roma e Napoli che ufficializzavano un pronto inizio della formazione, i corsi furono rinviati per delle generiche “complicazione tecniche”: le istituzioni di fatto rinnegavano gli impegni assunti con i disoccupati. La tensione per questo dietro front si concretizzò in una serie di azioni in città: blocchi stradali, cortei non autorizzati, occupazioni, tutti eventi letti dalla Procura come parte di un disegno preciso, che in termini politici era in realtà la volontà di mettere alle strette le istituzioni attraverso la lotta. Il reato di associazione a delinquere, inizialmente ipotizzato dalla procura, è infatti decaduto in fase di indagini preliminari, ma i capi di imputazione per le azioni condotte nei vari mesi sono stati riuniti in un unico grande processo, amplificandone di fatto la gravità. È lunedì, ma la mattinata comincia presto. Già alle 8:30 piazza Nazionale, al centro di Napoli, si inizia a riempire di bandiere. Si riconoscono quelle palestinesi e quelle delle realtà che hanno promosso la manifestazione, a cominciare da Si Cobas e Iskra. Il corteo è aperto dal camioncino per gli interventi e dallo striscione “La lotta per il lavoro non si processa. Liberi di lottare. Fermiamo il Ddl sicurezza”. La piattaforma di lancio della manifestazione intende infatti andare oltre la denuncia di una spropositata accusa per delle persone che lottano per un proprio diritto; lancia anche l’allarme rispetto alla gestione sempre più repressiva di ogni pratica di dissenso, da quelle pacifiche fino a quelle più conflittuali, sublimata dal provvedimento sponsorizzato dall’asse Meloni-Nordio-Salvini. Un po’ più dietro, dopo qualche cordone di sicurezza, spuntano le bandiere del gruppo sudamericano del Polo Obrero, poi quelle della FGC e dell’Usb. Gli spezzoni più numerosi sfilano però dietro i due striscioni storici dei disoccupati organizzati: i volti degli uomini e delle donne delle prime file riflettono la rabbia per le ultime uscite “a vuoto” dei tavoli istituzionali. I cori che risuonano attorno ai palazzi e nei vicoli attirano l’attenzione dei napoletani impegnati nel quotidiano tran tran. La polizia sorveglia il tutto, ma il corteo comincia con determinazione e senza problemi. Sono circa cinquecento, i manifestanti, quando iniziano a muoversi, percorrendo la rotonda di piazza Nazionale. Gli interventi dei militanti delle varie realtà presenti fanno spesso riferimento al decreto 1660, in via di approvazione al Senato. Ci si muove a passo lento, la strada da fare è molto breve. Si costeggia il perimetro del carcere di Poggioreale, vengono accesi simbolicamente dei fumogeni in solidarietà ai detenuti. Tra un intervento e l’altro c’è spazio anche per i giornalisti e le loro domande. Mentre il corteo avanza verso via Giovanni Falcone, però, arriva la notizia di un rinvio dell’udienza, per un rilevato vizio di forma nelle convocazioni. Una volta a ridosso dei padiglioni, i disoccupati e gli altri partecipanti al corteo si fermano. Salutano con fuochi pirotecnici, cori e canzoni i detenuti, spiegando al microfono il nesso tra la marginalità sociale, la condizione detentiva, la lotta per il lavoro e la dignità, le leggi sempre più dure da parte del governo contro chi fa attività politica. È poco distante, su un marciapiede di piazzale Cenni, che gli interventi conclusivi chiudono la manifestazione, in attesa che una nuova udienza venga convocata e che questo processo così deciso alle lotte sociali cominci. (angelo della ragione)
October 28, 2024 / NapoliMONiTOR