(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
È uscito la settimana scorsa nelle librerie, per le edizioni Carocci, il volume
di Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. Dalla
quarta di copertina: “L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha
prodotto cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il
paesaggio del centro storico e la stessa struttura socio-economica della città.
In questo contesto si muovono i soggetti al centro di questa ricerca : i grandi
enti del Terzo settore attivi in tre quartieri del centro – Sanità, Quartieri
spagnoli e Forcella – che oggi forniscono un ventaglio di servizi che va ben
oltre il classico intervento socio-assistenziale, operando sul crinale tra sfera
pubblica e mercato. Questi enti esercitano un’influenza crescente sulle scelte
dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni
egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città.
La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla
convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro
priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza
ostacoli le proprie attività. Queste dinamiche, sullo sfondo della “città del
turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi
enti nelle loro dichiarazioni programmatiche: non la vivibilità dei quartieri,
la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa,
lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili”.
Ne pubblichiamo a seguire due brevi estratti.
* * *
Gli enti di maggiori dimensioni presenti nelle tre aree che abbiamo esaminato
sono: la Fondazione di comunità San Gennaro nel rione Sanità, la Fondazione
Foqus nei Quartieri spagnoli e l’associazione L’Altra Napoli, operante sia a
Forcella che alla Sanità. Le caratteristiche principali di questi enti, che li
rendono un unicum rispetto al contesto socio-economico in cui operano, sono
sostanzialmente tre: la quantità di risorse di cui dispongono, fuori scala
rispetto agli altri attori associativi e più in generale rispetto a tutti gli
attori economici del territorio; le relazioni ad alto livello istituzionale e
imprenditoriale che sono in grado di attivare e rendere operative; la costante
(e benevola) attenzione mediatica che le loro iniziative riescono a sollecitare.
Sono i tre fattori decisivi, quelli che determinano un impatto sui territori di
riferimento, sul dibattito pubblico e sulle stesse politiche urbane che va ben
oltre le singole iniziative messe in campo e che gli altri enti (quelli
intermedi e quelli informali) non sono in grado di eguagliare se non
agganciandosi alla locomotiva rappresentata da questi enti maggiori, che
definiamo “ultracorpi”. Tali fattori sono poi al servizio di un’ideologia che,
seppur con differenze pratiche tra un’esperienza e l’altra, appare fondata su
principi e rappresentazioni comuni, che da un lato informano l’azione locale
degli ultracorpi, dall’altro ambiscono ad affermarsi in un campo più vasto, che
concerne le politiche di governo e la forma futura della città.
Gli obiettivi e gli strumenti che i dirigenti degli ultracorpi hanno messo a
punto nel corso del tempo, di pari passo con la crescita delle loro “creature”,
possono essere ricostruiti e analizzati attraverso i numerosi interventi in
pubblico, la pubblicazione di articoli e libri, le interviste rilasciate ai
giornali e ad altri media. Uno dei cardini della loro ideologia è l’insofferenza
per tutto ciò che riguarda l’azione pubblica. Nelle parole dei dirigenti degli
ultracorpi la parola stessa, “pubblico”, fa rima con burocrazia, invadenza,
lentezza, inconcludenza, e più in generale costituisce il termine di paragone in
opposizione al quale si autodefinisce con orgoglio la propria identità.
Scrive per esempio Rachele Furfaro, fondatrice di Foqus: “Le scuole Dalla Parte
dei Bambini hanno deciso nel 2012 di trasferire le proprie metodologie ed
esperienze all’interno di un quartiere povero e critico di Napoli, i Quartieri
spagnoli, […] hanno avviato il progetto, per poi costituire una fondazione a cui
ne è stata affidata la gestione e lo sviluppo. Il progetto di rigenerazione
urbana a base educativa gestito dalla Fondazione Quartieri spagnoli non nasce
quindi da una strategia di sviluppo pubblica, dal premio di qualche bando
europeo, né dall’iniziativa di qualche assessorato. Trova spinta ideativa (e
investimento iniziale) da una scuola”¹.
Padre Antonio Loffredo, ispiratore della Fondazione San Gennaro del rione
Sanità, sostiene: “Il potere pubblico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi,
codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune
non sa come gestirlo; ma dallo al quartiere, dico io. Facciamo come con le
catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono
essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di
comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze.
Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la
faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi
dovrò lasciare”².
Ancora più esplicito il manager Ernesto Albanese, fondatore dell’associazione
L’Altra Napoli, che finanzia progetti sociali e culturali tra il rione Sanità e
Forcella. Nel 2021, alla domanda di una giornalista sui conti in rosso e le
disfunzioni dell’ente municipale, risponde così: “[Si dovrebbe] iniziare a
trattare il comune di Napoli come un’azienda privata di servizi. L’azienda
privata ha una caratteristica importante: sceglie gli uomini e se non vanno bene
li cambia. Meccanismo che nella pubblica amministrazione spesso non può
avvenire, perché la politica per sua natura è compromesso e quindi
inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà politica e non con quella
economica”³.
[…] All’origine dei grandi enti che stiamo considerando, abbiamo tre soggetti
forti: la Chiesa cattolica, in una delle sue incarnazioni locali più dinamiche
(imprenditoriale e antistatalista); la scuola, nella sua declinazione privata,
sperimentale e progressista, fortemente imperniata sul concetto di impresa;
infine, la borghesia delle professioni dirigenziali, che in buona parte vive e
lavora fuori Napoli ma considera un punto d’onore la possibilità di contribuire
attivamente al “riscatto” della propria città. In tutti i casi, come abbiamo
visto, l’enfasi è posta con insistenza sulla soluzione imprenditoriale,
considerata sia per il suo versante decisionista, che consente di operare senza
troppi vincoli per “valorizzare” adeguatamente beni e servizi, ma anche per le
sue virtù emancipatorie, come stimolo ad assumersi delle responsabilità e di
conseguenza come occasione di crescita personale. Ogni azione intrapresa sarà
quindi immancabilmente indirizzata verso il “bene comune”, ma dovrà essere anche
conveniente, redditizia, remunerativa. Potremmo quasi evincerne che dove non ci
sia un utile economico allora mancherà la possibilità stessa di fare del bene.
* * *
In questa fase di pieno dispiegamento dell’industria turistica, superato anche
l’ostacolo alla mobilità globale rappresentato dalla pandemia, il discorso
pionieristico dei grandi enti del Terzo settore, ormai fatto proprio dalle
maggiori istituzioni cittadine, sembra arrivato al culmine della sua parabola:
come una trama di fondo solida e affidabile, esso incrocia e sorregge le
politiche pubbliche, incoraggiandole a proseguire nella direzione intrapresa,
quella della privatizzazione, della deregolamentazione, della crescita
illimitata. È il film che si proietta in ogni convegno, dibattito, inaugurazione
in cui i partner istituzionali si danno appuntamento – il sindaco, il vescovo,
il rettore, la giornalista, il manager del Terzo settore, l’assessora, il
sociologo, l’architetto, il prete imprenditore – per condividere in pubblico le
loro convergenti testimonianze. Ma se solo si cominciano ad analizzare i
fenomeni, ad ascoltare le persone, a connettere i rari studi a disposizione, lo
stesso film ci appare da una prospettiva diversa, con tutti i suoi elementi al
rovescio, come se lo guardassimo dall’altro lato dello schermo.
L’azione degli enti del Terzo settore, anche di quelli che dispongono di
maggiori risorse, nonostante una progressiva espansione, resta per il momento
subordinata alle scelte dei poteri pubblici, i quali, orientando in un senso o
nell’altro le risorse comuni – umane e finanziarie –, hanno ancora la
possibilità di incidere in modo determinante sugli assetti economici e sociali
delle comunità. I grandi enti possono fornire modelli e stimoli, influenzando
anche profondamente i rappresentanti politici, ma il grosso delle risorse e la
titolarità delle decisioni restano in capo a chi amministra la cosa pubblica. Di
questo, i maggiori dirigenti del Terzo settore hanno una chiara consapevolezza:
“Il Fondo [per il contrasto della povertà educativa minorile] – ha scritto Marco
Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i bambini – è una grandissima
opportunità […], ma nonostante i complessivi oltre 600.000.000 di euro messi a
disposizione è necessario che tali pratiche diventino politica pubblica; con ben
altre risorse, partendo dalla messa a sistema di quelle ordinarie, con una
visione temporale più lunga e articolata e ascoltando i bambini/e, i ragazzi/e,
il territorio”⁴. E così padre Antonio Loffredo: “Con il Terzo settore non
possiamo risolvere le cose. Possiamo dare dei segni di speranza, fare dei
piccoli laboratori per far capire che è possibile. Non dobbiamo mai stancarci di
farlo, ma chiaramente è lo Stato che ha le chiavi del cambiamento strutturale”⁵.
È innanzitutto per questo, come abbiamo visto, che i grandi enti indirizzano gli
sforzi del loro “fare politica” verso il campo dei decisori pubblici con
l’obiettivo di influenzarne le scelte secondo i propri interessi e valori. In
ogni città, nei singoli quartieri, l’insieme dell’azione associativa costituisce
un potenziale fattore di vitalità, uno stimolo alla mobilità sociale e alla
partecipazione civica; nella realtà, però, questa azione si spinge raramente
oltre un orizzonte paternalista, garantito dall’alto, in cui le priorità sono
stabilite da chi detiene il denaro e il potere. Le pratiche informali, che pure
mostrano come sia possibile la solidarietà tra pari, la partecipazione diretta,
la messa in discussione degli assetti dati, restano ancora troppo episodiche e
isolate per fornire una base su cui provare a costruire delle alternative. Nel
suo complesso, l’azione associativa non è stata in grado in questi anni di
incidere sulle condizioni di vita, sulle diseguaglianze strutturali, sulla
subalternità culturale degli strati marginali della popolazione; questo perché
non ha voluto (Terzo settore) o non è stata capace (gruppi informali) di
produrre trasformazioni politiche di più ampio respiro.
Nel frattempo, la conformazione spiccatamente imprenditoriale che hanno assunto
i maggiori enti del Terzo settore, e molti di quelli intermedi, ha trasferito
sul piano della convenienza economica, della competitività, della reputazione
mediatica, ogni aspetto dell’azione associativa che li riguarda. Nei grandi
enti, questo tipo di azione si è sempre più differenziata, affiancando
all’abituale sfera socio-assistenziale l’intervento in nuovi settori di mercato;
questo senza rinunciare alla consolidata rete filantropica che continua a
fruttare loro donazioni, finanziamenti diretti e in generale un’abbondanza di
risorse che, tra le altre cose, li colloca in una posizione di vantaggio
rispetto agli operatori con cui sono direttamente in competizione. A Napoli
queste prassi hanno trovato un terreno fertile nel contesto economico, culturale
e politico generato dall’impatto del turismo di massa sul centro storico della
città.
La dimensione imprenditoriale assunta da questi enti ha però bisogno di essere
continuamente alimentata e per farlo è necessario che il contesto in cui essa
fiorisce si espanda, allargando indefinitamente i propri confini. A Napoli
questo significa che i grandi enti del Terzo settore, che abbiamo definito
ultracorpi, sono stati e sono tuttora tra i più attivi e convinti sostenitori
della diffusione dei flussi turistici in ogni interstizio della città. La
responsabilità di questa espansione incontrollata, come abbiamo visto, ricade in
gran parte sulle istituzioni pubbliche, mentre i costi, le “esternalità
negative”, gravano sulle spalle di chi presta lavoro nei gradini più bassi della
fabbrica del turismo; e poi su quei nuclei familiari esposti senza tutele alla
riconversione turistica dell’abitare e all’impennata dei valori immobiliari;
ricadono inoltre sulla generalità dei residenti, che si trovano a dover dividere
risorse e servizi, già cronicamente scarsi, con un gran numero di visitatori
temporanei divenuti nel giro di poco tempo l’oggetto d’attenzione privilegiato
dei loro governanti.
I grandi enti, che pure avrebbero relazioni influenti e uditori qualificati per
farsi ascoltare, di questi “effetti collaterali” non parlano. Il loro discorso
non contempla lati oscuri, contraddizioni, problemi non risolti. È liscio,
levigato, percorso da una sottile euforia: come una lieve scossa elettrica, che
riattiva il corpo ma non fa danno. L’emancipazione, nella loro visione, si
conquista innanzitutto nel cimento imprenditoriale. La mobilità sociale si
realizza attraverso un processo di selezione naturale. Il loro modo di “fare
politica” è quindi rivolto verso un obiettivo ben preciso: la preparazione del
terreno più propizio allo sviluppo delle imprese; innanzitutto le loro, ma
inevitabilmente anche quelle degli altri.
Molti enti del Terzo settore sono infatti imprese a tutti gli effetti (o
consorzi di imprese, o incubatori di imprese) e, come tali, perseguono
innanzitutto i propri interessi. Le maggiori, come abbiamo visto, tendono ad
allargare i propri confini sommando, all’attività educativa e assistenziale,
altri campi d’azione e settori di mercato. Per farlo si dotano di apparati
sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, che lentamente fanno
sparire, sotto un’accattivante cortina di fumo, i dati concreti, gli obiettivi
reali, i referenti ultimi del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici,
lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non
fa eccezione. Nella città in preda a repentini cambiamenti, queste imprese si
battono per conquistarsi un posto al sole; la loro attività è votata al servizio
dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita e
dei valori immobiliari, la precarietà lavorativa, l’espulsione degli abitanti
dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la
cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte
ai danni strutturali arrecati da questo processo a una platea molto più vasta di
quella dei loro “beneficiari”.
Inoltre, questi ultracorpi non si limitano a fare impresa, ma con sempre
maggiore convinzione ambiscono a “fare politica”, ovvero a estendere i propri
metodi e valori in ambiti ancora più vasti. Essi dichiarano di lavorare per il
bene comune, ma gli interessi che descrivono come generali, se si getta lo
sguardo appena fuori dal loro giardino, si sovrappongono in molti casi a quelli
perseguiti da un manipolo di imprenditori che, nel contesto della “città del
turismo”, stanno accumulando influenza e profitti attraverso l’allargamento
dell’area del lavoro irregolare e della precarietà abitativa.
I grandi enti pensano di poter rimediare all’illegalità, alla speculazione, allo
sfruttamento diffusi nell’industria del turismo semplicemente attraverso il buon
esempio. Ma l’affermata virtuosità di questi enti, per esempio sul piano della
regolarità dei rapporti di lavoro, non si trasmette per contagio – come essi
invece lasciano intendere – ad altri enti o imprese attive negli stessi ambiti o
territori. Come l’azienda di moda dell’imprenditore napoletano Mario Valentino,
che negli anni Settanta esportava i suoi prodotti nei lussuosi atelier di Parigi
e New York, vantando l’impiego di trecento dipendenti con regolare contratto nel
moderno stabilimento delle Fontanelle alla Sanità, così oggi questi grandi enti
incassano le lodi e i riconoscimenti internazionali portando in alto il nome
proprio e quello dei loro quartieri; ma come la fabbrica delle Fontanelle era
attorniata da decine di bassi e sottoscala dove uomini e donne della Sanità
fabbricavano scarpe e borse in nero, inalavano collanti e si buscavano la
polinevrite, così i grandi enti fingono di ignorare che la “rinascita” dei loro
quartieri si sta realizzando sulla pelle della manodopera sfruttata
nell’industria del turismo e su quella di anziani e famiglie senza risorse, che
spesso vi abitano da generazioni e si vedono costretti a lasciare i propri
appartamenti per fare posto ai turisti.
_________________________
¹R. Furfaro, La buona scuola. Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza,
Feltrinelli, Milano 2022, p. 229.
²A. Polito, Paranza & C. I nuovi santi della Sanità, in inserto “Buone notizie”
del “Corriere della Sera”, 18 giugno 2019, p. 6.
³F. Sabella, Intervista a Ernesto Albanese: «Iniziamo a gestire il Comune come
un’azienda di servizi», in “il Riformista”, 16 novembre 2021.
⁴M. Rossi-Doria, Una comunità che apprende, in R. Quaglia, Quartiere educante.
L’esperienza della Scuola diffusa nei Quartieri spagnoli di Napoli, Zeroseiup,
Bergamo 2022, p. 10.
⁵G. Renzi, Dal rione Sanità un modello di sviluppo, in “L’Osservatore Romano”,
11 settembre 2023.
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Venerdì 17 gennaio il liceo Pitagora, al Rione Toiano, periferia di Pozzuoli, ha
ospitato l’incontro “Il coraggio di parlare. La forza di ascoltare”, promosso
dal Rotary Club Campi Flegrei sul tema della violenza di genere. All’evento
hanno partecipato diverse figure istituzionali: il sindaco di Pozzuoli Luigi
Manzoni, la presidentessa del Rotary Club Emilia Annunziata, l’assessore alle
politiche sociali di Pozzuoli Fabiana Riccobene; e poi ancora, tra gli altri:
Antonella Sica, presidente della commissione sulla violenza di genere del
Rotary, Shervi Haravi, attivista e funzionaria del ministero della giustizia, la
tenente Maria Virgilio, comandante della stazione dei carabinieri di Pozzuoli.
Un gruppo di studenti legati alla casa del popolo Villa Medusa di Bagnoli ha
organizzato quella stessa mattina un volantinaggio all’ingresso della scuola,
dove c’erano più di cinquecento tra ragazzi e ragazze, preoccupati soprattutto
dal dover entrare in tempo in classe per evitare grane.
Il volantino criticava l’ipocrisia dell’approccio istituzionale alla violenza di
genere. Gli studenti sottolineavano come la narrazione dominante si concentri
sulla “caccia al mostro” e sull’invito alla denuncia individuale, trascurando le
radici strutturali del fenomeno e i meccanismi di esclusione sociale che
colpiscono i soggetti più vulnerabili. Inoltre, veniva evidenziato il paradosso
di affidare l’analisi su un fenomeno così complesso a istituzioni come le forze
dell’ordine e il Rotary Club, elementi pienamente integrati in un sistema
sociale e di potere che ha una incidenza tutt’altro che secondaria sul problema
della violenza di genere.
Molto dura è stata la denuncia dei manifestanti contro le cosiddette politiche
istituzionali “di prevenzione”, incapaci di arginare la violenza, come
dimostrano i dati: solo nel 2024, in Italia, centodieci donne sono state uccise,
per lo più da un loro partner o familiare di sesso maschile.
La maggior parte degli studenti ha preso in consegna il volantino: qualcuno si è
fermato per chiedere informazioni, altri si sono detti d’accordo, ma non c’è
stato molto dibattito. I ragazzi dei diversi indirizzi – classico, scientifico,
scienze applicate – sembravano per lo più accomunati dagli zaini pesanti e
dall’aria assonnata e non sono mancati quelli che passavano oltre senza fermarsi
o gettando appena uno sguardo.
Giorgia, studentessa, ha spiegato di aver provato più volte a proporre la
nascita di un collettivo, ma di essere stata frenata dai rappresentanti di
istituto. La difficoltà ad aggregare gruppi anche piccoli di studenti è
certamente legata alle riforme scolastiche di questi anni, il cui il culmine
sembra essere quella Valditara, che stabilisce, tra le altre cose, la bocciatura
con il 6 in condotta: un provvedimento che limita ulteriormente la libertà degli
studenti, che fanno enorme fatica anche solo a pensare che si possa cambiare
qualcosa insieme.
La situazione strutturale del Pitagora è emblematica della difficoltà che hanno
gli studenti a elaborare una riflessione complessiva sulle condizioni in cui si
trovano a “fare scuola”: da tempo, qui, si ricorre per esempio al sistema della
“rotazione”, perché non ci sono classi per tutti. Una forte limitazione del
diritto allo studio, che però molti studenti percepiscono come un vantaggio:
meno giorni a scuola significa meno stress, meno interrogazioni e compiti
classe. Un’altra questione delicata riguarda i viaggi d’istruzione, che non sono
accessibili a tutti: le famiglie in difficoltà economica spesso non riescono a
sostenere le spese, rendendo queste esperienze, che dovrebbero essere formative,
un privilegio per pochi.
Obiettivamente difficile, in un contesto così ostico per lo sviluppo e la
condivisione di una coscienza critica come è la scuola oggi, che gli studenti
possano mettere in discussione il senso propagandato di certe iniziative, che
hanno come unico fine quello di rafforzare le relazioni istituzionali e di
potere. Lo stesso titolo, “il coraggio di denunciare”, più che analizzare le
cause più profonde del problema ha come unico obiettivo colpevolizzare chi
commette violenza. È come mostrare un quadro visibile a metà, oscurando le cause
sociali e culturali alla base del fenomeno, e l’ambiguo atteggiamento di forze
dell’ordine e istituzioni politiche, che tra l’altro sulla gestione patriarcale
dei rapporti sociali e professionali fondano buona parte del proprio equilibrio.
Le donne che non denunciano la violenza lo fanno anche, per esempio, per paura
di non essere credute o di non ricevere supporto dalle forze dell’ordine. A un
aumento delle chiamate al numero antiviolenza 1522 (quasi diciottomila solo nel
primo trimestre del 2024) non corrisponde una diminuzione delle violenze
sessuali e dei femminicidi. Anche i reati online, come sextortion e revenge
porn, sono cresciuti del 9% dal 2023.
Gli studenti che hanno protestato al Pitagora hanno chiesto che a esprimersi su
questi temi non siano sempre e solo soggetti esterni alla scuola, e percorsi di
autoeducazione: formazione degli insegnanti, presenza di psicologi e
psicoterapeuti, lavoro all’interno di spazi didattici e non, organizzato insieme
agli studenti e le studentesse. I nuovi fondi destinati alla già carente
educazione sessuale nelle scuole, invece, verranno usati (lo ha dichiarato il
ministro Luca Cirani) principalmente per formare gli insegnanti su fertilità e
prevenzione dell’infertilità.
Non è la prima volta che gli studenti di questa scuola si trovano a dover
affrontare interlocutori così ambigui: l’anno scorso, durante un altro incontro
dedicato alla violenza di genere, un tenente colonnello aveva definito “ottimo”
il sistema di sicurezza a tutela delle donne. Giorgia racconta di aver obiettato
a questo assunto, dato l’alto numero di femminicidi, criticando anche la scelta
di coinvolgere le forze dell’ordine in un contesto scolastico. Il tenente
colonnello, alzandosi con fare vagamente intimidatorio, e raccogliendo
l’approvazione dei docenti e di una parte degli studenti, le ha chiesto di
portare dati concreti a sostegno della sua tesi, affermando che avrebbe potuto
facilmente smentirli con le sue esperienze. Evidente già in quel caso fu
l’ipocrisia di coinvolgere militari (così come ricchi e influenti imprenditori,
al vertice di un sistema che alimenta e si fonda sulle disuguaglianze, comprese
quelle di genere) in queste iniziative, che presupporrebbero una capacità di
mettere in discussione la propria persona e il proprio ruolo sociale, cose che
queste due categorie non sembrano disposte a fare.
A ulteriore conferma di come le forze dell’ordine non possano essere un
interlocutore accreditato a esprimersi sul tema della violenza di genere, basta
guardare a quanto accaduto di recente a Brescia, dove le attiviste di Extinction
Rebellion hanno denunciato abusi da parte degli agenti, e raccontato di essere
state costrette a spogliarsi nude in questura, mentre gli uomini non hanno
subito lo stesso trattamento. Inoltre, le donne sono state obbligate a compiere
atti umilianti, come fare piegamenti sulle gambe davanti a un numero non
precisato di agenti, pratiche che alcuni tra i centri antiviolenza del paese
hanno condannato come vere e proprie violazioni dei diritti umani. (serena bruno
– laboratorio di narrazione)
(disegno di giulia landonio)
A giugno di oltre quindici anni fa, nel 2009, abbiamo occupato una casa
abbandonata con un gruppo di bambine e bambini in parte abitanti del posto, in
parte di altre zone del quartiere. Con loro abbiamo dipinto tutto quello che ci
sembrava che non potesse proprio mancare in una casa, un armadio gigante, docce,
rubinetti, lavatrici, librerie, un pesce rosso nella sua classica boccia di
vetro, uno stereo con le cassette che oggi non sapremmo come usare, una
televisione, una chitarra, un vaso con i fiori, un tavolo con acqua e bicchieri,
specchi, un lavabo sulla terrazza super panoramica per lavare e mettere a
scolare i piatti. Poi abbiamo fatto un grande gioco dei mimi, in cui loro hanno
liberamente preso possesso dello spazio usando tutto quello che volevano, come
volevano. Complice anche il gran caldo, le docce, le lavate di mani faccia
piatti, si sono sprecate, ma non è mancata la lettura di un buon libro seduti in
poltrona, una partita piuttosto sofferta del Napoli di Lavezzi Cavani e
Callejon, balli e saltelli vari, inclusa una danza al ritmo del cestello della
lavatrice, e non si sono dimenticati naturalmente di dare da mangiare al pesce
rosso.
Abbiamo racchiuso in un cortometraggio muto questi semplici gesti quotidiani
portati avanti con serenità, dolcezza, serietà, sebbene lo scenario in cui si
muovevano fosse uno dei luoghi considerati più precari per l’abitare: il quarto
piano della Vela Gialla di Scampia. I protagonisti hanno deciso tutto da soli, e
non a caso si sono concentrati sull’utilizzo di quello che più gli manca nella
vita reale, come l’acqua corrente soprattutto per i piccoli rom abitanti nel
campo vicino di Cupa Perillo e l’armonia di una giornata qualunque in una casa
qualunque.
Nella totale autogestione, ci hanno poi consegnato un finale poetico
affacciandosi da una finestrina dipinta in stile tirolese che apre a una vista
mozzafiato sulla Vela di fronte, la Celeste, quella che quest’anno, a luglio, ha
visto il crollo di un ballatoio con la conseguente morte di tre persone e decine
di feriti, soprattutto bambini.
Ma gli sguardi nonostante tutto fiduciosi di quei bambini del 2009 non potevano
prevedere questo triste futuro; quello degli adulti e dei pianificatori, più
consapevole della lenta catastrofe che si stava già consumando all’epoca, invece
forse sì.
I piccoli e le piccole italiane e rom che hanno partecipato oggi sono adulti che
nella maggior parte dei casi non hanno ancora risolto il problema dell’abitare,
per lo meno non nelle forme canoniche che siamo abituati a immaginare. Al
seguito dei loro genitori e delle loro famiglie, che non sempre hanno potuto
scegliere liberamente dove e come abitare, sono stati i testimoni diretti dello
scempio che per oltre venti anni si è consumato sulla loro pelle. Nelle Vele,
totale assenza di manutenzione, infiltrazioni, la goccia sulla testa nella
cameretta, pavimentazioni fragili dei ballatoi, scale assottigliate, sversatoio
di rifiuti, pregiudizi esterni diffusi. Nelle baracche, totale assenza di
servizi di base tipo fognature e acqua calda, acqua benevola e acqua malevola di
pioggia che allaga e infanga, freddo invernale fronteggiato con le stufe a
ghisa, pregiudizi esterni diffusi e stereotipi duri a morire. Passeggiando oggi
nella Vela Gialla che sta per essere svuotata, scavalchiamo cocci, balziamo in
fila indiana sui ballatoi pericolanti, inciampiamo nei ricordi, ritrovando al
quarto piano praticamente intatti i nostri armadi e i vasi dipinti pieni di
fiorelloni strani, portate per mano da chi prima ci abitava e oggi continua ad
andare su una delle terrazze per godersi il panorama, i tramonti, chiacchiere e
sigarette. E riaffiorano i momenti belli – le corse di gruppi di ragazzini da
una Vela all’altra, le spighe d’estate, i giochi d’acqua – di quella che è
(stata) casa e che ora che è murata val bene un pellegrinaggio, come se fosse
una tomba di famiglia a cui portare omaggi e dove far rivivere quelle memorie
che nessuna ruspa potrà cancellare.
Il lutto del trasferimento, il trauma della demolizione, la pena dello
sradicamento, tutti pesi di cui nessuno vuole assumersi responsabilità, tranne
tutte le dirette e i diretti interessati che faticosamente e con coraggio
pensano a come ricostruirsi una vita senza cadere nella disperazione. Non c’è
terapia, non c’è cura, non c’è ascolto per questi tormenti collettivi
innanzitutto interiori. Prima o poi si dovevano trasferire, si sapeva, guai a
portarla questa disperazione nei luoghi dove si prendono le decisioni, lì non
bisogna comportarsi da bambini ma essere seri e accettare questo peso della
storia – urbanistica – dell’intera città.
E allora perché il trasferimento non è stato organizzato con cura, rispetto e
competenze, nella giusta gradualità dei passaggi, trattando le persone come
persone, i bambini come bambini, i vecchi come vecchi, i malati come malati,
passando da una lentezza pachidermica a uno stato d’emergenza brutale? È una
delle molte domande che ci portiamo dietro ossessivamente che non avranno mai
una risposta, se non che tutto rientra nell’ordine della brutalità dei sistemi
di potere e burocrazia che ci governano.
Nel frattempo, strette in cerchio in una delle pochissime terrazze agibili, tra
lacrime e risate, ci godiamo qualche momento di una luminosa serata invernale
insieme e ci ricordiamo che la vita è fatta soprattutto di questi dettagli
preziosi che ci tengono unite e ci consentono di non andare in frantumi. (emma
ferulano)
(foto di leonardo galanti)
A Scampia si sta consumando un esodo silenzioso. Anche l’ultima delle tre Vele
rimaste in piedi è ormai quasi vuota. Una volta erogato il contributo di
“autonoma sistemazione” a chi lascia gli appartamenti, il comune di Napoli si è
lavato le mani di tutto il resto. Il crollo del 23 luglio scorso nella Vela
Celeste ha accelerato e stravolto le tabelle di marcia fissate con il programma
Restart Scampia. Nella Celeste gli abitanti non sono mai più rientrati. Da
settembre gli inquilini delle Vele Gialla e Rossa hanno ricevuto un preavviso
che annunciava la comunicazione, nelle settimane successive, dello sgombero ad
horas. Così si è completata la diaspora.
Non appena le persone lasciano l’abitazione, gli operai procedono a murarla. Da
quel momento in poi, e se gli abitanti risultano presenti nel censimento
realizzato dal Comune nel 2023, si attiva il sussidio – dai quattrocento ai
novecento euro, a seconda del numero dei componenti il nucleo familiare, della
presenza di anziani e disabili. Un sussidio che verrà erogato fino a che “le
esigenze abitative siano state soddisfatte in modo stabile”. In ogni caso, non
oltre il 31 dicembre 2025 e comunque non spetterà più “qualora l’esigenza
abitativa sia stata temporaneamente soddisfatta a titolo gratuito da una
pubblica amministrazione”. Per il sussidio sono state stanziate risorse per
circa tre milioni di euro (917 mila per il 2024 e poco più di due milioni per il
2025).
L’apertura di un cantiere per la costruzione degli alloggi che sostituiranno le
Vele è stata annunciata a inizio novembre. Il sindaco ha dichiarato che entro il
2026 saranno completati i primi duecentocinquanta appartamenti. La data di
ultimazione dei lavori è prevista per il 2027. Sono scadenze che suscitano non
pochi timori tra gli ex abitanti delle Vele, dal momento che l’erogazione del
contributo di autonoma sistemazione terminerebbe molto prima. Il presidente
dell’ottava Municipalità, Nicola Nardella, ha dichiarato però che nessuno deve
allarmarsi, perché un decreto del governo garantirebbe la continuità del
finanziamento fino a che l’ultimo alloggio di nuova costruzione non sia stato
consegnato.
Lo stesso Nardella ha affermato che la situazione di emergenza abitativa causata
dallo sgombero delle tre Vele riguarda 543 nuclei familiari, ovvero circa mille
e settecento persone. Di quale sarà il loro destino, però, nessuno sembra
preoccuparsi. Gli assistenti sociali sono comparsi al fianco della polizia
municipale solo per intimare agli irriducibili di sgomberare, ma nessun piano di
reale supporto è stato progettato, e tanto meno realizzato, per accompagnare un
esodo di simili proporzioni. Ancora Nardella – in questi mesi onnipresente sui
media locali – a fine novembre si è preso la briga di farsi intervistare dal tg
regionale unicamente per lanciare velate minacce contro una quindicina di
famiglie che ancora si attardavano a lasciare la Vela Gialla. “Bisogna uscire e
bisogna farlo in maniera rapidissima…”, ha intimato dal teleschermo.
(leonardo galanti2)
Del fatto che gli ex abitanti delle Vele non riescano a trovare chi affitti loro
un appartamento, nessuna istituzione sembra volersi fare carico. Al mercato non
si comanda. Nelle aree limitrofe a Scampia – corso Secondigliano, Melito, Miano
–, i proprietari stanno ponendo condizioni capestro, al di fuori della portata
di molte famiglie – due buste paga, tre mensilità anticipate –, quando non
apertamente provocatorie, come il divieto di portare con sé animali domestici e
addirittura più di un certo numero di bambini. In tanti si stanno arrangiando da
familiari e parenti, ma per quanto ancora potranno farlo? Qualcuno ha trovato
casa verso Giugliano, oppure direttamente dalle parti di Castel Volturno, a
chilometri di distanza dai luoghi di lavoro, dalle relazioni familiari e
amicali. Più della metà degli sgomberati sono minori. Dalle scuole di Scampia, a
partire da settembre, è cominciata una continua migrazione di allievi. Tutto
questo – la difficoltà a trovare una sistemazione, lo sradicamento forzato, il
percorso scolastico interrotto di centinaia di bambini – non è oggetto di alcun
accompagnamento. Il sussidio in tasca, e poi ognuno per sé.
Fatima, vent’anni, abitava nella Vela Gialla con la madre e il fratello. «A
settembre sono arrivati i vigili – racconta –. “Iniziate a prepararvi, perché da
un momento all’altro vi portiamo un’altra carta di sfratto immediato”. Questa
seconda carta ci è arrivata a fine ottobre. Ce ne siamo andati da casa un
venerdì mattina. Gli operai dovevano murarla, ma avevano altre case da chiudere
al piano di sotto. L’hanno murata il martedì successivo, ma era già entrato
qualcuno a prendersi quel che restava… Abitavamo lì dal 2007».
«Il sussidio è arrivato qualche giorno dopo – continua Fatima –. Ottocento euro
per tre persone: mia mamma, che è invalida, mio fratello di ventisette anni che
fa il barbiere e io che faccio la parrucchiera. Stiamo cercando una
sistemazione, ma qui in zona non si trova niente. Per il momento ci appoggiamo
dai miei zii a Miano, che hanno già quattro figli. Un giorno ci siamo fatti
tutti i vicoli intorno al mercatino di Secondigliano per chiedere se ci fossero
case in affitto. Una signora ci ha detto: “Andatevene, per la gente delle Vele
le case non ci stanno”. Alle agenzie diciamo che siamo di Mugnano, di Giugliano.
Poi ci chiedono le buste paga, ma chi ce le ha? Io lavoro a nero, e pure mio
fratello. Anche le mie amiche stanno avendo difficoltà. La mia vicina ha cinque
figli, qui non ha trovato niente, se n’è dovuta andare a Castel Volturno. Pensa
che a un’amica di mia mamma hanno chiesto: “Signora, quanti figli avete?” Lei ha
tre figli. “Ci dispiace, ne accettiamo solo due”. “E quest’altro che ne faccio,
lo devo buttare?”, gli ha detto lei».
(foto di leonardo galanti)
Gli abitanti delle Vele sono sempre stati trattati come umanità di scarto.
Abbandonati per decenni dentro edifici inabitabili – l’ultimo censimento del
2016 lo metteva nero su bianco, ma non accadde niente –, in quelle mura è
comunque trascorsa la loro vita, e per quanto abbiano lottato per decenni per
vederle andare giù, adesso staccarsene non è facile, soprattutto in vista di
destinazioni incerte e comunque precarie.
Elvira Quagliarella insegna da quarant’anni a Scampia. La sua scuola si chiama
Virgilio IV, un istituto che comprende scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria. In questi mesi ha provato a darsi da fare per alleviare la
situazione critica di molte famiglie dei suoi alunni, ma ha dovuto constatare
che le dimensioni dell’esodo in corso sopravanzano di molto la buona volontà dei
singoli individui. «L’amministrazione locale – racconta Elvira – aveva proposto
a ciascun nucleo un sussidio mensile, oppure la scelta di abitare in albergo.
Quasi tutti hanno scelto il sussidio perché negli alberghi sarebbero stati
costretti a lasciare la camera ogni mattina per rientrare nel tardo pomeriggio.
Per nuclei familiari che hanno spesso almeno tre-quattro bambini era
improponibile. Così da settembre hanno cominciato a cercare casa. Ma è successo
che nessun proprietario, né a Scampia, né a Napoli centro, né in provincia, si è
mostrato disposto ad affittare loro la propria abitazione. Si sono visti
chiudere le porte in faccia da tutti… Io ho provato a smuovere le mie
conoscenze, mi sono rivolta a vari gruppi ecclesiastici conosciuti grazie a un
progetto fatto a scuola: prelati, sacerdoti e altra gente del settore, chiedevo
se avessero abitazioni da affittare, ma sempre pagando; tutti mi hanno risposto
che non era nelle loro possibilità… Allora ho interpellato un gruppo WhatsApp di
circa cento persone; ho spiegato la situazione, ho chiesto aiuto, nessuno mi ha
risposto, tranne uno che mi ha parlato di una casa a Bagnoli a mille duecento
euro al mese… Ho chiesto anche ad altri gruppi e associazioni che fanno
volontariato nella zona di Giugliano, Qualiano, Lago Patria; anche lì mi hanno
promesso di interessarsi ma non è successo nulla. L’unico che si sta occupando
di queste famiglie è padre Alessandro, il parroco della zona, che ha aperto uno
sportello di ascolto e supporto, provando a fornire delle garanzie ai
proprietari, ma anche lì con scarsi risultati. Alla fine, la maggior parte di
queste famiglie sono state costrette a orientarsi verso la zona di Castel
Volturno, Baia Verde, Villaggio Coppola. Lì è terra di nessuno, e molte villette
e abitazioni sono gestite in modo equivoco. La conseguenza è che moltissimi
bambini sono stati costretti ad abbandonare la scuola. Io insegno in una quarta
elementare, ma sono la responsabile dell’inclusione per tutto l’istituto, e
conosco tantissime situazioni del genere: si tratta di un esodo enorme…».
«Alcune famiglie sono state anche truffate – continua Elvira –, hanno versato
tre mensilità anticipate e sono state derubate. Qualcuno è riuscito a trovare
casa a Giugliano, o dalle parti di via Stadera. Ma anche questi hanno dovuto
lasciare la scuola. Al momento, almeno il sessanta per cento dei bambini
dell’istituto ha cambiato scuola o non sta frequentando, perché dalla periferia
di Giugliano o di Marano è difficile raggiungere Scampia. La preside, grazie ad
alcune donazioni, ha noleggiato un pulmino da ventotto posti, ma i punti di
raccolta sono troppo distanti dalle abitazioni di questi bambini. L’autista ne
carica solo quattro o cinque ogni mattina… Molti si sono appoggiati dai parenti,
e intanto continuano a cercare. Per quanto precarie, per loro quelle case erano
un punto fermo. C’è gente che viveva lì da trent’anni, avevano la loro storia,
le loro amicizie. Le stesse donne, che spesso devono fronteggiare situazioni
drammatiche, riuscivano a fare gruppo. I bambini non ne parliamo, hanno perso la
scuola, gli amichetti… Ad agosto il Comune si è preoccupato di garantire gli
autobus per accompagnare queste famiglie al mare. La maggior parte non ne ha
usufruito, perché dopo il crollo non avevano nemmeno gli indumenti da mettere
addosso, non c’era la testa per andare al mare; quindi questi pullman hanno
viaggiato vuoti, addirittura fino alla fine di settembre, quando le scuole erano
iniziate da un pezzo; poi si sono fermati, ma a quel punto perché non usarli per
andare a prendere questi bambini sradicati, sparpagliati ovunque, e
accompagnarli a scuola la mattina?». (luca rossomando)
(disegno di marta fogliano)
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a numerose e trasversali manifestazioni
di giubilo relative agli avanzamenti del processo di bonifica e rigenerazione
dell’ex area industriale di Bagnoli. È bene sottolineare, però, che nonostante
lo sfiancamento dovuto a trent’anni di interventi fatti male o non fatti, e a
uno sperpero di denaro pubblico senza pari, sarebbe sbagliato considerare ognuno
di questi avanzamenti, a scatola chiusa, una buona notizia.
Martedì 19 novembre i giornali hanno parlato di una transazione tra Invitalia e
Basi 15 srl (gruppo Cementir): il lotto dell’ex area industriale di proprietà
dell’azienda, l’ultimo facente capo a un soggetto privato, è stato acquisito da
Invitalia a titolo gratuito, in modo da poter essere inglobato nel progetto di
risanamento. La transazione è stata commentata in maniera entusiasta dal sindaco
di Napoli e dal governo, come esempio di collaborazione virtuosa tra imprese e
istituzioni. Gaetano Caltagirone, proprietario della Cementir, ha detto di aver
voluto “rendere un omaggio a Napoli, alla sua storia e al suo futuro”. In
realtà, ancora una volta, è il soggetto privato a guadagnare da questo accordo,
dal momento che il ritiro dei contenziosi sgrava la Cementir dall’incombenza
degli altissimi costi di bonifica e smantellamento degli impianti, di cui ora si
dovrà occupare Invitalia (senza contare il ritorno di immagine frutto di una
campagna di glorificazione fino a questo momento pienamente riuscita).
L’atmosfera che ha accompagnato la firma dell’accordo ricorda quella con cui,
qualche mese fa, era stata accolta la notizia dell’arrivo di una nuova pioggia
di soldi destinati alla bonifica (soldi che sono stati stanziati ma non versati,
e che quindi arriveranno, se tutto va bene, in varie tranche) e persino della
modifica della legge 582 che – con la scusa delle difficoltà presunte della
rimozione della colmata a mare – eliminava l’obbligo di ripristino della
morfologia naturale della linea di costa bagnolese.
Intanto, a fine ottobre, la Corte di Appello di Napoli ha assolto tutti gli
imputati “perché il fatto non sussiste” nel processo-bis sul presunto disastro
colposo ambientale causato da Bagnoli Futura, le cui indagini erano iniziate
quasi vent’anni fa. Con la sentenza, per la quale la Procura di Napoli non farà
neppure ricorso in Cassazione, il tribunale ha stabilito che il danno c’è, ma
non sono stati gli imputati a provocarlo (e allora chi, non è chiarissimo…).
Ma veniamo al futuro. Il PRARU, il programma per la bonifica e la rigenerazione
urbana approvato nel 2017, è un accordo tutto sommato accettabile, soprattutto
se si considerano le proposte avanzate negli ultimi trent’anni sull’area e
alcune balzane idee tipo quelle – sponsorizzate per più di un decennio dalle
giunte comunali di “sinistra” – di utilizzare la colmata a mare per
manifestazioni e mega-eventi sportivi, o le continue riletture al ribasso dei
piani urbanistici elaborati negli anni Novanta. Ed è accettabile soprattutto
perché recepisce due istanze che la comunità locale ha portato avanti con forza,
quella per il parco urbano e per una grande spiaggia pubblica e gratuita tra
Nisida e Pozzuoli (anche se la modifica della 582 la mette oggi pesantemente in
discussione).
Lo stesso piano, però, si fonda su alcuni presupposti, pericolosamente
confermati da quanto accaduto in questi mesi. Il primo riguarda il rapporto tra
le opere fatte per produrre profitto e quelle che realmente vanno nell’interesse
dei cittadini: se per le prime Invitalia ed ente commissariale stanno avanzando
alacremente (per esempio i grossi parcheggi in costruzione al momento), o stanno
preparando il terreno per avanzare, le seconde sono quotidianamente messe in
discussione e rese incerte da una serie di fattori, a cominciare dalla
precarietà dei fondi per realizzarle. Un altro punto è una caratterizzazione
della condizione dei suoli che appare ancora superficiale e che rischia di
collocarsi in continuità con gli scempi del passato per i quali la magistratura
è stata costretta più volte a intervenire. In ultimo, e non certo per
importanza, vi è la tendenza per cui si continua a chiedere e a spendere una
quantità sproporzionata di soldi pubblici per la bonifica (scegliendo tecniche
che molti esperti considerano inutilmente dispendiose) aprendo la strada agli
interventi dei privati nel momento in cui ci sarà da capitalizzare, magari con
la scusa che “non ci sono abbastanza soldi perché tutto quello che si è
realizzato sia a gestione pubblica”.
Messi in relazione uno con l’altro, i fatti citati mostrano una
pericolosa continuità con le pratiche politico-istituzionali che finora hanno
causato il fallimento del progetto Bagnoli, in un quadro in cui l’opposizione
sociale, che sempre ha rivestito un ruolo nell’arginare i tentativi
speculativi sul territorio, vive un momento di difficoltà organizzativa (anche
alla luce delle prescrizioni previste dal Ddl 1660 nei confronti delle lotte
sociali, a cominciare da quelle che riguardano le cosiddette “grandi opere”).
Non sarà facile rilanciare, in questo contesto, i processi di monitoraggio e
proposta politica, nonostante gli enormi sforzi da parte delle comunità del
territorio, i cui intenti partecipativi sono disincentivati e spesso frustrati
dalla chiusura su sé stesse delle istituzioni. La necessità di una nuova
stagione di mobilitazione che coinvolga tutte le realtà sociali e che rompa
l’isolamento di chi oggi lotta sul territorio è pressante, ed è forse l’unica
strategia possibile per salvare il salvabile in un processo di sviluppo urbano
che appare oggi, nel bene e nel male, finalmente in marcia. (riccardo rosa)
(disegno di escif)
Venerdì 29 novembre, sette del mattino. Un anziano in giallo fluo corre a ritmo
sostenuto lungo via Felice Pirozzi, Pomigliano d’Arco, costeggiando un alto muro
protetto dal filo spinato. Ha tutta l’aria, questo posto, di una zona militare,
e infatti è lo stabilimento napoletano della Leonardo Spa, la multinazionale
pubblica che opera nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza,
non disdegnando di produrre neppure armi nucleari. È uno stabilimento chiave,
quello di Pomigliano, per il settore “aerostrutture” dell’azienda, che pure,
nonostante gli oltre centocinquanta milioni di euro di fondi pubblici drenati
negli ultimi anni, è stato messo in discussione dallo stesso amministratore
delegato Cingolani, che aveva paventato un possibile scorporo e addirittura la
costruzione di “nuove alleanze” (tradotto vuol dire la dismissione del comparto,
ritenuto evidentemente non abbastanza produttivo quanto la fabbricazione di
armi).
Ai cancelli della Leonardo ci sono un centinaio di persone che, da un
lato, portano solidarietà ai lavoratori dell’azienda, dall’altro denunciano il
coinvolgimento dell’Italia e della sua industria pubblica nell’economia di
guerra, l’unica risposta individuata a livello internazionale alla crisi
economica strutturale. È un tema centrale, questo, nella giornata di sciopero
che ha coinvolto tutto il paese, e che ha portato in piazza rivendicazioni
eterogenee, così come differenti aree sindacali e politiche. A Napoli ci sono i
lavoratori e i disoccupati, che rivendicano il diritto a un’esistenza dignitosa
e alla difesa del proprio salario; i ricercatori precari universitari, attesi da
un biennio, il prossimo, di tagli devastanti dopo l’orgia di contratti Pnrr; i
solidali con il popolo palestinese, oggetto di un genocidio che va avanti da più
di un anno a dispetto della carta straccia prodotta, in ammonimento a Israele,
dalle istituzioni internazionali; attivisti e militanti che evidenziano
l’abominio legislativo del Ddl 1660 in via di approvazione, che instaura una
serie di misure repressive nei confronti di chiunque si appresti a rappresentare
il proprio dissenso in pubblico, anche in maniera pacifica.
In Campania la giornata comincia presto, a Pomigliano, con le code di auto
davanti allo stabilimento, le bandiere del sindacato SiCobas, dei Carc, del
Fronte della gioventù comunista e del laboratorio politico Iskra, e soprattutto
con due grossi striscioni che rallentano l’ingresso in azienda dei lavoratori, a
cui la polizia garantisce un corridoio d’accesso protetto. Il primo recita: “Con
gli operai della Leonardo. Contro le guerre della Leonardo”; il secondo: “Luigi
libero! Liberi di lottare contro la guerra”. Il riferimento è ovviamente a Luigi
Spera, il pompiere che insieme a un gruppo di persone aveva manifestato nel
novembre del 2022 fuori la sede palermitana della Leonardo, finendo nel carcere
di massima sicurezza di Alessandria con l’accusa di “attentato (un fumogeno,
ndr) per finalità terroristiche”. Nonostante la Cassazione abbia fatto cadere
l’ipotesi del fine eversivo, Spera si trova ancora in prigione, nell’attesa che
i giudici riconfigurino le misure cautelari. Anche a Napoli, d’altronde, la
Procura aveva emesso nel mese di luglio quattro misure cautelari per altrettanti
attivisti che, tra le altre cose, avevano partecipato a un presidio davanti la
Leonardo.
Una volta lasciata Pomigliano, intorno alle nove, il gruppo di manifestanti si
sposta a Napoli, dove a piazza Mancini è in partenza il corteo convocato dai due
sindacati confederali Cgil e Uil per protestare contro la manovra di bilancio
proposta dal governo. Lavoratori del commercio, funzionari pubblici, insegnanti
e metalmeccanici sfilano lungo corso Umberto I sulle note dei pezzi di Rino
Gaetano. Tra i metalmeccanici ci sono gli operai della Ex-Irisbus di Avellino,
quelli di Stellantis di Pomigliano e Pratola Serra e quelli della Leonardo di
Nola e Pomigliano.
Lavoratori e organizzazioni sindacali chiedono un aumento dei salari agganciato
all’inflazione, si oppongono ai tagli alla sanità, all’istruzione e ai servizi
pubblici e rivendicano una politica industriale per una transizione socialmente
sostenibile. A rischio sono soprattuto i posti di lavoro – quasi ventimila in
Campania – negli stabilimenti di assemblaggio dell’ex gruppo Fiat e quelli
nell’industria della componentistica automotive. I lavoratori denunciano il
taglio di 4,6 miliardi al Fondo automotive previsto dalla legge di bilancio e
chiedono che le risorse pubbliche erogate a favore dell’unico costruttore di
automobili presente nel paese, la multinazionale a trazione francese guidata da
Carlos Tavares, siano vincolate alla produzione di nuovi modelli negli
stabilimenti italiani e alle garanzie occupazionali. «Il gruppo pubblicamente
sostiene che si impegnerà a produrre in Italia nuovi modelli, ma di fatto
continua a privilegiare gli stabilimenti di assemblaggio localizzati nell’Europa
dell’est e i rapporti di fornitura con aziende situate in Nord Africa, alle
quali l’ex gruppo PSA era storicamente legato», racconta un delegato sindacale
della Fiom dello stabilimento di Pomigliano.
All’altezza della sede centrale della Federico II il corteo si imbatte in un
presidio organizzato da varie realtà in lotta. I manifestanti accendono torce ed
espongono striscioni sulla scalinata che affaccia sul corso. Altri
distribuiscono volantini e intonano cori. Sono più o meno i lavoratori e gli
studenti che erano dall’alba a Pomigliano, a cui si sono aggiunti i precari
della ricerca, che scioperano – pur non avendo un contratto stabile – contro un
altro disegno di legge, quello firmato dalla ministra Bernini (qui un resoconto
dettagliato del provvedimento a cura dell’associazione dottorandi e dottori di
ricerca in Italia). Dal corteo arriva qualche applauso di supporto, ma si
intravede anche qualche espressione perplessa, soprattutto da parte dei
dirigenti dei confederali, troppo spesso chiamati alla piazza invano dalle
realtà più conflittuali, e che invece non convocano uno sciopero unitario (delle
tre sigle principali è stata la Cisl, questa volta, a sfilarsi dalla
mobilitazione) da quasi dodici anni. A piazza Borsa, nel frattempo, i lavoratori
della Gls, protagonisti di una vertenza assai complicata, e organizzati dal
sindacato Sol Cobas, dispiegano un lungo striscione per denunciare gli ingiusti
licenziamenti subiti a causa delle rivendicazioni portate avanti negli ultimi
mesi.
Dopo l’azione all’università, i due cortei tornano a separarsi. Il primo sfilerà
fino a piazza Matteotti; il secondo si unirà a quello che nel frattempo è in
partenza da piazza Municipio, dove sono radunati i lavoratori che fanno capo
alle sigle del sindacalismo di base. «Siamo in sciopero – spiega al microfono un
delegato dei Cobas – contro il genocidio in Palestina, ma anche contro le
politiche di guerra in Italia, e la corsa agli armamenti direttamente collegata
ai tagli di questa legge di bilancio. I sindacati confederali si sono ricordati
che lo sciopero è un’arma per i lavoratori, ma tacciono sui diritti negati ai
sindacati conflittuali e ai loro iscritti, come quello di svolgere assemblee sui
luoghi di lavoro».
Gli interventi vanno avanti ancora per un po’, poi la pioggia allontana anche i
più irriducibili tra i manifestanti. Molti di loro sono attesi da una nuova
giornata di lotta domani, a Roma: il corteo nazionale contro il genocidio in
Palestina e il massacro della popolazione libanese. Il concentramento è previsto
per le 14 in piazza Vittorio. (giuseppe d’onofrio / riccardo rosa)
(foto di redazione)
Dopo sette mesi di battaglie contro l’assenza di ogni regola contrattuale, il
lavoro nero e carichi di lavoro disumani, i lavoratori della logistica in
Campania, sulla strada tracciata nel decennio precedente al centro-nord, hanno
cominciato a cambiare la propria condizione. Partita dai lavoratori della Gls,
tale battaglia sta contagiando operai di altre aziende per arrestare le pratiche
di super-sfruttamento imposte finora dai padroni. Una situazione inaccettabile
per chi controlla la Gls in Campania (la TEMI di Francesco Tavassi) che ha
scatenato un’offensiva contro i protagonisti di questa lotta: provvedimenti
disciplinari pretestuosi, sospensioni dei lavoratori sindacalizzati, infine,
meno di una settimana fa, i licenziamenti di più di sessanta facchini, con
l’obiettivo di distruggere la rappresentanza sindacale e tornare a imporre un
dominio incontrastato.
Gli operai hanno risposto a muso duro, senza farsi intimorire. Tra la notte del
14 e la giornata del 15 novembre vi è stato prima il blocco del centro di
smistamento regionale in Campania gestito direttamente dalla Gls Enterprise e
poi lo sciopero nazionale che ha riguardato tutti i magazzini da nord a sud;
mercoledì 20 il blocco dell’hub Gls di Marcianise, e altre iniziative sono in
cantiere sul piano locale e nazionale, fino al ritiro di licenziamenti,
sospensioni e provvedimenti disciplinari. “A nessuno dovrebbe sfuggire la
rilevanza dello scontro in atto per il futuro dei rapporti tra capitale e lavoro
in Campania e per tutto il meridione – scrive in un comunicato il Sol Cobas che
organizza i lavoratori in Gls -. Se la lotta degli operai della logistica
riuscirà a respingere le provocazioni padronali può trasformarsi in uno stimolo
e incoraggiamento per i tanti lavoratori sottoposti a trattamenti salariali e
normativi anche peggiori e che non trovano la forza per organizzarsi e lottare a
loro volta. […] È decisivo che intorno a questa vertenza si crei un clima di
solidarietà e di consenso da parte degli altri lavoratori e degli attivisti
anticapitalisti”.
Per un confronto sul significato di questa esperienza e la possibilità di
contribuire a un suo rafforzamento è convocata oggi alle ore 18 una assemblea
nei locali dell’ex Asilo Filangieri, in vico Maffei 4, Napoli.
Fotografie di Mario Spada
Nel pomeriggio di ieri un gruppo di lavoratori dell’azienda Gls, organizzati nel
sindacato Sol Cobas, si è radunato davanti la sede dell’Unione Industriali di
Napoli, a piazza dei Martiri, e ha esposto un lunghissimo striscione con
scritto: “Ordini con un clic, le mie ossa fanno crac. Corro sempre, ‘o pacco
pesa, pochi soldi a fine mese. Mo’ basta!”.
I lavoratori denunciano continui licenziamenti e sospensioni di massa legate
allo stato di agitazione che da mesi portano avanti per ottenere il rispetto dei
contratti, in particolare su scatti di anzianità, malattie e infortuni, una
retribuzione più equa, condizioni di lavoro generali umane.
In Italia la Gls è presente con oltre centocinquanta sedi e tredici centri di
smistamento, per un fatturato che supera i centocinquanta milioni di euro annui.
(foto da: spina tremula)
Fino al 31 dicembre sarà possibile visitare Spina Tremula, la mostra di Mario
Spada e Gaetano Ippolito allestita negli spazi del centro Chikù (largo della
Cittadinanza attiva – viale della Resistenza, Comparto 12) a Scampia. Insieme
all’esposizione, quindici giovani della città verranno coinvolti in un
laboratorio di narrazione e di fotografia stenopeica. Martedì 12 novembre, alle
12:00, sempre da Chikù, sarà possibile incontrare e discutere con gli autori
della mostra.
Spina Tremula è il lavoro presentato il 24 ottobre nella sede di Chi rom e chi
no da Mario Spada e Gaetano Ippolito, artisti napoletani di casa al Centro di
fotografia indipendente di piazza Guglielmo Pepe, in zona Porta Nolana. Spada ne
è fondatore e insegnante; Gaetano, cresciuto nell’area nord, vi è entrato come
studente e ora insegna anche lui, specializzato nelle pratiche di sviluppo e
stampa in camera oscura. Se appare evidente la differenza generazionale in
Gaetano e Mario, entrambi i loro lavori sono realizzati a Napoli e partono dalla
raccolta di migliaia di fotografie. La selezione qui riunita corrode i confini
tra le due sequenze per la scelta di abbandonare l’ordine autoriale. Ragionano
entrambi sulla possibilità della perdita del nome, confondono le ricerche per
smarrirsi e spostare chi osserva; e chi legge, a partire dal titolo.
La firma che sgomita per accedere agli spazi espositivi del mondo dell’arte e
del mercato, a Napoli e altrove, dove bandi, call e residenze basano festival e
campagne di produzione sul principio della competizione, trova spazio di rivolta
in Spina Tremula. Lo stesso vale per la produzione del lavoro durante il
processo di realizzazione. Una sincerità asciutta e reciproca vive nel confronto
quotidiano tra i due. Ciascuno ha scelto per l’altro le immagini da selezionare
e da escludere per la costruzione della mostra, portando a confondersi i due
sguardi sulla città. “Nelle opere si vuole uscire da uno sguardo confortevole –
incide Spada – su una città che non è possibile raccontare attraverso la
fotografia”. Il suo lavoro è radicato nell’incertezza; le fotografie non
descrivono, ma fanno sussultare direttamente la vista, e tremano non soltanto
nello scatto, ma amplificano tale tremore sino al corpo eretto di chi guarda.
Arrivare a chiedersi: se questa non è la città che viene raccontata, e neppure
quella che conosco, dunque dove ci si trova, per dove arrivare? La posizione è
altresì spinosa, e tremula; si abbassa china sulle zampe del cane che incontrano
i piedi minuti del neonato; e si apre al cielo, affrontando la gravità del tuffo
dall’alto; sta alle spalle di una muta alata, piccola e pronta all’incontro con
il paesaggio scuro; avverte posizioni laterali, del passeggero attratto
dall’incavo del vagone, che distrattamente possono sfuggire allo sguardo
addomesticato.
La possibilità di veder stampate in tali dimensioni e in qualità fine art queste
fotografie può provocare l’inciampo di percorsi di vita di ragazzi e di ragazze
che quotidianamente attraversano il centro Chikù; chissà che qualcuna e
qualcuno, di fronte a queste non si innamori dell’atto, e trovi nei laboratori
che verranno avviati nel centro la possibilità di comunicare le proprie
inquietudini. Raggiungere lo sguardo di più ragazzi potrebbe essere il
proseguimento della tensione sprigionata da questa iniziativa, alimentando il
discorso e l’incontro intorno alla fotografia, che in quanto scrittura con luce
non si riduca alla stampa posizionata, ma che allacci un percorso cominciato
dalla postura dell’artista che sceglie di essere occhio testimone, e di non
voltarsi di fronte agli eventi quotidiani speciali, orrendi, semplici o normali,
ma di sostare prossimo a questi, qualificandoli nel quadro, tramite ciò che sta
al di fuori, ciò che sta alle spalle, nella creazione di un proprio tempo che
tenta di sabotare il dispositivo. La mostra è per Spada anche un’occasione che
consente di guardare a muro le fotografie, per alimentare la motivazione a
cercare gli ultimi fondi che mancano alla pubblicazione dell’atteso libro Spina,
dopo un anno di lavoro di editing condiviso con Patrizio Esposito.
La mostra rientra nella cornice dell’Ecomuseo diffuso di Scampia, un tentativo
di unire il patrimonio materiale e immateriale del quartiere, che attraversa lo
spazio pubblico con uno sguardo critico che taglia la neutralità apparente
rispetto la narrazione dei luoghi, e risalta le trasformazioni avviate dal basso
e contro le possibilità negate a quegli spazi a oggi chiusi e inaccessibili,
ancora una volta privati ai cittadini.
L’ultimo lavoro apparso in città di Gaetano Ippolito era stato installato al
Giardino Liberato, per i due eventi Family Jewels curati da Chiara Pannunzio.
Insieme a Lia Morreale, Gaetano aveva allestito la stanza come fosse l’occhio
saturato dallo stratificarsi delle immagini di violenza, che nell’esporsi si
abitua. Centinaia di immagini al muro, a terra tre schermi di televisori
catodici, mostravano i resti dei materiali dai quali le immagini venivano
estrapolate. Uno di questi una scritta: nell’invito a prenderne parte
attivamente. Invito alla distruzione. Nello strappare le immagini, e portarle
con sé.
Spina Tremula, citando l’intervento di Maurizio Zanardi durante l’apertura,
vuole “fare inciampare quella maledetta fotografia della città. L’immagine di
Napoli non compare mai nelle foto di Spina. Napoli viene dimenticata. Solo così
è possibile ricordarla, attraversandone le membra scritte con la luce”.
(leonardo galanti)
(disegno di martina di gennaro)
L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers
les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo
dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la
seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua
analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo
saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura
come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si
basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani
Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente
a Gaza e in Libano.
Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia
di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio
della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare
confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di
lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i
vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”.
La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune
istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su
larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone
di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’),
suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di
intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una
decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”.
Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno
all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria
militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti
recenti.
Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha
visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone,
nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un
totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle
vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto
la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La
direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in
possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la
procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono
arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti
antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno
del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una
trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.
In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e
rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla
Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo
dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di
queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri
interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia,
congedandoli dopo vaghe promesse.
Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono
cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle
famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o
comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove
si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto.
Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case
promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi
racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che
rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli
alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per
assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non
sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta
di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di
nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma
l’Asl non aspetta».
L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli
abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i
nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della
palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare
e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente
utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità
di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo
muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente
dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli
abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù
dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono
diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono
precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha
accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un
nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è
un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello
quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la
corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono
accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male?
Sono mesi che stiamo così».
Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie
dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale
Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante
racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta
ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i
documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso
principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il
traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi,
invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a
poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine
ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di
stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a
fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti
all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro
le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che
le videocamere non funzionano».
In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni,
violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si
dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in
un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli
schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo
caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente
nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo
spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto
questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al
contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un
muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali
giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto
che non si sa bene cosa significhino.
L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più
gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli
ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io
amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come
piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga.
Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra».
Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la
stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a
Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di
vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo
avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese,
minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non
avessero lasciato l’edificio pacificamente.
Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il
Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato.
Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene
scandito da intimidazioni e incertezze.
In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno
della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di
dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare
Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi,
mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che
si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di
spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi
effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente
e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia
dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a
scomparsa”. (barbara russo)