(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
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(disegno di mario damiano)
15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la
trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli
nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica
nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le
altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca
convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza
per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie
Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per
Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che
accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi
prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che
obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della
sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e
scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al
mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio
di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa.
6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione
che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo
genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città
catalana.
Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato
contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi
ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del
resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni
di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se
ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience
televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene
spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I
finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro,
mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto
perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa
América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il
lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono
portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare
volontariato.
Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex
vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano
esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande
parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per
tutti.
Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è
operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte
presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio
pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe
essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è
limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento
barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno
ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i
pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da
venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non
hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno
continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo.
11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di
associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex
Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla
competizione.
Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare
il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa
ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de
Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca.
Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti
all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi
militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori
universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano
magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca
il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia
libera.
Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio
Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone,
sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero
del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato
presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel
documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo
metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori
e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che
chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti,
associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene
che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale
per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura
quadruplicare”.
20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna
l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che
fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le
prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per
Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di
risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla
realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei
nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo
dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un
commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come
“contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari
alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa
cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma
non ci sono i soldi per fare questo intervento”).
Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede
poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul
molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti
barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali
(lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a
una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle
questioni non può neppure discuterne.
24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di
“visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una
“collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è
una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente
stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo
ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori
locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al
grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto
“resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi,
e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport.
1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con
l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio.
Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di
dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con
le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte
dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con
vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta
chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della
fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci
cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli
inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però,
rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo.
Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto
il mondo quello che sta succedendo qui”.
8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo,
direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive
dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia,
paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per
l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata
centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura
a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima
accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco
(“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento
delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente
appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione
alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver
informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la
mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella
presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una
vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di
costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un
grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la
baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e
yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa
per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
(disegno di martina di gennaro)
(segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo
nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il
suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da
piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le
arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma
le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di
essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti
anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche
di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a
quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e
tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere,
Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è
bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io
a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che
faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un
regalo di ceramica».
Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di
Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della
madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche
il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e
l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in
casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo
quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il
lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che
il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un
quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue
attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo
in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare
da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi
nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde
pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La
Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino
delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro
area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche
del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle
che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice
del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a
Scampia.
A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti.
Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme
a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna.
Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori,
figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto
ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono
allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto
numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di
parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le
donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche
il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua
figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello
stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul
lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una
sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile
somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle
foto dal telefono.
Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita
di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita
dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese
di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva
di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a
causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a
stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più
di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a
Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio
in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la
testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla
testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito
alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di
ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto
bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco:
mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu
culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco
strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è
dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta
di Rosa è riuscita molto bene.
O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO?
Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli,
aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei
manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che
associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione
psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato
unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la
cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta
dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì
all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di
trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della
riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova
considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto
sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò
al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale
psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò
i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di
riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –,
niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e
dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia:
perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti
palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro».
Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che
Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi
rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un
centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente
[…]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona».
Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio
del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di
Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona,
perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si
fa ogni giorno sui territori».
Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i
gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e
sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a
farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu
entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che
facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo
proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche
Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di
avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e
conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li
separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare
inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”,
dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i
pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le
innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni,
come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di
Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria,
l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e
soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del
Gattablu.
Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una
contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato
un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte
collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura:
il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio
non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del
quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del
Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione,
scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per
rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la
quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il
principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere.
Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e
da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare
pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la
zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di
“rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi
sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono
invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi.
La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo
slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio
clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un
concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure
professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle
degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non
fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e
centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di
licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto
di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima
del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri
operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute
mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco
avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal
prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per
non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori
artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel
tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega
Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che
sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo
andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il
momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del
battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate
a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le
scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare
un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà
quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh…
combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte
andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’
‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che
aiutiamo il quartiere…».
Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra
ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la
mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro,
un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il
Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le
fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in
diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata.
Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è
“itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico
a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui
Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e
mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in
cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno.
Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele
stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno.
Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi
decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e
Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né
aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla
cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di
decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a
lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie
palestinesi. (maria reitano)
In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le
interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio
2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23
aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e
11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista
del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal
Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella
ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione
Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La
Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta
pubblicamente il 27 settembre 2024.
(disegno di martina di gennaro)
Lucia è figlia del sarto del campo Arar di Poggioreale, ex deposito di residuati
bellici diventato nel dopoguerra uno degli insediamenti di baraccati della città
di Napoli. «Con Mirella abitavamo da piccoli a Poggioreale; e Mirella era il
nostro… faceva la scuola a tutti i bambini delle baracche. […] Eravamo tutti
piccolini quando c’era Felice, Mirella… E dopo tanti anni, l’ho incontrata al
Gridas; e lei mi ha abbracciata forte; ha detto: “Guarda un po’! Tu sei
Lucia!”».
Mirella La Magna e Felice Pignataro – che nel 1981, insieme ad altri, fonderanno
il Gridas, Gruppo Risveglio dal Sonno, stabilendosi nel centro sociale del rione
Monterosa di Scampia – erano arrivati al campo Arar nel 1967, dando inizio a una
scuola popolare ispirata alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani,
che prese poi il nome di Scuola 128. Come ha scritto anche Felice in Pasquale
Passaguai e altri racconti dalla Scuola 128, Mirella ricorda spesso che per
illuminare la baracca utilizzavano una lampada a gas, ma per le proiezioni,
anche se solo per un’ora o due alla settimana, non potevano fare a meno della
corrente elettrica, offerta proprio dalla baracca del sarto.
È l’anno scolastico 1968-69 e nella baracca 128 si fa scuola e si organizzano
assemblee e mobilitazioni per il diritto alla casa. Nel novembre 1969, la scuola
ha un improvviso calo di frequenze: le famiglie baraccate stanno finalmente
ottenendo le case e si stanno trasferendo. Alle 186 famiglie presenti nel campo
Arar alla fondazione della Scuola 128 sono state destinate le nuove case
popolari costruite a Secondigliano, vicino il rione Monterosa, le case Ises,
realizzate dall’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Nel ’69, ci sono
moltissime occupazioni di case popolari da parte di persone senza fissa dimora o
che abitavano in alloggi impropri. Secondo Antonino Drago, che nel 1974 riassume
in un testo le inchieste dei volontari sui campi baraccati di Napoli e le lotte
per l’assegnazione delle case, si tratta di circa novecento alloggi in tutta
Napoli. Le rivendicazioni si risolvono però in un sussidio mensile per gli
occupanti e in trasferimenti forzati di baraccati e altre assegnatarie nelle
case appena liberate, che come sottolineano Mirella e Felice “erano tutte
fetenti, senza vetri alle finestre, né acqua, né fogne, né luce elettrica, né
strade, all’altro capo di Napoli”.
Seguendo i trasferimenti, anche Mirella e Felice spostano la Scuola 128 e
trovano posto in uno scantinato delle nuove case Ises. Da questo momento in poi,
gli sradicamenti di persone dai quartieri in cui sono nate verso nuove zone di
lottizzazione edilizia, sconosciute, isolate e senza alcuna infrastruttura,
segnano l’urbanizzazione di Scampia e la vita di tante sue abitanti. «Io sono
venuta all’età di sette anni al Monterosa – spiega Lucia –; dove, prima, Scampia
era tutte terre; e le mie palazzine, dove abitavo [nel] ’70, erano le ultime
palazzine… le ultime; […] c’era il pullman, l’autobus 111, era l’ultima fermata;
e poi era tutto campagna: e che aria che c’era!».
ERA TUTTE TERRE
Nella casa di tre stanze del rione Ises, Lucia trascorse infanzia e adolescenza
con i suoi sei fratelli e sorelle e i suoi genitori. Cominciò a lavorare come
sarta, affiancando il padre nel lavoro. A tredici anni trovò lavoro come
parrucchiera, poi come macchinista in una fabbrica conciaria. A diciotto anni,
qualche mese prima del terremoto del 1980, andò via dalla casa dei genitori, si
sposò e, insieme a un gruppo di persone che voleva ottenere le case in nuova
costruzione a Scampia, occupò un ex sanatorio nel Vallone San Rocco, Villa
Caputi. «Volevamo le case… sono uscita pure sul giornale a fare lo sciopero, co’
‘na panza tanta. […] Eh, andavo a fare lo sciopero a piazza Municipio, io ero
incinta di otto mesi. Occupavamo i pullman…».
Dopo il terremoto, abitò ancora in occupazione in una scuola a Piscinola. «Sono
stata occupata là, avevo la bambina di diciassette giorni, stavo allattando. La
rimanevo a mia cognata e andavo là a scuola. Poi, dalla scuola, uscì questa casa
e sono andata a occupare questa casa: non c’erano le porte, non c’erano le
fontane, non c’erano i vetri, non c’era niente, abbiamo fatto tutto noi».
Dopo sei mesi di occupazione in un appartamento ai Sette Palazzi – rione di
Scampia nei pressi di quella che solo successivamente diventerà la stazione
della metropolitana – rientrò nella graduatoria per le case popolari. Si sarebbe
dovuta trasferire di nuovo in un altro quartiere, ma rifiutò, riuscendo poi a
ottenere l’assegnazione di quella casa, in cui ancora oggi abita con la sua
famiglia. Lucia mi racconta che all’inizio non voleva stare ai Sette Palazzi.
Rispetto al rione Ises, caratterizzato da dimensioni architettoniche a misura di
vicinato, il nuovo rione le sembrava troppo grande e dispersivo. «Mo, male a chi
me la tocca casa mia. Io rimango, fino alla morte. Esco da casa mia morta!».
Marco è di un paio d’anni più giovane di Lucia e anche lui si trasferì a Scampia
all’età di circa sette anni, ma da un altro quartiere di Napoli, Ponticelli. La
sua famiglia ottenne la casa in un rione costruito tra la fine degli anni
Sessanta e i primi anni Settanta, appena dopo il rione Ises, e conosciuto oggi
come “le Cappe”. Marco mi spiega che, poiché la zonizzazione della legge 167 ha
successivamente frammentato il quartiere in lotti distinti da lettere
dell’alfabeto, le persone impropriamente pensano che il modo di definire quel
rione derivi dal “lotto K”. Quello è invece il lotto U e la toponomastica con
cui lo si identifica si riferisce alla forma a “K” degli edifici. Marco abita
ancora in quella casa, nell’edificio a pianta semicircolare con i balconi tondi
che si affacciano sui campi sportivi dell’Arci Scampia e, oltre via Fratelli
Cervi, sul Parco Corto Maltese e sul Giardino dei Cinque Continenti e della
Nonviolenza, un tempo discarica abusiva in un cantiere edile abbandonato, oggi
giardino rivendicato dalla rete di associazioni Pangea di Scampia, informalmente
costituitasi nel quartiere. Gli chiedo che cosa si veda dal suo balcone: «Del
quartiere che vedo? Gente buona e gente cattiva… e poi vedo ‘e cose della
Gattablu, che abbiamo cambiato noi».
Il Gattablu, centro diurno di riabilitazione di Scampia, è negli anni diventato
famoso nel quartiere per aver associato, grazie a laboratori artistici
collettivi, educatori e operatrici socio-sanitarie illuminate, l’arte pubblica
alla riabilitazione psico-sociale e per aver diffuso a Scampia, e non solo,
installazioni artistiche negli spazi pubblici e sociali. Nel tempo, dallo stesso
balcone, Marco ha assistito all’urbanizzazione di quel rione: quando ci si
trasferì da bambino, c’erano le case e basta, intorno neanche le strade. «Perché
era tutt’ terre, tutte terre: e noi giocavamo sulle terr… sul terreno; non
c’era… purtroppo, calcetti, non c’era niente; con le bici, giocavamo per strada,
era terra però. […] Tutte terre, tutte terre: andavamo pure a coltivare le
arance; le arance, la verdura; noi ragazzi andavamo a prendere la verdura…».
Anche Simona conserva la memoria rurale di Scampia. Anche se molto nitida, è una
memoria tramandata più che vissuta, dato che Simona è di una generazione più
giovane di Lucia e Marco. Si è trasferita anche lei a Scampia da bambina,
proveniente da San Pietro a Patierno, all’inizio degli anni Novanta. Mi confida
che ancora oggi le capita di sognare la sua vecchia casa. La famiglia non poté
più rimanere in quell’appartamento e si spostò nella casa popolare in cui
abitava la nonna di Simona e in cui sua madre aveva trascorso l’infanzia. È
infatti sua madre a raccontarle com’era Scampia. «Erano tutte terre. Infatti,
Scampia era un borgo rurale, erano solo terre, si coltivava e basta… poi vennero
cacciati i contadini per fare… […] La Villa dei Serpenti, o la Villa
dell’Imperatore, è stata abbattuta all’inizio degli anni Sessanta per fare
spazio a strade e palazzi. È rimasta solo quell’aiuola al centro là, ma quella
doveva essere bellissima…».
Simona abita nello stesso rione di Marco e anche lei è stata testimone della
trasformazione dei luoghi vicini. Tra i suoi ricordi, c’è la fatica, ma anche
l’orgoglio, di trasportare litri d’acqua fino al giardino di Pangea, quando gli
allacci dell’acqua non c’erano e gli alberi piantati sulla discarica venivano
ostinatamente innaffiati con i secchi. L’acqua è arrivata due anni dopo, nel
2018, e l’evento eccezionale è stato riconosciuto dalle attiviste e abitanti che
avevano preso in cura lo slargo abbandonato come “miracolo dell’acqua” a opera
di San Ghetto Martire, carro allegorico creato dal Gridas e Santo Protettore
delle Periferie.
Tra le persone che intervisto, chi è arrivata a Scampia dopo il terremoto da
zone della città più vicine come Marianella e Piscinola, lega il ricordo rurale
a queste ultime e a Scampia quello dei “palazzoni” da poco costruiti. Luca non
ricorda l’anno in cui è arrivato a Scampia. Sa che quando ci fu il terremoto
abitava a Marianella con i suoi genitori, che morirono quando lui era ancora
molto piccolo. A Scampia arrivò con una delle sorelle e la sua famiglia,
trovarono casa in occupazione nella Vela Rossa. Luca mi racconta che nelle Vele
succedevano sempre “tarantelle” e che lui e la sorella venivano continuamente
minacciati perché lasciassero la casa. Si sono poi trasferiti nelle case nuove,
quelle costruite nel lotto delle prime tre Vele abbattute e consegnate nel 2016.
Oggi, dalla casa nuova, Luca può affacciarsi sulla Villa di Scampia, il parco
Ciro Esposito.
Alla famiglia di Carla invece, originaria di Piscinola, la casa fu assegnata già
nel ’74, nel rione don Guanella. Carla però vi si trasferì solo anni dopo,
proprio nell’80, uscita dal collegio in cui aveva trascorso tutta l’infanzia con
la sorella. La madre le aveva raccontato che quando arrivarono in quella casa,
al contrario di quanto accadeva spesso nel quartiere, i lavori di costruzione
erano stati completati. Mancavano solo gli ascensori e loro abitavano al settimo
piano. Così, all’inizio, suo padre portò sulle spalle la lavatrice e altre cose
strettamente necessarie, mentre i mobili li sistemarono dopo che si erano
trasferiti, un po’ alla volta, pagandoli a rate con quello che i suoi genitori
guadagnavano facendo il muratore e la fruttivendola. Sara non ha bei ricordi di
Scampia, me ne parla poco. I suoi ricordi d’infanzia sono tutti legati a
Marianella: quello è il suo quartiere. Fu costretta a trasferirsi a Scampia con
la sua famiglia nelle Case dei Puffi, o lotto P, subito dopo il terremoto. Mi
racconta che li “appoggiarono” lì temporaneamente, in attesa che fosse
riconosciuta loro l’assegnazione di un’altra casa.
Sara aveva diciassette anni. Usciva solo per andare a lavorare in una fabbrica
di borse a Marianella e fare qualche commissione. In quella casa di due stanze
da letto e un bagno rimase con i suoi genitori, il suo ex-marito e i suoi primi
due figli fino al ’96, quando finalmente la sua famiglia ottenne il “rientro” a
Marianella, in una casa, questa volta, che Sara riconosce come sua. «È
bellissima, è una bella casa. È chiamato il Parco delle Rose, perché papà poi ci
piaceva piantare e piantò le rose… Sta l’insegna fuori: Parco delle Rose».
(maria reitano – continua…)
(disegno di bruttebestie)
La struttura al civico 1 di vico Trinità delle Monache, edificata nel 1600 per
ospitare un convento e adibita negli ultimi due secoli a ospedale militare, è
oggi conosciuta come il Parco dei Quartieri Spagnoli, uno spazio di 26 mila mq
ben celati dalle costruzioni successive, dal vicolo che costeggia le sue mura,
dal silenzio interno rotto solo dai motorini e dalle auto che scendono di qui
per arrivare a una delle strade più “appese” di Napoli: via Pasquale Scura nel
quartiere Montesanto.
Dal 1999, anno in cui il Demanio ha ceduto a titolo oneroso per vent’anni
l’enorme spazio al comune di Napoli, all’Università Federico II e all’Istituto
Suor Orsola Benincasa, ci sono stati tentativi di integrazione del luogo con il
resto della città ma con tempi mai certi e contraddistinti spesso da chiusure.
Un primo processo di progettazione partecipata è avvenuto nel 2016 quando la
Commissione europea ha ammesso Napoli, insieme ad altre città europee, al
progetto “2nd Chance – Waking up the sleeping giants”, nell’ambito del programma
internazionale Urbact III, con l’obiettivo di confrontarsi sul tema del riuso
dei grandi immobili abbandonati o parzialmente utilizzati ed elaborare strategie
e piani di azione locale. Nel 2018, durante la conferenza stampa per la chiusura
della fase partecipata, l’allora assessore al diritto alla città, Carmine
Piscopo, riportò alcuni dei risultati e gli obiettivi ancora da raggiungere
riassunti nel recupero di tutta la rete ecologica dei percorsi che dalla Certosa
di San Martino arriva alla struttura dell’ex ospedale, il completo recupero
degli spazi interni, oltre alla generazione di nuove economie tra cittadini e
istituzioni.
Nel 2023 si torna a parlare dell’ospedale militare con un nuovo accordo
temporaneo, stavolta non oneroso, tra il Demanio e la nuova amministrazione
comunale, finanziato nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo “Napoli
– Centro Storico” con sei milioni di euro per la riqualificazione delle aree
verdi e di alcuni edifici del complesso SS. Trinità delle Monache all’interno
del Parco. “Community Hub – Incubatore di cittadinanza attiva” è il nome del
progetto, simile nelle sue fasi a quello del 2016. C’è stata una call to action
(2024) rivolta alle proposte dei cittadini con incontri e dibattiti con i
progettisti che dovranno deciderne la fattibilità e in ogni caso rendere
possibile la fruizione del parco e dei locali entro il 2026, pena la perdita del
finanziamento.
Nel marzo scorso, durante un’indagine preliminare sulle aree verdi, gli agronomi
chiamati dal Comune hanno constatato la pericolosità di circa venti tra le
specie arboree presenti, per cui si è reso necessario un intervento di messa in
sicurezza e la chiusura del parco. Trattandosi di un bene vincolato non è chiaro
se esista anche un vincolo paesaggistico e quindi se ci sarà poi l’obbligo di
piantare altri alberi dopo l’abbattimento. Questa volta i tempi per l’intervento
e la riapertura del parco sono stati relativamente più brevi perché, se da
sempre mancano le risorse per la manutenzione ordinaria, grazie al finanziamento
del CIS è invece possibile attivare subito quella straordinaria. Il parco è
stato riaperto il 5 giugno scorso.
LA GESTIONE PRIVATA
Se una parte dell’ex ospedale militare fatica a trovare un’identità che risponda
alle richieste e ai bisogni dei cittadini, un’altra spiccatamente più
commerciale non ha avuto difficoltà a esprimersi in meno di un anno.
All’inizio del 2024 l’Agenzia del demanio ha infatti affidato per quarantotto
mesi alla società privata Urban Value s.r.l., l’edificio principale del
complesso, per una estensione di circa 7.500 mq. E così l’estate scorsa, con
l’avvio dei lavori, in tanti nel quartiere hanno assistito al “risveglio” del
gigante. I camion dell’Asia hanno sgomberato gli enormi spazi da faldoni zeppi
di documenti, probabilmente risalenti all’attività dell’ex ospedale, mentre i
cortili hanno accolto le piante di banano cresciute nel palazzo Fondi in via
Medina, sede del precedente intervento della società Urban Value a Napoli.
L’edificio non ha subito abbellimenti né interventi strutturali ma solo le prove
di carico per permetterne l’apertura al pubblico. Una nuova umanità ha
cominciato a frequentare il complesso, mostre d’arte, musica dal vivo e mercati
sono stati organizzati negli spazi de La Santissima, il nome scelto per questo
contenitore, anzi questo “hub” come si legge dalla descrizione sui social.
Dopo quattro mesi di attività, a seguito di un controllo della polizia
municipale durante un evento privato di musica elettronica, alcune sale della
Santissima sono state sottoposte a sequestro giudiziario preventivo per la
mancanza di autorizzazioni. Riguardo l’accaduto i responsabili hanno diffuso a
mezzo stampa numerose dichiarazioni per riportare l’attenzione sulla complessità
del progetto e sul lavoro in corso: “Da più di un anno lavoriamo con fondi
privati per riaprire e dare nuova vita a uno spazio rimasto chiuso per oltre
trent’anni. E ci stiamo ancora lavorando. La Santissima è un progetto in
divenire, che cresce giorno dopo giorno, e di cui oggi si percepisce solo una
parte del potenziale”. Improvvisamente la città e le sue diverse anime hanno
perso Filippo e il Panaro, così commentavano i custodi rimasti a presidiare il
malandato cancello del parco su cui sono stati apposti i due provvedimenti.
LA TERZA VIA. I COMITATI DEI PARCHI PUBBLICI
Oltre alla gestione privata e ai tentativi istituzionali di riqualificazione del
Parco esiste una terza via, una visione comune del verde portata avanti
caparbiamente dai cittadini dei diversi quartieri della città, la comunità dei
parchi pubblici. Cristiano è un educatore, collaborava al doposcuola dello
Scugnizzo Liberato, nell’ex carcere Filangieri, e in questo contesto ha
incontrato alcuni dei gruppi che poi hanno dato vita alla comunità dei parchi
pubblici. “I comitati nascono alla fine del 2024 – racconta – dalle esperienze
di alcuni parchi pubblici e in particolare il San Gennaro alla Sanità, in cui
erano previsti dei lavori nelle aree verdi di cui si voleva conoscere la natura
e la durata. Esistevano già delle comunità che hanno deciso di organizzarsi per
mettere in relazione le esperienze e muoversi meglio nel dialogo con le
istituzioni. Anche la travagliata scrittura di una regolamentazione del verde da
parte del consiglio comunale ha acceso l’interesse dei cittadini che vogliono
essere coinvolti nelle decisioni. Si sente forte la preoccupazione di vedere
ulteriormente ridotto lo spazio all’aria aperta, come è accaduto con la
questione abitativa e la fruizione del suolo pubblico nel centro storico. Si
protesta contro l’approvazione del regolamento comunale del verde perché, avendo
letto la bozza gli attivisti vedono nella parola ‘gestione’, riferita ad
associazioni e soggetti privati, il pericolo di creare luoghi con un utilizzo
limitato da parte degli abitanti. Inoltre la possibilità che la gestione di
terzi possa durare fino a dieci anni viene considerato un tempo davvero lungo
per un affidamento”.
Nel comunicato della Commissione salute e verde del Comune si legge della
conclusione di un percorso di confronto con i rappresentanti dei comitati
cittadini e delle associazioni ambientaliste. A fronte di diverse criticità e
dubbi espressi dalle associazioni, soprattutto sul tema del possibile
coinvolgimento dei privati nella gestione e/o manutenzione dei parchi cittadini,
la presidente Saggese ha chiarito che la gestione del verde, così come il
servizio di guardiania nei parchi, resteranno integralmente in capo al servizio
pubblico, escludendo ogni forma di privatizzazione o speculazione economica. Ciò
che potrà invece essere oggetto di collaborazione tra pubblico e privato saranno
le attività di manutenzione del verde urbano, sempre senza finalità di lucro e
coerenti con le possibilità offerte dal regolamento sul mecenatismo. “Conclusa
questa fase di ascolto – continua Cristiano –, bisogna aspettare che il
regolamento venga votato per capire se le istanze dei cittadini sono state
ascoltate o meno, in particolare il punto 3 della bozza riguardante la gestione
privata temporanea delle aree verdi che abbiamo chiesto di rivedere”.
Le proposte dei comitati riguardano anche alcune pratiche che in passato hanno
funzionato, come la manutenzione di una parte del verde affidata ai disoccupati
organizzati del progetto Bros, spesso abitanti degli stessi quartieri dove
andavano a intervenire, da cui poi sono stati allontanati e spostati alla
manutenzione stradale fuori città. “Una buona gestione è possibile perché
l’abbiamo vissuta – sostiene Cristiano –. Oltre al progetto Bros, va ricordato
che a oggi circa settecento persone sono state formate per la cura del verde ma
non hanno mai iniziato a lavorare. Una nuova platea di disoccupati per i quali
si è investito in formazione senza un chiaro obiettivo di occupazione. Per
fortuna nell’ultimo incontro con la commissione erano presenti anche loro a
rendere chiaro che oggi ci sono tanto le risorse quanto i lavoratori. Le
pratiche per assumere queste persone non vanno avanti e nemmeno c’è una
richiesta alla regione Campania per riavere i Bros, circa milleduecento persone,
magari per una sperimentazione in alcuni quartieri, un investimento che
porterebbe benefici anche a livello sociale”. (grazia della cioppa)
(disegno di ottoeffe)
Io e Paola ci saremmo dovute incontrare dopodomani, ma il suo spettacolo è
saltato a causa di una cisti tendinea alla mano e una brutta cervicale.
«Solitamente insorge intorno ai quarant’anni», mi dice con un sorriso strozzato
ma tenace, lo stesso con cui ha affrontato gli ultimi cinque anni in alcune
delle tante aziende, disseminate tra Napoli e Caserta, che producono conto terzi
per i grandi brand del lusso. Se ne contano circa settemila in quest’area. La
regione Campania, che copre il quindici per cento della produzione calzaturiera
nazionale, è una delle nove regioni europee con il maggior numero di dipendenti
nel settore.
Sono appena le otto di sera e Paola già si strofina gli occhi dalla stanchezza,
mi ricorda che domani deve svegliarsi presto e quindi mi affretto a chiederle
come è iniziato il suo percorso. «Quando mi sono diplomata – dice –, la mia idea
era di proseguire con l’accademia di moda, mi sarebbe piaciuto cucire vestiti di
scena». Nonostante conservi ancora a casa macchina da cucire, busto sartoriale e
cartamodelli, molto presto ha dovuto fare i conti con la realtà: quindicimila
euro l’anno la retta necessaria per accedere alle accademie di moda, per lei
insostenibile – «però mi avrebbero regalato matita, squadretta e album con logo
dell’istituto», sottolinea ironicamente.
Così, scorrendo gli annunci sui siti di lavoro, forse anche per restare
aggrappata a quel sogno, si è ritrovata alle porte di un’impresa calzaturiera
nell’hinterland a nord di Napoli. «Mio nonno ha fatto questo mestiere tutta la
vita, ricordo ancora l’odore nauseante di colla in casa. Ironia della sorte sono
stata l’unica in famiglia a seguire le sue orme. Alla fine, è come se fossi un
po’ una designer delle scarpe».
All’esterno dell’edificio neppure un’insegna col nome della ditta, ma solo una
targa impolverata con su scritto “tomaificio”. All’interno non è raro che alcuni
dei trenta dipendenti – per lo più donne e senza contratto – svengano per via
delle esalazioni provenienti dai collanti e dal taglio della pelle, che l’unico
finestrone semiaperto del piccolo stabile non riesce a filtrare. «Nella prima
azienda – continua Paola – ho trascorso solo sei mesi, lavoravo dalle 8 alle 17
per venti euro al giorno, quindi poco più di quattrocento euro al mese.
Producevamo per Ferragamo e Vuitton. All’inizio ero eccitata di produrre per
queste grandi firme, quasi non mi sentivo all’altezza, poi sono dovuta scappare:
la vista è iniziata a peggiorare, ho scoperto dopo per via dell’assenza di
aeratori vicino ai macchinari che erogavano colla, sempre senza etichetta».
La produzione si suddivide in grandi commesse da circa trecento pezzi a cui
lavorano una decina di banconiste, svolgendo affannosamente anche più fasi del
processo; e una produzione più selettiva a cui lavorano solo in poche operaie,
spesso le più anziane. Nonostante Paola non avesse esperienza nel settore,
nessuna tra queste ultime le ha mai insegnato come svolgere correttamente il suo
compito, nel timore di essere sostituite da una giovane tirocinante
eventualmente capace di svolgere più mansioni, più velocemente. Quando poi, a
causa di consigli “inesatti”, ha danneggiato più di un paio di scarpe, attirando
su di sé l’ira e gli insulti del datore di lavoro, ha compreso l’unico
imperativo da tenere in conto: non fidarsi di nessuno.
Nonostante l’ambiente ostile, è in quei sei mesi che ha maturato buona parte
delle competenze che le hanno permesso di approdare nella seconda azienda, in
cui lavora da quattro anni, il primo con un contratto di rimborso spese, gli
ultimi tre con uno di tirocinio. «Qui le cose vanno meglio: ho un contratto con
ferie pagate e malattia, si svolgono visite mediche periodiche e controlli da
parte dell’ispettorato del lavoro e dell’azienda committente». Eppure, qualcosa
non torna ancora: la busta paga segna sei ore al giorno per milleduecento euro
mensili, ma Paola in fabbrica ne trascorre otto per ottocento euro al mese, lo
stesso prezzo di uno solo delle centinaia di stivali di Hermes e Vuitton che
lasciano la fabbrica quotidianamente. Il capannone, in provincia di Napoli, è
molto più grande e ospita fino a settanta dipendenti, anche in questo caso in
maggioranza donne, tutte con forme contrattuali differenti (le neoassunte sono
retribuite appena venticinque euro al giorno). Diversamente dall’azienda
precedente, la produzione è automatizzata e avviene in manovia: tra banchi molto
stretti scorre un nastro, lungo il quale la singola addetta svolge una sola fase
produttiva, a un ritmo che (in)segue le richieste dell’azienda committente. «È
questa la cosa disumana; se, per esempio, dobbiamo produrre cento scarpe abbiamo
a disposizione cinque minuti per ogni fase, ma se la settimana successiva la
commessa è di trecento o quattrocento paia, la caporeparto aumenta il ritmo, e
quindi ti ritrovi a svolgere la stessa operazione in due minuti». Questo perché,
mentre gli ordini più grandi sono evasi in Asia, al mercato europeo, che può
sfruttare il sistema di distribuzione su gomma, sono destinati ordini più
piccoli e brevi, che rendono impossibile pianificare la produzione e inducono a
ripiegare su subappaltatori e lavoro a domicilio. Come testimoniano alcuni
produttori nel report Clean Clothes Campaign, tutto il sistema moda si fonda su
una profonda asimmetria di potere contrattuale: da un lato l’azienda committente
e i rivenditori impongo il prezzo, con contratti che vincolano unicamente al
rispetto degli standard qualitativi e delle tempistiche di consegna, e non un
impegno sulle quantità da produrre. Dall’altro i produttori accettano prezzi
bassi per non essere estromessi dal mercato, operando con un margine di profitto
tra il cinque e il dieci per cento, corrispondente a pochi centesimi a pezzo,
che il marchio rivende a un prezzo decuplicato. Ai fornitori non resta dunque
che puntare sulla quantità, ma a risentirne in termini di salari e di salute
sono le lavoratrici: «All’inizio – racconta Paola – per recuperare uscivo anche
alle sette di sera, poi il corpo si abitua, ma molte non riescono a reggere,
vivono tutti i giorni con l’ansia: alcune sono tornate a casa piangendo, altre
iniziano a lavorare prima che suoni la sirena o non vanno in bagno per tutto il
turno».
Anche il suo di corpo sembra mostrare i primi segni di cedimento, ostacolandola
sempre più nell’unica attività che la sottrae al grigiore di quello stabile e al
fracasso delle macchine da cucire. Me lo racconta lei stessa quando le chiedo a
cosa pensa durante il turno: «Io metto le cuffiette con la musica e immagino le
coreografie di ballo, balli di gruppo, di coppia. Non ci sono in fabbrica, c’è
il mio corpo ma non la mia testa. Penso a quello e basta, perché in realtà io là
non ci voglio stare».
La sua insofferenza, oltre che dalle pessime condizioni salariali in un settore
che costituisce il cinque per cento del Pil nazionale, pare essere motivata
proprio dall’ambiente di lavoro, che sembra accomunare entrambe le sue
esperienze. Le aziende assumono principalmente donne, molto anziane o molto
giovani: le prime hanno iniziato a lavorare a domicilio quando avevano appena
dodici anni, spesso attendendo anni prima di vedersi riconosciute una qualche
forma di retribuzione; per le seconde, giovani madri poco più che ventenni, il
salario costituisce solo un’integrazione secondaria del reddito familiare. «Lei
vent’anni, lui trenta, contratto a tempo indeterminato, casa, una brava ragazza.
Ma che gli manca? Niente. Lei, che lo conosce da dieci anni, che gli manca?
Tutto, dipende da lui anche per la macchina. Mi dicono “sono felicissima, ma
tornassi indietro…”, allora forse non lo sei veramente, penso io». Tutte poco
scolarizzate, spaventate dall’idea di cambiare azienda o semplicemente di
chiedere un aumento, finiscono per accettare salari da fame.
Ormai è l’una di notte e mi sento tremendamente in colpa per aver fatto tardare
così tanto Paola. Lei, che di giorno sogna le coreografie e di notte la manovia,
scende dall’auto salutandomi, ma prima di chiudere la portiera mi dice: «Lo sai,
prima non ci pensavo nemmeno io, ma ora me lo chiedo spesso, chissà se loro si
chiedono chi c’è dietro quelle scarpe». (maddalena de simone)
(disegno di francesca ferrara)
Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo
all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di
raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su
famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.
Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva
il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo
costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con
papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi
insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila
lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa
palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta
indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento,
nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare.
Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e
dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso
della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud,
avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava
degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo
dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi
sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in
fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte
all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990.
Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro
facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri
nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni.
Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in
cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un
tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il
capoturno diceva che bisognava accelerare.
I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a
Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo
che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai
circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte
dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”,
sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare
prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando
poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto
riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco,
tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre.
Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie.
Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra
la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro
e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa
non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo
là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato
pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E
poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo.
Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e
poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho
rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza
di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a
Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e
tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno.
Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro
Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il
licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi
avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti,
di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci
tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che
continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più.
Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si
occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta
milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io
subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La
stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?».
Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi.
Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo,
turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta
la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato.
C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era
l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia
libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente
del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli
anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i
ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati
del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i
trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si
giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata
a mare, c’era un certo benessere.
All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il
giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e
come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano
quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti
pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da
fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi
ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca,
eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare
di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di
sera, e dalle undici alle sette di mattina.
Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in
molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori
mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva
l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto
dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il
circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come
sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte.
Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene
quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come
me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per
diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un
televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno.
Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la
mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare
vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto:
«Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio,
conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna
Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno
pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste
cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino
e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
(disegno di manincuore)
Bisogna sempre tenere l’ombrello aperto sotto al ponte di via Don Guanella,
strada sormontata dall’Asse Perimetrale di Melito, che collega l’Asse Mediano ai
quartieri dell’area nord di Napoli. Che sia un giorno soleggiato o piovoso, il
lento scorrere dell’acqua sulla carreggiata si mescola al rumore delle auto in
corsa. Ai lati del ponte si susseguono piccole attività commerciali: una
pescheria, una macelleria, un forno e un bar. Sul ciglio della strada una palina
dell’Anm indica una vecchia fermata, “Don Guanella verso Scampia”, senza
riportare alcuna informazione. Tra palazzoni popolari dipinti di un giallo
sbiadito, spicca una cancellata blu. Al di là, si intravede un grosso edificio,
l’unico che sembra ancora curato: il centro polifunzionale dell’Opera Don
Guanella. Accanto, una struttura a un piano passa quasi inosservata, se non
fosse per una piccola targa sulla porta che ne rivela l’identità: “Spazio Donna
WeWorld”.
Appena varcato l’ingresso, un open space dipinto dello stesso giallo
dell’esterno è sede, da oltre dieci anni, di un centro di aggregazione che si
impegna per la prevenzione, l’emersione e il contrasto a forme di disagio
femminile e violenza di genere. Lo spazio è piccolo e confortevole: alcuni
divani disposti in cerchio, un angolo caffè e tisane, una libreria, ma
soprattutto il sorriso accogliente di Marianna Ferraro, operatrice storica di
Spazio Donna. Capelli intrecciati d’argento e occhi color cielo, il suo aspetto
trasmette immediata fiducia. “Questo spazio – spiega Marianna – è frutto
dell’incontro di alcune operatrici che, più di dieci anni fa, decisero di
mettere insieme professionalità diverse a supporto del territorio di Scampia.
All’inizio proponevano piccole attività per famiglie a titolo volontario. Una
delle operatrici venne poi a sapere che la Fondazione WeWorld aveva presentato
una manifestazione d’interesse agli enti del terzo settore per aprire un centro
di aggregazione per le donne nel comune di Napoli. Le operatrici pensarono
quindi che potesse essere la giusta occasione per strutturare il loro operato e
renderlo un lavoro vero e proprio”.
Marianna continua, poi, raccontando che in realtà furono due gli Spazi Donna a
nascere, uno a Scampia e l’altro a San Lorenzo, nel centro antico. Dopo tre anni
di attività, però, lo spazio di San Lorenzo dovette chiudere per difficoltà
organizzative.
La maggior parte delle donne che arriva in questo centro lo fa perché sta
attraversando una fase di vita particolare, che si tratti di episodi di violenza
o di situazioni di profonda solitudine e disagio. “Siamo attualmente cinque
operatrici – un’assistente sociale, un’educatrice, due psicologhe e una
mediatrice culturale – e ognuna di noi, con il proprio ruolo all’interno del
progetto, contribuisce a integrare le azioni e a costruire percorsi su misura”,
prosegue Marianna. “La collana che indosso, un intreccio di fili di rame e
pietre colorate, credo rappresenti l’emblema del lavoro che nel tempo abbiamo
costruito. Diversi anni fa si presentò qui da noi D., una donna con un disagio
personale che l’aveva portata a rinchiudersi nel suo ruolo di madre e a essere
presa in cura, per un periodo, presso alcuni servizi del territorio. L’ascolto
della sua storia ci ha concesso, gradualmente, di entrare nel suo mondo. Dopo un
lungo percorso, D. ha scoperto di avere una grande abilità manuale, così ha
ripreso in mano il disegno e ha iniziato a fare gioielli, grazie a un
laboratorio che facevamo con un esperto. Adesso è un’artigiana e gestisce la sua
attività. Il momento più bello è quando andiamo a comprare i suoi gioielli ai
mercatini, lì puoi toccare con mano quanto l’indipendenza economica sia
fondamentale per prevenire e contrastare la violenza”.
Per le operatrici di Spazio Donna, tutto comincia dall’ascolto. Un ascolto che
talvolta precede l’incontro diretto con le donne, spesso inviate qui da altri
servizi del territorio. “Cerco sempre di guardare la persona che ho davanti con
occhi neutri – spiega Marianna –, liberi da pregiudizi, per cogliere davvero ciò
che sceglie di condividere”. È nella costruzione di una relazione di fiducia che
si gioca il primo passo del percorso. Al centro c’è la vulnerabilità, vista come
un punto di verità da cui partire. “Anche le donne che appaiono più forti e
consapevoli hanno un nucleo fragile, ed è proprio lì che cerco un contatto
autentico. È da quella fragilità che inizia il lavoro insieme”. Un lavoro che,
spesso, entra in risonanza con vissuti personali: “Ci sono storie che parlano
anche a me. Quando riesco ad attraversare e rielaborare quelle emozioni, sento
una vicinanza ancora più profonda”.
Lavorare in un settore del genere significa doversi scontrare con alcune
barriere, come la mentalità di chi considera unicamente l’interesse
utilitaristico dell’intervento. “Ormai fare rete va di moda ma sono poche le
istituzioni capaci di farlo davvero. In diverse occasioni mi è capitato di
vivere una profonda frustrazione perché vedevo alcune organizzazioni dello
stesso territorio lavorare secondo una logica che ritengo tossica, per cui si
tende a rinchiudere le utenti nell’ambito dei propri interventi, a causa della
paura di perdere numeri. Questo è un vizio che va combattuto. Nel settore
pubblico capita talvolta di lavorare secondo logiche di delega o, al contrario,
in modo fortemente centralizzato. La sfida più grande oggi è riuscire a far
dialogare linguaggi diversi, soprattutto quando di fronte si ha una situazione
complessa, anche se i tempi delle istituzioni spesso non coincidono con quelli
di chi ha bisogno di supporto”, racconta Marianna.
Tuttavia, non sono solo queste le difficoltà di chi lavora in questo settore. A
volte bisogna fare i conti con i propri di limiti. “Sono anni che mi dedico a
questo lavoro, le relazioni che viviamo sono profondamente attraversate dalla
violenza ma sembra che solo ora ne stiamo prendendo davvero coscienza. È come se
fossimo sempre in affanno, in corsa contro il tempo. A volte ho la sensazione
che anche noi, operatori e operatrici, non siamo davvero preparati ad
affrontarlo”.
“Mi è capitato – continua l’operatrice – di dover dire ‘questa situazione non la
posso seguire’, cosa che considero uno strumento di cura verso di me ma anche
verso la donna che incontro. Ci sono situazioni che non riesco ad affrontare,
semplicemente perché non è il momento. La cosa più difficile è ammettere che in
certi casi, alla fine, devi accettare di fermarti”, conclude Marianna
distogliendo lo sguardo.
Ringrazio Marianna per il tempo che mi ha dedicato. Mi accompagna alla porta con
lo stesso sorriso con cui mi aveva accolta. Appena fuori dalla struttura, sento
alcune gocce d’acqua sulla spalla. Bisogna tenere sempre l’ombrello aperto sotto
al ponte di Via Don Guanella. (serena dolores correro)
(disegno di adriana marineo)
Sarà presentato questo pomeriggio a Napoli, alle ore 18:00 in viale Campi
Flegrei (giardini esterno Vineapolis), il nuovo numero de Lo stato delle città
(n. 14 / maggio 2025). La presentazione sarà occasione per discutere con gli
abitanti di Bagnoli, con i membri dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi
Flegrei, con gli attivisti e le attiviste di Mare Libero Napoli e dell’Assise di
Bagnoli, degli ultimi sviluppi riguardanti il complesso processo di
“rigenerazione urbana” dell’area.
A seguire pubblichiamo l’articolo di Riccardo Rosa, apparso sullo stesso
numero, dal titolo Giro di lune tra terra e mare.
* * *
È il 13 aprile. Un mese è passato dalla forte scossa di terremoto (magnitudo
4.6) che ha colpito l’area flegrea, e in particolare il quartiere di Bagnoli,
nella periferia occidentale di Napoli. Siamo nella caldera dei Campi Flegrei,
un’area vulcanica con un diametro di quasi venti chilometri, piena di crateri e
fumarole. Da duemila anni, però, l’uomo ha voluto abitarci: per la sua bellezza,
per la prossimità con il mare, per le proprietà delle sue acque termali e per
tante altre ragioni, meno piacevoli, che verranno fuori da questo testo. La
vulcanicità di questa terra, i movimenti di gas e lo spaccamento delle rocce, la
periodica salita e discesa del terreno con relativi terremoti, sono tra gli
effetti indesiderati. All’inizio di questo secolo i Campi Flegrei hanno
invertito il trend di subsidenza del suolo. Questo significa che il terreno ha
interrotto il suo processo di abbassamento e ha iniziato a innalzarsi, come già
accaduto molte volte in passato. Dal 2006 la curva di innalzamento ha cominciato
a salire più velocemente, fino a una piccola impennata dal 2012. Dal 2020 i
terremoti si sono fatti più forti e più frequenti, a causa della velocità con
cui si sono presentati i fenomeni bradisismici. Una forte scossa a maggio 2024
ha colpito Pozzuoli mettendo fuori di casa mille e cinquecento persone, che a
oggi non hanno ancora ricevuto dalle istituzioni risposte adeguate.
È domenica. Nell’isola pedonale in cui culmina la strada principale del
quartiere sono radunate più di cento persone. A dieci metri di distanza, una
palazzina che “fa angolo” è recintata con un nastro bianco e rosso. Il bar al
piano terra è il più frequentato di Bagnoli, ma da qualche giorno una delle due
saracinesche è abbassata. Il palazzo è stato dichiarato inagibile per i danni
subiti dopo la scossa del 13 marzo, e una produzione a scartamento ridotto è
sempre meglio della chiusura.
Le cento persone sono in cerchio. Walter, un uomo sulla trentina, parla al
megafono, dà aggiornamenti ai cittadini sulle pratiche burocratiche con cui gli
sfrattati possono richiedere un sostegno per gli affitti o una sistemazione in
albergo; ricorda gli appuntamenti per i prossimi incontri con assessori e
prefetto; invita chi non l’ha ancora fatto a iscriversi a un gruppo WhatsApp che
sta fungendo da collettore e al contempo da base logistica per gestire la crisi
“dal basso”.
Walter potrebbe sembrare, a sentire distrattamente le sue parole, il presidente
o un assessore della municipalità, soggetti che invece non si sono quasi mai
visti in giro negli ultimi trenta giorni, e a cui diversi interventi al megafono
consegnano un conto salato in termini di accuse e improperi. È, invece, uno dei
militanti di Iskra, laboratorio politico che da quindici anni agisce nel
quartiere portando avanti lotte per la bonifica, per il lavoro, per la casa,
contro lo smantellamento dei servizi di welfare, per la difesa degli spazi
pubblici.
Per molti, questi attivisti sono ancora “i ragazzi di Iskra”, sebbene abbiano
lasciato il liceo Labriola da tempo e sulle teste di alcuni di loro cominci a
spuntare qualche capello bianco. La gente li chiama così per familiarità, avendo
visto crescere il collettivo e le persone che lo compongono, e riconoscendogli
una certa autorevolezza a esprimere le istanze del territorio. I giornali e i
politici lo fanno invece con quel paternalismo che mira a sminuire l’altro anche
quando se ne sta parlando bene: i “ragazzi” sono gli illusi sognatori come tutti
in gioventù, in fondo, siamo stati (e anche su questo ci sarebbe da discutere);
quelli che faranno casino fino a quando capiranno che non è così che si
risolvono le cose…
Iskra e altri soggetti del quartiere hanno promosso, a inizio marzo, la
formazione di un’“assemblea popolare”, un organo di rappresentanza informale
nato in seno a un’occupazione della municipalità, molto partecipata dagli
abitanti. In una settimana di riunioni l’assemblea ha scritto un documento molto
più sensato della gran parte delle iniziative prese dai comuni di Napoli e di
Pozzuoli, dalla Protezione civile e dal governo negli ultimi tre anni, un
documento che metteva insieme analisi e proposte, tanto in termini di
prevenzione quanto di gestione della crisi, sottolineando l’urgenza di un
intervento perché la situazione sismica stava degenerando. Destino ha voluto
che, pochi giorni dopo, la scossa più forte registrata da quarant’anni avesse
come epicentro il quartiere, provocando danni a tantissimi edifici e lo
sfollamento di più di seicento persone, senza contare quelle che, per paura o
per situazioni abitative che hanno ritenuto non sicure, hanno deciso di lasciare
volontariamente casa, senza ricevere alcun supporto in quanto “non ufficialmente
sfollati”. Nel complesso, le risposte delle istituzioni alla crisi sono state, e
continuano a essere, insufficienti. Le persone stanno provando a incidere sugli
interventi attraverso cortei, presidi, iniziative pubbliche, facendo pressione
sulla stampa per far sentire la propria voce e su chi amministra il territorio e
il paese perché faccia qualcosa e subito.
UNA COMUNITÀ
Bagnoli è ritenuto un “quartiere operaio”, e in effetti lo è stato per oltre un
secolo, dalla fine dell’Ottocento a quella del Novecento. Per un periodo molto
più lungo, tuttavia, durato svariati secoli, era stato un luogo di vacanza e di
cura (si è già detto del meraviglioso affaccio sul golfo di Pozzuoli e delle
acque termali).
Per una serie di circostanze un po’ complesse da riassumere, la stessa struttura
urbana che ha assunto il quartiere ha contribuito alla creazione di una comunità
coesa (tra queste circostanze vanno ricordate una sorta di “vincolo
ante-litteram” contro la cementificazione della seconda metà dell’Ottocento, che
ha fatto sì che si costruissero in buona parte del quartiere palazzi alti al
massimo due o tre piani; oppure la presenza di confini – naturali e artificiali
– ben definiti, come la collina di San Laise, il litorale, o i binari della
metropolitana e della ferrovia Cumana). A partire da inizio Novecento – e con la
progressiva espansione della principale fabbrica del sud Italia, l’ex complesso
siderurgico Ilva-Italsider – questa comunità ha assunto una connotazione ben
precisa anche dal punto di vista politico.
Partendo da questi presupposti, l’intellighenzia cittadina ci racconta che “i
bagnolesi” (come fossero un corpus unico) avrebbero ereditato una serie di
caratteristiche legate alla tradizione operaia, tra cui la tendenza a lottare
per i propri diritti. Non che sia una falsa retorica, ma una semplificazione che
non rende onore alla complessità del reale, sì.
Si è già parlato di Iskra; c’è poi Villa Medusa, palazzina liberty occupata e
sottratta a mire speculative; ci sono gruppi come l’Assise di Bagnoli, una rete
di associazioni e un osservatorio sul processo di bonifica in corso; ci sono gli
attivisti dell’ex Lido Pola, insieme ad altre realtà che lottano per un mare
libero, gratuito e disinquinato. Ma c’è anche dell’altro: la scuola Madonna
Assunta che lavora con il metodo Freinet, una serie di piccoli vuoti urbani
rifunzionalizzati per l’uso sportivo e collettivo, librerie indipendenti,
laboratori d’arte e di teatro. Tutto in un quartiere eterogeneo che mantiene una
parte di tessuto sociale fortemente popolare.
Gli abitanti più anziani raccontano che, dopo la chiusura dell’acciaieria, gli
operai rimasti senza lavoro, e che avevano scelto di prendere la liquidazione o
il prepensionamento piuttosto che essere delocalizzati in altre aziende, erano
così tanti che occupavano il loro tempo facendosi l’uno per l’altro da
elettricista, falegname, idraulico, fabbro. Mettevano, in questo modo,
competenze acquisite o rafforzate durante la loro esperienza in fabbrica al
servizio della comunità, creando una sorta di economia circolare che funzionava
perché ancora le risorse umane ed economiche da condividere erano consistenti. I
veri problemi sarebbero arrivati con la generazione successiva, quella dei figli
dell’ultimo ciclo di operai: nel loro caso la comunità diventava qualcosa a cui
aggrapparsi mentre il quartiere si faceva via via più povero, con alti tassi di
disoccupazione, tossicodipendenza e malattie (cento anni di fabbriche, fumi
tossici, rifiuti speciali e tute di amianto non sono uno scherzo).
Se il centro di Napoli oggi si trasforma a una velocità spaventosa a causa del
turismo, e la sua identità viene svenduta a ogni angolo di strada, questa parte
di città si mantiene in qualche modo ancora un luogo autentico, perché la sua
identità è assai meno “materiale” rispetto a quella iconica e
commercializzabile, sotto forma di calamite e altra paccottiglia, della
città-vetrina.
Non è semplicemente la tendenza a lottare e a resistere, ma qualcosa di più
ampio dentro cui questa tendenza si colloca: un coacervo di relazioni, frutto di
prossimità, mutuo riconoscimento, disponibilità all’aiuto che fa effetto ai
tempi del turbocapitalismo, e che ha contribuito a tenere vivo un territorio
assediato da un trentennio almeno di brighe e ruberie. Questo non vuol dire,
naturalmente, assenza di povertà e violenza, o di abbandono nei confronti dei
più deboli e dei più emarginati. Ma, piuttosto, che nel perimetro di quei
confini ben definiti di cui si è parlato prima, esiste qualcosa di intangibile e
collettivo capace di attutire i colpi.
DOPO L’ACCIAIO
Il polo siderurgico ex Ilva-Italsider di Bagnoli, nato a inizio Novecento ed
espanso in maniera graduale fino a raddoppiare la sua superficie all’inizio
degli anni Sessanta, è stato chiuso tra il 1990 e il 1992, dopo un decennio di
crisi e una serie di costosissime ristrutturazioni mirate a limitare il violento
impatto ambientale della fabbrica sul territorio.
Molto difficile è il bilancio del secolo d’acciaio: Bagnoli è stata decisiva
nell’affermazione dell’Italia come potenza industriale e ha contribuito a
portare stabilità all’economia del paese; decine di migliaia di uomini e donne
hanno potuto costruirsi a loro volta un futuro dignitoso grazie al lavoro in
fabbrica, si sono formati professionalmente e politicamente, acquisendo
consapevolezza dei propri diritti e una coscienza di classe; nondimeno, il
prezzo pagato in termini di decessi per incidenti professionali e per malattie,
non soltanto contratte da chi lavorava in fabbrica ma da tutti gli abitanti del
quartiere, è stato altissimo. Uno scotto che – forse, cinicamente – avrebbe
potuto essere considerato un prezzo da pagare se quel “benessere” acquisito a
caro prezzo avesse messo le basi per un futuro migliore per tutti. In pochi
anni, invece, questo patrimonio è stato dilapidato e l’impoverimento del
territorio si è manifestato con una velocità vertiginosa.
Un’altra delle false retoriche di cui è oggetto Bagnoli è quella
dell’“immobilismo”, la narrazione per cui nei trent’anni passati dalla chiusura
della fabbrica a oggi nulla è stato fatto in termini di bonifica e rigenerazione
del territorio. Ma è troppo comodo descriverla così. Il bilancio, al contrario,
è quello di un costante ed efficace lavorìo di dilapidamento di risorse
pubbliche (novecento milioni di euro circa) in bonifiche non fatte o fatte male,
costruzione di pochissime opere diventate cattedrali nel deserto o andate in
rovina, carotaggi, studi, consulenze per centinaia di professionisti che hanno
fatto percorrere al processo di riqualificazione strade contorte per tornare
sempre al punto di partenza.
Dal 2017 il Sito di interesse nazionale Bagnoli-Coroglio è gestito da un
commissario straordinario, che lavora per applicare il Praru, programma per la
bonifica e rigenerazione urbana. Quel commissariamento è stato molto contestato
fin da subito, perché toglieva agli organi di rappresentanza cittadini le
proprie prerogative in termini di scelte urbanistiche. Due anni di dura lotta
degli abitanti del quartiere hanno portato a una modifica dell’articolo 33 del
cosiddetto Sblocca Italia, ma è stata una vittoria a metà; di fatto, anche da
quando il sindaco Manfredi è stato nominato commissario per Bagnoli, le
decisioni vengono prese in una cabina di regia in cui a decidere sono il capo
del governo, un paio di ministri e solo dopo il sindaco, sotto il ricatto
economico dell’elargizione dei fondi.
QUALE PARTECIPAZIONE?
Durante un recente incontro semi-pubblico alla Porta del Parco, Walter, lo
stesso attivista che abbiamo lasciato in piazza a denunciare la latitanza delle
istituzioni sulla crisi bradisismica, spiegava con chiarezza ai sub-commissari
per la bonifica la posizione dell’assemblea: «Se fino a qualche anno fa potevamo
accontentarci del Praru, perché recepiva le richieste della cittadinanza di un
parco verde, di una spiaggia libera e gratuita, di un mare disinquinato, oggi
che avete cambiato tutto rimangono solo le cose peggiori di quel piano,
inaccettabile per gli abitanti del quartiere».
Al momento dell’approvazione di quel piano, sul sito di Napoli Monitor era
uscito un articolo che metteva in guardia proprio su questo rischio. Il
progetto, senza alcun reale finanziamento, blindava una serie di scelte
discutibili (su tutte il porto turistico a ridosso di Nisida, presupposto per
l’assalto finale all’isola che si appresta a diventare un resort per ricchi
proprietari di yatch), lasciando grande incertezza su quelle più rispettose
della volontà dei cittadini – vale la pena ricordare che i napoletani si erano
espressi con tredicimila firme per una delibera di iniziativa popolare che
prevedeva “due chilometri di spiaggia libera sul litorale che va da Nisida a
Pozzuoli”.
A meno di dieci anni di distanza, e dopo il finanziamento dell’intera operazione
con un miliardo e duecento milioni di euro, l’ente commissariale ha, invece:
eliminato dal piano lo smantellamento di una colmata a mare fatta di cemento e
scorie dello stabilimento, che resterà lì dov’è, vanificando il ripristino della
morfologia della costa (aprendo la possibilità a future speculazioni edilizie a
ridosso del litorale); smantellato l’idea di un parco verde così com’era stata
elaborata fin dagli anni Novanta; anticipato a mezzo stampa la possibile
costruzione di opere edilizie inutili, come un centro congressi, a solo
beneficio di investitori privati.
Da circa tre anni, l’ente commissariale ha preso l’abitudine di convocare una
cinquantina di cittadini per illustrargli i dettagli dell’avanzamento del piano.
Queste riunioni avvengono ogni sei mesi, e a essere convocati sono solo i
fortunati presenti in una mailing list, rigorosamente appartenenti ad
associazioni, così che se un bagnolese “non associato” volesse avere notizie su
quanto sta succedendo non ne avrebbe il diritto. Per un po’ di tempo l’ente ha
millantato queste iniziative come un processo partecipativo, ma dopo i ripetuti
attacchi degli abitanti che denunciavano questa pratica come l’antitesi della
partecipazione, il direttore amministrativo dell’ente ha dovuto ammettere che
“un commissariamento è per sua essenza qualcosa di lontanissimo dalle dinamiche
di coinvolgimento dei cittadini”. Le riunioni, in effetti, vanno così: il
direttore o uno dei sub-commissari illustra con una relazione gli avanzamenti; i
cittadini prendono la parola ricordando tutte le cose che non tornano; gli
amministratori incassano e, in alcuni casi, danno qualche risposta; volano
parole grosse, accuse, qualche volta insulti; il tempo finisce e si torna tutti
a casa, scontenti, in attesa della prossima pagliacciata. Peraltro, il
commissario designato dal governo, il sindaco Manfredi, non si è mai degnato di
partecipare a una di queste riunioni.
Per uno strano capriccio, la (s)fortuna ha voluto che parallelamente all’avvio –
con trent’anni di ritardo – delle operazioni di bonifica e rigenerazione, il
territorio fosse protagonista dell’escalation bradisismica di cui si è parlato.
Nell’ultima “riunione informativa” è emersa in tutta la sua forza la
preoccupazione, da parte degli abitanti, rispetto al tema delle edificazioni
all’interno dell’ex area industriale: se un decreto governativo impone, infatti,
lo stop alla costruzione di nuove volumetrie in un’area definita “ristretta”
all’interno della zona rossa, è cosa curiosa come quest’area non copra la
superficie del Sin, per cui il decreto di fatto non elimina la possibilità di
costruire case, centri congressi, palazzetti per i concerti e tutte le altre
opzioni attualmente in campo nell’area dell’ex fabbrica. Gli amministratori
dell’ente hanno infine parlato di una “rimodulazione” delle volumetrie, facendo
riferimento forse alla riduzione delle strutture a uso abitativo a beneficio di
quelle destinate ai servizi. Sarebbe – ma anche su questo le informazioni
ufficiali sono inesistenti – una scelta incomprensibile: da un lato si sostiene
che in un territorio con questa forte configurazione vulcanica è pericoloso
costruire, dall’altro si implica che costruire un centro commerciale o un
ristorante è “un po’ meno pericoloso”; da un lato si evacuano le scuole a causa
dell’emergere inaspettato di gas Co2, dall’altro non si mette in conto che
fenomeni del genere possano presentarsi tra mesi o anni, rendendo pericolosa
ogni tipo di struttura. Non è dato sapere, inoltre, dove andrebbero a finire i
soldi stanziati e “avanzati”, qualora si scegliesse di trasformare le cubature
residenziali in commerciali, facendo quindi una bonifica meno impegnativa e
costosa.
UN LAVORO COLLETTIVO
Di solito, come detto, le “riunioni informative” si svolgono alla presenza di
persone che a differenti livelli si mantengono informate rispetto a quanto sta
accadendo: membri di associazioni o di gruppi di base, reti di abitanti – come
quelli del borgo Coroglio – e delegati di ciò che resta dei partiti politici.
Nell’ultima occasione, fuori alla Porta del Parco (una delle poche cose fatte in
questi anni nel Sin, non a caso una edificazione con uffici, sale riunioni e un
auditorium) si sono presentati una ventina di cittadini dell’assemblea popolare,
che hanno preteso di essere presenti senza dover delegare nessuno.
Una delle cose più interessanti dell’assemblea è stata, in effetti, la modalità
con cui si è riusciti a coinvolgere, partendo dalla preoccupazione rispetto
all’attività sismica, abitanti che difficilmente prima d’ora si erano attivati
in termini politici. Si è già detto del documento costruito insieme durante
l’occupazione della municipalità; in seguito, donne e uomini giovani e meno
giovani hanno trovato la voglia e la forza di “andare oltre”, di partecipare a
cortei, intervenire in assemblee, stare in prima linea anche quando si è
arrivati allo scontro con le forze dell’ordine.
Alessia, una di queste donne, spiega: «È come se, di fronte alla paura, in tanti
avessimo capito che non si poteva delegare anche questa cosa a chi fa politica
attiva, a chi protesta e prova a difendere i propri diritti ogni giorno.
Dovevamo essere tutti presenti, ed è stato anche un modo per elaborare la
perdita della casa, o continuare a vivere in un appartamento pieno di crepe».
Alessia fa parte della delegazione che nelle ultime settimane ha incontrato, uno
dopo l’altro, svariati ministri, il sindaco, il prefetto, e due o tre assessori
comunali. A ognuno di questi soggetti l’assemblea popolare ha da far notare
qualcosa: al Comune, per esempio, l’insufficienza delle misure di supporto agli
abitanti; al governo, lo stanziamento di una cifra ridicola per mettere in
sicurezza gli edifici e avviare opere di miglioramento sismico, finalizzate a
impedire lo svuotamento del quartiere. «È già accaduto in passato a Pozzuoli»,
spiega Marina, maestra in pensione. «Con le crisi bradisismiche del ’70 e
dell’82 parte del paese fu svuotata per permettere la costruzione di
insediamenti periferici come Monterusciello e il Rione Toiano. Uno degli
obiettivi, oggi, è lasciare campo libero alla speculazione che potrebbe seguire
la cosiddetta “rigenerazione urbana”».
Pochi giorni dopo aver incontrato il prefetto e il ministro Musumeci, una parte
di quella delegazione di abitanti si è ritrovata in una casa di via Ovidio, nel
centro del quartiere, una casa anch’essa piena di crepe, che la coppia che vi
abita da anni è prossima a lasciare. Intanto, i quadri sono stati staccati dai
muri e appoggiati per terra. Ce n’è uno di cyop&kaf, una foto che ritrae un
Maradona molto giovane, una locandina della fiera eno-gastronomica
autorganizzata di Milano, che il caso vuole si chiami “La Terra Trema”. Fortuna,
Laura, Alessia, Lamberto e altri raccontano all’intervistatore l’esperienza
dell’assemblea, ma anche il denso susseguirsi di eventi dell’ultimo mese di cui
– lo dice Fortuna in dialetto – «forse non abbiamo capito niente manco noi».
Per essere il più fedele possibile alle loro parole, ho scelto di riportare
alcuni estratti di quell’ora di confronto senza aggiungere filtri, facendo una
sintesi e un montaggio che spero non alteri troppo le loro idee e il loro stato
d’animo. Per evitare il rischio di romanticizzare il dramma (come è accaduto di
frequente in questo mese tra reportage televisivi e una mezza dozzina di
interviste alla scrittrice famosa che abita nel quartiere e che ne parla come
del socialismo realizzato in terra, ma che non si è mai vista in piazza), ho
deciso di non tracciare alcun profilo degli intervistati, né di attribuirgli
questa o quella dichiarazione. Mi è sembrato il modo più appropriato per rendere
la loro sostanza di soggetto collettivo, qualificandoli semplicemente per quello
che sono: abitanti del quartiere.
«(La scossa del 13 marzo, nda) è stata come una bomba. E in tutta la mia storia
di flegrea, ne ho sentite! So dirti la magnitudo e la profondità appena la
sento. Ma di quella notte non ho percezione. Ho avuto la sensazione del vuoto
d’aria, ho sentito la terra che veniva meno […] e il letto che non si fermava».
«Ieri per la prima volta ci siamo fermati, abbiamo pranzato insieme. Quella
pizza è stata la cosa più bella… è come se si fosse formata una unione, una
serenità che… è come si nun fosse succieso niente. Ognuno di noi porta la sua
storia e in quel momento si è parlato di cose … non so spiegarlo… come ci stiamo
muovendo, i punti che ci devono stare, le cose da chiedere… Era un’unione… ci
rapportiamo, ci ascoltiamo, andiamo qua, andiamo là, senza che uno dice: tu hai
sbagliato, quello ha fatto questo, quella quest’altro».
«Buttarmi nell’assemblea mi ha aiutato a superare la paura. Se fossimo rimasti
soli saremmo più spaventati, avremmo preso decisioni avventate».
«La notte della scossa sono stata a viale Campi Flegrei, c’erano tante persone.
Volevo stare vicina a casa e anche non lontana da casa dei miei. Poi sono andata
a preparare il famoso “borsoncino” che da un po’ di tempo teniamo vicino alla
porta, pronti a scappare».
«Mentre stavo correndo sono caduta a terra, mi è venuta una crisi epilettica.
Mio marito e le persone per strada mi hanno aiutata. Ci è voluto un poco per
riprendermi, mi hanno dato acqua e zucchero, una coperta e così mi sono messa a
camminare verso il “58” (un parco residenziale, all’omonimo civico), dove si
diceva che era caduto un palazzo. Stava con me mia nipote di quattordici anni.
Mio marito e mia figlia non hanno voluto muoversi».
«La gente si era radunata fuori all’ex base Nato, ma questa volta ce n’era il
doppio. Insieme a un centinaio di persone ci siamo messi a spingere il cancello
per farlo aprire, perché i guardiani non ne volevano sapere. È stato brutto
perché quelli stavano lavorando, ma noi avevamo bisogno di un posto, non
potevamo stare per strada. Così lo abbiamo aperto con la forza e siamo entrati.
Molti di noi siamo rimasti nei viali, dentro a un casotto che stava aperto
abbiamo fatto mettere anziani e mamme coi bambini».
«Una volta dentro abbiamo protestato per far mettere il tendone della Protezione
civile, dove per due o tre giorni c’è stata tanta gente. Io ci sono stata
quattro notti. Ma ci stavano solo i tavolini e le sedie. Abbiamo dormito sul
pavimento, sui materassini portati da noi o addirittura a terra».
«Io al tendone sulla Nato ci sono andata il giorno dopo, alcune persone mi
sembravano sofferenti e gli ho detto: “Voi non potete stare qua, venite a farvi
una doccia a casa mia, provate a rilassarvi un attimo, vi faccio delle
lavatrici, lavate la biancheria”».
«Io sono un geologo, mi sono trovato in prima linea per la mia professione. Da
ragazzo avevo fatto politica col Pci. Io sono di Catanzaro, città con molti
fascisti, non era facile. In questi giorni ho partecipato all’assemblea
popolare, mi sembrava utile dare elementi, precisazioni, finché poi tutti mi
hanno cominciato a dire: “Quando parliamo con questo o con quello tu ci devi
stare, ci puoi dare le indicazioni utili, i dettagli scientifici, eccetera”».
«Ho cominciato a frequentare il tendone per aiutare. Poi ho capito che potevo
essere utile all’assemblea anche in altro modo e ora sono una delle più attive.
Questo mi ha aiutato a superare la paura. La notte della scossa viale Campi
Flegrei era pieno di gente ma c’era un silenzio irreale».
«La gente sta andando via dal quartiere. L’assenza delle istituzioni fa più
paura della scossa. Il contributo all’affitto è insufficiente e ora ci
cacceranno pure dagli alberghi».
«Io ero in un buco, stavo nel mio mondo. Non uscivo, ero sempre sola. Devo
ringraziare tutti quanti, mi hanno fatto riscoprire la me di una volta, quella
che non esisteva più. Quando passavo davanti a Villa Medusa, dicevo: “Com’è
bello, vorrei proprio entrare, stare in mezzo a tutta questa gente”, però non
tenevo mai il coraggio, anche se poi alla fine questo è il mio mondo, dove la
gente parla, uno dice la sua, con un bicchiere di vino, ci si ascolta. Questo
nella vita non succede, la gente non è così».
«Sto imparando tanto. Provo a metterci il mio pezzetto, ma è una cosa che sul
lavoro per esempio non trovi mai, e nemmeno nella riunione di condominio. Questa
cosa mi ha stupito, che ognuno ci mette una cosa e si impara, insieme si
migliora. Una cosa negativa? L’assenza di puntualità (ride). Se ti dicono alle
undici non ti presentare mai prima di mezzogiorno!».
«Quando mi hanno detto di stare nella delegazione per parlare col ministro ho
detto: “Secondo me hanno sbagliato persona!”. Io non so parlare, non so le cose
tecniche… Però se devo dire una cosa, tra tante persone presenti, quelli
guardavano sempre a me e Maria. Io tengo la quinta elementare, e quelli
guardavano a me! In noi vedevano “il popolino”, per loro era assurdo che davanti
al ministro avevano portato a me. E invece il gruppo ha pensato che nella mia
ignoranza io potevo portare la parola di Bagnoli».
(foto di enzo morreale)
Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar
a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est.
Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri
di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici.
Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa,
evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container
accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine
del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla
spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno.
Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i
termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora
romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una
macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro
che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta,
costante e fuori dai riflettori.
Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in
città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che
depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga
foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza
un elicottero della polizia.
Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone
di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici
chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San
Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento
dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da
crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più
oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena
Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo
già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel
2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina
lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova
generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare
il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila
movimentati presso il nuovo terminal.
Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti
industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo
un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata
con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito
della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si
legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi,
ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata
eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’
(SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o
sottoutilizzati”.
La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il
Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero
indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e
depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè
il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una
parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per
motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.
Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la
concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il
progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa
217 milioni di euro per l’allestimento operativo.
Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel
progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti
i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni.
Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile
immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al
momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite
i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck
Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi
Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore
maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017:
“Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della
morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi
tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali
cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per
non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare
allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione
pubblica.
In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li
ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o
rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei
container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche
se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il
tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di
container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto
dell’industria.
Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da
privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce
in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di
merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali.
La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo
un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento
dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare
l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori
aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo.
Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a
fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non
trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait
Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie
all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti,
l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale
di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il
comitato si batte ancora oggi.
La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il
tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina
così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli
idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati
che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a
ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena
Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne
parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il
Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo
spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire
allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città,
fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non
balneabile.
San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute
intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta
incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive,
nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina
Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di
salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza
di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono
susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di
ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo
scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di
inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa
non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da
affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di
chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni
batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il
litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose
rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi
ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita
grippiolo)