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Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde
(foto di enzo morreale) Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est. Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici. Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa, evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno. Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta, costante e fuori dai riflettori. Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza un elicottero della polizia. Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel 2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila movimentati presso il nuovo terminal. Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi, ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’ (SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o sottoutilizzati”. La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante.  Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa 217 milioni di euro per l’allestimento operativo. Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni. Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017: “Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione pubblica. In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto dell’industria. Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali. La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo. Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti, l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il comitato si batte ancora oggi. La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città, fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non balneabile. San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive, nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita grippiolo)
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Prendi i soldi e vai fuori dalle scatole. Così il comune di Napoli gestisce l’emergenza casa a Scampia e Bagnoli
(disegno di diego miedo) L’insufficienza delle risposte istituzionali è stata una costante durante questi ottanta giorni di crisi bradisismica, crisi iniziata con la scossa del 13 marzo ma che a livelli diversi di intensità dura da oltre tre anni. In questi anni il comune di Napoli non si è preoccupato di programmare un intervento emergenziale capace di mitigare gli effetti di quello che era ampiamente prevedibile potesse accadere: una scossa superiore ai quattro gradi di magnitudo e con un epicentro localizzato a Bagnoli più che a Pozzuoli. Quando questo è successo i danni sugli edifici sono stati rilevanti così come la risposta all’emergenza inconsistente. L’ex base Nato è stata aperta e dotata di un tendone per la prima accoglienza solo dopo e grazie alle proteste degli abitanti. Il tendone non è stato mai, in ogni caso, dotato di letti e materassini, così che le persone, a cominciare dagli anziani, i bambini e i disabili hanno dovuto dormire sulle sedie o per terra. Letti sono stati invece allestiti all’interno della municipalità, a poche centinaia di metri dall’epicentro della scossa, e nel pieno dell’abitato. Fin dall’inizio, a chi ha perso la casa è stato proposto di alloggiare in strutture alberghiere, grazie a un accordo con Federalberghi. Queste strutture si trovano in comuni limitrofi dalla parte opposta della città rispetto all’area flegrea. Persone che la mattina dovevano attraversare tutta Napoli in macchina per portare i bambini nelle diverse scuole della zona ovest, e poi raggiungere il proprio posto di lavoro, magari spostandosi di nuovo verso il centro città, hanno dovuto rinunciare alla sistemazione assegnatagli, perché tra traffico e lontananza avrebbero dovuto uscire tutte le mattine di casa non oltre le sei. Gli altri sono stati per tutto il tempo, e in molti casi ancora sono, a Casoria o Casavatore, con la valigia aperta sulla sedia e i pasti a orari obbligati e cadenzati.  Il Comune si è fatto vanto di aver sbloccato il Cas (Contributo autonomo di sistemazione), un sostegno economico per dare possibilità a chi non poteva o voleva stare negli alberghi di trovare un’altra casa. La cifra del Cas è clamorosamente insufficiente a trovare una sistemazione oggi a Napoli, tanto più con l’arrivo dell’estate e la mancata disponibilità dei proprietari di casa a sottoscrivere contratti di affitto senza nemmeno sapere fino a quando. Nulla è stato fatto dalle istituzioni locali e dalle autorità giudiziarie per impedire la speculazione che vede arrivare gli affitti a Licola, Giugliano, Lago Patria a costi paragonabili a quelli del centro storico di Napoli o del Vomero. I rappresentanti del Comune che si stanno occupando della questione (su tutti gli assessori Laura Lieto e Luca Trapanese) hanno detto che non intendono prorogare ulteriormente la permanenza degli sfollati nelle strutture alberghiere, che dovranno essere svuotate il 16 giugno. In particolare, l’assessore Lieto ha chiesto pazienza, sostenendo di aver risolto un problema simile ma con numeri più grandi, come quello delle Vele di Scampia. La verità è che l’assessore Lieto a Scampia non ha risolto un bel niente: il comune ha messo in mano ai circa cinquecento nuclei familiari sfollati i soldi del Cas, ma nel quartiere e nelle zone limitrofe nessuno è stato disposto ad affittare una casa ai profughi delle Vele. In molti sono andati a finire a Giugliano, Castel Volturno e ancora oltre, a trenta o quaranta chilometri dai luoghi dove hanno abitato tutta la vita; i loro figli sono stati costretti a lasciare le scuole di Scampia da un giorno all’altro; in tanti, dopo mesi di ricerca vana, sono ancora “appoggiati” a casa dei parenti; su questa situazione gli amministratori hanno semplicemente voltato la testa dall’altra parte.     Nel caso di Bagnoli, tra le domande di Cas inoltrate nei primi due mesi di crisi, soltanto un terzo è stata evasa dal Comune. Nel novero di quelle inevase ci sono anche quelle di diversi inquilini degli alberghi, che si troveranno tra poco più di dieci giorni a non avere né un tetto sulla testa né il sostegno economico istituzionale finalizzato a procurarselo. La rivendicazione dell’Assemblea popolare di Bagnoli (che di recente si è “federata” in un coordinamento che mette insieme i comitati da tutti i Campi Flegrei) è in ogni caso chiara: ogni proroga è una sconfitta! Basta alberghi, basta Cas, basta elemosina! Bisogna far tirare fuori al governo, con effetto immediato, i soldi per la messa in sicurezza, perché ognuno possa rientrare nella propria casa e restarci.  Altra grave responsabilità dell’amministrazione comunale è infatti quella di aver lavorato soltanto – quando era ormai troppo tardi – sull’emergenza. A dispetto degli ottimi rapporti con il governo (si veda la gestione della rigenerazione urbana dell’area ex Italsider e la candidatura della città a sede della Coppa America di vela), sindaco e assessori non hanno rilasciato una sola dichiarazione ufficiale contro il ridicolo decreto governativo che mette sul tavolo pochi spiccioli finalizzati a effettuare interventi solo sugli edifici sgomberati, mentre la popolazione chiede un investimento massiccio per l’adeguamento sismico dell’intero abitato, unica iniziativa che permetterebbe alla gente di Bagnoli, ormai stremata dalle scosse e dall’inerzia istituzionale, di continuare a vivere nel proprio territorio. Dalle istituzioni – dal comune alla Protezione civile – si chiede ai cittadini di “convivere con il terremoto”, ma non si agisce così come si fa in luoghi ben più sismici dei Campi Flegrei, dal Cile al Giappone, per far si che questa convivenza possa essere accettabile. Ormai è evidente, anche tra la popolazione, l’obiettivo di svuotare il quartiere e prepararlo alla speculazione all’orizzonte con Coppa America e rigenerazione urbana del Sito di interesse nazionale.  Va segnalato infine il paradossale caso dei cinque nuclei familiari che sono stati alloggiati dal comune nel centro giovanile di Marechiaro. Si tratta di nuclei con fragilità sociale ed economica, e con bambini anche molto piccoli. Queste famiglie sono state allontanate dal centro il 27 maggio, ma non è stata proposta loro alcuna alternativa. Tre su cinque non hanno neppure ricevuto il Cas e sono ora costrette a risolversi il problema da sole. L’assessore Trapanese ha liquidato la vicenda colpevolizzando gli sfollati, dicendo che “le domande presentano delle incoerenze e non è possibile soddisfarle”. In una nota trasmissione radio, si è espresso poi sulla gravissima situazione di una ragazza madre con due bambine disabili, annunciando che non ha alcuna intenzione di farla rientrare nel suo piccolo appartamento (di proprietà comunale) in quanto “occupante abusiva”: «Con i soldi che le daremo avrà la possibilità di trovare casa, magari non a Bagnoli. Si deve mettere un po’ a cercarla, c’è bisogno del contributo pratico di cercarsi una casa, come hanno fatto quelli di Scampia. […] Una situazione faticosissima che siamo riusciti a risolvere». Questa donna, così come gli sfollati del centro di Marechiaro, è stata ripetutamente minacciata dagli operatori dei servizi sociali rispetto al fatto che “se la situazione non si risolve vi toglieranno l’affido dei figli”. (riccardo rosa / luca rossomando)
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Il parco San Gennaro è ancora chiuso. Venerdì un corteo per il verde pubblico nel rione Sanità
(disegno di giancarlo savino) Del rione Sanità in questi ultimi anni si è spesso parlato a proposito del processo di rinascita dal basso guidato dal fitto tessuto di associazioni, cooperative e comunità parrocchiali che operano nel quartiere. Nonostante gli importanti segnali, il quartiere continua a essere attraversato da enormi contraddizioni. Lo testimoniano gli episodi di violenza che lo hanno segnato, anche in tempi recenti, e di cui si hanno continue avvisaglie. La fragilità sociale del quartiere è stata aggravata, negli ultimi quindici anni, dalla perdita di servizi fondamentali alla popolazione, come servizi sanitari (l’ospedale San Gennaro ridotto a presidio sanitario) e istituti scolastici, nonché dalle difficoltà sempre più insormontabili che incontra la popolazione – in particolare i giovani che giustamente aspirano a una vita indipendente – nel reperire alloggi a prezzi accessibili a causa della crisi abitativa generata dalla proliferazione incontrollata di case vacanza e bnb anche in questo quartiere. Soltanto grazie alle tenaci mobilitazioni di realtà civiche come la Rete Educativa Sanità e il Comitato per l’Ospedale San Gennaro gli effetti dei tagli alla spesa pubblica sui servizi sanitari e scolastici nel quartiere sono stati arginati almeno in parte, mentre la questione dell’accessibilità degli alloggi rimane ancora del tutto aperta. Ai piccoli passi in avanti ottenuti grazie alle mobilitazioni si accompagnano, tuttavia, persistenti segni di totale abbandono istituzionale. L’accesso al verde pubblico rimane negato agli abitanti del rione Sanità. Ciò è tanto più sorprendente in un tempo come il nostro segnato dal surriscaldamento globale, dunque dall’aumento delle temperature che grava in modo particolare sulle aree urbane più densamente popolate. Nelle città delle regioni più disparate del pianeta, le amministrazioni locali si sforzano di investire risorse crescenti nella cura e nell’ampliamento delle aree verdi, nella consapevolezza che la fruizione del verde sia decisiva per la salute fisica e mentale della popolazione e in particolare delle categorie più vulnerabili, come appunto i giovani, i bambini, ma anche gli anziani e le persone con disabilità. Ebbene, a dispetto di tutto ciò, un quartiere come il rione Sanità è da anni privato dell’unico vero spazio di verde pubblico presente al suo interno: il parco San Gennaro. Dopo l’inaugurazione nel 2008, il parco ha vissuto fasi alterne di aperture e chiusure, ma ormai da qualche anno la sua fruizione è negata al quartiere. Lo scorso anno sono stati stanziati dal Comune finanziamenti per seicentomila euro destinati al suo recupero. I lavori di riqualificazione avrebbero dovuto avviarsi già alla fine dell’estate scorsa, ma tutto è ancora fermo, mentre le istituzioni non danno informazioni certe né sull’andamento dei lavori né sui tempi di  riapertura del parco. Domani, venerdì 30 maggio, alle ore 10, il comitato civico che fin dall’istituzione del parco si batte per la sua apertura stabile ha chiamato il quartiere a una nuova mobilitazione per il diritto alla fruizione del verde pubblico. Già diverse scuole hanno aderito all’appello e si attende anche il contributo di realtà associative del quartiere. Non può esserci una rinascita del rione Sanità senza spazi adeguati di verde pubblico a libera e permanente disposizione dei giovani e di tutti i residenti. (ugo rossi)
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Coppa America a Bagnoli, un grimaldello per la speculazione
Fotogalleria di Gaia Del Piano Dopo vent’anni di patetici fallimenti un sindaco di Napoli riesce finalmente a portare a Bagnoli la Coppa America di vela, inaugurando una stagione di speculazioni che, in via di esaurimento lo spazio su terra, si apprestano ad assalire il mare e la costa. Gaetano Manfredi agisce ancora una volta più come un commissario straordinario dai pieni poteri che come un sindaco, nel senso che della candidatura napoletana nessuno ha saputo niente fino al momento dell’ufficialità, così che gli abitanti del quartiere dovranno infilare la supposta senza poter proferire parola. Per questo motivo stamattina cinquanta persone si sono presentate fuori al Castel dell’Ovo, dove si svolgeva la conferenza stampa di presentazione della kermesse, sottolineando che questo presunto successo viene proclamato con grande soddisfazione nel momento meno opportuno: durante la crisi bradisismica più violenta degli ultimi quarant’anni, che ha colpito come forse non mai il quartiere in termini di danni all’abitato e traumi alla popolazione. Più che alle regate, e all’ennesimo mega-evento che non serve a niente e a nessuno, il Comune farebbe meglio a pensare agli appartenenti alla sua comunità. Agli sfollati, per esempio, che ha tenuto per due mesi in alberghi dall’altra parte della città, e che dopodomani caccerà senza avergli proposto una soluzione alternativa; ai due terzi tra questi che hanno richiesto il sostegno all’affitto e non l’hanno ancora ricevuto, la maggior parte per colpa di risolvibili questioni burocratiche; ai cinque nuclei familiari dove abbondano i soggetti fragili, che sono stati dislocati in una struttura comunale e che da ieri sono tecnicamente “abusivi”, avendo ricevuto un sollecito di allontanamento volontario; a tutta la popolazione che sta rischiando di dover lasciare il quartiere, perché il governo – senza che da Palazzo San Giacomo si batta ciglio – ha stanziato risorse che non bastano nemmeno a intervenire sulla messa in sicurezza delle case, figuriamoci sul miglioramento sismico di tutti gli edifici, una condizione necessaria, come avviene in tante parti del mondo, per poter convivere con le scosse e perché Bagnoli non si svuoti. La priorità dell’amministrazione sono invece i milioni della Coppa America, milioni che finiranno nelle tasche dei soliti noti grossi imprenditori, senza lasciare nulla sul territorio. Anzi, questa coppa qualcosa lascia: la colmata. Solo oggi si spiega, dopo che è stata comunicata l’intenzione di alloggiare il villaggio per gli atleti sulla gigantesca colmata a mare, la fretta con cui il sindaco Manfredi e la premier Meloni hanno agito per cambiare numerose leggi e formalizzare la permanenza della struttura. Quando si diffuse la notizia, previdentemente scrivemmo: va bene, volete lasciare la colmata perché è troppo complicato e costosa toglierla? Non è vero, ma facciamo finta che lo sia. Il sindaco allora ci dia garanzie che quella colmata verrà utilizzata esclusivamente per una discesa a mare libera, pubblica e gratuita, e non per altro. Quelle garanzie non sono arrivate, e anzi dopo qualche mese è arrivata la notizia che la Coppa America sarà il primo esperimento per renderla una piazza per grandi eventi privati. La critica alla Coppa America a Bagnoli va ben oltre la critica ai grandi eventi, al loro battage pubblicitario e alla presunta utilità economica. A queste baggianate non crede più nessuno, tanto è vero che parlando con i bagnolesi (i cittadini “normali”, non gli attivisti o i militanti) di bradisismo, di emergenza casa, di svuotamento del quartiere, sono loro i primi a chiosare con un indignato: “…invece ‘e sorde p‘a Coppa America ‘e trovano!”. La gravità di questa iniziativa sta soprattutto nell’avviare una stagione di speculazioni a Bagnoli, che vanificheranno uno dei più grandi risultati ottenuti in trent’anni di lotta: la spiaggia per tutti a risarcimento di cento anni di inquinamento, malattie e morti. Mai come questa volta, i responsabili di questa porcata hanno un nome preciso. (riccardo rosa)
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Casa a Napoli. Il Comune non rispetta gli impegni presi con gli abitanti di Taverna del Ferro
(disegno di ….) Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli. Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche” di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici, grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon Metro della Regione. Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”. Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione temporanea della durata di tre anni. Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il debito e pagare la tassa dei rifiuti. Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica. L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”. Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile – continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi assessori non gli diranno quel che si deve fare”. Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni. La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure, noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una copertura politica non si muovono”. Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
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Crisi bradisismica, le richieste dell’Assemblea popolare
(disegno di Atti) Riceviamo e pubblichiamo un comunicato diffuso dall’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei relativo all’ultimo incontro con assessori e dirigenti del comune di Napoli. Al termine della riunione gli amministratori hanno garantito un intervento sui punti emersi e risposte precise entro il 14 maggio, data fissata da tempo per un incontro tra l’Assemblea e tutti gli assessori competenti sulla questione bradisismica (politiche sociali e urbanistica, oltre a quelli delegati alla protezione civile e alla polizia municipale).  *     *     * L’ASSEMBLEA POPOLARE INCONTRA IL COMUNE DI NAPOLI: RISPOSTE CHIARE PER GLI ABITANTI DI BAGNOLI E DEI CAMPI FLEGREI Si è tenuto ieri, nella sede bagnolese della X Municipalità, un incontro sul tema della crisi bradisismica tra una delegazione dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei e alcuni rappresentanti delle istituzioni: la presidente del consiglio comunale Enza Amato, l’assessore alle politiche sociali Luca Trapanese, la dirigente del Servizio sicurezza abitativa Valeria Vannella e il presidente della municipalità Carmine Sangiovanni. Su richiesta degli abitanti del quartiere presenti, l’incontro si è svolto pubblicamente tra i banchi del parlamentino di via Acate, così che tutti (più di cinquanta persone) hanno potuto prendere atto della dialettica tra le richieste-rivendicazioni degli abitanti e le posizioni istituzionali. Pur mantenendo un approccio critico rispetto all’insufficienza delle azioni intraprese fino a questo momento, come Assemblea popolare abbiamo cercato di mantenere un atteggiamento propositivo e in particolare abbiamo individuato e sottoposto ai rappresentanti istituzionali alcuni punti che necessitano risposte immediate. Gli assessori si sono impegnati a dare risposte concrete a questi punti e a riferirle nell’ambito dell’incontro che si svolgerà il prossimo 14 maggio a palazzo San Giacomo. Queste le rivendicazioni dell’assemblea: 1) Ristrutturazione dello sportello per i cittadini nella sede della municipalità di via Acate. Si richiede il dislocamento in loco, per otto ore al giorno, di professionalità organiche all’amministrazione comunale e non alla municipalità, professionalità capaci di dare risposte ai cittadini su tutta la vasta gamma di questioni sulle quali sono necessarie informazioni o interventi. È fondamentale un contatto diretto tra amministrazione e cittadinanza, senza che nessuno possa più nascondersi dietro ostacoli burocratici, rimpalli di responsabilità o formule del tipo “non è di nostra competenza”. 2) Garanzie sul destino delle persone ospiti delle strutture alberghiere e del centro comunale di Marechiaro allo scadere della proroga del 20 maggio. Ci aspettiamo da subito che il comune rassicuri pubblicamente i cittadini comunicando chiaramente che al 21 maggio nessuno tra gli sfollati verrà mandato in strada. In particolare è necessario pensare a tutti i meccanismi possibili che possano rendere efficace l’utilizzo del CAS per la ricerca di autonoma sistemazione per gli aventi diritto. In assenza di un piano che intervenga sulle garanzie richieste dai proprietari e sulla difficile ricerca di immobili disponibili, il termine del 20 maggio sarà destinato a essere oggetto di richiesta di ulteriori proroghe. Necessaria è inoltre una soluzione immediata per chi ha riscontrato problematiche burocratico-amministrative per l’accesso al CAS e al momento risulta ugualmente sfollato dalla propria abitazione. 3) Chiarezza nell’iter per l’accesso ai fondi relativi alla ristrutturazione degli edifici; proroga dei termini per la richiesta del sopralluogo propedeutico al rilascio della scheda AEDES; sospensione immediata, per chi sta effettuando gli interventi, del canone di occupazione di suolo pubblico. 4) Pubblicazione di una circolare che rassicuri i cittadini rispetto al fatto che chi non riuscirà, per ragioni logistiche (come la difficoltà a trovare ditte che possano intervenire in tempi così brevi) a portare a termine gli interventi prescritti entro i tempi indicati, non incorrerà nell’iter canonico “diffida-ordinanza-denuncia”. 5) Attivazione di un meccanismo burocratico che impedisca l’avvio di provvedimenti amministrativi e giudiziari a danni dei cittadini, nel momento in cui prescrizioni come il transennamento di una strada vengono violate da ignoti. 6) Attivazione di un meccanismo amministrativo che ripensi o ristrutturi i provvedimenti più contraddittori, ostativi persino agli interventi edilizi, emessi fino a questo momento (tra questi le diffide a utilizzare scale – ma non appartamenti – all’interno di edifici, o l’impraticabilità di appartamenti fatte salvo una o due stanze). 7) La chiara, pubblica e se necessario conflittuale rivendicazione da parte del comune di Napoli per un intervento governativo massiccio e immediato in termini di stanziamento di fondi per il miglioramento sismico di tutti gli edifici del quartiere, partendo dal presupposto della totale insufficienza delle risorse messe in campo con il recente decreto. Se l’organo di rappresentanza della cittadinanza intende davvero esserne supporto e alleato, così come sostenuto, è indispensabile che si faccia sentire per pretendere dal governo azioni che impediscano lo svuotamento del quartiere. È questo, infatti, il processo che già si sta innescando, presupposto decisivo per speculazioni che pianificano la graduale deportazione degli abitanti bagnolesi meno tutelati in quartieri più periferici e della provincia, a beneficio di altri settori sociali e di altri insostenibili modelli economici e di sviluppo, come quello turistico. L’assemblea popolare continuerà ad incontrarsi nelle prossime settimane per proseguire l’attività di informazione, monitoraggio e mobilitazione, che durerà tutto il tempo necessario ed in particolare fin quando ogni singolo abitante sfollato dalla propria abitazione non rientrerà nella propria casa.
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Lavoro e non lavoro in una città sotto attacco. Primo maggio di lotta a Napoli
(disegno di blu) «Tanti tra noi sono nati e vivono in questo quartiere. Ne conosciamo bene le problematiche». A parlare è Antonio Silione, del movimento Disoccupati 7 Novembre e del Comitato San Gennaro. «Abbiamo voluto che il corteo del primo maggio partisse dal rione Sanità per dei motivi concreti: qui di fronte si trova l’ospedale San Gennaro, un presidio che offriva servizi sanitari essenziali a decine di migliaia di abitanti della zona, chiuso nel 2017. A pochi passi c’è anche il parco San Gennaro: circa sei ettari di foresta mediterranea, inaccessibile da anni. Tutto questo in un quartiere storicamente popolare, oggi invaso da turisti e b&b, l’unico modello di “lavoro” su cui si punta». Numerosi anche quest’anno sono stati gli appuntamenti promossi da collettivi, movimenti e sindacati in occasione del primo maggio a Napoli. Il primo è stato il corteo partito intorno alle dieci dall’ospedale del popolare quartiere del centro. La scelta di far partire il corteo dalla Sanità è legata alla necessità di attraversare luoghi dove l’impatto della mancanza di lavoro e di servizi si sente maggiormente, elemento che lega tra loro la moltitudine di istanze differenti che hanno caratterizzato questo corteo. La composizione infatti era piuttosto eterogenea: disoccupate e disoccupati del Movimento 7 Novembre, lavoratrici e lavoratori di diversi settori – dalla logistica ai servizi – per lo più aderenti al sindacato Si Cobas, insieme a numerosi collettivi studenteschi. Presenti anche gruppi solidali con la resistenza del popolo palestinese, la rete Liberi/e di lottare contro guerra e decreto sicurezza, i comitati per l’ospedale e il parco San Gennaro, i lavoratori precari della ricerca accademica, che hanno promosso una giornata di sciopero nazionale prevista per il 12 maggio. Il corteo ha raccolto circa cinquecento persone, mettendo in connessione le differenti questioni: dalle istanze legate al mondo del lavoro – disoccupazione, sfruttamento, precarietà, lavoro nero, morti bianche – a quelle contro riarmo, guerra e repressione, fino alla riappropriazione dello spazio urbano e la necessità di interventi decisi contro caro-vita e caro-affitti. Per alcune ore ha sfilato tra le strade del quartiere, tra interventi al megafono e cori. La manifestazione si è conclusa in vico Arena alla Sanità, dove all’interno di un edificio utilizzato fino a qualche anno fa dall’azienda cittadina per la raccolta dei rifiuti vi è oggi la sede del movimento dei disoccupati organizzati. Al corteo non hanno potuto partecipare alcuni attivisti del centro culturale Handala Ali, che fin dalle prime ore del mattino si erano recati al Vomero, per esporre uno striscione sulla terrazza di Castel Sant’Elmo con la scritta “Libertà per Anan”, in riferimento alla detenzione nel carcere di Terni di Anan Yaeesh, cittadino palestinese residente da anni in Italia, e arrestato su esplicita richiesta del governo israeliano. Le forze dell’ordine hanno fatto a lungo pressione su attiviste e attivisti, i quali solo dopo alcune ore sono riusciti a compiere l’azione. Un secondo corteo è partito nel pomeriggio, alle quattro, da piazza San Domenico Maggiore, dietro uno striscione contro sfruttamento e precarietà lavorativa. Il corteo era organizzato da Potere al Popolo, dagli attivisti dell’ex Opg e del Movimento migranti e rifugiati, dal sindacato di base Usb e dalla Rete dei comunisti. La “passeggiata rumorosa” rivendicava esplicitamente come obiettivo un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, una maggiore sicurezza sul lavoro e la riduzione del numero di ore quotidiane, tutele e investimenti nel welfare anziché nella guerra. Il corteo ha attraversato Spaccanapoli, via San Sebastiano, i Tribunali, San Gregorio Armeno, arrestandosi in più punti per permettere ai partecipanti di ribattezzare le strade con fogli che portano i nomi di chi è morto sul lavoro: Yassin Boussena, per esempio, ragazzo di soli diciassette anni che ha perso la vita mentre lavorava in un’azienda di smaltimento del legno; Patrizio Spasiano, diciannovenne, tirocinante morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è riuscito a mettersi in salvo, perché si trovava sopra un’impalcatura; Nicolò Giacolone, trentaduenne travolto da un autogru; Luana D’Orazio, operaia tessile di ventidue anni, stritolata da un macchinario a Montemurlo. I loro nomi sono stati affissi proprio nei tratti più affollati dal passeggio turistico, tra pizzerie, trattorie e insegne colorate, sottolineando che in molti casi i procedimenti giudiziari nei confronti degli imprenditori e delle aziende responsabili per questo genere di decessi, non trovano seguito adeguato. In momenti come questi, fa effetto guardare la città che osserva. Dai bar ancora aperti i lavoratori spesso si affacciavano verso il corteo: qualcuno in silenzio, altri facendo un cenno d’intesa. Alcuni turisti scattavano foto, incuriositi, mentre i manifestanti gridavano che “il turismo non ci piace se ci toglie via le case”. Parecchi tra gli ambulanti, applaudivano intanto dalle loro bancarelle. Il corteo si è ricomposto dopo qualche ora a piazza San Domenico, dove la protesta si è chiusa con la lettura di alcune testimonianze scritte: lavoratori e lavoratrici impiegati per “giorni di prova” mai retribuiti, altre licenziate dopo anni di servizio perché incinte… Sono queste voci a chiudere una giornata che, in una città trasformata in vetrina, ha voluto ridare visibilità a chi lavora troppo, guadagna poco e muore dimenticato. (serena bruno e flora molettieri)
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Le case dei sogni, venerdì al festival Libbra. Un estratto del volume
(copertina di roberto-c.) Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).  Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.  *     *     *   Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori. Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro storico. L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta; laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi appartamenti. È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione” di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario. Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020, nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di sacrificare alcuni spazi della propria casa.   Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa. Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica – racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella piattaforma”. Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale che viene trattenuta da ogni prenotazione online. Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti. Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri lavori”. Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più. In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette, servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”. Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro. Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento, un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”. (barbara russo)
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Notizie del bello, dell’antico e del curioso della notte a Napoli #4
(archivio disegni napolimonitor) Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove andiamo?”. Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di intonaco. Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola. Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi dei locali, colpi di pistola. Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti, pur senza impedirmi di vederli e viverli». Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli, che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è vivace, ma anche caotica. Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi spazio tra la folla. Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice. «Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati». Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega. «Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”, quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata. Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone, creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare, se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino. Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere. «In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro. Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più inclusione, ma  l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai nottambuli. Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti. Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri, di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese) ____________________________ A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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