Estratti dalla puntata del 27 ottobre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia
CATANIA: IL LUPO SOTTO SGOMBERO Il LUPo (Laboratorio Urbano Popolare) è sotto
sgombero. Grazie al contributo di due occupanti cerchiamo di approfondire il suo
posizionamento nella geografia urbana e sociale di Catania, gli interessi che si
sovrappongono a un pezzo di […]
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(disegno di roberto-c.)
Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli
Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al
volume.
Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la
necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione
di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi
oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello
dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è
scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un
po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha
funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo
urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva
accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre,
marginale.
Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa
si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande
muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle
infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il
primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica
della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non
si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi
viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e
il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2
della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.
Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli
che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui
raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di
Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi
pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in
rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.
Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei
luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale,
ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale
dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’
tutti i contributi.
Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il
litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni
residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna
del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena
raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa
che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante
fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.
Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un
paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni
che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale
non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e
storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno
fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie
insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive,
rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi
ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.
Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una
traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge
speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero,
alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel
Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del
deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione,
che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed
economiche.
Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia
Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento
nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di
mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda
Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare.
Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti
diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo
gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela
Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi
essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri
esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che
l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle
parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici
che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli
con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso
e trascurato.
Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un
polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese
qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle
multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di
Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e
il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le
malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state
tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo
simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.
A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come
una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto
ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che
legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna
questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.
Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze
vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati
civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De
Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via
Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per
smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale
di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa
restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della
storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha
segnato la storia di questi luoghi.
Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia
ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali,
esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche,
stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura
collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità
a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che
attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa
condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha
prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno
spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e
riconoscimento.
Un uomo è deceduto questa mattina a Napoli durante un intervento dei
carabinieri; fermato col taser, è morto durante il trasporto in ospedale Hanno
provato a fermarlo bloccandolo, utilizzato il …
(disegno di marta fogliano)
Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali.
Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro
all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale,
visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati
con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con
ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al
termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione
dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare
la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno
affrontando.
Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una
informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e
sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel
2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando
che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più
importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non
peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto
svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario
(lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal
governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato”
l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a
carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un
paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore,
ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera
da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per
i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e
lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai
cittadini.
All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale
la pena riportare alcuni punti emblematici.
1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto
turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi
lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio
per permettere il mantenimento della colmata a mare).
2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto
dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si
faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì
«dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa
due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà
inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti
gli effetti associazioni di diritto privato).
3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta
rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la
fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe
comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una
volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una
piscina naturale.
4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità
assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due
litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la
spiaggia libera) «si dovrà aspettare».
5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani»
(e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli
sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione).
Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è
comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei
consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande
occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre
sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il
rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici
“servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per
l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo
intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre
visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta
smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un
enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri
difensori di quel piano.
È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il
risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni
di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a
discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due
porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del
bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede
di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di
Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se
quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel
2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e
Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli
doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il
governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei
suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non
può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per
impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati.
Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon
senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del
dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali
presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da
svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti.
Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che
recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di
Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare,
Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano,
lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza
quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune
stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica
ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli.
Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e
Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare
intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in
mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della
colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica.
Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno
non va a votare. (riccardo rosa)
(disegno di cyop&kaf)
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza
del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle
cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro
Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere
prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi
era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare
l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo
grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è
concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che
si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione
all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli.
Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso,
spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano
illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene
sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare
regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente.
La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio
amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di
stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano
stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo
di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto
atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i
provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza
consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere
eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti
ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem,
avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e
proporzionati”.
In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024
(e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione
eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o
che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga,
inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste
e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle
cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata
l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da
un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola
denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di
pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza
delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia
nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e
determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo
allorché vada ad integrare una norma penale”.
La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà
personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva
ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza,
legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
Foto di Matteo Ciambelli
Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli
spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita
Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori,
corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto
mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si
svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e
centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni,
cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura,
in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine.
Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi
giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno
persone, tutto più tranquillo».
Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della
Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai
cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di
scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la
spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si
intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare
l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha
avuto grossa diffusione.
La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid
sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di
Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti
nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo
aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre
erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A
compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli
amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in
questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio
tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di
calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che
sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte,
acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate
con la data della finale della Scugnizzo Cup.
A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol
più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori:
Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del
torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola
evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è
dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un
esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori
evitati in due metri quadrati.
Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra
linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci
sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce
quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson,
circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più
titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo,
vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per
tenere i tifosi lontani dal campo.
Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati.
«Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per
strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono:
«Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista
semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira
intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della
partita abbraccia il padre.
La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli
spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce
illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il
calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e
lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo
megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo
tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del
Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano.
Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice,
che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra,
palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I
tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo,
Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1),
probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano
articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre
importanti di serie A.
La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene:
capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto
all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e
lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua
figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai
fuochi d’artificio. (davide schiavon)
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di mario damiano)
15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la
trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli
nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica
nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le
altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca
convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza
per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie
Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per
Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che
accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi
prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che
obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della
sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e
scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al
mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio
di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa.
6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione
che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo
genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città
catalana.
Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato
contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi
ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del
resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni
di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se
ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience
televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene
spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I
finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro,
mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto
perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa
América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il
lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono
portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare
volontariato.
Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex
vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano
esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande
parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per
tutti.
Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è
operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte
presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio
pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe
essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è
limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento
barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno
ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i
pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da
venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non
hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno
continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo.
11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di
associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex
Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla
competizione.
Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare
il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa
ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de
Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca.
Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti
all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi
militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori
universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano
magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca
il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia
libera. 
Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio
Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone,
sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero
del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato
presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel
documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo
metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori
e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che
chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti,
associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene
che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale
per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura
quadruplicare”.
20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna
l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che
fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le
prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per
Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di
risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla
realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei
nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo
dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un
commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come
“contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari
alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa
cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma
non ci sono i soldi per fare questo intervento”).
Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede
poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul
molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti
barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali
(lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a
una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle
questioni non può neppure discuterne.
24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di
“visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una
“collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è
una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente
stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo
ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori
locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al
grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto
“resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi,
e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport.
1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con
l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio.
Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di
dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con
le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte
dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con
vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta
chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della
fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci
cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli
inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però,
rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo.
Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto
il mondo quello che sta succedendo qui”.
8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo,
direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive
dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia,
paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per
l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata
centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura
a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima
accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco
(“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento
delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente
appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione
alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver
informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la
mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella
presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una
vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di
costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un
grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la
baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e
yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa
per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
(disegno di martina di gennaro)
(segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo
nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il
suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da
piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le
arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma
le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di
essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti
anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche
di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a
quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e
tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere,
Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è
bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io
a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che
faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un
regalo di ceramica».
Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di
Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della
madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche
il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e
l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in
casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo
quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il
lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che
il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un
quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue
attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo
in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare
da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi
nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde
pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La
Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino
delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro
area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche
del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle
che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice
del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a
Scampia.
A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti.
Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme
a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna.
Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori,
figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto
ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono
allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto
numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di
parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le
donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche
il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua
figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello
stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul
lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una
sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile
somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle
foto dal telefono.
Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita
di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita
dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese
di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva
di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a
causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a
stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più
di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a
Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio
in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la
testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla
testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito
alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di
ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto
bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco:
mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu
culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco
strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è
dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta
di Rosa è riuscita molto bene.
O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO?
Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli,
aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei
manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che
associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione
psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato
unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la
cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta
dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì
all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di
trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della
riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova
considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto
sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò
al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale
psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò
i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di
riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –,
niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e
dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia:
perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti
palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro».
Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che
Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi
rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un
centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente
[…]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona».
Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio
del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di
Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona,
perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si
fa ogni giorno sui territori».
Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i
gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e
sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a
farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu
entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che
facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo
proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche
Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di
avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e
conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li
separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare
inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”,
dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i
pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le
innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni,
come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di
Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria,
l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e
soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del
Gattablu.
Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una
contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato
un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte
collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura:
il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio
non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del
quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del
Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione,
scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per
rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la
quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il
principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere.
Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e
da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare
pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la
zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di
“rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi
sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono
invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi.
La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo
slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio
clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un
concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure
professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle
degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non
fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e
centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di
licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto
di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima
del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri
operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute
mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco
avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal
prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per
non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori
artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel
tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega
Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che
sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo
andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il
momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del
battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate
a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le
scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare
un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà
quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh…
combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte
andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’
‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che
aiutiamo il quartiere…».
Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra
ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la
mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro,
un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il
Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le
fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in
diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata.
Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è
“itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico
a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui
Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e
mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in
cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno.
Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele
stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno.
Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi
decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e
Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né
aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla
cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di
decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a
lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie
palestinesi. (maria reitano)
In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le
interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio
2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23
aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e
11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista
del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal
Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella
ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione
Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La
Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta
pubblicamente il 27 settembre 2024.
(disegno di martina di gennaro)
Lucia è figlia del sarto del campo Arar di Poggioreale, ex deposito di residuati
bellici diventato nel dopoguerra uno degli insediamenti di baraccati della città
di Napoli. «Con Mirella abitavamo da piccoli a Poggioreale; e Mirella era il
nostro… faceva la scuola a tutti i bambini delle baracche. […] Eravamo tutti
piccolini quando c’era Felice, Mirella… E dopo tanti anni, l’ho incontrata al
Gridas; e lei mi ha abbracciata forte; ha detto: “Guarda un po’! Tu sei
Lucia!”».
Mirella La Magna e Felice Pignataro – che nel 1981, insieme ad altri, fonderanno
il Gridas, Gruppo Risveglio dal Sonno, stabilendosi nel centro sociale del rione
Monterosa di Scampia – erano arrivati al campo Arar nel 1967, dando inizio a una
scuola popolare ispirata alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani,
che prese poi il nome di Scuola 128. Come ha scritto anche Felice in Pasquale
Passaguai e altri racconti dalla Scuola 128, Mirella ricorda spesso che per
illuminare la baracca utilizzavano una lampada a gas, ma per le proiezioni,
anche se solo per un’ora o due alla settimana, non potevano fare a meno della
corrente elettrica, offerta proprio dalla baracca del sarto.
È l’anno scolastico 1968-69 e nella baracca 128 si fa scuola e si organizzano
assemblee e mobilitazioni per il diritto alla casa. Nel novembre 1969, la scuola
ha un improvviso calo di frequenze: le famiglie baraccate stanno finalmente
ottenendo le case e si stanno trasferendo. Alle 186 famiglie presenti nel campo
Arar alla fondazione della Scuola 128 sono state destinate le nuove case
popolari costruite a Secondigliano, vicino il rione Monterosa, le case Ises,
realizzate dall’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Nel ’69, ci sono
moltissime occupazioni di case popolari da parte di persone senza fissa dimora o
che abitavano in alloggi impropri. Secondo Antonino Drago, che nel 1974 riassume
in un testo le inchieste dei volontari sui campi baraccati di Napoli e le lotte
per l’assegnazione delle case, si tratta di circa novecento alloggi in tutta
Napoli. Le rivendicazioni si risolvono però in un sussidio mensile per gli
occupanti e in trasferimenti forzati di baraccati e altre assegnatarie nelle
case appena liberate, che come sottolineano Mirella e Felice “erano tutte
fetenti, senza vetri alle finestre, né acqua, né fogne, né luce elettrica, né
strade, all’altro capo di Napoli”.
Seguendo i trasferimenti, anche Mirella e Felice spostano la Scuola 128 e
trovano posto in uno scantinato delle nuove case Ises. Da questo momento in poi,
gli sradicamenti di persone dai quartieri in cui sono nate verso nuove zone di
lottizzazione edilizia, sconosciute, isolate e senza alcuna infrastruttura,
segnano l’urbanizzazione di Scampia e la vita di tante sue abitanti. «Io sono
venuta all’età di sette anni al Monterosa – spiega Lucia –; dove, prima, Scampia
era tutte terre; e le mie palazzine, dove abitavo [nel] ’70, erano le ultime
palazzine… le ultime; […] c’era il pullman, l’autobus 111, era l’ultima fermata;
e poi era tutto campagna: e che aria che c’era!».
ERA TUTTE TERRE
Nella casa di tre stanze del rione Ises, Lucia trascorse infanzia e adolescenza
con i suoi sei fratelli e sorelle e i suoi genitori. Cominciò a lavorare come
sarta, affiancando il padre nel lavoro. A tredici anni trovò lavoro come
parrucchiera, poi come macchinista in una fabbrica conciaria. A diciotto anni,
qualche mese prima del terremoto del 1980, andò via dalla casa dei genitori, si
sposò e, insieme a un gruppo di persone che voleva ottenere le case in nuova
costruzione a Scampia, occupò un ex sanatorio nel Vallone San Rocco, Villa
Caputi. «Volevamo le case… sono uscita pure sul giornale a fare lo sciopero, co’
‘na panza tanta. […] Eh, andavo a fare lo sciopero a piazza Municipio, io ero
incinta di otto mesi. Occupavamo i pullman…».
Dopo il terremoto, abitò ancora in occupazione in una scuola a Piscinola. «Sono
stata occupata là, avevo la bambina di diciassette giorni, stavo allattando. La
rimanevo a mia cognata e andavo là a scuola. Poi, dalla scuola, uscì questa casa
e sono andata a occupare questa casa: non c’erano le porte, non c’erano le
fontane, non c’erano i vetri, non c’era niente, abbiamo fatto tutto noi».
Dopo sei mesi di occupazione in un appartamento ai Sette Palazzi – rione di
Scampia nei pressi di quella che solo successivamente diventerà la stazione
della metropolitana – rientrò nella graduatoria per le case popolari. Si sarebbe
dovuta trasferire di nuovo in un altro quartiere, ma rifiutò, riuscendo poi a
ottenere l’assegnazione di quella casa, in cui ancora oggi abita con la sua
famiglia. Lucia mi racconta che all’inizio non voleva stare ai Sette Palazzi.
Rispetto al rione Ises, caratterizzato da dimensioni architettoniche a misura di
vicinato, il nuovo rione le sembrava troppo grande e dispersivo. «Mo, male a chi
me la tocca casa mia. Io rimango, fino alla morte. Esco da casa mia morta!».
Marco è di un paio d’anni più giovane di Lucia e anche lui si trasferì a Scampia
all’età di circa sette anni, ma da un altro quartiere di Napoli, Ponticelli. La
sua famiglia ottenne la casa in un rione costruito tra la fine degli anni
Sessanta e i primi anni Settanta, appena dopo il rione Ises, e conosciuto oggi
come “le Cappe”. Marco mi spiega che, poiché la zonizzazione della legge 167 ha
successivamente frammentato il quartiere in lotti distinti da lettere
dell’alfabeto, le persone impropriamente pensano che il modo di definire quel
rione derivi dal “lotto K”. Quello è invece il lotto U e la toponomastica con
cui lo si identifica si riferisce alla forma a “K” degli edifici. Marco abita
ancora in quella casa, nell’edificio a pianta semicircolare con i balconi tondi
che si affacciano sui campi sportivi dell’Arci Scampia e, oltre via Fratelli
Cervi, sul Parco Corto Maltese e sul Giardino dei Cinque Continenti e della
Nonviolenza, un tempo discarica abusiva in un cantiere edile abbandonato, oggi
giardino rivendicato dalla rete di associazioni Pangea di Scampia, informalmente
costituitasi nel quartiere. Gli chiedo che cosa si veda dal suo balcone: «Del
quartiere che vedo? Gente buona e gente cattiva… e poi vedo ‘e cose della
Gattablu, che abbiamo cambiato noi».
Il Gattablu, centro diurno di riabilitazione di Scampia, è negli anni diventato
famoso nel quartiere per aver associato, grazie a laboratori artistici
collettivi, educatori e operatrici socio-sanitarie illuminate, l’arte pubblica
alla riabilitazione psico-sociale e per aver diffuso a Scampia, e non solo,
installazioni artistiche negli spazi pubblici e sociali. Nel tempo, dallo stesso
balcone, Marco ha assistito all’urbanizzazione di quel rione: quando ci si
trasferì da bambino, c’erano le case e basta, intorno neanche le strade. «Perché
era tutt’ terre, tutte terre: e noi giocavamo sulle terr… sul terreno; non
c’era… purtroppo, calcetti, non c’era niente; con le bici, giocavamo per strada,
era terra però. […] Tutte terre, tutte terre: andavamo pure a coltivare le
arance; le arance, la verdura; noi ragazzi andavamo a prendere la verdura…».
Anche Simona conserva la memoria rurale di Scampia. Anche se molto nitida, è una
memoria tramandata più che vissuta, dato che Simona è di una generazione più
giovane di Lucia e Marco. Si è trasferita anche lei a Scampia da bambina,
proveniente da San Pietro a Patierno, all’inizio degli anni Novanta. Mi confida
che ancora oggi le capita di sognare la sua vecchia casa. La famiglia non poté
più rimanere in quell’appartamento e si spostò nella casa popolare in cui
abitava la nonna di Simona e in cui sua madre aveva trascorso l’infanzia. È
infatti sua madre a raccontarle com’era Scampia. «Erano tutte terre. Infatti,
Scampia era un borgo rurale, erano solo terre, si coltivava e basta… poi vennero
cacciati i contadini per fare… […] La Villa dei Serpenti, o la Villa
dell’Imperatore, è stata abbattuta all’inizio degli anni Sessanta per fare
spazio a strade e palazzi. È rimasta solo quell’aiuola al centro là, ma quella
doveva essere bellissima…».
Simona abita nello stesso rione di Marco e anche lei è stata testimone della
trasformazione dei luoghi vicini. Tra i suoi ricordi, c’è la fatica, ma anche
l’orgoglio, di trasportare litri d’acqua fino al giardino di Pangea, quando gli
allacci dell’acqua non c’erano e gli alberi piantati sulla discarica venivano
ostinatamente innaffiati con i secchi. L’acqua è arrivata due anni dopo, nel
2018, e l’evento eccezionale è stato riconosciuto dalle attiviste e abitanti che
avevano preso in cura lo slargo abbandonato come “miracolo dell’acqua” a opera
di San Ghetto Martire, carro allegorico creato dal Gridas e Santo Protettore
delle Periferie.
Tra le persone che intervisto, chi è arrivata a Scampia dopo il terremoto da
zone della città più vicine come Marianella e Piscinola, lega il ricordo rurale
a queste ultime e a Scampia quello dei “palazzoni” da poco costruiti. Luca non
ricorda l’anno in cui è arrivato a Scampia. Sa che quando ci fu il terremoto
abitava a Marianella con i suoi genitori, che morirono quando lui era ancora
molto piccolo. A Scampia arrivò con una delle sorelle e la sua famiglia,
trovarono casa in occupazione nella Vela Rossa. Luca mi racconta che nelle Vele
succedevano sempre “tarantelle” e che lui e la sorella venivano continuamente
minacciati perché lasciassero la casa. Si sono poi trasferiti nelle case nuove,
quelle costruite nel lotto delle prime tre Vele abbattute e consegnate nel 2016.
Oggi, dalla casa nuova, Luca può affacciarsi sulla Villa di Scampia, il parco
Ciro Esposito.
Alla famiglia di Carla invece, originaria di Piscinola, la casa fu assegnata già
nel ’74, nel rione don Guanella. Carla però vi si trasferì solo anni dopo,
proprio nell’80, uscita dal collegio in cui aveva trascorso tutta l’infanzia con
la sorella. La madre le aveva raccontato che quando arrivarono in quella casa,
al contrario di quanto accadeva spesso nel quartiere, i lavori di costruzione
erano stati completati. Mancavano solo gli ascensori e loro abitavano al settimo
piano. Così, all’inizio, suo padre portò sulle spalle la lavatrice e altre cose
strettamente necessarie, mentre i mobili li sistemarono dopo che si erano
trasferiti, un po’ alla volta, pagandoli a rate con quello che i suoi genitori
guadagnavano facendo il muratore e la fruttivendola. Sara non ha bei ricordi di
Scampia, me ne parla poco. I suoi ricordi d’infanzia sono tutti legati a
Marianella: quello è il suo quartiere. Fu costretta a trasferirsi a Scampia con
la sua famiglia nelle Case dei Puffi, o lotto P, subito dopo il terremoto. Mi
racconta che li “appoggiarono” lì temporaneamente, in attesa che fosse
riconosciuta loro l’assegnazione di un’altra casa.
Sara aveva diciassette anni. Usciva solo per andare a lavorare in una fabbrica
di borse a Marianella e fare qualche commissione. In quella casa di due stanze
da letto e un bagno rimase con i suoi genitori, il suo ex-marito e i suoi primi
due figli fino al ’96, quando finalmente la sua famiglia ottenne il “rientro” a
Marianella, in una casa, questa volta, che Sara riconosce come sua. «È
bellissima, è una bella casa. È chiamato il Parco delle Rose, perché papà poi ci
piaceva piantare e piantò le rose… Sta l’insegna fuori: Parco delle Rose».
(maria reitano – continua…)