(una storia disegnata di ginevra naviglio)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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(disegno di ….)
Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta
monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del
cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli.
Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche”
di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi
edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici,
grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon
Metro della Regione.
Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di
Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono
ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per
la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti
esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che
hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da
quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”.
Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal
gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore
all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in
particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano
speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma
occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione
temporanea della durata di tre anni.
Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in
occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione
temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare
all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si
impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il
debito e pagare la tassa dei rifiuti.
Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato
degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il
Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza
agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da
mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire
come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per
concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto
incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora
senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con
gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato
richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi
fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la
conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica.
L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo
la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in
videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”.
Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile –
continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti
prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha
mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi
assessori non gli diranno quel che si deve fare”.
Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del
piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi
di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto
loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la
situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca
con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni.
La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del
Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del
comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente
dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che
conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del
comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve
avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure,
noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una
copertura politica non si muovono”.
Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica
da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata
un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è
stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il
sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
(disegno di Atti)
Riceviamo e pubblichiamo un comunicato diffuso dall’Assemblea popolare di
Bagnoli e dei Campi Flegrei relativo all’ultimo incontro con assessori e
dirigenti del comune di Napoli. Al termine della riunione gli amministratori
hanno garantito un intervento sui punti emersi e risposte precise entro il 14
maggio, data fissata da tempo per un incontro tra l’Assemblea e tutti gli
assessori competenti sulla questione bradisismica (politiche sociali e
urbanistica, oltre a quelli delegati alla protezione civile e alla polizia
municipale).
* * *
L’ASSEMBLEA POPOLARE INCONTRA IL COMUNE DI NAPOLI: RISPOSTE CHIARE PER GLI
ABITANTI DI BAGNOLI E DEI CAMPI FLEGREI
Si è tenuto ieri, nella sede bagnolese della X Municipalità, un incontro sul
tema della crisi bradisismica tra una delegazione dell’Assemblea popolare di
Bagnoli e dei Campi Flegrei e alcuni rappresentanti delle istituzioni: la
presidente del consiglio comunale Enza Amato, l’assessore alle politiche sociali
Luca Trapanese, la dirigente del Servizio sicurezza abitativa Valeria Vannella e
il presidente della municipalità Carmine Sangiovanni. Su richiesta degli
abitanti del quartiere presenti, l’incontro si è svolto pubblicamente tra i
banchi del parlamentino di via Acate, così che tutti (più di cinquanta persone)
hanno potuto prendere atto della dialettica tra le richieste-rivendicazioni
degli abitanti e le posizioni istituzionali. Pur mantenendo un approccio critico
rispetto all’insufficienza delle azioni intraprese fino a questo momento, come
Assemblea popolare abbiamo cercato di mantenere un atteggiamento propositivo e
in particolare abbiamo individuato e sottoposto ai rappresentanti istituzionali
alcuni punti che necessitano risposte immediate. Gli assessori si sono impegnati
a dare risposte concrete a questi punti e a riferirle nell’ambito dell’incontro
che si svolgerà il prossimo 14 maggio a palazzo San Giacomo.
Queste le rivendicazioni dell’assemblea:
1) Ristrutturazione dello sportello per i cittadini nella sede della
municipalità di via Acate. Si richiede il dislocamento in loco, per otto ore al
giorno, di professionalità organiche all’amministrazione comunale e non alla
municipalità, professionalità capaci di dare risposte ai cittadini su tutta la
vasta gamma di questioni sulle quali sono necessarie informazioni o interventi.
È fondamentale un contatto diretto tra amministrazione e cittadinanza, senza che
nessuno possa più nascondersi dietro ostacoli burocratici, rimpalli di
responsabilità o formule del tipo “non è di nostra competenza”.
2) Garanzie sul destino delle persone ospiti delle strutture alberghiere e del
centro comunale di Marechiaro allo scadere della proroga del 20 maggio. Ci
aspettiamo da subito che il comune rassicuri pubblicamente i cittadini
comunicando chiaramente che al 21 maggio nessuno tra gli sfollati verrà mandato
in strada. In particolare è necessario pensare a tutti i meccanismi possibili
che possano rendere efficace l’utilizzo del CAS per la ricerca di autonoma
sistemazione per gli aventi diritto. In assenza di un piano che intervenga sulle
garanzie richieste dai proprietari e sulla difficile ricerca di immobili
disponibili, il termine del 20 maggio sarà destinato a essere oggetto di
richiesta di ulteriori proroghe. Necessaria è inoltre una soluzione immediata
per chi ha riscontrato problematiche burocratico-amministrative per l’accesso al
CAS e al momento risulta ugualmente sfollato dalla propria abitazione.
3) Chiarezza nell’iter per l’accesso ai fondi relativi alla ristrutturazione
degli edifici; proroga dei termini per la richiesta del sopralluogo propedeutico
al rilascio della scheda AEDES; sospensione immediata, per chi sta effettuando
gli interventi, del canone di occupazione di suolo pubblico.
4) Pubblicazione di una circolare che rassicuri i cittadini rispetto al fatto
che chi non riuscirà, per ragioni logistiche (come la difficoltà a trovare ditte
che possano intervenire in tempi così brevi) a portare a termine gli interventi
prescritti entro i tempi indicati, non incorrerà nell’iter canonico
“diffida-ordinanza-denuncia”.
5) Attivazione di un meccanismo burocratico che impedisca l’avvio di
provvedimenti amministrativi e giudiziari a danni dei cittadini, nel momento in
cui prescrizioni come il transennamento di una strada vengono violate da ignoti.
6) Attivazione di un meccanismo amministrativo che ripensi o ristrutturi i
provvedimenti più contraddittori, ostativi persino agli interventi edilizi,
emessi fino a questo momento (tra questi le diffide a utilizzare scale – ma non
appartamenti – all’interno di edifici, o l’impraticabilità di appartamenti fatte
salvo una o due stanze).
7) La chiara, pubblica e se necessario conflittuale rivendicazione da parte del
comune di Napoli per un intervento governativo massiccio e immediato in termini
di stanziamento di fondi per il miglioramento sismico di tutti gli edifici del
quartiere, partendo dal presupposto della totale insufficienza delle risorse
messe in campo con il recente decreto. Se l’organo di rappresentanza della
cittadinanza intende davvero esserne supporto e alleato, così come sostenuto, è
indispensabile che si faccia sentire per pretendere dal governo azioni che
impediscano lo svuotamento del quartiere. È questo, infatti, il processo che già
si sta innescando, presupposto decisivo per speculazioni che pianificano la
graduale deportazione degli abitanti bagnolesi meno tutelati in quartieri più
periferici e della provincia, a beneficio di altri settori sociali e di altri
insostenibili modelli economici e di sviluppo, come quello turistico.
L’assemblea popolare continuerà ad incontrarsi nelle prossime settimane per
proseguire l’attività di informazione, monitoraggio e mobilitazione, che durerà
tutto il tempo necessario ed in particolare fin quando ogni singolo abitante
sfollato dalla propria abitazione non rientrerà nella propria casa.
(disegno di blu)
«Tanti tra noi sono nati e vivono in questo quartiere. Ne conosciamo bene le
problematiche». A parlare è Antonio Silione, del movimento Disoccupati 7
Novembre e del Comitato San Gennaro. «Abbiamo voluto che il corteo del primo
maggio partisse dal rione Sanità per dei motivi concreti: qui di fronte si trova
l’ospedale San Gennaro, un presidio che offriva servizi sanitari essenziali a
decine di migliaia di abitanti della zona, chiuso nel 2017. A pochi passi c’è
anche il parco San Gennaro: circa sei ettari di foresta mediterranea,
inaccessibile da anni. Tutto questo in un quartiere storicamente popolare, oggi
invaso da turisti e b&b, l’unico modello di “lavoro” su cui si punta».
Numerosi anche quest’anno sono stati gli appuntamenti promossi da collettivi,
movimenti e sindacati in occasione del primo maggio a Napoli. Il primo è stato
il corteo partito intorno alle dieci dall’ospedale del popolare quartiere del
centro. La scelta di far partire il corteo dalla Sanità è legata alla necessità
di attraversare luoghi dove l’impatto della mancanza di lavoro e di servizi si
sente maggiormente, elemento che lega tra loro la moltitudine di istanze
differenti che hanno caratterizzato questo corteo. La composizione infatti era
piuttosto eterogenea: disoccupate e disoccupati del Movimento 7 Novembre,
lavoratrici e lavoratori di diversi settori – dalla logistica ai servizi – per
lo più aderenti al sindacato Si Cobas, insieme a numerosi collettivi
studenteschi. Presenti anche gruppi solidali con la resistenza del popolo
palestinese, la rete Liberi/e di lottare contro guerra e decreto sicurezza, i
comitati per l’ospedale e il parco San Gennaro, i lavoratori precari della
ricerca accademica, che hanno promosso una giornata di sciopero nazionale
prevista per il 12 maggio.
Il corteo ha raccolto circa cinquecento persone, mettendo in connessione le
differenti questioni: dalle istanze legate al mondo del lavoro – disoccupazione,
sfruttamento, precarietà, lavoro nero, morti bianche – a quelle contro riarmo,
guerra e repressione, fino alla riappropriazione dello spazio urbano e la
necessità di interventi decisi contro caro-vita e caro-affitti.
Per alcune ore ha sfilato tra le strade del quartiere, tra interventi al
megafono e cori. La manifestazione si è conclusa in vico Arena alla Sanità, dove
all’interno di un edificio utilizzato fino a qualche anno fa dall’azienda
cittadina per la raccolta dei rifiuti vi è oggi la sede del movimento dei
disoccupati organizzati. Al corteo non hanno potuto partecipare alcuni attivisti
del centro culturale Handala Ali, che fin dalle prime ore del mattino si erano
recati al Vomero, per esporre uno striscione sulla terrazza di Castel Sant’Elmo
con la scritta “Libertà per Anan”, in riferimento alla detenzione nel carcere di
Terni di Anan Yaeesh, cittadino palestinese residente da anni in Italia, e
arrestato su esplicita richiesta del governo israeliano. Le forze dell’ordine
hanno fatto a lungo pressione su attiviste e attivisti, i quali solo dopo alcune
ore sono riusciti a compiere l’azione.
Un secondo corteo è partito nel pomeriggio, alle quattro, da piazza San Domenico
Maggiore, dietro uno striscione contro sfruttamento e precarietà lavorativa. Il
corteo era organizzato da Potere al Popolo, dagli attivisti dell’ex Opg e del
Movimento migranti e rifugiati, dal sindacato di base Usb e dalla Rete dei
comunisti. La “passeggiata rumorosa” rivendicava esplicitamente come obiettivo
un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, una maggiore sicurezza sul
lavoro e la riduzione del numero di ore quotidiane, tutele e investimenti nel
welfare anziché nella guerra.
Il corteo ha attraversato Spaccanapoli, via San Sebastiano, i Tribunali, San
Gregorio Armeno, arrestandosi in più punti per permettere ai partecipanti di
ribattezzare le strade con fogli che portano i nomi di chi è morto sul lavoro:
Yassin Boussena, per esempio, ragazzo di soli diciassette anni che ha perso la
vita mentre lavorava in un’azienda di smaltimento del legno; Patrizio Spasiano,
diciannovenne, tirocinante morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è
riuscito a mettersi in salvo, perché si trovava sopra un’impalcatura; Nicolò
Giacolone, trentaduenne travolto da un autogru; Luana D’Orazio, operaia tessile
di ventidue anni, stritolata da un macchinario a Montemurlo. I loro nomi sono
stati affissi proprio nei tratti più affollati dal passeggio turistico, tra
pizzerie, trattorie e insegne colorate, sottolineando che in molti casi i
procedimenti giudiziari nei confronti degli imprenditori e delle aziende
responsabili per questo genere di decessi, non trovano seguito adeguato.
In momenti come questi, fa effetto guardare la città che osserva. Dai bar ancora
aperti i lavoratori spesso si affacciavano verso il corteo: qualcuno in
silenzio, altri facendo un cenno d’intesa. Alcuni turisti scattavano foto,
incuriositi, mentre i manifestanti gridavano che “il turismo non ci piace se ci
toglie via le case”. Parecchi tra gli ambulanti, applaudivano intanto dalle loro
bancarelle.
Il corteo si è ricomposto dopo qualche ora a piazza San Domenico, dove la
protesta si è chiusa con la lettura di alcune testimonianze scritte: lavoratori
e lavoratrici impiegati per “giorni di prova” mai retribuiti, altre licenziate
dopo anni di servizio perché incinte… Sono queste voci a chiudere una giornata
che, in una città trasformata in vetrina, ha voluto ridare visibilità a chi
lavora troppo, guadagna poco e muore dimenticato. (serena bruno e flora
molettieri)
(copertina di roberto-c.)
Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei
sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La
presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle
Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo
Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).
Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.
* * *
Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a
Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di
affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori.
Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo
il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre
degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da
multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole
in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta
giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di
attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la
piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità
sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo
stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita
anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di
gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano
annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai
quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e
Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro
storico.
L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri
contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb
soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di
disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di
informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da
chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni
dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo
momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende
conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta;
laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi
appartamenti.
È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca
di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione”
di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di
confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una
posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere
di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario
immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio
imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario.
Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020,
nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il
centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente
impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità
di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di
sacrificare alcuni spazi della propria casa.
Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa
in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si
trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa.
Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera
abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle
attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica –
racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui
si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la
camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si
cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è
liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella
piattaforma”.
Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo
un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della
rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si
limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con
l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale
che viene trattenuta da ogni prenotazione online.
Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti
simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi
ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio
non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti.
Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero
era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è
fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la
gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone
fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina
molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento
in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché
andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti
raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la
biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era
costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una
stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri
lavori”.
Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori
legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività
commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo
iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di
accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più.
In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi
spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette,
servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non
c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la
stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”.
Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema
ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro
verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè
affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela
turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A
un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci
ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e
abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da
fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro.
Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come
adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento,
un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”.
(barbara russo)
(archivio disegni napolimonitor)
Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi
vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove
andiamo?”.
Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre
quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il
traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la
percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette
e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli
più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente
illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi
vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di
intonaco.
Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola.
Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno
coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi
dei locali, colpi di pistola.
Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la
facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi
bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in
carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni
vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia
stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del
luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la
violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe
situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono
la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei
genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti,
pur senza impedirmi di vederli e viverli».
Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli,
che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni
sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un
continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street
food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci
sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai
balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico
poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si
riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è
vivace, ma anche caotica.
Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti
tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio
difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa
saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco
gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi
spazio tra la folla.
Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il
posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce
bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice.
«Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati».
Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In
realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega.
«Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”,
quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a
Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata.
Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone,
creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può
costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico
stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne
immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo
tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a
suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare,
se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a
raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony
Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino.
Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non
riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere.
«In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così
tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga
per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono
posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove
non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei
locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano
facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi
andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro.
Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la
facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi
sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero
di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più
inclusione, ma l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in
cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi
sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena
sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai
nottambuli.
Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso
casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi
racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti.
Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di
frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri,
di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone
giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
Sarà presentato venerdì 11 aprile, alle ore 18 al Teatro Bellini (via Conte di
Ruvo, 14), il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e
turismo a Napoli. L’autore discuterà del volume con Giovanni Laino (Associazione
Quartieri Spagnoli) ed Enrica Morlicchio (università Federico II).
Pubblichiamo a seguire un nuovo estratto del libro.
* * *
GLI ENTI INTERMEDI
Le caratteristiche dei corpi associativi intermedi che operano in campo sociale
e culturale si potrebbero sbrigativamente descrivere comparandole con quelle
degli ultracorpi – quindi meno risorse, meno relazioni influenti, meno
attenzione dai media –, ma questo non basterebbe a esaurire il quadro del loro
sviluppo e l’analisi delle loro attuali difficoltà.
Nati in un arco di tempo piuttosto ampio, caratterizzato da rapidi mutamenti dei
contesti sociali, politici e anche normativi di riferimento, questi enti
presentano campi di intervento, forme giuridiche e strutture organizzative
troppo disparate per poterle esaminare nel dettaglio, ma tutti si trovano oggi
ad affrontare alcuni nodi fondamentali dai quali dipende il senso stesso del
loro operato e in ultima istanza la loro sopravvivenza.
I più longevi vantano una lontana origine “militante”, eredità di esperienze
sociali collegate ad appartenenze politiche o religiose, anche se da tempo quei
principi sono stati abbandonati per adattarsi a scenari ormai radicalmente
mutati. Una prima tappa di questi mutamenti, negli anni Ottanta, si registra con
la grande diffusione delle associazioni di volontariato, in cui avviene un
massiccio travaso di giovani fuoriusciti da partiti politici e movimenti di
base. “Fino a metà degli anni Novanta – ha scritto Giovanni Laino¹ – si realizza
una fase per cui, con le iniziative dal basso, ‘i progetti sollecitano le
politiche’. Dalla fine degli anni Novanta invece in tutto il Paese si realizza
una fase diversa, più matura per quanto problematica e ambigua, in cui sono ‘le
politiche che sollecitano i progetti’, nel senso che diverse iniziative sembrano
indotte soprattutto da opportunità di finanziamento”.
È in questo frangente che svaniscono le residue illusioni di un intervento
sociale autonomo e politicamente alternativo. Un numero crescente di
associazioni e cooperative assume su di sé funzioni di interesse pubblico su
mandato delle amministrazioni, inserendosi in un sistema di mercato con gare
basate sul principio del massimo ribasso; emergono nuove forme giuridiche,
cambia il rapporto con le istituzioni e la competizione si approfondisce,
tracciando confini sempre più netti tra due modi di operare: l’autonomia,
l’autogestione, il mutuo aiuto, che erano stati i principi all’origine di molte
organizzazioni nate negli anni Settanta, vengono progressivamente relegati nel
campo dell’iniziativa informale; si affermano invece la gestione burocratica, la
gerarchizzazione, il collateralismo politico, uniformando in un unico
contenitore – quello del terzo settore – tutte le forme di intervento, dal
volontariato all’associazionismo fino alla cooperazione. Lo slittamento verso il
mercato e le logiche d’impresa sarà inesorabile, prima marginalizzando e poi
eliminando del tutto, da pratiche e statuti, le caratteristiche delle origini.
Nel welfare pubblico in crisi dilaga il sistema dei servizi esternalizzati, dei
bandi, della competizione tra enti, territori, popolazioni per aggiudicarsi
fiducia e finanziamenti istituzionali. L’altra faccia della “soluzione
imprenditoriale”, che oggi gli ultracorpi propongono per “rigenerare” le città,
si mostra in tutta la sua crudezza a questi enti intermedi, che non avendo i
mezzi per competere su una scala più ampia, sono costretti a battagliare con i
loro omologhi, da un lato per accaparrarsi i beneficiari dei servizi offerti,
dall’altro per attirare i finanziamenti necessari per realizzare le proprie
attività, e in definitiva per avere la possibilità di continuare a esistere.
Le condizioni di esistenza, però, appaiono sempre meno sotto il loro controllo.
Gli appalti dei servizi pubblici a enti “accreditati”, richiedono infatti un
tipo di monitoraggio esercitato dall’alto con criteri sempre più stringenti. È
necessario esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che
numeri. Quello che era nato come un intervento basato sulla prossimità e sulle
relazioni umane, sta traslocando in una dimensione virtuale². D’altra parte,
anche i finanziatori privati, per decidere dove collocare le proprie risorse,
richiedono progetti “innovativi”, “attrattivi”, che possano accrescerne la
reputazione, a scapito di iniziative magari meno brillanti ma più rispondenti
alle esigenze reali dei destinatari.
Il rispetto dei parametri fissati da chi mette i soldi, l’espletamento delle
pratiche burocratiche necessarie prima ad aggiudicarsi i finanziamenti e poi a
rendicontarne le spese, prevale ormai sullo sforzo di connettere le proprie
attività con i bisogni strutturali di un territorio, con i servizi essenziali
per i suoi abitanti, con le esigenze di partecipazione e le prospettive di
emancipazione.
QUALE LAVORO
Tra gli “effetti collaterali” di questo sistema vi sono, da un lato, la
difficoltà di mettere alla prova e consolidare nel tempo esiti e strategie di
intervento, dall’altro la precarietà ormai cronica di educatori e operatori
sociali, privi di garanzie contrattuali e soggetti all’estrema volatilità di
progetti e finanziamenti.
La precarietà, l’instabilità, in particolare per ciò che riguarda le condizioni
di lavoro, sono caratteristiche costitutive di gran parte degli enti intermedi.
Gli ultracorpi hanno risorse sufficienti per offrire ai propri dipendenti
contratti di lavoro regolari; inoltre, sono così esposti sui mezzi di
comunicazione da non potersi permettere irregolarità formali nello svolgimento
delle proprie attività. La fondazione FoQus sostiene di aver creato 168 posti di
lavoro in dieci anni; la cooperativa La Paranza dichiara 45 tra dipendenti e
soci, e più in generale, la galassia di cooperative e associazioni nell’orbita
della fondazione San Gennaro darebbe lavoro a circa 150 persone. Da questi
numeri (che peraltro non ci dicono nulla sulle condizioni in cui viene
esercitato il lavoro), gli ultracorpi deducono, oltre che una conferma della
propria natura benefica, un corollario più ottimista, e non verificato, che
consisterebbe in un “contagio positivo” verso l’ambiente che li circonda. Lo
vedremo meglio trattando dei servizi al turismo nel capitolo sesto, ma intanto
possiamo affermare che se gli ultracorpi riescono a garantire contratti regolari
ai propri dipendenti, questa pratica non si trasmette automaticamente agli enti
intermedi, i quali continuano a offrire perlopiù lavoro precario e non garantito
a chi si impiega alle loro dipendenze³.
Il lavoro sociale svolto su mandato delle pubbliche amministrazioni è vincolato
a rigidi protocolli, definiti spesso in modo astratto e standardizzato. I
lavoratori sono assunti secondo contratti del settore privato (per esempio il
contratto nazionale delle cooperative sociali) che offrono meno tutele rispetto
a quelli pubblici; il loro lavoro è generalmente riconosciuto nei bandi sotto
forma di ore e minuti “erogati” all’utenza, quindi solo in considerazione della
quantità di lavoro necessaria a garantire un determinato servizio, e per periodi
limitati di tempo (la durata degli appalti). Le modalità in cui vengono forniti
questi servizi sono demandate interamente all’ente che si aggiudica l’appalto.
Da qui l’abnorme diffusione di part-time e contratti a tempo determinato,
l’altissima intensità di lavoro, le numerose forme di precarizzazione e di
incertezza nell’organizzazione del lavoro.
I mestieri di educatore, operatore sociale o culturale, e in genere tutte quelle
figure professionali emerse con la crescita del terzo settore, hanno perso da
tempo il fascino esercitato per una breve stagione su chi si era illuso di poter
vivere con un lavoro quasi “nobile”, e uno stipendio quasi intero. Le storie di
oggi parlano di lavoratori impegnati in ambiti diversissimi – dai centri estivi
per bambini ai penitenziari, dalle comunità per minori ai centri di salute
mentale –, spaziando dai compiti educativi a quelli di contenimento e controllo,
alle prese con esigenze, codici di condotta e abilità richieste molto diverse da
un ambito all’altro. Eppure, il profilo di chi presta servizio in questi enti si
è andato uniformando, e sempre più sbiadendo, con il passare del tempo:
l’attitudine flessibile, polifunzionale, intercambiabile, al di là di ogni
eventuale qualificazione; la disponibilità a lavorare senza protezione
normativa, talvolta senza contratto, con salari bassi o bassissimi, spesso
differiti nel tempo; l’auto-sfruttamento, ovvero la confusione con la militanza
per una causa, incentivata dai superiori, ma talvolta introiettata dagli stessi
operatori pur di non interrompere il rapporto di lavoro; questi e altri fattori
compongono un’identità incerta, lontana da quella “sicurezza di rappresentanza”
che dovrebbe caratterizzare ogni impiego dignitoso. Si aggiunga la tendenza
sempre maggiore a investire queste figure di compiti amministrativi e
burocratici che esulano dalle loro mansioni, e l’accelerazione tecnologica che,
mutando l’organizzazione del lavoro, muta anche le linee di comando, affidate
sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi; una fase di
transizione in cui anche i presunti beneficiari dei servizi vedono cambiare il
proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur
minimo margine di valore e di potere⁴.
Se quaranta o cinquanta anni fa, gli antenati di questi enti sorgevano da
processi realmente collettivi e in un orizzonte di emancipazione possibile, nel
tempo la formalizzazione e la costituzione di status e gerarchie interne, ha
prodotto un totale disinteresse, da parte chi si trova sul fondo di queste
gerarchie, per tutto ciò che non riguardi il proprio strettissimo dovere – di
pari passo con la perdita della capacità di organizzarsi per difendere i propri
diritti. Oggi, di fronte a operatori sempre più precari, ma anche abulici dal
punto di vista politico e sindacale, si assiste al paradosso di dirigenti che
“fanno politica” o “fanno sindacato” al posto loro, con accenti nominalmente
progressisti ma per obiettivi concretamente corporativi, lamentando da un lato
quella precarietà che loro stessi alimentano, dall’altro chiedendo alle
istituzioni più risorse e agevolazioni per i propri enti.
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¹ Laino G., Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come
attivazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 117.
² “La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività
diventava subordinata a questa richiesta. […] L’unico interesse dietro queste
procedure [era] l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità
sul mercato dei ‘servizi’, a scapito della reale qualità della vita delle
persone coinvolte”: testimonianza di un’operatrice sociale in Curcio R. (a cura
di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del
terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022, p. 36.
³ Si vedano: Curcio R. (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro
nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici,
Sensibili alle foglie, Roma, 2014; Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul
lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili
alle foglie, Roma, 2022.
⁴ Si veda questa acuta analisi in: www.laterratrema.org/2021/03/
poveri-stoccati-connessi/.
(disegno di mario damiano)
Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di
indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro
utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli
altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più
ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana
che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a
trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona
parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli
fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa.
Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia
da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso
e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e
nelle case dagli abitanti superstiti.
* * *
L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele,
sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera
silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare
cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno
altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in
casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì
dentro.
Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti
sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a
invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”.
L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non
era necessario.
I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera
quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a
trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom,
che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di
togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare
che qualcuno possa entrare nelle loro case.
Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo
che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice –
erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima
ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto
quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano
tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile
toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere,
vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo».
Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è
ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e
chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di
Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha
distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela
Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi
figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle.
«Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui
ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno
portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che
faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata
e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo
qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno
mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito
strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase
del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto
tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci
hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui
sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai
chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro
per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere».
Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di
tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre
riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la
“chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento,
trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le
abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua
e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei
figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È
difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele,
hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei
nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di
cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto,
anche un buco mi andrebbe bene».
Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di
ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e
si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le
cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di
Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma
dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati
di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».
Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più
sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli
e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli
operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna
a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con
me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far
vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna.
PER SEMPRE 901
Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti
sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza,
per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla
propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è
scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti
mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”.
Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro
forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri
al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno
uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo
spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari,
quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020.
Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di
uno sviluppo per la zona nord di Napoli.
Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite.
Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello.
Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere
che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da
Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni
trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle
tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si
trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora
più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le
nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista;
dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco,
«una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e
ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un
grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io.
Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul
riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice –
una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da
quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite
anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le
persone che volevano acquistarla».
Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di
immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani
mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque,
tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla
sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per
il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono
arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate
dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono
lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e
mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».
Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia
media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto
del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel
quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un
forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto
di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato
poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica,
che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale
di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde
l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto
firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart
Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per
quattro anni e mezzo, il nulla.
L’ULTIMO GIORNO
Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di
ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi,
anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter
rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i
frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha
danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano
all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla
calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi
potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e
scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è
stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai
era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter
uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta
gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del
sole, uscendo, è una liberazione», dice.
Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche,
anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto,
le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima
generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi
per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i
ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare.
L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò
l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il
primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro
di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati
da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le
lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento
del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica.
È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono
da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte
le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è
più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano
accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano,
che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho
chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere
gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà
a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le
cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con
grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua
sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi
sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo
un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto
incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive
qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una
personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e
prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere
cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello
delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
(una storia disegnata di mattia vincenzo abbruzzese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di malov)
Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca,
studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di
dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione
intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il
rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240,
l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un
osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di
ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in
quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene
proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di
portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico
dell’ateneo.
Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un
percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel
corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta
una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la
ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione
concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20
marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come
giornata nazionale delle università.
Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università
svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture
straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però,
non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale
dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240
rischia di diventare irreparabile.
L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un
manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato
di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del
pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi
premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia
nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di
logiche di mercato e militari su didattica e ricerca.
Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20
marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al
mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte
sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e
invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In
seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della
Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra
ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a
cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello,
“ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il
personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza
tutele e prospettive di stabilizzazione.
Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno
complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi
storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto
“Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a
Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel
sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle
università telematiche.
Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università
– privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i
rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che
tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche
cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance
accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma
rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna.
“Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi
proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa
dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con
stati genocidi. Voi cosa dite?”.
Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea
precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti
dei rettori visibilmente imbarazzati.
La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla
riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge
infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta
per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che
senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina
accademica si fermerebbe.
Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una
posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione
dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva.
Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in
diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di
Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance
universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di
interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”.
Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha
tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di
mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove
sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui
avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco
Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia.
C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a
ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno
striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno
preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere,
la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e
cancellando l’evento in programma per la giornata.
Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato
accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e
governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle
decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A
partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono
costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora
molettieri)