Il passato in soffitta. Tre lavori sul Novecento industriale napoletano(foto di federico patellani da: bagnoli anni cinquanta. 1911-1961)
L’Italsider di Bagnoli ha chiuso da più di trent’anni ma l’ex area industriale e
il suo quartiere restano un territorio sospeso tra passato e futuro.
L’immobilismo è solo un pretesto, anche perché la spesa di novecento milioni in
bonifiche farlocche, le opere inutili a loro volta dismesse, la costante
attività di chi fraveca e sfraveca per andare più indietro rispetto al punto di
partenza, hanno responsabili ben precisi. Nel frattempo il paesaggio fisico, e
il tessuto sociale ed economico del quartiere hanno subito trasformazioni
enormi, di cui nessuno, se non gli stessi abitanti, vuole accorgersi.
La recente accelerazione nei processi di bonifica e pianificazione, però, ha
avuto ripercussioni anche sul dibattito pubblico. Sembra esserci infatti una
gran voglia di parlare di Bagnoli, di rileggere gli anni della fabbrica senza
sottrarsi, almeno a parole, ai conti col presente. Una voglia assecondata dal
mercato che ci propone film, libri, spettacoli teatrali, mostre spesso di dubbia
qualità sul tema.
Circa un anno fa è uscito per Rizzoli il secondo libro della scrittrice
napoletana Maria Rosaria Selo, un romanzo di formazione intitolato Vincenzina
ora lo sa, con richiamo ai versi scritti e musicati da Jannacci nel 1975, in
piena crisi industriale. Vincenzina, protagonista del libro, deve abbandonare
gli studi all’università e impiegarsi in fabbrica a causa della morte del padre,
una delle tante vittime della civiltà dell’acciaio. Lo fa scoprendo un mondo di
solidarietà umana, “sorellanza”, mutuo riconoscimento nell’ambito di una classe,
quella operaia, a cui forse non aveva ancora capito di appartenere. Ossessionata
dall’idea di rendere giustizia a quel mondo, però, Selo scivola di continuo su
espedienti retorici di linguaggio e di contenuto, a cominciare dalla frattura
manichea e, a suo avviso, generazionale, tra il modo di concepire il mondo da
parte di chi porta il pane a casa con il sudore (Vincenzina) e chi invece non
vuole saperne (sua sorella). Una contrapposizione che diventa quasi comica
quando le ragazze si trovano a dialogare, e che non rende giustizia alla
complessità di percezioni, contraddizioni, rabbiosi rifiuti alternati a illusori
rifugi in una presunta “sicurezza”, quella della fabbrica, che almeno tre
generazioni hanno dovuto vivere a Bagnoli da quando si è cominciato a capire che
l’acciaio possedeva la capacità di salvare vite e distruggerne
contemporaneamente altre.
La fascinazione per il mondo operaio – anche nella sua più ruvida espressione
culturale, nel maschilismo imperante, nella brutalità di alcuni ragionamenti –
pervade dall’inizio alla fine anche Mare di ruggine. La favola dell’Ilva,
spettacolo di Antimo Casertano che ha avuto successo al Piccolo Bellini.
L’obiettivo di Casertano è ancora più ambizioso rispetto quello di Selo:
ricostruire la vita della fabbrica attraverso quella di alcune famiglie
bagnolesi, esistenze legate reciprocamente, ma in cui micro e macrocosmo vengono
restituiti allo spettatore in maniera troppo didascalica. Anche in questo caso
la complessità è ridotta all’osso: l’universo della fabbrica e l’epopea dei suoi
abitanti si snodano attraverso una parabola che nasce dalla povertà, poi cresce
con il progresso, il lavoro, l’emancipazione sociale, e in fase discendente
crolla seguendo le traiettorie della crisi, la malattia, la morte, l’assenza di
prospettive future.
Non ci sono fratture in questa parabola, anzi quelle che renderebbero il
racconto più complesso – e onesto – vengono eliminate. Le lotte operaie sembrano
aver avuto inizio negli anni Settanta, quando i caschi gialli bagnolesi
riuscivano a condizionare le scelte dirigenziali con scioperi e proteste,
supportati da un contesto disponibile a valorizzarle. In tutta la narrazione
precedente, invece, la figura dell’operaio è infantilizzata, il lavoratore
dell’Ilva della prima metà del Novecento sembra una bestia da soma disposta a
subire tutto in nome dello stipendio (vale la pena ricordare che già nel 1914 i
lavoratori dell’acciaieria ebbero un ruolo negli eventi della Settimana Rossa¹).
Anche gli anni che precedono la chiusura avrebbero meritato una trattazione più
articolata, tanto più in uno spettacolo che si candida a piccolo Bignami di un
secolo di storia. In maniera troppo superficiale sono affrontati i delicati
passaggi che portarono all’allineamento di Pci, sindacati e partiti di governo
verso la deindustrializzazione, e alla scelta di puntare sugli impianti di
Taranto e Cornigliano. L’unico nome che viene fatto è quello del “povero” De
Michelis, preso a fischi e pernacchi dagli operai bagnolesi a cui aveva parlato
nel 1981 di sacrifici e cassa integrazione.
La complessità del passato è azzerata anche nella suggestiva installazione
artistica che in questi giorni è visibile sui terreni dell’ex fabbrica, la
proiezione di raggi colorati immaginata da Franz Cerami per illuminare le
strutture di archeologia industriale di Bagnoli, a cui gli spettatori assistono
andandosene in giro sui pullman del Napoli City Sightseeing. Tralasciando alcuni
aspetti organizzativi discutibili (il contrasto tra i bus giganti rosso
fiammante e l’atmosfera dark-industrial dell’area; la piattezza della voce
registrata che funge da guida; il fatto che metà dei visitatori vedano
pochissimo perché hanno davanti quelli seduti sull’altra fila di poltroncine del
bus), il vero tema è la descrizione che viene fatta della fabbrica, e l’idea che
rimanda, molto simile a quella dei libri e video celebrativi che l’Ilva prima, e
l’Italsider poi, producevano per propagandare la loro funzione economica e
sociale.
Il robot-guida turistica parla della vecchia fabbrica come un sogno appartenente
a un’epoca lontana, esaltando la potenza industriale e la forza motrice di
emancipazione sociale per i bagnolesi, senza mai far menzione delle
problematicità – a partire dai tanti lavoratori che dentro la fabbrica ci sono
morti – che quel passato e le sue conseguenze sul presente hanno provocato.
Anche in questo caso esiste il futuro (le prossime destinazioni d’uso degli
edifici e gli scenari che verranno) ma non il presente, mentre, per esempio, un
elemento interessante per connettere la mostra e il quartiere avrebbe potuto
essere la messa a dialogo tra le luci artistiche e quelle reali degli edifici di
via Diocleziano, come il supermercato Conad, l’hotel Nubvò, la pizzeria
Vitagliano (edifici che illuminano h24 la strada antistante l’altoforno, e che –
piaccia o meno – rappresentano per i bagnolesi, da più di un decennio,
l’immagine di quella porzione di territorio assai più della fabbrica).
È difficile dire se le semplificazioni che accomunano questi e altri lavori
siano un effetto collaterale o una precisa linea in relazione con ciò che sta
succedendo a Bagnoli. Il mantra che accompagna nell’ultimo triennio gli
avanzamenti dei lavori è infatti: “Basta star fermi! Si sbagli anche, ma si
faccia!”. Una linea molto pericolosa, soprattutto in presenza di un piano di
azione (il PRARU) che, pur nelle sue criticità, rappresenta la sintesi di spinte
arrivate da direzioni diverse, in particolare gli interessi (pubblici e privati)
verso la capitalizzazione economica e lo sfruttamento del territorio, e le
istanze dei cittadini che reclamavano la restituzione di enormi aree che
nell’ultimo quarantennio gli hanno portato solo malattie e decessi. I recenti
eventi, e per esempio i cambi normativi promossi da governo e commissario per
poter evitare la rimozione totale della colmata, sfruttano invece un sentire
sociale talmente provato da rendere possibile (quasi) ogni operazione, persino
la progressiva e silente rilettura di quel piano. Eppure, a partire non dalla
stanchezza dei cittadini, ma dall’interesse comune, dovrebbe muovere ogni azione
di un governante.
Da questo punto di vista la propaganda che quotidianamente ci comunica che i
bagnolesi sono stanchi e che bisogna muoversi (sottinteso: a qualunque costo)
trova supporto non solo nella prefigurazione di un presunto futuro migliore, ma
anche nell’idealizzazione tout court di un passato che avrebbe, secondo queste
rappresentazioni, avuto un lineare percorso di crescita e caduta, per cui
voltare pagina senza se e senza ma sarebbe l’unica soluzione possibile.
Bisognerebbe invece evidenziare che le crisi congiunturali che hanno portato
alla deindustrializzazione sono state tante, si sono susseguite dal 1920 in poi
(quando l’Ilva chiuse per ben quattro anni!), e che sono un elemento fondante e
ciclico di ogni sviluppo capitalistico; che gli operai napoletani non sono stati
dei lazzaroni raccattati per strada dagli industriali prima privati e poi di
Stato, istruiti chissà da chi a diventare forza lavoro civilizzata e poi resi
obsoleti dal progresso in un ineluttabile dramma sociale; che il conflitto
all’interno della fabbrica non era tutto rose e fiori, ma aspra dialettica tra
partito, sindacato, consigli di fabbrica, operai politicizzati e altri piuttosto
apatici, complessità che si rifletteva negli equilibri sociali del territorio,
dove anche durante i decenni tra il Sessanta e il Novanta, seppur in maniera
contenuta, a Bagnoli esisteva la camorra, la disoccupazione, persino sezioni
della Dc e dell’Msi; che ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalla chiusura,
e con l’ex area industriale così ridotta, gli abitanti del quartiere si chiedono
quanto la crescita sociale ed economica promossa dalla fabbrica sia valsa la
candela della devastazione e dell’impoverimento.
Oltre a non rendere giustizia a una storia lunga come quella operaia che si è
vissuta per oltre un secolo in questo territorio, le narrazioni semplificate
rischiano di avere un effetto sul presente e sul futuro: isolare quel passato
idealizzato e congelare le complesse eredità sociali e culturali di cui si
dovrebbe invece tener conto nei processi di rigenerazione di una zona sempre più
ad alto rischio, pronta per gli assalti di pescecani locali (vedi il porto di
Nisida) e neoliberismi internazionali (vedi gli interessamenti di americani e
arabi per investimenti nel terziario). Indipendentemente dal fatto che si riesca
o meno – in tempi assai difficili – a resistere a questi assalti, servirebbero
letture più coscienziose e informate da parte di artisti e intellettuali, ma
anche dell’ente commissariale, della sovrintendenza e degli istituti culturali
pubblici, per impedire che il Novecento bagnolese resti a impolverarsi in un
faldone per i giorni che verranno. (riccardo rosa)
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¹ Si veda il volume di Giuseppe Aragno: La settimana Rossa a Napoli. Giugno
1914: due ragazzi caduti per noi (La città del Sole, 2006)