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Casa a Napoli. Il Comune non rispetta gli impegni presi con gli abitanti di Taverna del Ferro
(disegno di ….) Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli. Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche” di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici, grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon Metro della Regione. Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”. Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione temporanea della durata di tre anni. Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il debito e pagare la tassa dei rifiuti. Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica. L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”. Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile – continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi assessori non gli diranno quel che si deve fare”. Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni. La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure, noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una copertura politica non si muovono”. Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
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Crisi bradisismica, le richieste dell’Assemblea popolare
(disegno di Atti) Riceviamo e pubblichiamo un comunicato diffuso dall’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei relativo all’ultimo incontro con assessori e dirigenti del comune di Napoli. Al termine della riunione gli amministratori hanno garantito un intervento sui punti emersi e risposte precise entro il 14 maggio, data fissata da tempo per un incontro tra l’Assemblea e tutti gli assessori competenti sulla questione bradisismica (politiche sociali e urbanistica, oltre a quelli delegati alla protezione civile e alla polizia municipale).  *     *     * L’ASSEMBLEA POPOLARE INCONTRA IL COMUNE DI NAPOLI: RISPOSTE CHIARE PER GLI ABITANTI DI BAGNOLI E DEI CAMPI FLEGREI Si è tenuto ieri, nella sede bagnolese della X Municipalità, un incontro sul tema della crisi bradisismica tra una delegazione dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei e alcuni rappresentanti delle istituzioni: la presidente del consiglio comunale Enza Amato, l’assessore alle politiche sociali Luca Trapanese, la dirigente del Servizio sicurezza abitativa Valeria Vannella e il presidente della municipalità Carmine Sangiovanni. Su richiesta degli abitanti del quartiere presenti, l’incontro si è svolto pubblicamente tra i banchi del parlamentino di via Acate, così che tutti (più di cinquanta persone) hanno potuto prendere atto della dialettica tra le richieste-rivendicazioni degli abitanti e le posizioni istituzionali. Pur mantenendo un approccio critico rispetto all’insufficienza delle azioni intraprese fino a questo momento, come Assemblea popolare abbiamo cercato di mantenere un atteggiamento propositivo e in particolare abbiamo individuato e sottoposto ai rappresentanti istituzionali alcuni punti che necessitano risposte immediate. Gli assessori si sono impegnati a dare risposte concrete a questi punti e a riferirle nell’ambito dell’incontro che si svolgerà il prossimo 14 maggio a palazzo San Giacomo. Queste le rivendicazioni dell’assemblea: 1) Ristrutturazione dello sportello per i cittadini nella sede della municipalità di via Acate. Si richiede il dislocamento in loco, per otto ore al giorno, di professionalità organiche all’amministrazione comunale e non alla municipalità, professionalità capaci di dare risposte ai cittadini su tutta la vasta gamma di questioni sulle quali sono necessarie informazioni o interventi. È fondamentale un contatto diretto tra amministrazione e cittadinanza, senza che nessuno possa più nascondersi dietro ostacoli burocratici, rimpalli di responsabilità o formule del tipo “non è di nostra competenza”. 2) Garanzie sul destino delle persone ospiti delle strutture alberghiere e del centro comunale di Marechiaro allo scadere della proroga del 20 maggio. Ci aspettiamo da subito che il comune rassicuri pubblicamente i cittadini comunicando chiaramente che al 21 maggio nessuno tra gli sfollati verrà mandato in strada. In particolare è necessario pensare a tutti i meccanismi possibili che possano rendere efficace l’utilizzo del CAS per la ricerca di autonoma sistemazione per gli aventi diritto. In assenza di un piano che intervenga sulle garanzie richieste dai proprietari e sulla difficile ricerca di immobili disponibili, il termine del 20 maggio sarà destinato a essere oggetto di richiesta di ulteriori proroghe. Necessaria è inoltre una soluzione immediata per chi ha riscontrato problematiche burocratico-amministrative per l’accesso al CAS e al momento risulta ugualmente sfollato dalla propria abitazione. 3) Chiarezza nell’iter per l’accesso ai fondi relativi alla ristrutturazione degli edifici; proroga dei termini per la richiesta del sopralluogo propedeutico al rilascio della scheda AEDES; sospensione immediata, per chi sta effettuando gli interventi, del canone di occupazione di suolo pubblico. 4) Pubblicazione di una circolare che rassicuri i cittadini rispetto al fatto che chi non riuscirà, per ragioni logistiche (come la difficoltà a trovare ditte che possano intervenire in tempi così brevi) a portare a termine gli interventi prescritti entro i tempi indicati, non incorrerà nell’iter canonico “diffida-ordinanza-denuncia”. 5) Attivazione di un meccanismo burocratico che impedisca l’avvio di provvedimenti amministrativi e giudiziari a danni dei cittadini, nel momento in cui prescrizioni come il transennamento di una strada vengono violate da ignoti. 6) Attivazione di un meccanismo amministrativo che ripensi o ristrutturi i provvedimenti più contraddittori, ostativi persino agli interventi edilizi, emessi fino a questo momento (tra questi le diffide a utilizzare scale – ma non appartamenti – all’interno di edifici, o l’impraticabilità di appartamenti fatte salvo una o due stanze). 7) La chiara, pubblica e se necessario conflittuale rivendicazione da parte del comune di Napoli per un intervento governativo massiccio e immediato in termini di stanziamento di fondi per il miglioramento sismico di tutti gli edifici del quartiere, partendo dal presupposto della totale insufficienza delle risorse messe in campo con il recente decreto. Se l’organo di rappresentanza della cittadinanza intende davvero esserne supporto e alleato, così come sostenuto, è indispensabile che si faccia sentire per pretendere dal governo azioni che impediscano lo svuotamento del quartiere. È questo, infatti, il processo che già si sta innescando, presupposto decisivo per speculazioni che pianificano la graduale deportazione degli abitanti bagnolesi meno tutelati in quartieri più periferici e della provincia, a beneficio di altri settori sociali e di altri insostenibili modelli economici e di sviluppo, come quello turistico. L’assemblea popolare continuerà ad incontrarsi nelle prossime settimane per proseguire l’attività di informazione, monitoraggio e mobilitazione, che durerà tutto il tempo necessario ed in particolare fin quando ogni singolo abitante sfollato dalla propria abitazione non rientrerà nella propria casa.
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Lavoro e non lavoro in una città sotto attacco. Primo maggio di lotta a Napoli
(disegno di blu) «Tanti tra noi sono nati e vivono in questo quartiere. Ne conosciamo bene le problematiche». A parlare è Antonio Silione, del movimento Disoccupati 7 Novembre e del Comitato San Gennaro. «Abbiamo voluto che il corteo del primo maggio partisse dal rione Sanità per dei motivi concreti: qui di fronte si trova l’ospedale San Gennaro, un presidio che offriva servizi sanitari essenziali a decine di migliaia di abitanti della zona, chiuso nel 2017. A pochi passi c’è anche il parco San Gennaro: circa sei ettari di foresta mediterranea, inaccessibile da anni. Tutto questo in un quartiere storicamente popolare, oggi invaso da turisti e b&b, l’unico modello di “lavoro” su cui si punta». Numerosi anche quest’anno sono stati gli appuntamenti promossi da collettivi, movimenti e sindacati in occasione del primo maggio a Napoli. Il primo è stato il corteo partito intorno alle dieci dall’ospedale del popolare quartiere del centro. La scelta di far partire il corteo dalla Sanità è legata alla necessità di attraversare luoghi dove l’impatto della mancanza di lavoro e di servizi si sente maggiormente, elemento che lega tra loro la moltitudine di istanze differenti che hanno caratterizzato questo corteo. La composizione infatti era piuttosto eterogenea: disoccupate e disoccupati del Movimento 7 Novembre, lavoratrici e lavoratori di diversi settori – dalla logistica ai servizi – per lo più aderenti al sindacato Si Cobas, insieme a numerosi collettivi studenteschi. Presenti anche gruppi solidali con la resistenza del popolo palestinese, la rete Liberi/e di lottare contro guerra e decreto sicurezza, i comitati per l’ospedale e il parco San Gennaro, i lavoratori precari della ricerca accademica, che hanno promosso una giornata di sciopero nazionale prevista per il 12 maggio. Il corteo ha raccolto circa cinquecento persone, mettendo in connessione le differenti questioni: dalle istanze legate al mondo del lavoro – disoccupazione, sfruttamento, precarietà, lavoro nero, morti bianche – a quelle contro riarmo, guerra e repressione, fino alla riappropriazione dello spazio urbano e la necessità di interventi decisi contro caro-vita e caro-affitti. Per alcune ore ha sfilato tra le strade del quartiere, tra interventi al megafono e cori. La manifestazione si è conclusa in vico Arena alla Sanità, dove all’interno di un edificio utilizzato fino a qualche anno fa dall’azienda cittadina per la raccolta dei rifiuti vi è oggi la sede del movimento dei disoccupati organizzati. Al corteo non hanno potuto partecipare alcuni attivisti del centro culturale Handala Ali, che fin dalle prime ore del mattino si erano recati al Vomero, per esporre uno striscione sulla terrazza di Castel Sant’Elmo con la scritta “Libertà per Anan”, in riferimento alla detenzione nel carcere di Terni di Anan Yaeesh, cittadino palestinese residente da anni in Italia, e arrestato su esplicita richiesta del governo israeliano. Le forze dell’ordine hanno fatto a lungo pressione su attiviste e attivisti, i quali solo dopo alcune ore sono riusciti a compiere l’azione. Un secondo corteo è partito nel pomeriggio, alle quattro, da piazza San Domenico Maggiore, dietro uno striscione contro sfruttamento e precarietà lavorativa. Il corteo era organizzato da Potere al Popolo, dagli attivisti dell’ex Opg e del Movimento migranti e rifugiati, dal sindacato di base Usb e dalla Rete dei comunisti. La “passeggiata rumorosa” rivendicava esplicitamente come obiettivo un salario minimo di almeno dieci euro all’ora, una maggiore sicurezza sul lavoro e la riduzione del numero di ore quotidiane, tutele e investimenti nel welfare anziché nella guerra. Il corteo ha attraversato Spaccanapoli, via San Sebastiano, i Tribunali, San Gregorio Armeno, arrestandosi in più punti per permettere ai partecipanti di ribattezzare le strade con fogli che portano i nomi di chi è morto sul lavoro: Yassin Boussena, per esempio, ragazzo di soli diciassette anni che ha perso la vita mentre lavorava in un’azienda di smaltimento del legno; Patrizio Spasiano, diciannovenne, tirocinante morto a causa di una fuga di ammoniaca da cui non è riuscito a mettersi in salvo, perché si trovava sopra un’impalcatura; Nicolò Giacolone, trentaduenne travolto da un autogru; Luana D’Orazio, operaia tessile di ventidue anni, stritolata da un macchinario a Montemurlo. I loro nomi sono stati affissi proprio nei tratti più affollati dal passeggio turistico, tra pizzerie, trattorie e insegne colorate, sottolineando che in molti casi i procedimenti giudiziari nei confronti degli imprenditori e delle aziende responsabili per questo genere di decessi, non trovano seguito adeguato. In momenti come questi, fa effetto guardare la città che osserva. Dai bar ancora aperti i lavoratori spesso si affacciavano verso il corteo: qualcuno in silenzio, altri facendo un cenno d’intesa. Alcuni turisti scattavano foto, incuriositi, mentre i manifestanti gridavano che “il turismo non ci piace se ci toglie via le case”. Parecchi tra gli ambulanti, applaudivano intanto dalle loro bancarelle. Il corteo si è ricomposto dopo qualche ora a piazza San Domenico, dove la protesta si è chiusa con la lettura di alcune testimonianze scritte: lavoratori e lavoratrici impiegati per “giorni di prova” mai retribuiti, altre licenziate dopo anni di servizio perché incinte… Sono queste voci a chiudere una giornata che, in una città trasformata in vetrina, ha voluto ridare visibilità a chi lavora troppo, guadagna poco e muore dimenticato. (serena bruno e flora molettieri)
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Le case dei sogni, venerdì al festival Libbra. Un estratto del volume
(copertina di roberto-c.) Sarà presentato venerdì 2 maggio, per la prima volta a Napoli, Le case dei sogni. Inchiesta sul turismo nel centro storico di Napoli, di Barbara Russo. La presentazione è una delle iniziative del festival Libbra, il festival delle Librerie indipendenti in relazione della città, e si svolgerà alle 19.30 allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46).  Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.  *     *     *   Nonostante sia di recente sviluppo, il settore delle locazioni turistiche a Napoli ha già conosciuto trasformazioni rilevanti. Dal 2014 al 2019 l’offerta di affitti brevi si è quadruplicata e concentrata nelle mani di pochi investitori. Nel 2015 gli annunci offerti su Airbnb erano meno di duemila, e di questi solo il trenta per cento era gestito da host con più annunci in piattaforma; mentre degli 8.500 annunci presenti nel 2019, il sessanta per cento era gestito da multi-host. Oggi la maggior parte delle offerte non riguarda più camere singole in appartamenti condivisi, ma appartamenti interi occupati per più di sessanta giorni all’anno. Si tratta, dunque, di attività professionali, piuttosto che di attività di sostegno al reddito – perno retorico su cui ha puntato la piattaforma Airbnb fin dalla sua nascita. Le idee di informalità e ospitalità sono progressivamente svanite di fronte a una crescente formalizzazione. Lo stile dell’offerta rimanda oggi alla professionalità di un albergo, ribadita anche dal prezzo medio richiesto per notte (107 euro secondo InsideAirbnb), di gran lunga superiore alle tariffe iniziali. Infine, questi processi riguardano annunci localizzati in zone sempre più ampie della città, sconfinando dai quartieri in cui l’offerta si era concentrata nei primi anni – centro antico e Quartieri Spagnoli – verso altre zone residenziali fuori e dentro il centro storico. L’insieme di queste trasformazioni rivela una tendenza, osservata anche in altri contesti urbani, che riguarda l’iniziale adozione del modello proposto da Airbnb soprattutto nei quartieri caratterizzati da redditi medio-bassi e tassi di disoccupazione maggiori. In questa prima fase, segnata da un alto grado di informalità e prezzi contenuti, l’offerta ricettiva è gestita direttamente da chi abita la casa, che spesso è a sua volta in affitto e sacrifica porzioni dell’abitazione per accedere a nuove forme di reddito e d’impiego. In un secondo momento, dopo aver testato il funzionamento del modello, chi affitta si rende conto che per ottenere un guadagno soddisfacente deve modificare l’offerta; laddove è possibile vengono quindi messe a profitto più stanze o interi appartamenti. È in questa seconda fase che si inseriscono i proprietari di casa, alla ricerca di una fonte di rendita e non di un nuovo lavoro. Questa “seconda generazione” di host predilige le locazioni turistiche a quelle tradizionali, per evitare di confrontarsi con le esigenze degli inquilini e mantenere la casa in una posizione di maggiore flessibilità, oltre al fatto che i guadagni possono essere di gran lunga maggiori. Subentra così un nuovo attore, l’intermediario immobiliare, il cosiddetto property manager, colui che assume il rischio imprenditoriale e gestisce la casa per conto del proprietario. Due storie mostrano il susseguirsi di questi passaggi, tra il 2012 e il 2020, nei due quartieri in cui l’industria turistica è cresciuta più velocemente: il centro antico e i Quartieri Spagnoli, abitati da una popolazione mediamente impiegata in lavori poco redditizi e precari, disposta a cogliere le possibilità di guadagno derivanti dall’economia delle piattaforme anche a costo di sacrificare alcuni spazi della propria casa.   Vera e Pietro hanno gestito un b&b per cinque anni, dal 2014 al 2019, nella casa in cui vivevano in via Santa Chiara, nel cuore del centro antico. Quando vi si trasferirono era il 2009 e arrivavano da dieci anni di instabilità abitativa. Per aiutarsi con le spese del fitto – Pietro percepisce la pensione, mentre Vera abbina un lavoro precario al suo mestiere di artigiana – svolgevano delle attività con i turisti: “Attraverso un amico che fa la guida turistica – racconta Vera – organizzavamo delle lezioni di cucina per gli americani, in cui si cucinava e si mangiava insieme”. Nel 2014 decisero di affittare ai turisti la camera di una figlia che nel frattempo si era trasferita: “All’epoca si cominciava a parlare di Airbnb, così quando Eleonora è andata via e si è liberata una stanza, un amico ci spiegò come inserire l’annuncio nella piattaforma”. Airbnb nasce al culmine della crisi del mercato immobiliare del 2008, proponendo un modello del tutto esternalizzato, capace di rilanciare l’economia della rendita: l’azienda non possiede gli appartamenti che offre in locazione, ma si limita a gestire l’interazione tra locatori e ospiti, guadagnando con l’aumentare delle interazioni sulla piattaforma, oltre che da una percentuale che viene trattenuta da ogni prenotazione online. Per affermarsi a livello internazionale, Airbnb ha usato una serie di strumenti simbolici che l’associano a un immaginario ben preciso. L’idea del “sentirsi ovunque a casa propria” porta a concepire il servizio offerto come un servizio non specializzato, ma di “autentica ospitalità” per i turisti. Il b&b di Pietro e Vera, nato in un periodo in cui il turismo extra-alberghiero era ancora di nicchia, rispecchia le intenzioni con cui la piattaforma si è fatta conoscere. Vera racconta che inizialmente non era possibile considerare la gestione del b&b come un lavoro a tempo pieno: “La maggior parte delle persone fitta la casa e basta, noi invece provvedevamo a tutto: mi svegliavo la mattina molto presto per organizzare la colazione e apparecchiare, poi c’era il momento in cui proponevi le visite e organizzavi le giornate anche a loro; dopodiché andavano via e c’erano il rassetto e le pulizie; la sera, quando tornavano, ti raccontavano la loro giornata; se c’era un’uscita o un’entrata, avevi la biancheria da lavare e da stirare… Lavoravo tanto, ma l’attività non era costante, avevamo gente solo in certi periodi. E poi affittavamo solo una stanza, non ci bastava per vivere. Quindi allo stesso tempo facevo altri lavori”. Negli stessi anni (2014-2019) il centro antico vede l’espansione dei settori legati all’economia turistica, in particolare cambia la geografia delle attività commerciali nelle strade adiacenti ai luoghi più visitati. “Quando abbiamo iniziato – continua Vera – cominciavano a nascere altre strutture di accoglienza; nel nostro palazzo ce n’erano cinque, nel vicoletto molte di più. In pochi anni se ne sono aperte tantissime in tutto il centro. Nei negozi spariva l’abbigliamento e aprivano locali che offrivano cibo, panini, pizzette, servizio bar. Un fioraio che ricordo da bambina è diventato un lounge bar; non c’era più la signora che faceva l’artigianato, è nato un altro ristorantino; la stessa cosa per quello che faceva le bomboniere…”. Il settore extra-alberghiero ha trainato non solo lo sviluppo del sistema ricettivo ma anche gli altri comparti; molti esercizi hanno lasciato il centro verso zone in cui l’affitto costava meno o si sono ibridati, hanno cioè affiancato alla vendita dei loro articoli quella rivolta alla clientela turistica. Nel corso del tempo, l’attività di Vera e Pietro si è consolidata: “A un certo punto – racconta lei – il mio lavoro artigianale è saltato e il b&b ci ha aiutato ad andare avanti. Io e mio marito abbiamo lasciato la nostra camera e abbiamo diviso in due quella di nostro figlio, così da poter avere due camere da fittare. In pratica, abbiamo deciso che quello poteva essere il nostro lavoro. Chiedevamo quaranta euro a notte. Lavoravamo di più in alcuni periodi, non come adesso che il flusso è diventato continuo: in primavera-estate c’era movimento, un po’ a dicembre e gennaio, ma tutto l’inverno non facevamo proprio niente”. (barbara russo)
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Notizie del bello, dell’antico e del curioso della notte a Napoli #4
(archivio disegni napolimonitor) Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove andiamo?”. Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di intonaco. Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola. Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi dei locali, colpi di pistola. Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti, pur senza impedirmi di vederli e viverli». Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli, che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è vivace, ma anche caotica. Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi spazio tra la folla. Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice. «Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati». Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega. «Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”, quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata. Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone, creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare, se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino. Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere. «In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro. Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più inclusione, ma  l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai nottambuli. Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti. Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri, di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese) ____________________________ A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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Terzo settore e turismo a Napoli. L’impresa del bene, venerdì a LaterzAgorà
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli) Sarà presentato venerdì 11 aprile, alle ore 18 al Teatro Bellini (via Conte di Ruvo, 14), il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. L’autore discuterà del volume con Giovanni Laino (Associazione Quartieri Spagnoli) ed Enrica Morlicchio (università Federico II). Pubblichiamo a seguire un nuovo estratto del libro. *     *     * GLI ENTI INTERMEDI Le caratteristiche dei corpi associativi intermedi che operano in campo sociale e culturale si potrebbero sbrigativamente descrivere comparandole con quelle degli ultracorpi – quindi meno risorse, meno relazioni influenti, meno attenzione dai media –, ma questo non basterebbe a esaurire il quadro del loro sviluppo e l’analisi delle loro attuali difficoltà. Nati in un arco di tempo piuttosto ampio, caratterizzato da rapidi mutamenti dei contesti sociali, politici e anche normativi di riferimento, questi enti presentano campi di intervento, forme giuridiche e strutture organizzative troppo disparate per poterle esaminare nel dettaglio, ma tutti si trovano oggi ad affrontare alcuni nodi fondamentali dai quali dipende il senso stesso del loro operato e in ultima istanza la loro sopravvivenza. I più longevi vantano una lontana origine “militante”, eredità di esperienze sociali collegate ad appartenenze politiche o religiose, anche se da tempo quei principi sono stati abbandonati per adattarsi a scenari ormai radicalmente mutati. Una prima tappa di questi mutamenti, negli anni Ottanta, si registra con la grande diffusione delle associazioni di volontariato, in cui avviene un massiccio travaso di giovani fuoriusciti da partiti politici e movimenti di base. “Fino a metà degli anni Novanta – ha scritto Giovanni Laino¹ – si realizza una fase per cui, con le iniziative dal basso, ‘i progetti sollecitano le politiche’. Dalla fine degli anni Novanta invece in tutto il Paese si realizza una fase diversa, più matura per quanto problematica e ambigua, in cui sono ‘le politiche che sollecitano i progetti’, nel senso che diverse iniziative sembrano indotte soprattutto da opportunità di finanziamento”. È in questo frangente che svaniscono le residue illusioni di un intervento sociale autonomo e politicamente alternativo. Un numero crescente di associazioni e cooperative assume su di sé funzioni di interesse pubblico su mandato delle amministrazioni, inserendosi in un sistema di mercato con gare basate sul principio del massimo ribasso; emergono nuove forme giuridiche, cambia il rapporto con le istituzioni e la competizione si approfondisce, tracciando confini sempre più netti tra due modi di operare: l’autonomia, l’autogestione, il mutuo aiuto, che erano stati i principi all’origine di molte organizzazioni nate negli anni Settanta, vengono progressivamente relegati nel campo dell’iniziativa informale; si affermano invece la gestione burocratica, la gerarchizzazione, il collateralismo politico, uniformando in un unico contenitore – quello del terzo settore – tutte le forme di intervento, dal volontariato all’associazionismo fino alla cooperazione. Lo slittamento verso il mercato e le logiche d’impresa sarà inesorabile, prima marginalizzando e poi eliminando del tutto, da pratiche e statuti, le caratteristiche delle origini. Nel welfare pubblico in crisi dilaga il sistema dei servizi esternalizzati, dei bandi, della competizione tra enti, territori, popolazioni per aggiudicarsi fiducia e finanziamenti istituzionali. L’altra faccia della “soluzione imprenditoriale”, che oggi gli ultracorpi propongono per “rigenerare” le città, si mostra in tutta la sua crudezza a questi enti intermedi, che non avendo i mezzi per competere su una scala più ampia, sono costretti a battagliare con i loro omologhi, da un lato per accaparrarsi i beneficiari dei servizi offerti, dall’altro per attirare i finanziamenti necessari per realizzare le proprie attività, e in definitiva per avere la possibilità di continuare a esistere. Le condizioni di esistenza, però, appaiono sempre meno sotto il loro controllo. Gli appalti dei servizi pubblici a enti “accreditati”, richiedono infatti un tipo di monitoraggio esercitato dall’alto con criteri sempre più stringenti. È necessario esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che numeri. Quello che era nato come un intervento basato sulla prossimità e sulle relazioni umane, sta traslocando in una dimensione virtuale². D’altra parte, anche i finanziatori privati, per decidere dove collocare le proprie risorse, richiedono progetti “innovativi”, “attrattivi”, che possano accrescerne la reputazione, a scapito di iniziative magari meno brillanti ma più rispondenti alle esigenze reali dei destinatari. Il rispetto dei parametri fissati da chi mette i soldi, l’espletamento delle pratiche burocratiche necessarie prima ad aggiudicarsi i finanziamenti e poi a rendicontarne le spese, prevale ormai sullo sforzo di connettere le proprie attività con i bisogni strutturali di un territorio, con i servizi essenziali per i suoi abitanti, con le esigenze di partecipazione e le prospettive di emancipazione. QUALE LAVORO Tra gli “effetti collaterali” di questo sistema vi sono, da un lato, la difficoltà di mettere alla prova e consolidare nel tempo esiti e strategie di intervento, dall’altro la precarietà ormai cronica di educatori e operatori sociali, privi di garanzie contrattuali e soggetti all’estrema volatilità di progetti e finanziamenti. La precarietà, l’instabilità, in particolare per ciò che riguarda le condizioni di lavoro, sono caratteristiche costitutive di gran parte degli enti intermedi. Gli ultracorpi hanno risorse sufficienti per offrire ai propri dipendenti contratti di lavoro regolari; inoltre, sono così esposti sui mezzi di comunicazione da non potersi permettere irregolarità formali nello svolgimento delle proprie attività. La fondazione FoQus sostiene di aver creato 168 posti di lavoro in dieci anni; la cooperativa La Paranza dichiara 45 tra dipendenti e soci, e più in generale, la galassia di cooperative e associazioni nell’orbita della fondazione San Gennaro darebbe lavoro a circa 150 persone. Da questi numeri (che peraltro non ci dicono nulla sulle condizioni in cui viene esercitato il lavoro), gli ultracorpi deducono, oltre che una conferma della propria natura benefica, un corollario più ottimista, e non verificato, che consisterebbe in un “contagio positivo” verso l’ambiente che li circonda. Lo vedremo meglio trattando dei servizi al turismo nel capitolo sesto, ma intanto possiamo affermare che se gli ultracorpi riescono a garantire contratti regolari ai propri dipendenti, questa pratica non si trasmette automaticamente agli enti intermedi, i quali continuano a offrire perlopiù lavoro precario e non garantito a chi si impiega alle loro dipendenze³. Il lavoro sociale svolto su mandato delle pubbliche amministrazioni è vincolato a rigidi protocolli, definiti spesso in modo astratto e standardizzato. I lavoratori sono assunti secondo contratti del settore privato (per esempio il contratto nazionale delle cooperative sociali) che offrono meno tutele rispetto a quelli pubblici; il loro lavoro è generalmente riconosciuto nei bandi sotto forma di ore e minuti “erogati” all’utenza, quindi solo in considerazione della quantità di lavoro necessaria a garantire un determinato servizio, e per periodi limitati di tempo (la durata degli appalti). Le modalità in cui vengono forniti questi servizi sono demandate interamente all’ente che si aggiudica l’appalto. Da qui l’abnorme diffusione di part-time e contratti a tempo determinato, l’altissima intensità di lavoro, le numerose forme di precarizzazione e di incertezza nell’organizzazione del lavoro. I mestieri di educatore, operatore sociale o culturale, e in genere tutte quelle figure professionali emerse con la crescita del terzo settore, hanno perso da tempo il fascino esercitato per una breve stagione su chi si era illuso di poter vivere con un lavoro quasi “nobile”, e uno stipendio quasi intero. Le storie di oggi parlano di lavoratori impegnati in ambiti diversissimi – dai centri estivi per bambini ai penitenziari, dalle comunità per minori ai centri di salute mentale –, spaziando dai compiti educativi a quelli di contenimento e controllo, alle prese con esigenze, codici di condotta e abilità richieste molto diverse da un ambito all’altro. Eppure, il profilo di chi presta servizio in questi enti si è andato uniformando, e sempre più sbiadendo, con il passare del tempo: l’attitudine flessibile, polifunzionale, intercambiabile, al di là di ogni eventuale qualificazione; la disponibilità a lavorare senza protezione normativa, talvolta senza contratto, con salari bassi o bassissimi, spesso differiti nel tempo; l’auto-sfruttamento, ovvero la confusione con la militanza per una causa, incentivata dai superiori, ma talvolta introiettata dagli stessi operatori pur di non interrompere il rapporto di lavoro; questi e altri fattori compongono un’identità incerta, lontana da quella “sicurezza di rappresentanza” che dovrebbe caratterizzare ogni impiego dignitoso. Si aggiunga la tendenza sempre maggiore a investire queste figure di compiti amministrativi e burocratici che esulano dalle loro mansioni, e l’accelerazione tecnologica che, mutando l’organizzazione del lavoro, muta anche le linee di comando, affidate sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi; una fase di transizione in cui anche i presunti beneficiari dei servizi vedono cambiare il proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur minimo margine di valore e di potere⁴. Se quaranta o cinquanta anni fa, gli antenati di questi enti sorgevano da processi realmente collettivi e in un orizzonte di emancipazione possibile, nel tempo la formalizzazione e la costituzione di status e gerarchie interne, ha prodotto un totale disinteresse, da parte chi si trova sul fondo di queste gerarchie, per tutto ciò che non riguardi il proprio strettissimo dovere – di pari passo con la perdita della capacità di organizzarsi per difendere i propri diritti. Oggi, di fronte a operatori sempre più precari, ma anche abulici dal punto di vista politico e sindacale, si assiste al paradosso di dirigenti che “fanno politica” o “fanno sindacato” al posto loro, con accenti nominalmente progressisti ma per obiettivi concretamente corporativi, lamentando da un lato quella precarietà che loro stessi alimentano, dall’altro chiedendo alle istituzioni più risorse e agevolazioni per i propri enti. -------------------------------------------------------------------------------- ¹ Laino G., Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 117. ² “La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività diventava subordinata a questa richiesta. […] L’unico interesse dietro queste procedure [era] l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità sul mercato dei ‘servizi’, a scapito della reale qualità della vita delle persone coinvolte”: testimonianza di un’operatrice sociale in Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022, p. 36. ³ Si vedano: Curcio R. (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici, Sensibili alle foglie, Roma, 2014; Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022. ⁴ Si veda questa acuta analisi in: www.laterratrema.org/2021/03/ poveri-stoccati-connessi/.
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L’ulitmo mese alle Vele. Un diario di campo
(disegno di mario damiano) Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa. Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e nelle case dagli abitanti superstiti. *     *     * L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele, sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì dentro. Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”. L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non era necessario. I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom, che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare che qualcuno possa entrare nelle loro case. Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice – erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere, vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo». Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle. «Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere». Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la “chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento, trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele, hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto, anche un buco mi andrebbe bene». Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».   Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna. PER SEMPRE 901 Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza, per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”. Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari, quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020. Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di uno sviluppo per la zona nord di Napoli. Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite. Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello. Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista; dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco, «una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io. Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice – una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le persone che volevano acquistarla». Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque, tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».   Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica, che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per quattro anni e mezzo, il nulla. L’ULTIMO GIORNO Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi, anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del sole, uscendo, è una liberazione», dice. Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche, anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto, le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare. L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica. È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano, che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
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Precarietà sveltata: cronaca dalla mobilitazione universitaria a Napoli
(disegno di malov) Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca, studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240, l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico dell’ateneo. Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20 marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come giornata nazionale delle università. Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però, non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240 rischia di diventare irreparabile. L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di logiche di mercato e militari su didattica e ricerca. Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20 marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello, “ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza tutele e prospettive di stabilizzazione. Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto “Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle università telematiche.  Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università – privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna. “Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con stati genocidi. Voi cosa dite?”. Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti dei rettori visibilmente imbarazzati. La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina accademica si fermerebbe. Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva. Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”. Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia. C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere, la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e cancellando l’evento in programma per la giornata.  Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora molettieri)
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