(archivio disegni napolimonitor)
Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi
vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove
andiamo?”.
Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre
quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il
traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la
percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette
e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli
più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente
illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi
vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di
intonaco.
Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola.
Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno
coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi
dei locali, colpi di pistola.
Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la
facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi
bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in
carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni
vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia
stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del
luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la
violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe
situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono
la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei
genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti,
pur senza impedirmi di vederli e viverli».
Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli,
che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni
sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un
continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street
food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci
sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai
balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico
poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si
riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è
vivace, ma anche caotica.
Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti
tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio
difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa
saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco
gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi
spazio tra la folla.
Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il
posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce
bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice.
«Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati».
Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In
realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega.
«Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”,
quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a
Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata.
Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone,
creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può
costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico
stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne
immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo
tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a
suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare,
se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a
raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony
Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino.
Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non
riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere.
«In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così
tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga
per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono
posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove
non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei
locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano
facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi
andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro.
Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la
facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi
sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero
di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più
inclusione, ma l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in
cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi
sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena
sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai
nottambuli.
Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso
casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi
racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti.
Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di
frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri,
di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone
giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
Tag - napoli
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
Sarà presentato venerdì 11 aprile, alle ore 18 al Teatro Bellini (via Conte di
Ruvo, 14), il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e
turismo a Napoli. L’autore discuterà del volume con Giovanni Laino (Associazione
Quartieri Spagnoli) ed Enrica Morlicchio (università Federico II).
Pubblichiamo a seguire un nuovo estratto del libro.
* * *
GLI ENTI INTERMEDI
Le caratteristiche dei corpi associativi intermedi che operano in campo sociale
e culturale si potrebbero sbrigativamente descrivere comparandole con quelle
degli ultracorpi – quindi meno risorse, meno relazioni influenti, meno
attenzione dai media –, ma questo non basterebbe a esaurire il quadro del loro
sviluppo e l’analisi delle loro attuali difficoltà.
Nati in un arco di tempo piuttosto ampio, caratterizzato da rapidi mutamenti dei
contesti sociali, politici e anche normativi di riferimento, questi enti
presentano campi di intervento, forme giuridiche e strutture organizzative
troppo disparate per poterle esaminare nel dettaglio, ma tutti si trovano oggi
ad affrontare alcuni nodi fondamentali dai quali dipende il senso stesso del
loro operato e in ultima istanza la loro sopravvivenza.
I più longevi vantano una lontana origine “militante”, eredità di esperienze
sociali collegate ad appartenenze politiche o religiose, anche se da tempo quei
principi sono stati abbandonati per adattarsi a scenari ormai radicalmente
mutati. Una prima tappa di questi mutamenti, negli anni Ottanta, si registra con
la grande diffusione delle associazioni di volontariato, in cui avviene un
massiccio travaso di giovani fuoriusciti da partiti politici e movimenti di
base. “Fino a metà degli anni Novanta – ha scritto Giovanni Laino¹ – si realizza
una fase per cui, con le iniziative dal basso, ‘i progetti sollecitano le
politiche’. Dalla fine degli anni Novanta invece in tutto il Paese si realizza
una fase diversa, più matura per quanto problematica e ambigua, in cui sono ‘le
politiche che sollecitano i progetti’, nel senso che diverse iniziative sembrano
indotte soprattutto da opportunità di finanziamento”.
È in questo frangente che svaniscono le residue illusioni di un intervento
sociale autonomo e politicamente alternativo. Un numero crescente di
associazioni e cooperative assume su di sé funzioni di interesse pubblico su
mandato delle amministrazioni, inserendosi in un sistema di mercato con gare
basate sul principio del massimo ribasso; emergono nuove forme giuridiche,
cambia il rapporto con le istituzioni e la competizione si approfondisce,
tracciando confini sempre più netti tra due modi di operare: l’autonomia,
l’autogestione, il mutuo aiuto, che erano stati i principi all’origine di molte
organizzazioni nate negli anni Settanta, vengono progressivamente relegati nel
campo dell’iniziativa informale; si affermano invece la gestione burocratica, la
gerarchizzazione, il collateralismo politico, uniformando in un unico
contenitore – quello del terzo settore – tutte le forme di intervento, dal
volontariato all’associazionismo fino alla cooperazione. Lo slittamento verso il
mercato e le logiche d’impresa sarà inesorabile, prima marginalizzando e poi
eliminando del tutto, da pratiche e statuti, le caratteristiche delle origini.
Nel welfare pubblico in crisi dilaga il sistema dei servizi esternalizzati, dei
bandi, della competizione tra enti, territori, popolazioni per aggiudicarsi
fiducia e finanziamenti istituzionali. L’altra faccia della “soluzione
imprenditoriale”, che oggi gli ultracorpi propongono per “rigenerare” le città,
si mostra in tutta la sua crudezza a questi enti intermedi, che non avendo i
mezzi per competere su una scala più ampia, sono costretti a battagliare con i
loro omologhi, da un lato per accaparrarsi i beneficiari dei servizi offerti,
dall’altro per attirare i finanziamenti necessari per realizzare le proprie
attività, e in definitiva per avere la possibilità di continuare a esistere.
Le condizioni di esistenza, però, appaiono sempre meno sotto il loro controllo.
Gli appalti dei servizi pubblici a enti “accreditati”, richiedono infatti un
tipo di monitoraggio esercitato dall’alto con criteri sempre più stringenti. È
necessario esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che
numeri. Quello che era nato come un intervento basato sulla prossimità e sulle
relazioni umane, sta traslocando in una dimensione virtuale². D’altra parte,
anche i finanziatori privati, per decidere dove collocare le proprie risorse,
richiedono progetti “innovativi”, “attrattivi”, che possano accrescerne la
reputazione, a scapito di iniziative magari meno brillanti ma più rispondenti
alle esigenze reali dei destinatari.
Il rispetto dei parametri fissati da chi mette i soldi, l’espletamento delle
pratiche burocratiche necessarie prima ad aggiudicarsi i finanziamenti e poi a
rendicontarne le spese, prevale ormai sullo sforzo di connettere le proprie
attività con i bisogni strutturali di un territorio, con i servizi essenziali
per i suoi abitanti, con le esigenze di partecipazione e le prospettive di
emancipazione.
QUALE LAVORO
Tra gli “effetti collaterali” di questo sistema vi sono, da un lato, la
difficoltà di mettere alla prova e consolidare nel tempo esiti e strategie di
intervento, dall’altro la precarietà ormai cronica di educatori e operatori
sociali, privi di garanzie contrattuali e soggetti all’estrema volatilità di
progetti e finanziamenti.
La precarietà, l’instabilità, in particolare per ciò che riguarda le condizioni
di lavoro, sono caratteristiche costitutive di gran parte degli enti intermedi.
Gli ultracorpi hanno risorse sufficienti per offrire ai propri dipendenti
contratti di lavoro regolari; inoltre, sono così esposti sui mezzi di
comunicazione da non potersi permettere irregolarità formali nello svolgimento
delle proprie attività. La fondazione FoQus sostiene di aver creato 168 posti di
lavoro in dieci anni; la cooperativa La Paranza dichiara 45 tra dipendenti e
soci, e più in generale, la galassia di cooperative e associazioni nell’orbita
della fondazione San Gennaro darebbe lavoro a circa 150 persone. Da questi
numeri (che peraltro non ci dicono nulla sulle condizioni in cui viene
esercitato il lavoro), gli ultracorpi deducono, oltre che una conferma della
propria natura benefica, un corollario più ottimista, e non verificato, che
consisterebbe in un “contagio positivo” verso l’ambiente che li circonda. Lo
vedremo meglio trattando dei servizi al turismo nel capitolo sesto, ma intanto
possiamo affermare che se gli ultracorpi riescono a garantire contratti regolari
ai propri dipendenti, questa pratica non si trasmette automaticamente agli enti
intermedi, i quali continuano a offrire perlopiù lavoro precario e non garantito
a chi si impiega alle loro dipendenze³.
Il lavoro sociale svolto su mandato delle pubbliche amministrazioni è vincolato
a rigidi protocolli, definiti spesso in modo astratto e standardizzato. I
lavoratori sono assunti secondo contratti del settore privato (per esempio il
contratto nazionale delle cooperative sociali) che offrono meno tutele rispetto
a quelli pubblici; il loro lavoro è generalmente riconosciuto nei bandi sotto
forma di ore e minuti “erogati” all’utenza, quindi solo in considerazione della
quantità di lavoro necessaria a garantire un determinato servizio, e per periodi
limitati di tempo (la durata degli appalti). Le modalità in cui vengono forniti
questi servizi sono demandate interamente all’ente che si aggiudica l’appalto.
Da qui l’abnorme diffusione di part-time e contratti a tempo determinato,
l’altissima intensità di lavoro, le numerose forme di precarizzazione e di
incertezza nell’organizzazione del lavoro.
I mestieri di educatore, operatore sociale o culturale, e in genere tutte quelle
figure professionali emerse con la crescita del terzo settore, hanno perso da
tempo il fascino esercitato per una breve stagione su chi si era illuso di poter
vivere con un lavoro quasi “nobile”, e uno stipendio quasi intero. Le storie di
oggi parlano di lavoratori impegnati in ambiti diversissimi – dai centri estivi
per bambini ai penitenziari, dalle comunità per minori ai centri di salute
mentale –, spaziando dai compiti educativi a quelli di contenimento e controllo,
alle prese con esigenze, codici di condotta e abilità richieste molto diverse da
un ambito all’altro. Eppure, il profilo di chi presta servizio in questi enti si
è andato uniformando, e sempre più sbiadendo, con il passare del tempo:
l’attitudine flessibile, polifunzionale, intercambiabile, al di là di ogni
eventuale qualificazione; la disponibilità a lavorare senza protezione
normativa, talvolta senza contratto, con salari bassi o bassissimi, spesso
differiti nel tempo; l’auto-sfruttamento, ovvero la confusione con la militanza
per una causa, incentivata dai superiori, ma talvolta introiettata dagli stessi
operatori pur di non interrompere il rapporto di lavoro; questi e altri fattori
compongono un’identità incerta, lontana da quella “sicurezza di rappresentanza”
che dovrebbe caratterizzare ogni impiego dignitoso. Si aggiunga la tendenza
sempre maggiore a investire queste figure di compiti amministrativi e
burocratici che esulano dalle loro mansioni, e l’accelerazione tecnologica che,
mutando l’organizzazione del lavoro, muta anche le linee di comando, affidate
sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi; una fase di
transizione in cui anche i presunti beneficiari dei servizi vedono cambiare il
proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur
minimo margine di valore e di potere⁴.
Se quaranta o cinquanta anni fa, gli antenati di questi enti sorgevano da
processi realmente collettivi e in un orizzonte di emancipazione possibile, nel
tempo la formalizzazione e la costituzione di status e gerarchie interne, ha
prodotto un totale disinteresse, da parte chi si trova sul fondo di queste
gerarchie, per tutto ciò che non riguardi il proprio strettissimo dovere – di
pari passo con la perdita della capacità di organizzarsi per difendere i propri
diritti. Oggi, di fronte a operatori sempre più precari, ma anche abulici dal
punto di vista politico e sindacale, si assiste al paradosso di dirigenti che
“fanno politica” o “fanno sindacato” al posto loro, con accenti nominalmente
progressisti ma per obiettivi concretamente corporativi, lamentando da un lato
quella precarietà che loro stessi alimentano, dall’altro chiedendo alle
istituzioni più risorse e agevolazioni per i propri enti.
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¹ Laino G., Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come
attivazione sociale, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 117.
² “La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività
diventava subordinata a questa richiesta. […] L’unico interesse dietro queste
procedure [era] l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità
sul mercato dei ‘servizi’, a scapito della reale qualità della vita delle
persone coinvolte”: testimonianza di un’operatrice sociale in Curcio R. (a cura
di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del
terzo settore, Sensibili alle foglie, Roma, 2022, p. 36.
³ Si vedano: Curcio R. (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro
nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici,
Sensibili alle foglie, Roma, 2014; Curcio R. (a cura di), Ombre digitali sul
lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del terzo settore, Sensibili
alle foglie, Roma, 2022.
⁴ Si veda questa acuta analisi in: www.laterratrema.org/2021/03/
poveri-stoccati-connessi/.
(disegno di mario damiano)
Il 28 marzo la giunta Manfredi ha approvato in via definitiva il “Documento di
indirizzo alla definizione delle funzioni” che contiene i dettagli sul futuro
utilizzo della Vela celeste, i cui spazi dovrebbero essere destinati, tra gli
altri usi, ad alloggi universitari, uffici, asili nido. L’azione rientra nel più
ampio programma Restart Scampia, un grosso intervento di rigenerazione urbana
che, tra luci e ombre, ha comunque il merito di aver messo la parola fine a
trent’anni di quello che si potrebbe definire un “disastro abitativo”. Una buona
parte del merito va dato a generazioni di abitanti che hanno lottato perché gli
fosse riconosciuto il diritto a una casa dignitosa.
Il testo che segue è il diario di campo di un mese passato alle Vele di Scampia
da uno dei nostri più giovani redattori. Prova a raccontare un momento complesso
e pieno di contraddizioni come quello delle ultime ore passate negli edifici e
nelle case dagli abitanti superstiti.
* * *
L’incontro con le Vele è stato impattante, sembrano tutto fuorché delle vele,
sono imponenti, enormi, rovinose. Cerchiamo di entrare all’interno in maniera
silenziosa, parliamo a bassa voce, i nostri passi sono attenti a non calpestare
cose che possano fare rumore, provando a non disturbare le persone che non hanno
altro da fare se non chiudere in enormi pacchi tutte le cose che avevano in
casa, portare giù i mobili e tutto quello che rimane della loro vita passata lì
dentro.
Il primo incontro è con Salvatore, dimostra circa quarant’anni, i suoi vestiti
sono sporchi di polvere. Ci chiede cosa stiamo facendo. La curiosità lo spinge a
invitarci a casa sua, o per utilizzare un suo termine “quello che ne rimane”.
L’abitazione ormai è spoglia, non c’è più niente se non qualche mobile che non
era necessario.
I traslochi, ci spiega Salvatore, sono autonomi. Ognuno entra in casa e recupera
quello che reputa necessario, alcuni lasciano mobili che non riescono a
trasportare, altri invece li distruggono per non lasciare nulla “in mano ai rom,
che recuperano qualsiasi cosa”. Molti invece scelgono in maniera autonoma di
togliere i fili di rame e di ferro e lasciarli fuori la porta, così da evitare
che qualcuno possa entrare nelle loro case.
Salvatore continua raccontandoci la sua vita, la storia di quella casa, il tempo
che lui e la sua famiglia hanno speso li dentro. «I pranzi d’estate – dice –
erano fatti fuori ai ballatoi, ora li vedete sporchi e trasandati ma prima
ognuno puliva e dava una mano a tenere ben curato questo spazio. Io ho vissuto
quarant’anni qui, prima c’erano i miei genitori, su tutta la balconata vivevano
tre famiglie, tutti miei parenti. Qui ci sono nati i miei figli, è difficile
toglierli da questo spazio. Quando mi mureranno la casa non voglio vedere,
vorrei scrivere una poesia, sfogarmi in qualche modo».
Vado via pensieroso. Salvatore mi ha fatto capire che ogni muro di quella casa è
ancora vivo. Incontriamo Valentina e sua cognata, notiamo la loro curiosità e
chiediamo di poter entrare, fotografando quello che ne rimane. Anche la casa di
Valentina è stata lasciata, ma a differenza di tante altre persone lei ha
distrutto ciò che ne rimaneva, in attesa che venisse murata. In questa Vela
Valentina ci è nata, cresciuta e ha fatto a sua volta nascere e crescere i suoi
figli. Ci mostra la loro stanzetta, dove appesi al muro ci sono ancora i puzzle.
«Ne ho troppi, i miei figli ne fanno troppi», continua raccontandoci di sé. «Qui
ci sono cresciuta, poi la mia vita e le mille pazzie che ho fatto mi hanno
portato lontano. Quando ero una ragazzina mi sono messa con un ragazzo che
faceva, diciamo, delle cose… mio padre non voleva e così un giorno sono scappata
e insieme a questo ragazzo siamo andati a vivere nella Vela Celeste. Dopo
qualche tempo la nostra storia finì e io andai a lavorare in Germania. Un giorno
mi chiama mio padre e mi dice: “Vale, ricordati che ti amo”. L’avevo sentito
strano. Nonostante avessimo un buon rapporto non mi aveva mai detto una frase
del genere. Dopo poco venni a sapere che non c’era più. Questa cosa mi ha fatto
tornare e rimanere qui. Per me è importante raccontare che non siamo come ci
hanno sempre dipinto: fa comodo dire che nelle Vele c’è solo la malavita. Qui
sono venuti in tanti, hanno girato i film e se ne sono andati, senza mai
chiederci di cosa avessimo bisogno. Io lavoro, mio marito mette la fibra in giro
per l’Italia, mio padre faceva l’infermiere».
Dopo aver raccolto ognuna delle interviste ho sempre avuto bisogno di un po’ di
tempo per riflettere su quello che le persone mi stavano dicendo. Mentre
riflettevo, spesso mi imbattevo nei muratori in pausa pranzo, alle prese con la
“chiusura” delle case. Il loro lavoro è meccanico: caricano il cemento,
trasportano i blocchi e murano finestre e porte, chiudendo definitivamente le
abitazioni. Durante uno di questi momenti, Luciano ci invita a salire a casa sua
e ci racconta la sua storia: «Ho perso mia moglie per un tumore nel 2017, i miei
figli vivono per fatti loro, sono rimasto solo, lavoro alla giornata. È
difficile così trovare una casa. La gente non ce le affitta, siamo delle Vele,
hanno paura, e poi chiedono le buste paga… ma se avessi una busta paga starei
nelle Vele?». La sua casa è in disordine, ci sono bustoni e pacchi pieni di
cose, mentre parliamo ci offre un caffè. «Io appena trovo qualcosa lascio tutto,
anche un buco mi andrebbe bene».
Di fronte all’appartamento di Luciano c’è quello di Paola, una ragazza di
ventun’anni con due figli che vive insieme a sua mamma. Ci ha visti arrivare, e
si ferma a chiacchierare con noi. Nel corso degli anni racconta di aver visto le
cose cambiare ciclicamente: «Quando c’erano i Di Lauro a nessuno fotteva di
Scampia. Dopo la faida lo Stato ci ha messo le mani e ha arrestato tutti, ma
dopo è tornato il silenzio. Noi non esistiamo, siamo fantasmi, si sono ricordati
di noi solo dopo la tragedia della Vela celeste».
Mentre li saluto e sto per andar via incontro Bruno, che abita qualche piano più
sopra. Vive dagli anni Ottanta nelle Vele. Ci sono cresciuti dentro i suoi figli
e i suoi nipoti, per questo poco prima che la sua casa venisse chiusa dagli
operai ha deciso di rompere un pezzo di muro. «Queste mura hanno portato fortuna
a tutta la mia famiglia, devo ringraziarle ed è per questo che le porterò con
me», mi dice mentre gli giro un video che posterà su Tik-tok, desideroso di far
vedere a tutti quanto quelle mura siano state per lui una fortuna.
PER SEMPRE 901
Le mura sono una cosa che risuonano spesso all’interno delle Vele. Per molti
sono diventate, prima di andar via, quadri dove sfogare la propria tristezza,
per altri sono stati quaderni dove dedicare delle frasi, sia alla Vela sia alla
propria famiglia, e per altri ancora sono stati pezzi di fortuna. Sulle mura c’è
scritto di tutto: “Grazie mamma Vela”, “Per tutti sei storia per me resti
mamma”, “Per sempre 901”, “804 sarai sempre con me”.
Le Vele nascono tra il 1962 e il 1975, a seguito della legge n. 167. La loro
forma è larga alla base, chiudendosi man mano che sale. Si passa da enormi atri
al pian terreno ai ballatoi che ti portano all’interno delle case. Al piano meno
uno ci sono dei garage, a oggi abbandonati, in altri tempi utilizzati per lo
spaccio. L’area iniziale era composta da sette edifici su centoquindici ettari,
quattro di questi sono stati abbattuti nel 1997, 2000, 2003 e l’ultimo nel 2020.
Facevano parte di un progetto abitativo innovativo per l’epoca, nella ricerca di
uno sviluppo per la zona nord di Napoli.
Quando torno, qualche giorno dopo, trovo Luciano ancora lì, come un superstite.
Nonostante il diluvio scende a salutarci con un ombrello.
Ci accompagna alla Vela gialla, identica a quella rossa. Troviamo un panettiere
che vende porta a porta. Si chiama Enzo e vive qui. Insieme a lui andiamo da
Rosaria, che ci accoglie in vestaglia e con i capelli legati. «Vivo qua da buoni
trent’anni, fa strano sapere di dover andare via». Anche lei ci racconta delle
tavolate d’estate sul ballatoio e dei momenti collettivi. Il suo, nonostante si
trovi al terzo piano, non ha altri ballatoi sopra di sé, e questo rendeva ancora
più bello in estate preparare tavolate con i vicini alla luce del sole. Le
nostre risate svegliano sua figlia, vent’anni, che lavora come volantinista;
dice di non voler lavorare a Scampia perché bar e ristoranti pagano troppo poco,
«una giornata intera, quaranta euro». Poi rientra in casa, presa dal sonno e
ritorna a dormire. Noi restiamo con sua madre e sua “zia” che ha origini in un
grosso rione di periferia a Pozzuoli, dal quale provengo anche io.
Qualche ora dopo conosciamo anche Pietro, che ci racconta alcune cose sul
riconoscimento delle famiglie all’interno delle Vele. «È stata fatta – dice –
una delibera comunale ma circa cinquecento famiglie attendono un alloggio da
quindici anni. Qui alcune tra le prime famiglie che hanno occupato sono riuscite
anche a vendersi la casa, aggiungendo all’interno del loro stato di famiglia le
persone che volevano acquistarla».
Le case sono ormai quasi tutte vuote, c’è desolazione in giro, io cerco di
immaginarmi come dovevano essere le Vele piene di gente, e le parole dei veliani
mi aiutano non poco. L’acqua si infiltra dappertutto, ci sono perdite ovunque,
tra le scale, sui ballatoi. Intercetto di nuovo Luciano, è da poco tornato dalla
sede della municipalità: «Sono stato con mia figlia al Comune, sto in lista per
il sussidio. Intanto non riesco a trovare casa, e non so come risolvere. Io sono
arrivato per primo su questo ballatoio, tutte le persone che vedi sono arrivate
dopo: Valentina e la mamma, Paola e tutti i miei vicini. I miei figli vivono
lontano: uno a Londra, una a Giugliano, il pullman passa una volta ogni ora e
mezza, diventa difficile anche andarla a trovare».
Le Vele dovevano costituire un vero e proprio modello di città per una fascia
media della popolazione, ma le cose cambiarono in fretta già dopo il terremoto
del 1980, che portò molte famiglie rimaste senza tetto a occupare alloggi nel
quartiere. Questa situazione, unita alla totale assenza dello Stato, creò un
forte disagio popolare. Solo diciassette anni dopo le istituzioni presero atto
di ciò e l’amministrazione Bassolino avviò l’abbattimento di due Vele, portato
poi avanti dal sindaco Iervolino nel 2003. Una scelta radicale e semplicistica,
che non ha mai portato le amministrazioni a fare i conti con la situazione reale
di quel contesto. Dopo tredici anni, con un’altra delibera comunale, si previde
l’abbattimento di tre dei quattro edifici e il recupero dell’ultimo. Il progetto
firmato dal sindaco de Magistris è stato portato avanti con il nome Restart
Scampia e nel 2020 ha condotto alla demolizione della Vela verde. Da allora, per
quattro anni e mezzo, il nulla.
L’ULTIMO GIORNO
Torniamo alla Vela rossa il giorno dopo il nuovo crollo di un pezzo di
ballatoio. Troviamo polizia, vigili urbani e pompieri. Tutti sono molto tesi,
anche perché molti abitanti sono stati sfrattati senza la possibilità di poter
rientrare nelle loro case per prendere i vestiti per la notte. Durante i
frettolosi traslochi, una lavatrice è caduta in maniera rovinosa e il peso ha
danneggiato un ulteriore ballatoio, creando una buco enorme. Raggiungo Luciano
all’esterno, si discute animatamente con la polizia municipale, che invita alla
calma. Le persone sono stanche di aspettare. «Ieri ci avevate detto che oggi
potevamo salire a prendere almeno le cose principali, mo’ perché so’ cagnate ‘e
scene?». Ripenso a quello che mi aveva detto Attilio, per il quale lo sfratto è
stato una sorta di liberazione. Mi ha raccontato la sua storia: dopo tanti guai
era finito ai domiciliari, quello sfratto per lui è stato un modo per poter
uscire dopo anni di reclusione in casa. La polizia lo aspetta giù mentre porta
gli ultimi pacchi in macchina. Si sente finalmente libero, «vedere la luce del
sole, uscendo, è una liberazione», dice.
Alla Vela gialla la situazione è più distesa. Le famiglie rimaste sono poche,
anzi pochissime. Incrocio Rosaria, è fuori con il cane, cerchiamo un confronto,
le spieghiamo le nostre difficoltà a interagire con le persone quando il clima
generale è teso. Lei ci rincuora, ma alla fine ritorniamo a casa un po’ tristi
per il risultato della nostra visita e per qualche rapporto incrinatosi come i
ballatoi di quelle Vele che finiamo di calpestare.
L’architetto progettista delle Vele era Francesco Di Salvo, che articolò
l’impianto del rione con due tipi di architettura “a tenda” e a “torre”. Il
primo è quello che contraddistingue le vele, caratterizzate da questo incontro
di due corpi di fabbrica lamellari, separati da un vuoto centrale e attraversati
da ballatoi sospesi. Agli inizi le strutture in realtà erano denominate con le
lettere dell’alfabeto, Vela A,B,C e D, poi successivamente, dopo l’abbattimento
del 2003, fu la popolazione ad aggiungere di fatto la denominazione cromatica.
È passata quasi una settimana quando ritorno. Sono le dieci del mattino e sono
da solo. Mi colpisce il silenzio, nella Vela gialla sono state sgomberate tutte
le famiglie, nella rossa ne sono rimaste pochissime. È l’ultimo giorno, non c’è
più quasi nessuno. A poco più di un mese dai mille rumori che mi avevano
accolto, mi ritrovo circondato da un silenzio quasi spaventoso. Chiamo Luciano,
che come sempre mi lascia salire. «Non ti posso offrire un caffè perché ho
chiuso tutto negli scatoloni», mi dice. A breve arriverà il fratello a prendere
gli ultimi pacchi e portarli da lui. Ancora non ha trovato casa, Luciano, andrà
a vivere “momentaneamente” da lui al Vomero. Suo figlio ha già portato giù le
cose più pesanti, ho immaginato la fatica: una dozzina di rampe di scale con
grossi pesi sulle spalle. Paola, invece, è andata con la madre e i figli da sua
sorella, come quasi tutti quelli che Luciano mi nomina. Al 9 dicembre, mi
sembrano pochissime le persone che sono riuscite a trovare una casa. Ci facciamo
un ultimo giro, il panorama è bellissimo, tra cemento, amianto e Vesuvio resto
incantato per qualche secondo. “Per tutti sei Gomorra per me sei mamma”, scrive
qualcuno. “Ciao Vela, grazie di tutto”, è un’altra delle dediche che leggo. Una
personalizzazione di questi edifici che sono stati contemporaneamente casa e
prigione, libertà e reclusione. Spigolosi, grigi, in rovina, pronti a essere
cancellati dal mondo, conservano un cuore che batte e che è in realtà quello
delle persone che ci hanno vissuto. (angelo della ragione)
(una storia disegnata di mattia vincenzo abbruzzese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di malov)
Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca,
studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di
dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione
intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il
rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240,
l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un
osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di
ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in
quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene
proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di
portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico
dell’ateneo.
Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un
percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel
corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta
una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la
ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione
concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20
marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come
giornata nazionale delle università.
Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università
svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture
straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però,
non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale
dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240
rischia di diventare irreparabile.
L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un
manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato
di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del
pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi
premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia
nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di
logiche di mercato e militari su didattica e ricerca.
Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20
marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al
mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte
sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e
invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In
seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della
Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra
ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a
cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello,
“ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il
personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza
tutele e prospettive di stabilizzazione.
Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno
complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi
storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto
“Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a
Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel
sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle
università telematiche.
Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università
– privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i
rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che
tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche
cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance
accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma
rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna.
“Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi
proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa
dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con
stati genocidi. Voi cosa dite?”.
Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea
precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti
dei rettori visibilmente imbarazzati.
La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla
riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge
infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta
per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che
senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina
accademica si fermerebbe.
Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una
posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione
dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva.
Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in
diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di
Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance
universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di
interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”.
Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha
tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di
mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove
sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui
avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco
Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia.
C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a
ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno
striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno
preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere,
la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e
cancellando l’evento in programma per la giornata.
Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato
accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e
governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle
decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A
partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono
costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora
molettieri)
(foto di massimo velo)
Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area
industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento
dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e
duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati
assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti
elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie
alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che
sono state invece messe in un angolo in pochi mesi.
Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici
talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per
mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa
arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e
Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano
il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale.
La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola
in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla
raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della
colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa
pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di
ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano
di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio
naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra.
Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le
strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la
possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due
chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore
amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione
come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che
ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di
servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città
possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione
dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno
all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né
progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere
lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a
metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico
condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a
iniziare.
La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti
universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito
carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler
essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più
importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito
al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la
comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per
denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi.
Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due
principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita
anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza
parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento.
Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili
cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è
inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa
ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le
cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una
buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a
una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un
lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un
ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa
dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali
altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo
pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature
residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa,
dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”?
Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta”
artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una
parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica
messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del
paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la
popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in
una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del
Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che
finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su
amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano,
cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il
disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo
rosa)
Nella notte tra mercoledì 12 e 13 marzo, una forte scossa di terremoto di
magnitudo 4.6 sveglia la popolazione dei Campi Flegrei, periferia ovest di
Napoli, di cui fanno parte i popolosi quartieri di Bagnoli e Fuorigrotta. E’
l’evento bradisismico più forte degli ultimi quarant’anni. Dopo due anni di
ondate sismiche con magnitudo elevate, dovute […]
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
C’è una città che si mostra per ciò che è, e un’altra per ciò che vuole
sembrare. La mia mi sembra sempre più un collage di vecchi giornali e ritagli
sparsi, dentro il quale ognuno cerca il suo posto. Questa operazione significa,
però, anche restarsene un po’ ai margini a osservare. Di notte meglio che di
giorno.
La movida del centro di Napoli si muove tra le luci fredde delle insegne dei
locali e le strade strette che costeggiano i vecchi palazzi. Mi siedo al
tavolino di un bar in uno dei vicoletti più nascosti dei Quartieri. Il
chiacchiericcio delle persone si mescola al rumore dei motorini e all’odore di
spritz appena versati. Ragazzi con qualche battuta ci provano con le turiste: «È
la prima volta che siete a Napoli?», chiede uno. Un altro senza perdere tutto
quel tempo, gli sorride e dice: «You’re beautiful!».
Nicola ha ventiquattro anni, è uno studente universitario di San Giuseppe
Vesuviano, single e senza lavoro fisso. Parla di sé con naturalezza, come se
fosse abituato a raccontarsi. «Esco più per la compagnia che per il piacere di
andare in un posto preciso – mi dice –. Certo, abbiamo i nostri locali, quelli
dove ci sentiamo a casa, ma a Napoli è facile trovare qualcosa di interessante.
Quartieri Spagnoli e centro storico, ci si muove in base a chi trovi in giro. A
un certo punto ci siamo spostati qui perché anche le persone che conoscevamo, i
nostri amici storici, in provincia, hanno iniziato a fare lo stesso. A San
Giuseppe non c’è molto da fare».
Il suo legame con Napoli si è rafforzato dopo la pandemia. Dopo essersi sentito
intrappolato per mesi ha cominciato a spostarsi, trovando in città «un senso di
libertà che non avevo mai provato prima: è stato come se una casa crollata fosse
stata sostituita da una nuova».
Quando Nicola parla della sua esperienza in città, lo fa quasi sempre
sottintendendo la differenza rispetto alla realtà del suo paese. Napoli è il
luogo delle opportunità, dei legami facili, dei luoghi che non tradiscono. «È
bella perché è stimolante, succedono cose. C’è una fauna umana variegata, puoi
trovare chiunque, ed è questo che a me piace, la sua imprevedibilità. E poi non
serve spendere tanto per divertirsi: con venti euro fai una serata più che
dignitosa. La città ti sfotte ma non ti giudica: se facessi in provincia quello
che faccio a Napoli sarebbe diverso, mi sentirei sotto esame».
Con Nicola finiamo a parlare della Fomo (Fear of missing out), parola che
descrive uno stato psicologico non raro tra i ragazzi, ovvero la paura di
“perdersi qualcosa di importante”, eventi sociali, esperienze. I social network
hanno un ruolo di primo piano in questo, poiché l’effetto di ogni sensazione
viene amplificato dal confronto con quello che fanno gli altri. «Oggi ho
imparato a scegliere: se non ho voglia di uscire rimango a casa».
Anche l’appartenenza, l’intensità con cui ci si sente parte di qualcosa, sembra
in cambiamento. Non sempre ci si accorge, però, che per sentirsi dentro la città
– fatta anche dei suoi eventi e i suoi riti – c’è un prezzo da pagare:
partecipare. Ne parlo con Alessio, ventidue anni, che si è laureato con una
certa velocità e oggi vive e lavora nel centro storico. Lo incontro in piazza
San Domenico Maggiore, dove abita. Intorno a noi la gente si muove
freneticamente tra bar affollati e localini ma è come se ognuno restasse in un
proprio piccolo angolo. Sembra più difficile attaccare bottone con qualcuno.
«Scendo (è così che si dice a Napoli per far capire che si sta uscendo di casa
per divertirsi, o riempire il tempo, ndr) raramente la sera, al massimo una o
due volte a settimana. Prima anche tre o quattro volte, ma ora ho meno voglia,
mi sembra non ci sia molto da fare. Cerco posti nuovi, ma finisco sempre negli
stessi luoghi, anche perché i posti si assomigliano uno con l’altro». Anche
sulle persone che prima incontrava, ha cambiato prospettiva: «Prima mi sembrava
bello poter incontrare la gente sempre diversa che attraversa il centro, ma ora
mi rendo conto che siamo tutti uguali».
Alessio ritorna spesso sull’idea che non partecipare ad alcuni eventi
importanti, o non far parte di alcuni giri, sebbene allargati, ti releghi a una
sorta di invisibilità, dove la tua esperienza viene percepita come “opaca”
rispetto a chi invece ci è dentro fino al collo. «A volte uscire la sera ci
sembra più un obbligo che un piacere, un dover performare più che un momento di
svago».
La trasformazione che ha subito la vita notturna napoletana non è un fenomeno
improvviso. È il risultato di un graduale processo che, con l’esplosione del
turismo di massa e la consacrazione dell’immagine “pop” della città, ha
modellato una esteriorità sempre più attraente e superficiale. Questo processo
ha avuto bisogno di tempo (è evidente se ci si fa raccontare com’erano certi
luoghi di notte quindici o vent’anni fa), ma è diventato palese negli ultimi
cinque o sei anni, con l’imposizione di una Napoli “espositiva”, crocevia di
mode e tendenze che chi la attraversa non può ignorare.
Questa trasformazione è visibile tanto di giorno quanto di notte, seppure con
sfumature diverse. Napoli è oggi una città che respira a un ritmo frenetico. Le
strade sono animate dai turisti che si mescolano ai napoletani. Gli studenti
camminano verso l’università velocemente tra bancarelle di calamite e odore di
frittura. Si fanno strada tra gruppi di persone che scattano foto, mentre a
qualsiasi ora le pizzerie traboccano di gente, il rumore dei clacson e la puzza
di marmitta si mescolano con il rosso dei bus City Sightseeing. Non è solo
l’aspetto della città a essersi trasformato, ma la sua mappa urbana, la sua
economia, le relazioni. Una pressione invisibile ha finito per influenzare le
scelte quotidiane delle persone (dove abito, che posti frequento, come spendo il
mio stipendio) e le identità stesse, comprese quelle di chi vive la notte.
Gli eventi serali, per esempio, vengono venduti come accessibili e inclusivi, ma
è quasi un’operazione di empathy-washing. I locali notturni, infatti, dove anche
lo spazio vitale si paga in termini economici, si rivolgono a un pubblico
preciso, ammantando di un senso di comunità una realtà che spesso ti esclude se
non ne fai già parte (non è solo questione di poterti permettere economicamente
un certo tipo di esperienza, ma anche del tuo retroterra culturale). I profili
social di questo o di quel bar parlano di “famiglia”, di “comunità”, ma
l’immagine esterna è più quella di gruppetti e sette che non si incontrano mai.
Per Alessio è una questione di ripetitività delle pratiche, di un mondo che non
lascia più spazio all’imprevisto, di reti sociali e spazi in cui ci si impiglia,
nascondendo un vuoto di connessioni reali. Parlando un po’ qua e là con i miei
coetanei, la sensazione è quella di un’adesione a un gioco di società che
implica un riconoscimento, che diventa quasi una valuta, un mezzo per sentirsi
validi e validati. Il prezzo è dover essere sempre al passo con gli altri, o
forse anche più avanti, oltrepassandoli come se anche uscire fuori per una birra
fosse una competizione.
A un certo punto di questo lavoro, per esempio, ho cominciato a riflettere sulle
immagini della notte, sulle locandine e i manifesti che provano a venderci le
esperienze da consumare, modellando intorno a prodotti commerciali (la vendita
dell’esperienza) i nostri desideri. La grafica e la pubblicità degli eventi
della movida svolgono un ruolo fondamentale: le immagini e i colori, il tono, la
scelta di simboli e icone contribuiscono a costruire una proposta definita per
questo o quel gruppo. Se quelle che reclamizzano serate nei centri sociali,
grandi punti di aggregazione della zona, richiamano un messaggio politico e si
identificano per un’impronta visiva semplice, con illustrazioni chiare e
immediate, le serate di localini aggregatori di una gioventù con velleità
artistiche o intellettuali si distinguono per varietà di grafiche e stili
visivi. Si privilegia l’estetica ma il messaggio e le info risultano più
difficili da interpretare: la copertura visiva prende il sopravvento, facendo
apparire l’evento più come una questione stilistica che un’occasione di
incontro. Agli antipodi di questo approccio ci sono poi le locandine dei locali
(per lo più discoteche) della provincia: più semplici, con fotografie di dj o di
vecchie serate: sono chiare, dirette, puntano a mostrare l’esperienza, perché
contano in fondo anche loro sull’attrattività per un pubblico ben definito.
Diversa è infine la filosofia delle locandine tipiche degli eventi con secret
location (ti prenoti, lasci il numero di telefono, qualche ora prima ricevi un
messaggio con il luogo e ti presenti). Richiamano vagamente la cultura dei rave,
le grafiche sono accattivanti ma semplici, i testi criptici e le informazioni
arriveranno in un secondo momento. L’idea di “segretezza” è il punto di forza di
questo tipo di esperienza: crea un’aspettativa e un senso di curiosità che fanno
desiderare l’evento ma anche lì, per quanto una proposta del genere può
risultare eccitante per chiunque, si tende ad arrivarci tramite un contatto, una
persona che in qualche modo “bazzica” quel mondo, quei “giri”.
L’analisi dell’architettura visiva che ci guida nella scelta di un’esperienza
notturna meriterebbe spazi e tempi più approfonditi. Mentre lavoravo a
quest’inchiesta, però, sono rimasta affascinata dal rapporto tra l’estetica e la
creazione di una realtà stratificata, dove l’immagine ha un ruolo nel definire
il rapporto tra gli individui e la città. Mi rendo conto di stare anche io
dentro caselle e idee standardizzate che provengono da scelte di mercato e da
rappresentazioni costruite ad hoc. Studentessa, giornalista, ricercatrice. Ma in
fondo consumatrice senza possibilità di scelta della città come
prodotto. (serena bruno)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di otarebill)
È passato più di un mese da quando la ripresa degli sciami sismici ha
riacutizzato le preoccupazioni gli abitanti dell’area flegrea, che da due anni a
questa parte sentono sulla propria pelle “l’eterno ritorno” del bradisismo.
Nell’area compresa tra i comuni di Pozzuoli, Napoli e Bacoli, l’Ingv (Istituto
nazionale di geofisica e vulcanologia) ha registrato, tra il 16 ed il 18
febbraio, cinque terremoti di magnitudo maggiore di 3. Le scosse più
significative sono state di grado 3.9 nel pomeriggio del 16 e poco dopo la
mezzanotte del 17 febbraio. Quest’ultima ha creato notevole agitazione tra la
popolazione, paralizzato le strade puteolane in piena notte e costretto diverse
famiglie a passare più di una notte fuori casa o in auto.
In risposta alla preoccupazione dei cittadini, la Protezione Civile ha convocato
il 18 febbraio, a Monteruscello, un incontro pubblico a cui hanno preso parte il
direttore dell’Osservatorio Vesuviano (che fa parte dell’Ingv), i sindaci dei
comuni coinvolti, il prefetto di Napoli e la dirigenza della Protezione Civile
(il direttore generale Italo Giulivo e il capo dipartimento Fabio Ciciliano).
Proprio gli interventi di Giulivo e Ciciliano hanno provocato repliche accese da
parte dei tanti presenti. Il primo ha spiegato ai cittadini che nel caso della
precedente crisi bradisismica del maggio 2024 la Protezione Civile aveva avuto
difficoltà a trovare alberghi disponibili ad accogliere gli sfollati solo perché
«fortunatamente per voi, gli alberghi erano pieni di turisti». Anche le parole
di Ciciliano hanno destato una certa perplessità e innescato contestazioni. In
particolare Ciciliano ha affermato con una certa tranquillità, non certo d’aiuto
a una popolazione che vive in uno stato di tensione da oltre ventiquattro mesi,
che in caso di una scossa di quinto grado «cadono i palazzi e contiamo i morti».
Nei giorni successivi, gruppi di cittadini si sono così organizzati per
protestare: il 21 febbraio un centinaio di persone si sono date appuntamento al
consiglio comunale di Napoli per chiedere chiarimenti al sindaco e la
convocazione di un appuntamento informativo sul territorio (oltre che azioni
concrete per la messa in sicurezza degli edifici e dei loro abitanti). Domenica
23, un corteo ha sfilato per le strade di Pozzuoli, mettendo in risalto la
distanza tra le politiche istituzionali e le esigenze della popolazione. Per
rispondere ai dubbi dei cittadini è stato convocato al Maschio Angioino un
consiglio monotematico ad hoc nella giornata del 10 marzo (a Bagnoli, intanto,
si costituiva un’assemblea popolare, che ha occupato per quattro giorni la sede
della Municipalità, ha organizzato incontri con esperti e cittadini e ha
stilato, coinvolgendo attivamente gli abitanti del quartiere, un piano condiviso
per la gestione dell’emergenza).
Una delegazione di quest’assemblea ha quindi partecipato al consiglio comunale
di lunedì 10 marzo, in un Maschio Angioino blindato, e con gli agenti della
Digos a ratificare il paradosso di un incontro pubblico dove però non si poteva
entrare liberamente. Nella Sala dei Baroni è andata in scena una replica
dell’incontro del 18 febbraio, con la sola differenza che questa volta hanno
preso parola anche i presidenti delle municipalità coinvolte dall’emergenza
(Chiaia e Posillipo, Soccavo e Pianura, Bagnoli e Fuorigrotta) e le delegazioni
cittadine. Tra le novità emerse c’è stata la chiusura, avvenuta nella stessa
mattinata, dell’istituto alberghiero Rossini di via Terracina, nei cui piani
bassi sono stati riscontrati livelli anomali di anidride carbonica, legati
appunto ai movimenti di gas dovuti all’attività bradisismica.
Per il resto, il consiglio è stata la solita fiera delle belle parole senza
fatti concreti. Tutte le istituzioni hanno espresso la necessità di “continuare
a sensibilizzare la popolazione” partendo dalle scuole e dagli infopoint sul
territorio (pochi e malgestiti), cercando nell’ordine degli psicologi una sponda
per il supporto psicologico. In realtà appare, questo, uno dei punti più critici
della gestione del fenomeno in questi due anni, e l’elemento che ha creato la
vera frattura tra le istituzioni e le persone, lasciate sole sia nei momenti di
rallentamento delle scosse che in quelli in cui la cosiddetta emergenza (si può
definire tale un fenomeno naturale che si ripresenta cronicamente e per periodi
tutt’altro che brevi?) si fa più pressante, a cominciare dalle notti in cui
centinaia di cittadini si radunano sul vialone dell’ex base Nato di Bagnoli e, a
stento, vengono mandati a supportarli una o due pattuglie di vigili urbani.
Altro tema centrale è il sostegno economico per la messa in sicurezza degli
edifici. Dal consiglio è emersa la necessità di sollecitare il governo e l’Anci
(Associazione Nazionale Comuni Italiani, di cui il sindaco Manfredi è
presidente) per il potenziamento del Sisma bonus, che dovrebbe coprire – queste
le richieste della popolazione, fatte proprie da alcuni consiglieri di
opposizione – il cento per cento delle spese sostenute per la messa in sicurezza
statica degli edifici. Nemmeno meritevole di commento il giro di voci sulla
proposta del presidente della Svimez, l’associazione per lo sviluppo
dell’industria nel Mezzogiorno, Adriano Giannola, che aveva lanciato qualche
giorno fa l’idea di spostare fasce consistenti della popolazione in una nuova
città, idealmente da edificare lungo la Napoli-Bari, per ripopolare le aree
interne della Campania. L’idea dello sradicamento della popolazione come
soluzione al fenomeno bradisismico è l’ennesimo elemento che corre e ricorre
nella storia: già negli anni Settanta l’“emergenza” provocò lo sgombero del
Rione Terra e l’enorme speculazione edilizia con la costruzione del Rione
Toiano; lo sciame del biennio 1982-1984 portò invece circa ventimila puteolani a
Monteruscello, dove venne realizzato un insediamento satellite completamente
slegato dal tessuto originario degli abitanti.
La notazione forse più emblematica è che a reindirizzare la discussione su punti
concreti sono state le delegazioni di comitati cittadini, che hanno portato in
sala le problematiche della popolazione. In particolare, la giunta e la
Protezione Civile sono sembrate impreparate rispetto al necessario miglioramento
della condizione delle vie di fuga – malridotte e congestionate dal traffico
cittadino – e all’intervento per la messa in sicurezza sull’edilizia privata.
Gli attivisti dell’Assemblea Popolare della X Municipalità hanno chiesto che
venisse messo agli atti il piano elaborato durante la settimana di occupazione,
un piano che in realtà è un insieme di proposte di semplice buon senso e
pratiche di welfare, ma che tocca questioni clamorosamente ignorate finora dalle
istituzioni. Tuttavia, alle pratiche decisamente avanzate di partecipazione
della cittadinanza messe in campo in questi giorni, la politica ha risposto con
la solita desolante strafottenza: solo dopo le rumorose proteste di alcuni
attivisti il consiglio si è degnato di programmare un incontro sul territorio.
Il 28 aprile (…!). (francesco nunziante)
Ci è capitato non di rado, nel corso dei laboratori che da qualche anno
svolgiamo tra Villa Medusa e la redazione di questo giornale (siamo ragazzi e
ragazze tra i quindici e i venticinque anni, ma anche redattori e disegnatori di
Monitor) di trovarci a riflettere sul rapporto tra la città e i suoi abitanti
più giovani.
I bambini, gli adolescenti e i ragazzi – a diversi livelli, a seconda della
provenienza geografica, dello status sociale, del conto in banca della famiglia,
dei documenti posseduti o meno – sono tra quei soggetti che sempre più finiscono
ai margini della città. Questo accade perché minore è la nostra capacità di
spesa, perché spesso appariamo pericolosi a chi controlla politicamente e
militarmente lo spazio urbano, perché bassissimo è il livello di considerazione
verso i nostri problemi da parte di chi ci governa, perché più difficile è
evadere dai luoghi (fisici ma non solo) in cui siamo intrappolati. Alcuni tra
noi finiscono addirittura, nostro malgrado ovviamente, sottoterra: ammazzati
dalla polizia, da un proiettile vagante sparato dal Sistema, da una macchina che
sfreccia sul lungomare mentre attraversiamo sulle strisce pedonali.
Nel corso di alcuni incontri che abbiamo fatto quest’autunno è accaduto che, più
o meno in concomitanza, ci interrogassimo da un lato su come avremmo potuto fare
per costruire un’inchiesta collettiva, dall’altro sulle modalità “giuste” per
parlare della condizione dei ragazzi della città. A un certo punto abbiamo
deciso di unire le due cose.
Vi presentiamo quindi, oggi, un’inchiesta a puntate sui luoghi della notte a
Napoli. È una rappresentazione volutamente di parte, nella consapevolezza che
sarebbe stato impossibile racchiudere in una manciata di articoli, fumetti e
storie disegnate un universo complesso. Almeno, però, saremo noi a parlare, a
raccontarci, a descrivere i luoghi che frequentiamo, quello che facciamo quando
usciamo di casa, le strategie che abbiamo elaborato per trovare il meglio (o il
peggio) nel nostro presente, i sogni e gli incubi del futuro che ci
aspetta. (laboratorio di narrazione del territorio)
(una storia disegnata di ginevra naviglio)