(disegno di otarebill)
Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può
vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo
in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa
dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione
Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha
scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di
potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza
nella fiera promozionale.
«Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci
accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.
«Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della
mattinata…».
In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand,
ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte
gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche
scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e
colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per
l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio
De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli
affari esteri Edmondo Cirielli.
Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza
regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati
e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un
“principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e
poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue
dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il
tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà
straordinario”).
Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con
circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli
stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni
più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”:
può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e
inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire
sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i
cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per
monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree
contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici
blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone
al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si
confonde con una fiera campionaria del business bellico.
Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il
2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le
spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi
per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti
strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul
Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9
investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).
Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della
statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento.
È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i
sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà
ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta
milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre
settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica
di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione
della spesa pubblica.
All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della
rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una
fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle
superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita
scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una
di loro, l’altra fa spallucce.
Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero,
l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari
mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una
passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante
alla rotonda. L’aria è quella di una calda mattinata autunnale, tre signori
prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica
da una radiolina, i gabbiani sono in acqua.
Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari
locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio,
mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a
tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito
dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure
e con la modulistica.
Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi
allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro
ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di
O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito.
(edoardo benassai)
Tag - napoli
(archivio disegni napoli monitor)
Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni
di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi
ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle
spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento
milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono
partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di
vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la
turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra
loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non
volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.
Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e
persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che
entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla
mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo
dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in
un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le
complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.
È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e
Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e
di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante,
pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta
succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto
(la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa
a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa
“velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa
America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile
ancora maggiore di quello già esistente sul territorio.
* * *
Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni
comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025),
abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro
internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa).
Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere
politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci
focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti
tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più
sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la
salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte
tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare.
In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie
oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico
in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente
allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non
si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di
Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United
States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo,
2024b; 2025a, b).
Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la
necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della
legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione,
con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione
politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa
(come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali
con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i
terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte,
decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa,
sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero
anch’essi essere bonificati utilizzando l’Istd.
In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà
effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in
sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la
costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la
bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup.
Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in
sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento
definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua
superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi
all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile
costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire
la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici
presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere
bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in
Danimarca.
Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra
tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle
stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale,
specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale
approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro:
sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte
della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della
colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una
valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie
dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile.
CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI
L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e
per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente
inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente
prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti
marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli
ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati,
che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni
(combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente
cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo
stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche:
rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento
di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del
vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il
mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi
Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha
riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare
la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce
vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei).
Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è
un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico,
negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla
combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata,
Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di
Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni
negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per
cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio,
dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria
chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si
accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella
catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo,
inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici,
chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca
nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono
persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali,
sulle comunità locali.
La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito
di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al
contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di
conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno
parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte
lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del
rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per
definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali,
all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone,
prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili
scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo
assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili
con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito
di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea.
Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici
secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei
gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di
cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno
volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio
maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini
che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati
e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica
ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio,
soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate
in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale
rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno
necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i
siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli,
il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con
l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento
di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate
viene infatti generalmente privilegiato l’Istd.
Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe
necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni,
Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di
bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la
salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica.
Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di
sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati
(Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano
tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il
dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp,
causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli,
fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti
delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb
totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che
sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di
Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover
vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli.
Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati
per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹.
Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per
la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in
realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire.
Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste
comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano
essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non
vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con
phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di
pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli,
si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b).
Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo
et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli
pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003)
oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da
sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei
valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati,
alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana
(rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa).
Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella
raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli
impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica
più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli
(De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata.
____________________________
¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in
Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da
Icram/Ispra.
(disegno di francesca ferrara)
Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio
di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente,
con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate
d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a
dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a
sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi
della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni
angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in
tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che
li guida rende la loro azione più di una semplice protesta.
Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi
dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del
futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È
anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri,
che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia,
spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato.
Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al
primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi
della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie;
discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian
piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice
una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in
modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro
intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni
denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e
Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che
sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera
a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel
genocidio.
Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che
alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo
sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di
civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si
continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando
le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può
andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa
Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la
rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come
il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La
Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione,
nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva
sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le
lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a
costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo
dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le
responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più
rispetto agli altri».
Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della
scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone.
Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia:
una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare
di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non
sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece
di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti
hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i
materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più
obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per
molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri,
non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai
Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta
chiamati “alternanza scuola-lavoro”.
L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare
l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi
nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati
incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per
carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in
centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice
addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza.
Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un
comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa
Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e
marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice
degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e
simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come
Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e
all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il
carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”.
D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento
che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà
hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio
rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo
che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che
l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è
cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e
formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito
il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli,
con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto
periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il
coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione
all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e
studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo
qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non
rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha
spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”. L’obiettivo
di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche
faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita».
L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande
più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un
luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno
raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro
aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la
scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente.
(pasquale frattini)
Estratti dalla puntata del 27 ottobre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia
CATANIA: IL LUPO SOTTO SGOMBERO Il LUPo (Laboratorio Urbano Popolare) è sotto
sgombero. Grazie al contributo di due occupanti cerchiamo di approfondire il suo
posizionamento nella geografia urbana e sociale di Catania, gli interessi che si
sovrappongono a un pezzo di […]
(disegno di roberto-c.)
Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli
Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al
volume.
Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la
necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione
di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi
oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello
dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è
scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un
po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha
funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo
urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva
accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre,
marginale.
Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa
si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande
muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle
infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il
primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica
della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non
si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi
viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e
il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2
della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.
Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli
che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui
raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di
Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi
pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in
rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.
Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei
luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale,
ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale
dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’
tutti i contributi.
Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il
litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni
residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna
del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena
raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa
che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante
fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.
Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un
paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni
che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale
non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e
storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno
fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie
insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive,
rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi
ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.
Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una
traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge
speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero,
alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel
Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del
deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione,
che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed
economiche.
Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia
Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento
nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di
mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda
Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare.
Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti
diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo
gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela
Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi
essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri
esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che
l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle
parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici
che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli
con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso
e trascurato.
Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un
polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese
qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle
multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di
Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e
il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le
malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state
tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo
simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.
A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come
una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto
ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che
legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna
questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.
Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze
vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati
civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De
Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via
Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per
smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale
di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa
restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della
storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha
segnato la storia di questi luoghi.
Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia
ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali,
esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche,
stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura
collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità
a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che
attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa
condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha
prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno
spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e
riconoscimento.
Un uomo è deceduto questa mattina a Napoli durante un intervento dei
carabinieri; fermato col taser, è morto durante il trasporto in ospedale Hanno
provato a fermarlo bloccandolo, utilizzato il …
(disegno di marta fogliano)
Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali.
Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro
all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale,
visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati
con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con
ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al
termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione
dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare
la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno
affrontando.
Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una
informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e
sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel
2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando
che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più
importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non
peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto
svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario
(lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal
governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato”
l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a
carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un
paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore,
ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera
da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per
i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e
lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai
cittadini.
All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale
la pena riportare alcuni punti emblematici.
1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto
turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi
lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio
per permettere il mantenimento della colmata a mare).
2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto
dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si
faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì
«dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa
due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà
inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti
gli effetti associazioni di diritto privato).
3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta
rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la
fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe
comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una
volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una
piscina naturale.
4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità
assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due
litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la
spiaggia libera) «si dovrà aspettare».
5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani»
(e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli
sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione).
Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è
comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei
consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande
occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre
sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il
rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici
“servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per
l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo
intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre
visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta
smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un
enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri
difensori di quel piano.
È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il
risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni
di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a
discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due
porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del
bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede
di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di
Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se
quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel
2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e
Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli
doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il
governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei
suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non
può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per
impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati.
Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon
senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del
dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali
presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da
svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti.
Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che
recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di
Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare,
Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano,
lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza
quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune
stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica
ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli.
Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e
Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare
intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in
mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della
colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica.
Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno
non va a votare. (riccardo rosa)
(disegno di cyop&kaf)
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza
del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle
cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro
Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere
prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi
era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare
l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo
grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è
concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che
si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione
all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli.
Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso,
spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano
illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene
sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare
regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente.
La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio
amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di
stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano
stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo
di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto
atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i
provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza
consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere
eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti
ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem,
avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e
proporzionati”.
In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024
(e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione
eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o
che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga,
inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste
e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle
cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata
l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da
un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola
denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di
pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza
delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia
nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e
determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo
allorché vada ad integrare una norma penale”.
La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà
personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva
ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza,
legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione)
Foto di Matteo Ciambelli
Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli
spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita
Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori,
corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto
mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si
svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e
centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni,
cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura,
in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine.
Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi
giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno
persone, tutto più tranquillo».
Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della
Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai
cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di
scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la
spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si
intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare
l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha
avuto grossa diffusione.
La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid
sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di
Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti
nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo
aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre
erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A
compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli
amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in
questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio
tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di
calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che
sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte,
acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate
con la data della finale della Scugnizzo Cup.
A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol
più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori:
Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del
torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola
evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è
dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un
esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori
evitati in due metri quadrati.
Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra
linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci
sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce
quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson,
circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più
titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo,
vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per
tenere i tifosi lontani dal campo.
Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati.
«Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per
strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono:
«Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista
semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira
intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della
partita abbraccia il padre.
La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli
spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce
illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il
calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e
lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo
megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo
tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del
Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano.
Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice,
che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra,
palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I
tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo,
Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1),
probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano
articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre
importanti di serie A.
La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene:
capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto
all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e
lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua
figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai
fuochi d’artificio. (davide schiavon)
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)