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Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
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Scugnizzo cup. Voci e immagini dal torneo dei quartieri di Napoli
Foto di Matteo Ciambelli Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori, corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni, cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura, in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine. Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno persone, tutto più tranquillo». Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha avuto grossa diffusione. La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte, acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate con la data della finale della Scugnizzo Cup. A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori: Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori evitati in due metri quadrati. Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson, circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo, vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per tenere i tifosi lontani dal campo. Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati. «Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono: «Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della partita abbraccia il padre. La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano. Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice, che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra, palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo, Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1), probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre importanti di serie A. La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene: capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai fuochi d’artificio. (davide schiavon)
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I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
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Cos’è veramente la Coppa America? Politici, imprenditori e loro lacchè lo spiegano meglio di tutti
(disegno di mario damiano) 15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa. 6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città catalana. Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro, mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare volontariato. Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per tutti. Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo. 11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla competizione. Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca. Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia libera.  Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone, sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti, associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura quadruplicare”. 20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come “contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma non ci sono i soldi per fare questo intervento”). Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali (lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle questioni non può neppure discuterne. 24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di “visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una “collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto “resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi, e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport. 1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio. Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però, rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo. Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto il mondo quello che sta succedendo qui”. 8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo, direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia, paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco (“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
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Una gatta blu a Scampia: (s)radicamenti, trasformazioni urbane, salute mentale #2
(disegno di martina di gennaro) (segue da qui) Anche Marco frequenta il centro da tanti anni. È molto bravo nella realizzazione di oggetti in ceramica, tecnica che ha imparato durante il suo ricovero in una casa di cura ai Camaldoli e poi perfezionato al Gattablu. Da piccolo, in quelle stesse terre vicino casa dove giocava e andava a cogliere le arance, Marco fu investito e colpito alla testa. Non c’erano strade carrabili ma le auto passavano ugualmente a grande velocità tra i campi coltivati. Ricorda di essersi svegliato in ospedale, gli dissero che era stato in coma, ma per tanti anni nessuno fu in grado di fargli una diagnosi e di curare le crisi epilettiche di cui soffriva. Rimase ricoverato per dieci anni a Villa Camaldoli, fino a quando un medico gli trovò una lesione cerebrale. Uscì a venticinque anni e tornò nella casa di via Bakù. Anche se critico su alcuni aspetti del quartiere, Marco è entusiasta di essere tornato a Scampia: «Purtroppo… Scampia è bellissima… t’agg’ jtt’, è stato molto bello… perché… [quello] che ho vissuto io a… qua a Gattablu, per me, ca io facevo ceramica a VillaCamaldoli… e mo che faccio il laboratorio qua e tutti quanti mi chiedono un regalo, mi chiedono un regalo di ceramica». Paolo è nato nel ’94 e ha sempre abitato a Scampia, nello stesso isolato di Marco e Simona. Della sua infanzia nel quartiere ricorda gli avvertimenti della madre e la sua attenzione a «stare distante da determinate situazioni», ma anche il divertimento dei giochi di strada con gli amici. Del periodo tra l’infanzia e l’età adulta, Paolo non ha ricordi di Scampia perché per molti anni è rimasto in casa a causa di una depressione, ma insiste sulla bellezza attuale del suo quartiere. Sembra che si rivolga a un pubblico pregiudizievole: «guardate il lato positivo», «venite a vedere» che Scampia è un quartiere «riscattato», che il centro diurno è un luogo di socialità per tutte. Anche Simona racconta di un quartiere difficile da abitare durante gli anni Novanta e delle continue attenzioni ai vari pericoli in cui ci si poteva imbattere. Trascorse molto tempo in casa, uscendo con difficoltà. Ancora oggi, porta con sé la paura di camminare da sola per strada, che affronta però con la grande curiosità di scoprire luoghi nuovi. Nel tempo, Simona ha preso parte al processo di rivendicazione del verde pubblico, iniziato nel quartiere da Aldo Bifulco e il Circolo Legambiente La Gru. Ha infatti cominciato l’esperienza di cura del verde proprio al Giardino delle Farfalle, realizzato da Legambiente negli spazi antistanti il Tan, Teatro area nord di Piscinola, e in cui sono state poi installate altre opere tematiche del Gattablu. Nel tempo, il giardino si è esteso a un Corridoio delle Farfalle che attraversa Piscinola e Scampia, e Simona è diventata un’esperta manutentrice del verde. Ambito questo in cui vorrebbe un giorno trovare lavoro, sempre a Scampia. A volte, Lucia viene al centro con Antonio e Matteo, due dei suoi tanti nipoti. Il giorno dell’intervista, Matteo è impegnato in un progetto di ceramica insieme a Rosa, un salvadanaio, mentre Antonio rimane con noi ad ascoltare la nonna. Vivevano, mi racconta Lucia, insieme al fratello più piccolo e i genitori, figlia e genero di Lucia, in uno scantinato ai Sette Palazzi, che, per quanto ben sistemato, non poteva più accogliere i bambini, ormai già grandi. Si sono allora trasferiti a casa di Lucia e suo marito. La famiglia di Lucia è molto numerosa e all’inizio del racconto faccio fatica a seguire tutti i legami di parentela. Mi aiuta Luciana, operatrice che con il suo Gruppo Donne segue le donne del centro e conosce molto bene le loro famiglie. Antonio si chiama anche il più piccolo della famiglia, pronipote di Lucia, figlio della figlia di sua figlia Manuela, che abita al piano di sopra, al tredicesimo piano di quello stesso palazzo. Si chiama Antonio come il figlio di Lucia, operaio morto sul lavoro in un cantiere a Secondigliano all’inizio della pandemia. Lucia porta una sua foto in una medaglietta legata al collo, ma per farmi vedere l’incredibile somiglianza del piccolo Antonio con suo figlio Antonio mi mostra anche delle foto dal telefono. Dello stesso gruppo di donne fanno parte anche Sara e Carla. La storia di vita di Carla è segnata dal lavoro, sempre precario, usurante e sottopagato. Uscita dal collegio a dodici anni, cominciò a lavorare in una lavanderia. Dopo un mese di lavoro, la pagarono ottomila lire alla settimana. Cambiò molti lavori. Usciva di casa solo per andare a lavorare, mai per divertimento, forse, mi spiega, a causa di una morale impostale da bambina in collegio. A casa non riusciva a stare bene e il rapporto con i genitori era molto conflittuale. Lavorò per più di sette anni in una fabbrica di tende, prima a Santa Croce a Chiaiano, poi a Pomigliano d’Arco. Per andare a lavorare in fabbrica si faceva dare un passaggio in auto da alcuni colleghi. Un giorno, ebbero un incidente, Carla batté la testa, ma non andò mai in ospedale e per molto tempo ebbe forti dolori alla testa. Cominciò a sentirsi perseguitata e non riuscì più a lavorare. In seguito alle ripetute allucinazioni, tentò il suicidio. Quando mi parla dei lavori di ceramica che fa nel laboratorio del Gattablu, è molto critica: «Quando non sto bene, le cose non ci riesco proprio a farle; quando sto più rilassata, riesco: mo feci quelle due tazze tutte storte, nemmeno ‘e culur’, nemmeno ‘nu culur’ vivace… tipo accussì, cu’ russ’, col verde… ho fatto un russ’ un poco strano… Dicett’ ij: “Guarda che capa!”». Recentemente, invece, Carla si è dedicata a un’opera a cui tiene molto, un regalo per un amico, che anche a detta di Rosa è riuscita molto bene. O CI MANNAT’ ‘O MANICOMIO? Il Gattablu è stato uno dei primi centri diurni di riabilitazione a Napoli, aperto dopo che la legge Basaglia, la n.180 del ’78, definì la chiusura dei manicomi. Un Cdr di area psichiatrica è un servizio pubblico dell’Asl che associa alla cura medica delle patologie psichiatriche la riabilitazione psico-sociale, con questo ultimo ambito, fino a un paio di anni fa, affidato unicamente ad appalti alle cooperative sociali. Nel caso del Gattablu, la cooperativa di riferimento è Era del consorzio Gesco, nata a sua volta dall’unione di cooperative sociali più piccole, tra cui l’Alisei, che gestì all’inizio il servizio di Scampia. Rosa e Giovanni lavorano al centro da più di trent’anni. Quando hanno cominciato, mi spiegano, il senso stesso della riabilitazione andava costruito da zero, a partire, cioè, da una nuova considerazione della salute mentale che fosse soprattutto legata al contesto sociale e relazionale piuttosto che all’aspetto strettamente medico. Rosa arrivò al centro nel ’92, circa tre anni dopo che Sergio Piro, direttore dell’ospedale psichiatrico del Frullone, insieme ad altri medici e personale sanitario, occupò i locali che successivamente avrebbero ospitato il Cdr. «Un centro di riabilitazione era visto proprio così, come un centro sociale – mi dice Rosa –, niente di così… contorto: solo dare spazio alle persone dove venire accolti e dove… poter avere una socialità alternativa a quella che era la vita a Scampia: perché Scampia era il deserto, veramente era il deserto. […] Stavano ‘sti palazzoni enormi in cui la gente viveva, ma basta, nient’altro». Era il periodo di dismissione del manicomio del Frullone. Rosa mi spiega che Piro faceva assemblee con tutto il personale impiegato: «Tutti dovevano poi rientrare in questa cosa della chiusura del manicomio e dell’apertura di un centro territoriale; quindi di cambiare prospettiva nella relazione col paziente […]; dovevano tutti imparare da capo a trattare il paziente come una persona». Leggendomi il documento che definì il programma finale di chiusura del manicomio del Frullone, firmato da Piro e datato 1998, Letizia sintetizza: «La cura di Basaglia, cioè la cura di operatività sociale, è quello: parte dalla persona, perché è relazione, attenzione, ascolto, rispetto; è pratica quotidiana che si fa ogni giorno sui territori». Anni dopo l’apertura, diedero nome al centro: si dice che Piro amasse molto i gatti e che avesse adottato una gatta che frequentava il centro; era nera e sembrava quasi che avesse delle striature blu. Sì chiamò Gattablu e cominciò a farsi conoscere nel quartiere. Tra le prime realtà sociali con cui il Gattablu entrò in contatto ci fu il Centro Territoriale Mammut. «La prima cosa che facemmo – ricorda Rosa – fu un drago gigante: però non solo la testa, facemmo proprio un drago; sempre nel Mito del Mammut, forse uno dei primi Miti». Anche Chiara e Giovanni del Mammut mi avevano raccontato di questo episodio. Prima di avere la loro sede in piazza Giovanni Paolo II, stavano ai Sette Palazzi e conobbero il Gattablu grazie a un pallone volato oltre il muro di confine che li separava dal centro. Fu l’occasione per “abbattere quel muro di paure” e dare inizio a un’alleanza che, attraverso draghi, miti e “presenze che spiazzano”, dura tutt’ora. Poi, ci fu il progetto “Napoli in un Orto” con Legambiente, i pranzi e gli incontri organizzati all’interno del centro. Successivamente, le innumerevoli altre collaborazioni con la rete territoriale e le associazioni, come, solo per citarne alcune, Chi rom e… chi no e il Gridas per i laboratori di Carnevale, Dream Team – Donne in Rete e il centro antiviolenza, La Scugnizzeria, l’Arci Scampia, la cooperativa L’Uomo e il Legno, con tutte le collettività e soggettività che nel tempo hanno scelto di fare parte della comunità estesa del Gattablu. Per raccontare la storia collettiva di questi processi, abbiamo costruito una contro-mappatura di Scampia nell’ambito di un progetto di ricerca-azione durato un anno, in cui abbiamo affiancato alla riabilitazione psico-sociale e all’arte collettiva del Gattablu la cartografia critica. Lo abbiamo chiamato: “La cura: il Gattablu a Scampia e la pratica trasformativa delle relazioni”. All’inizio non ne avevamo una definizione così compiuta e il lavoro di mappatura del quartiere, che pensavamo legato solamente alle installazioni artistiche del Gattablu, è diventato laboratorio di ricerca, narrazione e autoriflessione, scrittura collettiva, sperimentazione artistica, ma anche un modo per rivendicare i percorsi di emancipazione personale e rendere visibile la quotidianità relazionale attraverso cui operatrici e utenti realizzavano il principio di territorialità della legge Basaglia e trasformavano il quartiere. Così, su un grande pannello di legno, abbiamo scelto cosa rappresentare, come e da che punto di vista. Abbiamo posizionato simboli e teso fili a segnare pratiche, relazioni e connessioni. Nella Mappablu di Scampia non ci sono: la zonizzazione calata dall’alto della 167; i mirabolanti interventi di “rigenerazione urbana” che ri-cominciano il quartiere e fanno nuovi sradicamenti; le immagini paternaliste del degrado o della rinascita. Ci sono invece storie e memorie ordinarie, personali, collettive e dei luoghi. La mappa è diventata simbolo di una mobilitazione partita da Scampia con lo slogan “Giù le mani dal Gattablu” per denunciare il ritorno a un approccio clinico nella cura della salute mentale. Circa due anni fa, attraverso un concorso pubblico, l’Asl Napoli 1 ha cominciato a internalizzare figure professionali che prima non erano previste nei contesti sanitari, come quelle degli educatori psico-pedagogici: assunzioni pubbliche, dunque, un bene, se non fosse che gli appalti di Gesco per la salute mentale non verranno rinnovati e centinaia di operatrici a Napoli rimarranno senza lavoro. La prima ondata di licenziamenti si è avuta già nell’autunno dell’anno scorso, quando il contratto di lavoro di trecento operatori socio-sanitari è stato interrotto un anno prima del termine. Tra quattro mesi cesserà anche il contratto di tutti gli altri operatori sociali delle cooperative Gesco assunti nell’ambito della salute mentale. Se però un anno fa l’attenzione mediatica e la stessa dirigenza Gesco avevano dato voce alle proteste delle lavoratrici, la sorte di chi a partire dal prossimo 31 ottobre non lavorerà più non sembra creare altrettanto scalpore; per non parlare di quella delle utenti, delle loro famiglie, dei laboratori artistici, dei percorsi riabilitativi basati su legami di fiducia costruiti nel tempo. «Ci vuole molto tempo per stare in contatto con una persona – spiega Luciana – e creare una relazione. […] Il gruppetto che seguo delle signore, che sembra un gruppetto invisibile: ma noi siamo andate a casa di ognuna, ci siamo andate a prendere il caffè; chi ci ha preparato il dolce con le sue mani; il momento che c’era il battesimo, abbiamo fatto la sfilata dei vestiti del battesimo; il momento che doveva andare al matrimonio della figlia, siamo andate a vedere il vestito, si è fatta vedere il capello come se lo doveva fare, le scarpe e la borsa. Abbiamo condiviso questo, non è che eravamo sedute a fare un’intervista, ma abbiamo condiviso tutto questo». Chiedo a Luca che succederà quando in autunno i laboratori chiuderanno e perché sono importanti: «Eh… combattiamo. Jamm’ avanti e combattere. P’cchè a ro’ andiamo? A che parte andiamo noi che siamo invalidi? Ci cacciate in mezzo alla strada? O ci mannat’ ‘o manicomio? È quella la verità. Qua si lavora… perché noi siamo gente che aiutiamo il quartiere…». Giugno 2025. Qualche giorno fa abbiamo smontato l’allestimento di una mostra ospitata all’Ex-Opg – Je So’ Pazzo di Materdei, in cui abbiamo presentato la mappa, le interviste raccolte anche qui, fotografie del quartiere e del centro, un video-racconto del progetto in cui compaiono tante voci solidali con il Gattablu. Ci hanno aiutate amici e compagne: Alessia con l’allestimento, le fotografie e il video; Costantino con il trasporto della mappa, che, avvolta in diversi strati protettivi, è rientrata in furgone al centro e rimasta imballata. Sugli opuscoli che accompagnano il progetto, abbiamo scritto che la mappa è “itinerante”, ma in verità vorremmo anche che trovasse casa in un luogo pubblico a Scampia, proprio come le installazioni del Gattablu. Entro nella stanza in cui Giovanni, da poco andato in pensione, teneva il laboratorio di scultura e mosaico. Letizia, Luca e Paolo sono intenti a realizzare una scultura in cartapesta che sarà parte del simposio d’arte organizzato da Casa Arcobaleno. Nella stanza attigua che ospita il laboratorio di ceramica, Rosa e Daniele stanno lavorando alle medaglie per il Mediterraneo Antirazzista di quest’anno. Sono solo le prime decine di oltre un centinaio di ciondoli, che si dovranno poi decorare e cuocere, ma hanno già la forma netta della Striscia di Gaza. Rosa e Letizia mi aggiornano sulla loro situazione lavorativa, ma non ci sono né aperture da parte dell’Asl, né prospettive alternative offerte dalla cooperativa. Così, con la scadenza pendente sulla testa e la delusione di decenni di lavoro e professionalità calpestati, continuano imperterrite a lavorare ai temi emersi con le utenti da portare al simposio e alle medaglie palestinesi. (maria reitano) In questo testo, ho cambiato i nomi di alcune persone intervistate. Le interviste alle utenti del Gattablu, a Rosa e a Luciana sono di aprile e maggio 2025; un’intervista collettiva a Letizia, Giovanni, Rosa e Luciana è del 23 aprile 2024; le interviste a Mirella sulla Scuola 128 sono del 1 luglio 2022 e 11 luglio 2023; l’intervista breve a Chiara e Giovanni è una video-intervista del 24 ottobre 2023, realizzata nell’ambito della mobilitazione “Giù le mani dal Gattablu”; abbiamo organizzato l’assemblea tra Gridas e Gattablu, in cui Mirella ha poi riconosciuto Lucia, il 10 gennaio 2024 al centro sociale del rione Monterosa in cui ha sede il Gridas; abbiamo tenuto i laboratori del progetto “La Cura” da ottobre 2023 a luglio 2024, presentando il progetto per la prima volta pubblicamente il 27 settembre 2024.
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Una gatta blu a Scampia: (s)radicamenti, trasformazioni urbane, salute mentale #1
(disegno di martina di gennaro) Lucia è figlia del sarto del campo Arar di Poggioreale, ex deposito di residuati bellici diventato nel dopoguerra uno degli insediamenti di baraccati della città di Napoli. «Con Mirella abitavamo da piccoli a Poggioreale; e Mirella era il nostro… faceva la scuola a tutti i bambini delle baracche. […] Eravamo tutti piccolini quando c’era Felice, Mirella… E dopo tanti anni, l’ho incontrata al Gridas; e lei mi ha abbracciata forte; ha detto: “Guarda un po’! Tu sei Lucia!”». Mirella La Magna e Felice Pignataro – che nel 1981, insieme ad altri, fonderanno il Gridas, Gruppo Risveglio dal Sonno, stabilendosi nel centro sociale del rione Monterosa di Scampia – erano arrivati al campo Arar nel 1967, dando inizio a una scuola popolare ispirata alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, che prese poi il nome di Scuola 128. Come ha scritto anche Felice in Pasquale Passaguai e altri racconti dalla Scuola 128, Mirella ricorda spesso che per illuminare la baracca utilizzavano una lampada a gas, ma per le proiezioni, anche se solo per un’ora o due alla settimana, non potevano fare a meno della corrente elettrica, offerta proprio dalla baracca del sarto. È l’anno scolastico 1968-69 e nella baracca 128 si fa scuola e si organizzano assemblee e mobilitazioni per il diritto alla casa. Nel novembre 1969, la scuola ha un improvviso calo di frequenze: le famiglie baraccate stanno finalmente ottenendo le case e si stanno trasferendo. Alle 186 famiglie presenti nel campo Arar alla fondazione della Scuola 128 sono state destinate le nuove case popolari costruite a Secondigliano, vicino il rione Monterosa, le case Ises, realizzate dall’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Nel ’69, ci sono moltissime occupazioni di case popolari da parte di persone senza fissa dimora o che abitavano in alloggi impropri. Secondo Antonino Drago, che nel 1974 riassume in un testo le inchieste dei volontari sui campi baraccati di Napoli e le lotte per l’assegnazione delle case, si tratta di circa novecento alloggi in tutta Napoli. Le rivendicazioni si risolvono però in un sussidio mensile per gli occupanti e in trasferimenti forzati di baraccati e altre assegnatarie nelle case appena liberate, che come sottolineano Mirella e Felice “erano tutte fetenti, senza vetri alle finestre, né acqua, né fogne, né luce elettrica, né strade, all’altro capo di Napoli”. Seguendo i trasferimenti, anche Mirella e Felice spostano la Scuola 128 e trovano posto in uno scantinato delle nuove case Ises. Da questo momento in poi, gli sradicamenti di persone dai quartieri in cui sono nate verso nuove zone di lottizzazione edilizia, sconosciute, isolate e senza alcuna infrastruttura, segnano l’urbanizzazione di Scampia e la vita di tante sue abitanti. «Io sono venuta all’età di sette anni al Monterosa – spiega Lucia –; dove, prima, Scampia era tutte terre; e le mie palazzine, dove abitavo [nel] ’70, erano le ultime palazzine… le ultime; […] c’era il pullman, l’autobus 111, era l’ultima fermata; e poi era tutto campagna: e che aria che c’era!». ERA TUTTE TERRE Nella casa di tre stanze del rione Ises, Lucia trascorse infanzia e adolescenza con i suoi sei fratelli e sorelle e i suoi genitori. Cominciò a lavorare come sarta, affiancando il padre nel lavoro. A tredici anni trovò lavoro come parrucchiera, poi come macchinista in una fabbrica conciaria. A diciotto anni, qualche mese prima del terremoto del 1980, andò via dalla casa dei genitori, si sposò e, insieme a un gruppo di persone che voleva ottenere le case in nuova costruzione a Scampia, occupò un ex sanatorio nel Vallone San Rocco, Villa Caputi. «Volevamo le case… sono uscita pure sul giornale a fare lo sciopero, co’ ‘na panza tanta. […] Eh, andavo a fare lo sciopero a piazza Municipio, io ero incinta di otto mesi. Occupavamo i pullman…». Dopo il terremoto, abitò ancora in occupazione in una scuola a Piscinola. «Sono stata occupata là, avevo la bambina di diciassette giorni, stavo allattando. La rimanevo a mia cognata e andavo là a scuola. Poi, dalla scuola, uscì questa casa e sono andata a occupare questa casa: non c’erano le porte, non c’erano le fontane, non c’erano i vetri, non c’era niente, abbiamo fatto tutto noi». Dopo sei mesi di occupazione in un appartamento ai Sette Palazzi – rione di Scampia nei pressi di quella che solo successivamente diventerà la stazione della metropolitana – rientrò nella graduatoria per le case popolari. Si sarebbe dovuta trasferire di nuovo in un altro quartiere, ma rifiutò, riuscendo poi a ottenere l’assegnazione di quella casa, in cui ancora oggi abita con la sua famiglia. Lucia mi racconta che all’inizio non voleva stare ai Sette Palazzi. Rispetto al rione Ises, caratterizzato da dimensioni architettoniche a misura di vicinato, il nuovo rione le sembrava troppo grande e dispersivo. «Mo, male a chi me la tocca casa mia. Io rimango, fino alla morte. Esco da casa mia morta!». Marco è di un paio d’anni più giovane di Lucia e anche lui si trasferì a Scampia all’età di circa sette anni, ma da un altro quartiere di Napoli, Ponticelli. La sua famiglia ottenne la casa in un rione costruito tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, appena dopo il rione Ises, e conosciuto oggi come “le Cappe”. Marco mi spiega che, poiché la zonizzazione della legge 167 ha successivamente frammentato il quartiere in lotti distinti da lettere dell’alfabeto, le persone impropriamente pensano che il modo di definire quel rione derivi dal “lotto K”. Quello è invece il lotto U e la toponomastica con cui lo si identifica si riferisce alla forma a “K” degli edifici. Marco abita ancora in quella casa, nell’edificio a pianta semicircolare con i balconi tondi che si affacciano sui campi sportivi dell’Arci Scampia e, oltre via Fratelli Cervi, sul Parco Corto Maltese e sul Giardino dei Cinque Continenti e della Nonviolenza, un tempo discarica abusiva in un cantiere edile abbandonato, oggi giardino rivendicato dalla rete di associazioni Pangea di Scampia, informalmente costituitasi nel quartiere. Gli chiedo che cosa si veda dal suo balcone: «Del quartiere che vedo? Gente buona e gente cattiva… e poi vedo ‘e cose della Gattablu, che abbiamo cambiato noi». Il Gattablu, centro diurno di riabilitazione di Scampia, è negli anni diventato famoso nel quartiere per aver associato, grazie a laboratori artistici collettivi, educatori e operatrici socio-sanitarie illuminate, l’arte pubblica alla riabilitazione psico-sociale e per aver diffuso a Scampia, e non solo, installazioni artistiche negli spazi pubblici e sociali. Nel tempo, dallo stesso balcone, Marco ha assistito all’urbanizzazione di quel rione: quando ci si trasferì da bambino, c’erano le case e basta, intorno neanche le strade. «Perché era tutt’ terre, tutte terre: e noi giocavamo sulle terr… sul terreno; non c’era… purtroppo, calcetti, non c’era niente; con le bici, giocavamo per strada, era terra però. […] Tutte terre, tutte terre: andavamo pure a coltivare le arance; le arance, la verdura; noi ragazzi andavamo a prendere la verdura…». Anche Simona conserva la memoria rurale di Scampia. Anche se molto nitida, è una memoria tramandata più che vissuta, dato che Simona è di una generazione più giovane di Lucia e Marco. Si è trasferita anche lei a Scampia da bambina, proveniente da San Pietro a Patierno, all’inizio degli anni Novanta. Mi confida che ancora oggi le capita di sognare la sua vecchia casa. La famiglia non poté più rimanere in quell’appartamento e si spostò nella casa popolare in cui abitava la nonna di Simona e in cui sua madre aveva trascorso l’infanzia. È infatti sua madre a raccontarle com’era Scampia. «Erano tutte terre. Infatti, Scampia era un borgo rurale, erano solo terre, si coltivava e basta… poi vennero cacciati i contadini per fare… […] La Villa dei Serpenti, o la Villa dell’Imperatore, è stata abbattuta all’inizio degli anni Sessanta per fare spazio a strade e palazzi. È rimasta solo quell’aiuola al centro là, ma quella doveva essere bellissima…». Simona abita nello stesso rione di Marco e anche lei è stata testimone della trasformazione dei luoghi vicini. Tra i suoi ricordi, c’è la fatica, ma anche l’orgoglio, di trasportare litri d’acqua fino al giardino di Pangea, quando gli allacci dell’acqua non c’erano e gli alberi piantati sulla discarica venivano ostinatamente innaffiati con i secchi. L’acqua è arrivata due anni dopo, nel 2018, e l’evento eccezionale è stato riconosciuto dalle attiviste e abitanti che avevano preso in cura lo slargo abbandonato come “miracolo dell’acqua” a opera di San Ghetto Martire, carro allegorico creato dal Gridas e Santo Protettore delle Periferie. Tra le persone che intervisto, chi è arrivata a Scampia dopo il terremoto da zone della città più vicine come Marianella e Piscinola, lega il ricordo rurale a queste ultime e a Scampia quello dei “palazzoni” da poco costruiti. Luca non ricorda l’anno in cui è arrivato a Scampia. Sa che quando ci fu il terremoto abitava a Marianella con i suoi genitori, che morirono quando lui era ancora molto piccolo. A Scampia arrivò con una delle sorelle e la sua famiglia, trovarono casa in occupazione nella Vela Rossa. Luca mi racconta che nelle Vele succedevano sempre “tarantelle” e che lui e la sorella venivano continuamente minacciati perché lasciassero la casa. Si sono poi trasferiti nelle case nuove, quelle costruite nel lotto delle prime tre Vele abbattute e consegnate nel 2016. Oggi, dalla casa nuova, Luca può affacciarsi sulla Villa di Scampia, il parco Ciro Esposito. Alla famiglia di Carla invece, originaria di Piscinola, la casa fu assegnata già nel ’74, nel rione don Guanella. Carla però vi si trasferì solo anni dopo, proprio nell’80, uscita dal collegio in cui aveva trascorso tutta l’infanzia con la sorella. La madre le aveva raccontato che quando arrivarono in quella casa, al contrario di quanto accadeva spesso nel quartiere, i lavori di costruzione erano stati completati. Mancavano solo gli ascensori e loro abitavano al settimo piano. Così, all’inizio, suo padre portò sulle spalle la lavatrice e altre cose strettamente necessarie, mentre i mobili li sistemarono dopo che si erano trasferiti, un po’ alla volta, pagandoli a rate con quello che i suoi genitori guadagnavano facendo il muratore e la fruttivendola. Sara non ha bei ricordi di Scampia, me ne parla poco. I suoi ricordi d’infanzia sono tutti legati a Marianella: quello è il suo quartiere. Fu costretta a trasferirsi a Scampia con la sua famiglia nelle Case dei Puffi, o lotto P, subito dopo il terremoto. Mi racconta che li “appoggiarono” lì temporaneamente, in attesa che fosse riconosciuta loro l’assegnazione di un’altra casa. Sara aveva diciassette anni. Usciva solo per andare a lavorare in una fabbrica di borse a Marianella e fare qualche commissione. In quella casa di due stanze da letto e un bagno rimase con i suoi genitori, il suo ex-marito e i suoi primi due figli fino al ’96, quando finalmente la sua famiglia ottenne il “rientro” a Marianella, in una casa, questa volta, che Sara riconosce come sua. «È bellissima, è una bella casa. È chiamato il Parco delle Rose, perché papà poi ci piaceva piantare e piantò le rose… Sta l’insegna fuori: Parco delle Rose». (maria reitano – continua…)
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Il lento risveglio del gigante. L’ex ospedale militare di Napoli tra progetti istituzionali e gestioni private
(disegno di bruttebestie) La struttura al civico 1 di vico Trinità delle Monache, edificata nel 1600 per ospitare un convento e adibita negli ultimi due secoli a ospedale militare, è oggi conosciuta come il Parco dei Quartieri Spagnoli, uno spazio di 26 mila mq ben celati dalle costruzioni successive, dal vicolo che costeggia le sue mura, dal silenzio interno rotto solo dai motorini e dalle auto che scendono di qui per arrivare a una delle strade più “appese” di Napoli: via Pasquale Scura nel quartiere Montesanto. Dal 1999, anno in cui il Demanio ha ceduto a titolo oneroso per vent’anni l’enorme spazio al comune di Napoli, all’Università Federico II e all’Istituto Suor Orsola Benincasa, ci sono stati tentativi di integrazione del luogo con il resto della città ma con tempi mai certi e contraddistinti spesso da chiusure. Un primo processo di progettazione partecipata è avvenuto nel 2016 quando la Commissione europea ha ammesso Napoli, insieme ad altre città europee, al progetto “2nd Chance – Waking up the sleeping giants”, nell’ambito del programma internazionale Urbact III, con l’obiettivo di confrontarsi sul tema del riuso dei grandi immobili abbandonati o parzialmente utilizzati ed elaborare strategie e piani di azione locale. Nel 2018, durante la conferenza stampa per la chiusura della fase partecipata, l’allora assessore al diritto alla città, Carmine Piscopo, riportò alcuni dei risultati e gli obiettivi ancora da raggiungere riassunti nel recupero di tutta la rete ecologica dei percorsi che dalla Certosa di San Martino arriva alla struttura dell’ex ospedale, il completo recupero degli spazi interni, oltre alla generazione di nuove economie tra cittadini e istituzioni. Nel 2023 si torna a parlare dell’ospedale militare con un nuovo accordo temporaneo, stavolta non oneroso, tra il Demanio e la nuova amministrazione comunale, finanziato nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo “Napoli – Centro Storico” con sei milioni di euro per la riqualificazione delle aree verdi e di alcuni edifici del complesso SS. Trinità delle Monache all’interno del Parco. “Community Hub – Incubatore di cittadinanza attiva” è il nome del progetto, simile nelle sue fasi a quello del 2016. C’è stata una call to action (2024) rivolta alle proposte dei cittadini con incontri e dibattiti con i progettisti che dovranno deciderne la fattibilità e in ogni caso rendere possibile la fruizione del parco e dei locali entro il 2026, pena la perdita del finanziamento. Nel marzo scorso, durante un’indagine preliminare sulle aree verdi, gli agronomi chiamati dal Comune hanno constatato la pericolosità di circa venti tra le specie arboree presenti, per cui si è reso necessario un intervento di messa in sicurezza e la chiusura del parco. Trattandosi di un bene vincolato non è chiaro se esista anche un vincolo paesaggistico e quindi se ci sarà poi l’obbligo di piantare altri alberi dopo l’abbattimento. Questa volta i tempi per l’intervento e la riapertura del parco sono stati relativamente più brevi perché, se da sempre mancano le risorse per la manutenzione ordinaria, grazie al finanziamento del CIS è invece possibile attivare subito quella straordinaria. Il parco è stato riaperto il 5 giugno scorso. LA GESTIONE PRIVATA Se una parte dell’ex ospedale militare fatica a trovare un’identità che risponda alle richieste e ai bisogni dei cittadini, un’altra spiccatamente più commerciale non ha avuto difficoltà a esprimersi in meno di un anno. All’inizio del 2024 l’Agenzia del demanio ha infatti affidato per quarantotto mesi alla società privata Urban Value s.r.l., l’edificio principale del complesso, per una estensione di circa 7.500 mq. E così l’estate scorsa, con l’avvio dei lavori, in tanti nel quartiere hanno assistito al “risveglio” del gigante. I camion dell’Asia hanno sgomberato gli enormi spazi da faldoni zeppi di documenti, probabilmente risalenti all’attività dell’ex ospedale, mentre i cortili hanno accolto le piante di banano cresciute nel palazzo Fondi in via Medina, sede del precedente intervento della società Urban Value a Napoli. L’edificio non ha subito abbellimenti né interventi strutturali ma solo le prove di carico per permetterne l’apertura al pubblico. Una nuova umanità ha cominciato a frequentare il complesso, mostre d’arte, musica dal vivo e mercati sono stati organizzati negli spazi de La Santissima, il nome scelto per questo contenitore, anzi questo “hub” come si legge dalla descrizione sui social. Dopo quattro mesi di attività, a seguito di un controllo della polizia municipale durante un evento privato di musica elettronica, alcune sale della Santissima sono state sottoposte a sequestro giudiziario preventivo per la mancanza di autorizzazioni. Riguardo l’accaduto i responsabili hanno diffuso a mezzo stampa numerose dichiarazioni per riportare l’attenzione sulla complessità del progetto e sul lavoro in corso: “Da più di un anno lavoriamo con fondi privati per riaprire e dare nuova vita a uno spazio rimasto chiuso per oltre trent’anni. E ci stiamo ancora lavorando. La Santissima è un progetto in divenire, che cresce giorno dopo giorno, e di cui oggi si percepisce solo una parte del potenziale”. Improvvisamente la città e le sue diverse anime hanno perso Filippo e il Panaro, così commentavano i custodi rimasti a presidiare il malandato cancello del parco su cui sono stati apposti i due provvedimenti. LA TERZA VIA. I COMITATI DEI PARCHI PUBBLICI Oltre alla gestione privata e ai tentativi istituzionali di riqualificazione del Parco esiste una terza via, una visione comune del verde portata avanti caparbiamente dai cittadini dei diversi quartieri della città, la comunità dei parchi pubblici. Cristiano è un educatore, collaborava al doposcuola dello Scugnizzo Liberato, nell’ex carcere Filangieri, e in questo contesto ha incontrato alcuni dei gruppi che poi hanno dato vita alla comunità dei parchi pubblici. “I comitati nascono alla fine del 2024 – racconta – dalle esperienze di alcuni parchi pubblici e in particolare il San Gennaro alla Sanità, in cui erano previsti dei lavori nelle aree verdi di cui si voleva conoscere la natura e la durata. Esistevano già delle comunità che hanno deciso di organizzarsi per mettere in relazione le esperienze e muoversi meglio nel dialogo con le istituzioni. Anche la travagliata scrittura di una regolamentazione del verde da parte del consiglio comunale ha acceso l’interesse dei cittadini che vogliono essere coinvolti nelle decisioni. Si sente forte la preoccupazione di vedere ulteriormente ridotto lo spazio all’aria aperta, come è accaduto con la questione abitativa e la fruizione del suolo pubblico nel centro storico. Si protesta contro l’approvazione del regolamento comunale del verde perché, avendo letto la bozza gli attivisti vedono nella parola ‘gestione’, riferita ad associazioni e soggetti privati, il pericolo di creare luoghi con un utilizzo limitato da parte degli abitanti. Inoltre la possibilità che la gestione di terzi possa durare fino a dieci anni viene considerato un tempo davvero lungo per un affidamento”. Nel comunicato della Commissione salute e verde del Comune si legge della conclusione di un percorso di confronto con i rappresentanti dei comitati cittadini e delle associazioni ambientaliste. A fronte di diverse criticità e dubbi espressi dalle associazioni, soprattutto sul tema del possibile coinvolgimento dei privati nella gestione e/o manutenzione dei parchi cittadini, la presidente Saggese ha chiarito che la gestione del verde, così come il servizio di guardiania nei parchi, resteranno integralmente in capo al servizio pubblico, escludendo ogni forma di privatizzazione o speculazione economica. Ciò che potrà invece essere oggetto di collaborazione tra pubblico e privato saranno le attività di manutenzione del verde urbano, sempre senza finalità di lucro e coerenti con le possibilità offerte dal regolamento sul mecenatismo. “Conclusa questa fase di ascolto – continua Cristiano –, bisogna aspettare che il regolamento venga votato per capire se le istanze dei cittadini sono state ascoltate o meno, in particolare il punto 3 della bozza riguardante la gestione privata temporanea delle aree verdi che abbiamo chiesto di rivedere”. Le proposte dei comitati riguardano anche alcune pratiche che in passato hanno funzionato, come la manutenzione di una parte del verde affidata ai disoccupati organizzati del progetto Bros, spesso abitanti degli stessi quartieri dove andavano a intervenire, da cui poi sono stati allontanati e spostati alla manutenzione stradale fuori città. “Una buona gestione è possibile perché l’abbiamo vissuta – sostiene Cristiano –. Oltre al progetto Bros, va ricordato che a oggi circa settecento persone sono state formate per la cura del verde ma non hanno mai iniziato a lavorare. Una nuova platea di disoccupati per i quali si è investito in formazione senza un chiaro obiettivo di occupazione. Per fortuna nell’ultimo incontro con la commissione erano presenti anche loro a rendere chiaro che oggi ci sono tanto le risorse quanto i lavoratori. Le pratiche per assumere queste persone non vanno avanti e nemmeno c’è una richiesta alla regione Campania per riavere i Bros, circa milleduecento persone, magari per una sperimentazione in alcuni quartieri, un investimento che porterebbe benefici anche a livello sociale”. (grazia della cioppa)
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I sogni chiusi in un capannone. Come si lavora nelle imprese contoterziste del settore moda in Campania
(disegno di ottoeffe) Io e Paola ci saremmo dovute incontrare dopodomani, ma il suo spettacolo è saltato a causa di una cisti tendinea alla mano e una brutta cervicale. «Solitamente insorge intorno ai quarant’anni», mi dice con un sorriso strozzato ma tenace, lo stesso con cui ha affrontato gli ultimi cinque anni in alcune delle tante aziende, disseminate tra Napoli e Caserta, che producono conto terzi per i grandi brand del lusso. Se ne contano circa settemila in quest’area. La regione Campania, che copre il quindici per cento della produzione calzaturiera nazionale, è una delle nove regioni europee con il maggior numero di dipendenti nel settore. Sono appena le otto di sera e Paola già si strofina gli occhi dalla stanchezza, mi ricorda che domani deve svegliarsi presto e quindi mi affretto a chiederle come è iniziato il suo percorso. «Quando mi sono diplomata – dice –, la mia idea era di proseguire con l’accademia di moda, mi sarebbe piaciuto cucire vestiti di scena». Nonostante conservi ancora a casa macchina da cucire, busto sartoriale e cartamodelli, molto presto ha dovuto fare i conti con la realtà: quindicimila euro l’anno la retta necessaria per accedere alle accademie di moda, per lei insostenibile – «però mi avrebbero regalato matita, squadretta e album con logo dell’istituto», sottolinea ironicamente. Così, scorrendo gli annunci sui siti di lavoro, forse anche per restare aggrappata a quel sogno, si è ritrovata alle porte di un’impresa calzaturiera nell’hinterland a nord di Napoli. «Mio nonno ha fatto questo mestiere tutta la vita, ricordo ancora l’odore nauseante di colla in casa. Ironia della sorte sono stata l’unica in famiglia a seguire le sue orme. Alla fine, è come se fossi un po’ una designer delle scarpe». All’esterno dell’edificio neppure un’insegna col nome della ditta, ma solo una targa impolverata con su scritto “tomaificio”. All’interno non è raro che alcuni dei trenta dipendenti – per lo più donne e senza contratto – svengano per via delle esalazioni provenienti dai collanti e dal taglio della pelle, che l’unico finestrone semiaperto del piccolo stabile non riesce a filtrare. «Nella prima azienda – continua Paola – ho trascorso solo sei mesi, lavoravo dalle 8 alle 17 per venti euro al giorno, quindi poco più di quattrocento euro al mese. Producevamo per Ferragamo e Vuitton. All’inizio ero eccitata di produrre per queste grandi firme, quasi non mi sentivo all’altezza, poi sono dovuta scappare: la vista è iniziata a peggiorare, ho scoperto dopo per via dell’assenza di aeratori vicino ai macchinari che erogavano colla, sempre senza etichetta». La produzione si suddivide in grandi commesse da circa trecento pezzi a cui lavorano una decina di banconiste, svolgendo affannosamente anche più fasi del processo; e una produzione più selettiva a cui lavorano solo in poche operaie, spesso le più anziane. Nonostante Paola non avesse esperienza nel settore, nessuna tra queste ultime le ha mai insegnato come svolgere correttamente il suo compito, nel timore di essere sostituite da una giovane tirocinante eventualmente capace di svolgere più mansioni, più velocemente. Quando poi, a causa di consigli “inesatti”, ha danneggiato più di un paio di scarpe, attirando su di sé l’ira e gli insulti del datore di lavoro, ha compreso l’unico imperativo da tenere in conto: non fidarsi di nessuno. Nonostante l’ambiente ostile, è in quei sei mesi che ha maturato buona parte delle competenze che le hanno permesso di approdare nella seconda azienda, in cui lavora da quattro anni, il primo con un contratto di rimborso spese, gli ultimi tre con uno di tirocinio. «Qui le cose vanno meglio: ho un contratto con ferie pagate e malattia, si svolgono visite mediche periodiche e controlli da parte dell’ispettorato del lavoro e dell’azienda committente». Eppure, qualcosa non torna ancora: la busta paga segna sei ore al giorno per milleduecento euro mensili, ma Paola in fabbrica ne trascorre otto per ottocento euro al mese, lo stesso prezzo di uno solo delle centinaia di stivali di Hermes e Vuitton che lasciano la fabbrica quotidianamente. Il capannone, in provincia di Napoli, è molto più grande e ospita fino a settanta dipendenti, anche in questo caso in maggioranza donne, tutte con forme contrattuali differenti (le neoassunte sono retribuite appena venticinque euro al giorno). Diversamente dall’azienda precedente, la produzione è automatizzata e avviene in manovia: tra banchi molto stretti scorre un nastro, lungo il quale la singola addetta svolge una sola fase produttiva, a un ritmo che (in)segue le richieste dell’azienda committente. «È questa la cosa disumana; se, per esempio, dobbiamo produrre cento scarpe abbiamo a disposizione cinque minuti per ogni fase, ma se la settimana successiva la commessa è di trecento o quattrocento paia, la caporeparto aumenta il ritmo, e quindi ti ritrovi a svolgere la stessa operazione in due minuti». Questo perché, mentre gli ordini più grandi sono evasi in Asia, al mercato europeo, che può sfruttare il sistema di distribuzione su gomma, sono destinati ordini più piccoli e brevi, che rendono impossibile pianificare la produzione e inducono a ripiegare su subappaltatori e lavoro a domicilio. Come testimoniano alcuni produttori nel report Clean Clothes Campaign, tutto il sistema moda si fonda su una profonda asimmetria di potere contrattuale: da un lato l’azienda committente e i rivenditori impongo il prezzo, con contratti che vincolano unicamente al rispetto degli standard qualitativi e delle tempistiche di consegna, e non un impegno sulle quantità da produrre. Dall’altro i produttori accettano prezzi bassi per non essere estromessi dal mercato, operando con un margine di profitto tra il cinque e il dieci per cento, corrispondente a pochi centesimi a pezzo, che il marchio rivende a un prezzo decuplicato. Ai fornitori non resta dunque che puntare sulla quantità, ma a risentirne in termini di salari e di salute sono le lavoratrici: «All’inizio – racconta Paola – per recuperare uscivo anche alle sette di sera, poi il corpo si abitua, ma molte non riescono a reggere, vivono tutti i giorni con l’ansia: alcune sono tornate a casa piangendo, altre iniziano a lavorare prima che suoni la sirena o non vanno in bagno per tutto il turno». Anche il suo di corpo sembra mostrare i primi segni di cedimento, ostacolandola sempre più nell’unica attività che la sottrae al grigiore di quello stabile e al fracasso delle macchine da cucire. Me lo racconta lei stessa quando le chiedo a cosa pensa durante il turno: «Io metto le cuffiette con la musica e immagino le coreografie di ballo, balli di gruppo, di coppia. Non ci sono in fabbrica, c’è il mio corpo ma non la mia testa. Penso a quello e basta, perché in realtà io là non ci voglio stare». La sua insofferenza, oltre che dalle pessime condizioni salariali in un settore che costituisce il cinque per cento del Pil nazionale, pare essere motivata proprio dall’ambiente di lavoro, che sembra accomunare entrambe le sue esperienze. Le aziende assumono principalmente donne, molto anziane o molto giovani: le prime hanno iniziato a lavorare a domicilio quando avevano appena dodici anni, spesso attendendo anni prima di vedersi riconosciute una qualche forma di retribuzione; per le seconde, giovani madri poco più che ventenni, il salario costituisce solo un’integrazione secondaria del reddito familiare. «Lei vent’anni, lui trenta, contratto a tempo indeterminato, casa, una brava ragazza. Ma che gli manca? Niente. Lei, che lo conosce da dieci anni, che gli manca? Tutto, dipende da lui anche per la macchina. Mi dicono “sono felicissima, ma tornassi indietro…”, allora forse non lo sei veramente, penso io». Tutte poco scolarizzate, spaventate dall’idea di cambiare azienda o semplicemente di chiedere un aumento, finiscono per accettare salari da fame. Ormai è l’una di notte e mi sento tremendamente in colpa per aver fatto tardare così tanto Paola. Lei, che di giorno sogna le coreografie e di notte la manovia, scende dall’auto salutandomi, ma prima di chiudere la portiera mi dice: «Lo sai, prima non ci pensavo nemmeno io, ma ora me lo chiedo spesso, chissà se loro si chiedono chi c’è dietro quelle scarpe». (maddalena de simone)
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In questa piazza sono il più vecchio. Storia di un ex operaio di Bagnoli
(disegno di francesca ferrara) Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.   Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento, nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare. Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud, avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990. Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni. Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il capoturno diceva che bisognava accelerare. I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”, sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco, tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre. Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie. Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo. Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno. Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti, di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più. Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?». Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi. Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo, turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato. C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata a mare, c’era un certo benessere. All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca, eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di sera, e dalle undici alle sette di mattina. Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte. Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno. Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto: «Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio, conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
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Fermata “Don Guanella verso Scampia”. Un presidio di ascolto sfida la violenza di genere
(disegno di manincuore) Bisogna sempre tenere l’ombrello aperto sotto al ponte di via Don Guanella, strada sormontata dall’Asse Perimetrale di Melito, che collega l’Asse Mediano ai quartieri dell’area nord di Napoli. Che sia un giorno soleggiato o piovoso, il lento scorrere dell’acqua sulla carreggiata si mescola al rumore delle auto in corsa. Ai lati del ponte si susseguono piccole attività commerciali: una pescheria, una macelleria, un forno e un bar. Sul ciglio della strada una palina dell’Anm indica una vecchia fermata, “Don Guanella verso Scampia”, senza riportare alcuna informazione. Tra palazzoni popolari dipinti di un giallo sbiadito, spicca una cancellata blu. Al di là, si intravede un grosso edificio, l’unico che sembra ancora curato: il centro polifunzionale dell’Opera Don Guanella. Accanto, una struttura a un piano passa quasi inosservata, se non fosse per una piccola targa sulla porta che ne rivela l’identità: “Spazio Donna WeWorld”. Appena varcato l’ingresso, un open space dipinto dello stesso giallo dell’esterno è sede, da oltre dieci anni, di un centro di aggregazione che si impegna per la prevenzione, l’emersione e il contrasto a forme di disagio femminile e violenza di genere. Lo spazio è piccolo e confortevole: alcuni divani disposti in cerchio, un angolo caffè e tisane, una libreria, ma soprattutto il sorriso accogliente di Marianna Ferraro, operatrice storica di Spazio Donna. Capelli intrecciati d’argento e occhi color cielo, il suo aspetto trasmette immediata fiducia. “Questo spazio – spiega Marianna – è frutto dell’incontro di alcune operatrici che, più di dieci anni fa, decisero di mettere insieme professionalità diverse a supporto del territorio di Scampia. All’inizio proponevano piccole attività per famiglie a titolo volontario. Una delle operatrici venne poi a sapere che la Fondazione WeWorld aveva presentato una manifestazione d’interesse agli enti del terzo settore per aprire un centro di aggregazione per le donne nel comune di Napoli. Le operatrici pensarono quindi che potesse essere la giusta occasione per strutturare il loro operato e renderlo un lavoro vero e proprio”. Marianna continua, poi, raccontando che in realtà furono due gli Spazi Donna a nascere, uno a Scampia e l’altro a San Lorenzo, nel centro antico. Dopo tre anni di attività, però, lo spazio di San Lorenzo dovette chiudere per difficoltà organizzative. La maggior parte delle donne che arriva in questo centro lo fa perché sta attraversando una fase di vita particolare, che si tratti di episodi di violenza o di situazioni di profonda solitudine e disagio. “Siamo attualmente cinque operatrici – un’assistente sociale, un’educatrice, due psicologhe e una mediatrice culturale – e ognuna di noi, con il proprio ruolo all’interno del progetto, contribuisce a integrare le azioni e a costruire percorsi su misura”, prosegue Marianna. “La collana che indosso, un intreccio di fili di rame e pietre colorate, credo rappresenti l’emblema del lavoro che nel tempo abbiamo costruito. Diversi anni fa si presentò qui da noi D., una donna con un disagio personale che l’aveva portata a rinchiudersi nel suo ruolo di madre e a essere presa in cura, per un periodo, presso alcuni servizi del territorio. L’ascolto della sua storia ci ha concesso, gradualmente, di entrare nel suo mondo. Dopo un lungo percorso, D. ha scoperto di avere una grande abilità manuale, così ha ripreso in mano il disegno e ha iniziato a fare gioielli, grazie a un laboratorio che facevamo con un esperto. Adesso è un’artigiana e gestisce la sua attività. Il momento più bello è quando andiamo a comprare i suoi gioielli ai mercatini, lì puoi toccare con mano quanto l’indipendenza economica sia fondamentale per prevenire e contrastare la violenza”. Per le operatrici di Spazio Donna, tutto comincia dall’ascolto. Un ascolto che talvolta precede l’incontro diretto con le donne, spesso inviate qui da altri servizi del territorio. “Cerco sempre di guardare la persona che ho davanti con occhi neutri – spiega Marianna –, liberi da pregiudizi, per cogliere davvero ciò che sceglie di condividere”. È nella costruzione di una relazione di fiducia che si gioca il primo passo del percorso. Al centro c’è la vulnerabilità, vista come un punto di verità da cui partire. “Anche le donne che appaiono più forti e consapevoli hanno un nucleo fragile, ed è proprio lì che cerco un contatto autentico. È da quella fragilità che inizia il lavoro insieme”. Un lavoro che, spesso, entra in risonanza con vissuti personali: “Ci sono storie che parlano anche a me. Quando riesco ad attraversare e rielaborare quelle emozioni, sento una vicinanza ancora più profonda”. Lavorare in un settore del genere significa doversi scontrare con alcune barriere, come la mentalità di chi considera unicamente l’interesse utilitaristico dell’intervento. “Ormai fare rete va di moda ma sono poche le istituzioni capaci di farlo davvero. In diverse occasioni mi è capitato di vivere una profonda frustrazione perché vedevo alcune organizzazioni dello stesso territorio lavorare secondo una logica che ritengo tossica, per cui si tende a rinchiudere le utenti nell’ambito dei propri interventi, a causa della paura di perdere numeri. Questo è un vizio che va combattuto. Nel settore pubblico capita talvolta di lavorare secondo logiche di delega o, al contrario, in modo fortemente centralizzato. La sfida più grande oggi è riuscire a far dialogare linguaggi diversi, soprattutto quando di fronte si ha una situazione complessa, anche se i tempi delle istituzioni spesso non coincidono con quelli di chi ha bisogno di supporto”, racconta Marianna. Tuttavia, non sono solo queste le difficoltà di chi lavora in questo settore. A volte bisogna fare i conti con i propri di limiti. “Sono anni che mi dedico a questo lavoro, le relazioni che viviamo sono profondamente attraversate dalla violenza ma sembra che solo ora ne stiamo prendendo davvero coscienza. È come se fossimo sempre in affanno, in corsa contro il tempo. A volte ho la sensazione che anche noi, operatori e operatrici, non siamo davvero preparati ad affrontarlo”. “Mi è capitato – continua l’operatrice – di dover dire ‘questa situazione non la posso seguire’, cosa che considero uno strumento di cura verso di me ma anche verso la donna che incontro. Ci sono situazioni che non riesco ad affrontare, semplicemente perché non è il momento. La cosa più difficile è ammettere che in certi casi, alla fine, devi accettare di fermarti”, conclude Marianna distogliendo lo sguardo. Ringrazio Marianna per il tempo che mi ha dedicato. Mi accompagna alla porta con lo stesso sorriso con cui mi aveva accolta. Appena fuori dalla struttura, sento alcune gocce d’acqua sulla spalla. Bisogna tenere sempre l’ombrello aperto sotto al ponte di Via Don Guanella. (serena dolores correro)
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