(una storia disegnata di mattia vincenzo abbruzzese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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(disegno di malov)
Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca,
studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di
dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione
intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il
rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240,
l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un
osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di
ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in
quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene
proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di
portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico
dell’ateneo.
Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un
percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel
corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta
una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la
ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione
concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20
marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come
giornata nazionale delle università.
Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università
svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture
straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però,
non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale
dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240
rischia di diventare irreparabile.
L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un
manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato
di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del
pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi
premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia
nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di
logiche di mercato e militari su didattica e ricerca.
Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20
marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al
mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte
sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e
invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In
seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della
Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra
ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a
cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello,
“ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il
personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza
tutele e prospettive di stabilizzazione.
Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno
complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi
storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto
“Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a
Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel
sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle
università telematiche.
Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università
– privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i
rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che
tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche
cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance
accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma
rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna.
“Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi
proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa
dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con
stati genocidi. Voi cosa dite?”.
Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea
precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti
dei rettori visibilmente imbarazzati.
La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla
riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge
infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta
per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che
senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina
accademica si fermerebbe.
Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una
posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione
dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva.
Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in
diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di
Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance
universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di
interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”.
Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha
tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di
mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove
sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui
avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco
Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia.
C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a
ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno
striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno
preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere,
la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e
cancellando l’evento in programma per la giornata.
Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato
accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e
governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle
decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A
partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono
costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora
molettieri)
(foto di massimo velo)
Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area
industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento
dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e
duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati
assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti
elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie
alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che
sono state invece messe in un angolo in pochi mesi.
Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici
talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per
mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa
arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e
Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano
il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale.
La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola
in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla
raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della
colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa
pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di
ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano
di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio
naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra.
Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le
strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la
possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due
chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore
amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione
come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che
ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di
servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città
possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione
dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno
all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né
progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere
lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a
metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico
condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a
iniziare.
La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti
universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito
carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler
essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più
importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito
al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la
comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per
denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi.
Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due
principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita
anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza
parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento.
Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili
cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è
inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa
ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le
cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una
buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a
una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un
lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un
ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa
dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali
altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo
pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature
residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa,
dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”?
Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta”
artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una
parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica
messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del
paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la
popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in
una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del
Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che
finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su
amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano,
cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il
disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo
rosa)
Nella notte tra mercoledì 12 e 13 marzo, una forte scossa di terremoto di
magnitudo 4.6 sveglia la popolazione dei Campi Flegrei, periferia ovest di
Napoli, di cui fanno parte i popolosi quartieri di Bagnoli e Fuorigrotta. E’
l’evento bradisismico più forte degli ultimi quarant’anni. Dopo due anni di
ondate sismiche con magnitudo elevate, dovute […]
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
C’è una città che si mostra per ciò che è, e un’altra per ciò che vuole
sembrare. La mia mi sembra sempre più un collage di vecchi giornali e ritagli
sparsi, dentro il quale ognuno cerca il suo posto. Questa operazione significa,
però, anche restarsene un po’ ai margini a osservare. Di notte meglio che di
giorno.
La movida del centro di Napoli si muove tra le luci fredde delle insegne dei
locali e le strade strette che costeggiano i vecchi palazzi. Mi siedo al
tavolino di un bar in uno dei vicoletti più nascosti dei Quartieri. Il
chiacchiericcio delle persone si mescola al rumore dei motorini e all’odore di
spritz appena versati. Ragazzi con qualche battuta ci provano con le turiste: «È
la prima volta che siete a Napoli?», chiede uno. Un altro senza perdere tutto
quel tempo, gli sorride e dice: «You’re beautiful!».
Nicola ha ventiquattro anni, è uno studente universitario di San Giuseppe
Vesuviano, single e senza lavoro fisso. Parla di sé con naturalezza, come se
fosse abituato a raccontarsi. «Esco più per la compagnia che per il piacere di
andare in un posto preciso – mi dice –. Certo, abbiamo i nostri locali, quelli
dove ci sentiamo a casa, ma a Napoli è facile trovare qualcosa di interessante.
Quartieri Spagnoli e centro storico, ci si muove in base a chi trovi in giro. A
un certo punto ci siamo spostati qui perché anche le persone che conoscevamo, i
nostri amici storici, in provincia, hanno iniziato a fare lo stesso. A San
Giuseppe non c’è molto da fare».
Il suo legame con Napoli si è rafforzato dopo la pandemia. Dopo essersi sentito
intrappolato per mesi ha cominciato a spostarsi, trovando in città «un senso di
libertà che non avevo mai provato prima: è stato come se una casa crollata fosse
stata sostituita da una nuova».
Quando Nicola parla della sua esperienza in città, lo fa quasi sempre
sottintendendo la differenza rispetto alla realtà del suo paese. Napoli è il
luogo delle opportunità, dei legami facili, dei luoghi che non tradiscono. «È
bella perché è stimolante, succedono cose. C’è una fauna umana variegata, puoi
trovare chiunque, ed è questo che a me piace, la sua imprevedibilità. E poi non
serve spendere tanto per divertirsi: con venti euro fai una serata più che
dignitosa. La città ti sfotte ma non ti giudica: se facessi in provincia quello
che faccio a Napoli sarebbe diverso, mi sentirei sotto esame».
Con Nicola finiamo a parlare della Fomo (Fear of missing out), parola che
descrive uno stato psicologico non raro tra i ragazzi, ovvero la paura di
“perdersi qualcosa di importante”, eventi sociali, esperienze. I social network
hanno un ruolo di primo piano in questo, poiché l’effetto di ogni sensazione
viene amplificato dal confronto con quello che fanno gli altri. «Oggi ho
imparato a scegliere: se non ho voglia di uscire rimango a casa».
Anche l’appartenenza, l’intensità con cui ci si sente parte di qualcosa, sembra
in cambiamento. Non sempre ci si accorge, però, che per sentirsi dentro la città
– fatta anche dei suoi eventi e i suoi riti – c’è un prezzo da pagare:
partecipare. Ne parlo con Alessio, ventidue anni, che si è laureato con una
certa velocità e oggi vive e lavora nel centro storico. Lo incontro in piazza
San Domenico Maggiore, dove abita. Intorno a noi la gente si muove
freneticamente tra bar affollati e localini ma è come se ognuno restasse in un
proprio piccolo angolo. Sembra più difficile attaccare bottone con qualcuno.
«Scendo (è così che si dice a Napoli per far capire che si sta uscendo di casa
per divertirsi, o riempire il tempo, ndr) raramente la sera, al massimo una o
due volte a settimana. Prima anche tre o quattro volte, ma ora ho meno voglia,
mi sembra non ci sia molto da fare. Cerco posti nuovi, ma finisco sempre negli
stessi luoghi, anche perché i posti si assomigliano uno con l’altro». Anche
sulle persone che prima incontrava, ha cambiato prospettiva: «Prima mi sembrava
bello poter incontrare la gente sempre diversa che attraversa il centro, ma ora
mi rendo conto che siamo tutti uguali».
Alessio ritorna spesso sull’idea che non partecipare ad alcuni eventi
importanti, o non far parte di alcuni giri, sebbene allargati, ti releghi a una
sorta di invisibilità, dove la tua esperienza viene percepita come “opaca”
rispetto a chi invece ci è dentro fino al collo. «A volte uscire la sera ci
sembra più un obbligo che un piacere, un dover performare più che un momento di
svago».
La trasformazione che ha subito la vita notturna napoletana non è un fenomeno
improvviso. È il risultato di un graduale processo che, con l’esplosione del
turismo di massa e la consacrazione dell’immagine “pop” della città, ha
modellato una esteriorità sempre più attraente e superficiale. Questo processo
ha avuto bisogno di tempo (è evidente se ci si fa raccontare com’erano certi
luoghi di notte quindici o vent’anni fa), ma è diventato palese negli ultimi
cinque o sei anni, con l’imposizione di una Napoli “espositiva”, crocevia di
mode e tendenze che chi la attraversa non può ignorare.
Questa trasformazione è visibile tanto di giorno quanto di notte, seppure con
sfumature diverse. Napoli è oggi una città che respira a un ritmo frenetico. Le
strade sono animate dai turisti che si mescolano ai napoletani. Gli studenti
camminano verso l’università velocemente tra bancarelle di calamite e odore di
frittura. Si fanno strada tra gruppi di persone che scattano foto, mentre a
qualsiasi ora le pizzerie traboccano di gente, il rumore dei clacson e la puzza
di marmitta si mescolano con il rosso dei bus City Sightseeing. Non è solo
l’aspetto della città a essersi trasformato, ma la sua mappa urbana, la sua
economia, le relazioni. Una pressione invisibile ha finito per influenzare le
scelte quotidiane delle persone (dove abito, che posti frequento, come spendo il
mio stipendio) e le identità stesse, comprese quelle di chi vive la notte.
Gli eventi serali, per esempio, vengono venduti come accessibili e inclusivi, ma
è quasi un’operazione di empathy-washing. I locali notturni, infatti, dove anche
lo spazio vitale si paga in termini economici, si rivolgono a un pubblico
preciso, ammantando di un senso di comunità una realtà che spesso ti esclude se
non ne fai già parte (non è solo questione di poterti permettere economicamente
un certo tipo di esperienza, ma anche del tuo retroterra culturale). I profili
social di questo o di quel bar parlano di “famiglia”, di “comunità”, ma
l’immagine esterna è più quella di gruppetti e sette che non si incontrano mai.
Per Alessio è una questione di ripetitività delle pratiche, di un mondo che non
lascia più spazio all’imprevisto, di reti sociali e spazi in cui ci si impiglia,
nascondendo un vuoto di connessioni reali. Parlando un po’ qua e là con i miei
coetanei, la sensazione è quella di un’adesione a un gioco di società che
implica un riconoscimento, che diventa quasi una valuta, un mezzo per sentirsi
validi e validati. Il prezzo è dover essere sempre al passo con gli altri, o
forse anche più avanti, oltrepassandoli come se anche uscire fuori per una birra
fosse una competizione.
A un certo punto di questo lavoro, per esempio, ho cominciato a riflettere sulle
immagini della notte, sulle locandine e i manifesti che provano a venderci le
esperienze da consumare, modellando intorno a prodotti commerciali (la vendita
dell’esperienza) i nostri desideri. La grafica e la pubblicità degli eventi
della movida svolgono un ruolo fondamentale: le immagini e i colori, il tono, la
scelta di simboli e icone contribuiscono a costruire una proposta definita per
questo o quel gruppo. Se quelle che reclamizzano serate nei centri sociali,
grandi punti di aggregazione della zona, richiamano un messaggio politico e si
identificano per un’impronta visiva semplice, con illustrazioni chiare e
immediate, le serate di localini aggregatori di una gioventù con velleità
artistiche o intellettuali si distinguono per varietà di grafiche e stili
visivi. Si privilegia l’estetica ma il messaggio e le info risultano più
difficili da interpretare: la copertura visiva prende il sopravvento, facendo
apparire l’evento più come una questione stilistica che un’occasione di
incontro. Agli antipodi di questo approccio ci sono poi le locandine dei locali
(per lo più discoteche) della provincia: più semplici, con fotografie di dj o di
vecchie serate: sono chiare, dirette, puntano a mostrare l’esperienza, perché
contano in fondo anche loro sull’attrattività per un pubblico ben definito.
Diversa è infine la filosofia delle locandine tipiche degli eventi con secret
location (ti prenoti, lasci il numero di telefono, qualche ora prima ricevi un
messaggio con il luogo e ti presenti). Richiamano vagamente la cultura dei rave,
le grafiche sono accattivanti ma semplici, i testi criptici e le informazioni
arriveranno in un secondo momento. L’idea di “segretezza” è il punto di forza di
questo tipo di esperienza: crea un’aspettativa e un senso di curiosità che fanno
desiderare l’evento ma anche lì, per quanto una proposta del genere può
risultare eccitante per chiunque, si tende ad arrivarci tramite un contatto, una
persona che in qualche modo “bazzica” quel mondo, quei “giri”.
L’analisi dell’architettura visiva che ci guida nella scelta di un’esperienza
notturna meriterebbe spazi e tempi più approfonditi. Mentre lavoravo a
quest’inchiesta, però, sono rimasta affascinata dal rapporto tra l’estetica e la
creazione di una realtà stratificata, dove l’immagine ha un ruolo nel definire
il rapporto tra gli individui e la città. Mi rendo conto di stare anche io
dentro caselle e idee standardizzate che provengono da scelte di mercato e da
rappresentazioni costruite ad hoc. Studentessa, giornalista, ricercatrice. Ma in
fondo consumatrice senza possibilità di scelta della città come
prodotto. (serena bruno)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di otarebill)
È passato più di un mese da quando la ripresa degli sciami sismici ha
riacutizzato le preoccupazioni gli abitanti dell’area flegrea, che da due anni a
questa parte sentono sulla propria pelle “l’eterno ritorno” del bradisismo.
Nell’area compresa tra i comuni di Pozzuoli, Napoli e Bacoli, l’Ingv (Istituto
nazionale di geofisica e vulcanologia) ha registrato, tra il 16 ed il 18
febbraio, cinque terremoti di magnitudo maggiore di 3. Le scosse più
significative sono state di grado 3.9 nel pomeriggio del 16 e poco dopo la
mezzanotte del 17 febbraio. Quest’ultima ha creato notevole agitazione tra la
popolazione, paralizzato le strade puteolane in piena notte e costretto diverse
famiglie a passare più di una notte fuori casa o in auto.
In risposta alla preoccupazione dei cittadini, la Protezione Civile ha convocato
il 18 febbraio, a Monteruscello, un incontro pubblico a cui hanno preso parte il
direttore dell’Osservatorio Vesuviano (che fa parte dell’Ingv), i sindaci dei
comuni coinvolti, il prefetto di Napoli e la dirigenza della Protezione Civile
(il direttore generale Italo Giulivo e il capo dipartimento Fabio Ciciliano).
Proprio gli interventi di Giulivo e Ciciliano hanno provocato repliche accese da
parte dei tanti presenti. Il primo ha spiegato ai cittadini che nel caso della
precedente crisi bradisismica del maggio 2024 la Protezione Civile aveva avuto
difficoltà a trovare alberghi disponibili ad accogliere gli sfollati solo perché
«fortunatamente per voi, gli alberghi erano pieni di turisti». Anche le parole
di Ciciliano hanno destato una certa perplessità e innescato contestazioni. In
particolare Ciciliano ha affermato con una certa tranquillità, non certo d’aiuto
a una popolazione che vive in uno stato di tensione da oltre ventiquattro mesi,
che in caso di una scossa di quinto grado «cadono i palazzi e contiamo i morti».
Nei giorni successivi, gruppi di cittadini si sono così organizzati per
protestare: il 21 febbraio un centinaio di persone si sono date appuntamento al
consiglio comunale di Napoli per chiedere chiarimenti al sindaco e la
convocazione di un appuntamento informativo sul territorio (oltre che azioni
concrete per la messa in sicurezza degli edifici e dei loro abitanti). Domenica
23, un corteo ha sfilato per le strade di Pozzuoli, mettendo in risalto la
distanza tra le politiche istituzionali e le esigenze della popolazione. Per
rispondere ai dubbi dei cittadini è stato convocato al Maschio Angioino un
consiglio monotematico ad hoc nella giornata del 10 marzo (a Bagnoli, intanto,
si costituiva un’assemblea popolare, che ha occupato per quattro giorni la sede
della Municipalità, ha organizzato incontri con esperti e cittadini e ha
stilato, coinvolgendo attivamente gli abitanti del quartiere, un piano condiviso
per la gestione dell’emergenza).
Una delegazione di quest’assemblea ha quindi partecipato al consiglio comunale
di lunedì 10 marzo, in un Maschio Angioino blindato, e con gli agenti della
Digos a ratificare il paradosso di un incontro pubblico dove però non si poteva
entrare liberamente. Nella Sala dei Baroni è andata in scena una replica
dell’incontro del 18 febbraio, con la sola differenza che questa volta hanno
preso parola anche i presidenti delle municipalità coinvolte dall’emergenza
(Chiaia e Posillipo, Soccavo e Pianura, Bagnoli e Fuorigrotta) e le delegazioni
cittadine. Tra le novità emerse c’è stata la chiusura, avvenuta nella stessa
mattinata, dell’istituto alberghiero Rossini di via Terracina, nei cui piani
bassi sono stati riscontrati livelli anomali di anidride carbonica, legati
appunto ai movimenti di gas dovuti all’attività bradisismica.
Per il resto, il consiglio è stata la solita fiera delle belle parole senza
fatti concreti. Tutte le istituzioni hanno espresso la necessità di “continuare
a sensibilizzare la popolazione” partendo dalle scuole e dagli infopoint sul
territorio (pochi e malgestiti), cercando nell’ordine degli psicologi una sponda
per il supporto psicologico. In realtà appare, questo, uno dei punti più critici
della gestione del fenomeno in questi due anni, e l’elemento che ha creato la
vera frattura tra le istituzioni e le persone, lasciate sole sia nei momenti di
rallentamento delle scosse che in quelli in cui la cosiddetta emergenza (si può
definire tale un fenomeno naturale che si ripresenta cronicamente e per periodi
tutt’altro che brevi?) si fa più pressante, a cominciare dalle notti in cui
centinaia di cittadini si radunano sul vialone dell’ex base Nato di Bagnoli e, a
stento, vengono mandati a supportarli una o due pattuglie di vigili urbani.
Altro tema centrale è il sostegno economico per la messa in sicurezza degli
edifici. Dal consiglio è emersa la necessità di sollecitare il governo e l’Anci
(Associazione Nazionale Comuni Italiani, di cui il sindaco Manfredi è
presidente) per il potenziamento del Sisma bonus, che dovrebbe coprire – queste
le richieste della popolazione, fatte proprie da alcuni consiglieri di
opposizione – il cento per cento delle spese sostenute per la messa in sicurezza
statica degli edifici. Nemmeno meritevole di commento il giro di voci sulla
proposta del presidente della Svimez, l’associazione per lo sviluppo
dell’industria nel Mezzogiorno, Adriano Giannola, che aveva lanciato qualche
giorno fa l’idea di spostare fasce consistenti della popolazione in una nuova
città, idealmente da edificare lungo la Napoli-Bari, per ripopolare le aree
interne della Campania. L’idea dello sradicamento della popolazione come
soluzione al fenomeno bradisismico è l’ennesimo elemento che corre e ricorre
nella storia: già negli anni Settanta l’“emergenza” provocò lo sgombero del
Rione Terra e l’enorme speculazione edilizia con la costruzione del Rione
Toiano; lo sciame del biennio 1982-1984 portò invece circa ventimila puteolani a
Monteruscello, dove venne realizzato un insediamento satellite completamente
slegato dal tessuto originario degli abitanti.
La notazione forse più emblematica è che a reindirizzare la discussione su punti
concreti sono state le delegazioni di comitati cittadini, che hanno portato in
sala le problematiche della popolazione. In particolare, la giunta e la
Protezione Civile sono sembrate impreparate rispetto al necessario miglioramento
della condizione delle vie di fuga – malridotte e congestionate dal traffico
cittadino – e all’intervento per la messa in sicurezza sull’edilizia privata.
Gli attivisti dell’Assemblea Popolare della X Municipalità hanno chiesto che
venisse messo agli atti il piano elaborato durante la settimana di occupazione,
un piano che in realtà è un insieme di proposte di semplice buon senso e
pratiche di welfare, ma che tocca questioni clamorosamente ignorate finora dalle
istituzioni. Tuttavia, alle pratiche decisamente avanzate di partecipazione
della cittadinanza messe in campo in questi giorni, la politica ha risposto con
la solita desolante strafottenza: solo dopo le rumorose proteste di alcuni
attivisti il consiglio si è degnato di programmare un incontro sul territorio.
Il 28 aprile (…!). (francesco nunziante)
Ci è capitato non di rado, nel corso dei laboratori che da qualche anno
svolgiamo tra Villa Medusa e la redazione di questo giornale (siamo ragazzi e
ragazze tra i quindici e i venticinque anni, ma anche redattori e disegnatori di
Monitor) di trovarci a riflettere sul rapporto tra la città e i suoi abitanti
più giovani.
I bambini, gli adolescenti e i ragazzi – a diversi livelli, a seconda della
provenienza geografica, dello status sociale, del conto in banca della famiglia,
dei documenti posseduti o meno – sono tra quei soggetti che sempre più finiscono
ai margini della città. Questo accade perché minore è la nostra capacità di
spesa, perché spesso appariamo pericolosi a chi controlla politicamente e
militarmente lo spazio urbano, perché bassissimo è il livello di considerazione
verso i nostri problemi da parte di chi ci governa, perché più difficile è
evadere dai luoghi (fisici ma non solo) in cui siamo intrappolati. Alcuni tra
noi finiscono addirittura, nostro malgrado ovviamente, sottoterra: ammazzati
dalla polizia, da un proiettile vagante sparato dal Sistema, da una macchina che
sfreccia sul lungomare mentre attraversiamo sulle strisce pedonali.
Nel corso di alcuni incontri che abbiamo fatto quest’autunno è accaduto che, più
o meno in concomitanza, ci interrogassimo da un lato su come avremmo potuto fare
per costruire un’inchiesta collettiva, dall’altro sulle modalità “giuste” per
parlare della condizione dei ragazzi della città. A un certo punto abbiamo
deciso di unire le due cose.
Vi presentiamo quindi, oggi, un’inchiesta a puntate sui luoghi della notte a
Napoli. È una rappresentazione volutamente di parte, nella consapevolezza che
sarebbe stato impossibile racchiudere in una manciata di articoli, fumetti e
storie disegnate un universo complesso. Almeno, però, saremo noi a parlare, a
raccontarci, a descrivere i luoghi che frequentiamo, quello che facciamo quando
usciamo di casa, le strategie che abbiamo elaborato per trovare il meglio (o il
peggio) nel nostro presente, i sogni e gli incubi del futuro che ci
aspetta. (laboratorio di narrazione del territorio)
(una storia disegnata di ginevra naviglio)
(disegno di salvatore parlapoco)
Sono un abitante del centro storico di Napoli.
Negli ultimi tempi intorno a me si sta verificando uno strano fenomeno: ogni
negozio a cui scade il contratto di affitto non rinnova e chiude, dato
l’esagerato aumento richiesto dai proprietari. Fin qui tutto normale, è la
solita schifosa ma obbligata legge della domanda e dell’offerta. E se non capite
adeguatevi.
Giggino il salumiere è andato via il mese scorso, seguito pochi giorni dopo da
Enzo dei detersivi, quindi Titina della frutta. Giggino pagava seicento. Nuova
quotazione duemilacinquecento. Il locale di Enzo, ben dieci metri quadri, è
passato da quattro a novecento.
Stesso copione, furgoncino, trasloco, e cartello “affittasi” in bella vista.
E qui cominciano le sorprese. Ci si aspetterebbe che, a cifre così esose, ci
voglia del tempo per trovare un poll… acquirente, e invece no. Una sfilata di
pretendenti che si affannano a chiedere informazioni, anche cinque-sei al
giorno. Tutti pakistani. Solo pakistani. Spesso con la bancarella degli occhiali
falsi ancora a tracolla. Quanto affitto? Duemila e cinque con otto mesi di
caparra? Interessante, prendo numero. Il locale più grande viene affittato
all’istante. Al posto dei prosciutti una stesa di paccottiglia made in China,
ispirata però al più trito e scadente folklore napoletano. Dopo qualche giorno è
il turno del locale a fianco, quello che fu di Enzo. Con ancora negli occhi i
tramonti di Lahore arriva il nuovo gestore e inizia ad armeggiare con la
serratura. Lo saluto e mi presento, quindi gli chiedo: cosa venderai? Lui mi
guarda serafico e indicando il negozio a fianco esclama: uguale.
Se oggi cammino per cinquecento metri nei dintorni di casa mia posso contare ben
dodici negozi tutti identici, in vari casi uno di fianco all’altro, tutti
gestiti da pakistani.
Sia chiaro. Non ho nulla contro i pakistani, mi sono simpatici, e se realmente
avessero tutti fatto fortuna vendendo rose stantie e fossero da lì diventati
imprenditori la cosa mi farebbe felice. Il fatto è che ho la leggerissima
sensazione che non sia affatto così, e che questa sia semplicemente la nuova
frontiera dello sfruttamento che i soliti noti operano nei confronti dei più
deboli.
Come fanno a spendere queste cifre? Il guadagno su una calamita di plastica si
aggira intorno ai cinquanta centesimi, se anche ne vendessero duecento al giorno
l’utile sarebbe cento euro scarsi. Se pago duemila di affitto, più tasse,
contributi e utenze, il calcolo è presto fatto, e i conti non tornano.
Figuriamoci se poi a destra e sinistra ho due miei cugini che mi fanno
concorrenza vendendo esattamente le stesse cose.
Emblematica a riguardo è la guerra di Pasquale. Pasquale è un abusivo storico.
Da tempo immemore difende, con sprezzo del pericolo, il pezzettino di strada che
si è ritagliato, fiero contro gli assalti dei battaglioni di sedie e tavolini
che sconfinano come orde barbariche. Dopo anni e anni di lotta,
l’autodeterminazione del suo pezzetto di marciapiede sembra finalmente
raggiunta, ma dense nubi si profilano all’orizzonte…
Pasquale all’inizio vendeva deiezioni tecnologiche raccattate nei capannoni di
Gianturco, ma con il boom turistico ha preferito virare verso più patriottiche
calamite cinesi con scritto “Napoli”. Scelta vincente. Il fatturato cresce. Fino
a quel maledetto giorno quando, proprio a fianco a Pasquale, apre Amir. Un
negozio gigante, pieno di qualsiasi possibile gadget kitsch che la tradizione
napoletana del glorioso proletariato mandarino sia in grado di produrre.
Comincia la guerra: Amir attacca con le calamite a un euro, i Pulcinella a due,
e i corni a uno e cinquanta. Pasquale risponde con: calamite a settanta
centesimi, Pulcinella uno e cinquanta e corni gratis! E qui arriva la sorpresa.
Amir non replica, non se ne passa neanche per la capa. Nemmeno quando Pasquale
posiziona i suoi espositori di magneti attaccati ai suoi, in modo da poter
accalappiare con la sua arte oratoria chiunque si fermi a guardare l’esposizione
di Amir e deviarlo verso la sua merce. Amir se ne frega. Lascia i suoi calzini
di Maradona a cinque euro, anche se quelli di Pasquale ormai viaggiano intorno
ai due. Anche quando piove non gli frega. Lascia tutto alle intemperie. Come se
vendere non gli interessi proprio.
Un mio amico complottista sostiene che dietro a tutto ciò si nasconda una
gigantesca operazione di riciclaggio, ma io non so. Mi limito a osservare i
fenomeni… Altra domanda di quel tedioso del mio amico: come mai la grande
industria cinese improvvisamente si concentra cosi potentemente nella produzione
di corni, tamburelli, busti di Maradona e statue di Pulcinella? Chi la progetta
tutta ‘sta munnezza? Nel Guangdong c’è un’improvvisa epidemia di napoletanite?
Di recente l’amministrazione comunale ha vietato l’apertura di nuove pizzerie e
bar all’interno dell’area Unesco, ma sembra non accorgersi che la suddetta area
sta diventando un’unica distesa di paccottiglia cinese “Napoli inspired”.
Praticamente il centro storico sta espellendo buona parte dei suoi commercianti
per finire nelle mani di un unico grande monopolista della calamita cinese con
(sempre secondo il mio amico) migliaia di prestanome pakistani. Non erano meglio
i tanto vituperati fritti?
Diciamolo, penso che il mio amico sia un gran rompipalle, ma forse non ha tutti
i torti. Quando poi sul famigerato quotidiano cittadino leggo titoli
entusiastici tipo “Napoli capitale delle nuove imprese” anche a me tremano le
mani. (salvatore parlapoco)
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
È uscito la settimana scorsa nelle librerie, per le edizioni Carocci, il volume
di Luca Rossomando, L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli. Dalla
quarta di copertina: “L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha
prodotto cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il
paesaggio del centro storico e la stessa struttura socio-economica della città.
In questo contesto si muovono i soggetti al centro di questa ricerca : i grandi
enti del Terzo settore attivi in tre quartieri del centro – Sanità, Quartieri
spagnoli e Forcella – che oggi forniscono un ventaglio di servizi che va ben
oltre il classico intervento socio-assistenziale, operando sul crinale tra sfera
pubblica e mercato. Questi enti esercitano un’influenza crescente sulle scelte
dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni
egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città.
La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla
convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro
priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza
ostacoli le proprie attività. Queste dinamiche, sullo sfondo della “città del
turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi
enti nelle loro dichiarazioni programmatiche: non la vivibilità dei quartieri,
la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa,
lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili”.
Ne pubblichiamo a seguire due brevi estratti.
* * *
Gli enti di maggiori dimensioni presenti nelle tre aree che abbiamo esaminato
sono: la Fondazione di comunità San Gennaro nel rione Sanità, la Fondazione
Foqus nei Quartieri spagnoli e l’associazione L’Altra Napoli, operante sia a
Forcella che alla Sanità. Le caratteristiche principali di questi enti, che li
rendono un unicum rispetto al contesto socio-economico in cui operano, sono
sostanzialmente tre: la quantità di risorse di cui dispongono, fuori scala
rispetto agli altri attori associativi e più in generale rispetto a tutti gli
attori economici del territorio; le relazioni ad alto livello istituzionale e
imprenditoriale che sono in grado di attivare e rendere operative; la costante
(e benevola) attenzione mediatica che le loro iniziative riescono a sollecitare.
Sono i tre fattori decisivi, quelli che determinano un impatto sui territori di
riferimento, sul dibattito pubblico e sulle stesse politiche urbane che va ben
oltre le singole iniziative messe in campo e che gli altri enti (quelli
intermedi e quelli informali) non sono in grado di eguagliare se non
agganciandosi alla locomotiva rappresentata da questi enti maggiori, che
definiamo “ultracorpi”. Tali fattori sono poi al servizio di un’ideologia che,
seppur con differenze pratiche tra un’esperienza e l’altra, appare fondata su
principi e rappresentazioni comuni, che da un lato informano l’azione locale
degli ultracorpi, dall’altro ambiscono ad affermarsi in un campo più vasto, che
concerne le politiche di governo e la forma futura della città.
Gli obiettivi e gli strumenti che i dirigenti degli ultracorpi hanno messo a
punto nel corso del tempo, di pari passo con la crescita delle loro “creature”,
possono essere ricostruiti e analizzati attraverso i numerosi interventi in
pubblico, la pubblicazione di articoli e libri, le interviste rilasciate ai
giornali e ad altri media. Uno dei cardini della loro ideologia è l’insofferenza
per tutto ciò che riguarda l’azione pubblica. Nelle parole dei dirigenti degli
ultracorpi la parola stessa, “pubblico”, fa rima con burocrazia, invadenza,
lentezza, inconcludenza, e più in generale costituisce il termine di paragone in
opposizione al quale si autodefinisce con orgoglio la propria identità.
Scrive per esempio Rachele Furfaro, fondatrice di Foqus: “Le scuole Dalla Parte
dei Bambini hanno deciso nel 2012 di trasferire le proprie metodologie ed
esperienze all’interno di un quartiere povero e critico di Napoli, i Quartieri
spagnoli, […] hanno avviato il progetto, per poi costituire una fondazione a cui
ne è stata affidata la gestione e lo sviluppo. Il progetto di rigenerazione
urbana a base educativa gestito dalla Fondazione Quartieri spagnoli non nasce
quindi da una strategia di sviluppo pubblica, dal premio di qualche bando
europeo, né dall’iniziativa di qualche assessorato. Trova spinta ideativa (e
investimento iniziale) da una scuola”¹.
Padre Antonio Loffredo, ispiratore della Fondazione San Gennaro del rione
Sanità, sostiene: “Il potere pubblico non ce la fa. È prigioniero. Di leggi,
codici, gare d’appalto. Vedi il caso del Cimitero delle Fontanelle. Il Comune
non sa come gestirlo; ma dallo al quartiere, dico io. Facciamo come con le
catacombe di San Gennaro. Napoli è una miniera di siti minori, che possono
essere trasformati in un affare civile e anche economico, con progetti di
comunità. È il nostro petrolio, lasciate che lo tiriamo su con le nostre forze.
Ormai abbiamo il know how. I miei ragazzi della Paranza sono imprenditori, ce la
faranno anche senza di me, tanto io ho un altro datore di lavoro e prima o poi
dovrò lasciare”².
Ancora più esplicito il manager Ernesto Albanese, fondatore dell’associazione
L’Altra Napoli, che finanzia progetti sociali e culturali tra il rione Sanità e
Forcella. Nel 2021, alla domanda di una giornalista sui conti in rosso e le
disfunzioni dell’ente municipale, risponde così: “[Si dovrebbe] iniziare a
trattare il comune di Napoli come un’azienda privata di servizi. L’azienda
privata ha una caratteristica importante: sceglie gli uomini e se non vanno bene
li cambia. Meccanismo che nella pubblica amministrazione spesso non può
avvenire, perché la politica per sua natura è compromesso e quindi
inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà politica e non con quella
economica”³.
[…] All’origine dei grandi enti che stiamo considerando, abbiamo tre soggetti
forti: la Chiesa cattolica, in una delle sue incarnazioni locali più dinamiche
(imprenditoriale e antistatalista); la scuola, nella sua declinazione privata,
sperimentale e progressista, fortemente imperniata sul concetto di impresa;
infine, la borghesia delle professioni dirigenziali, che in buona parte vive e
lavora fuori Napoli ma considera un punto d’onore la possibilità di contribuire
attivamente al “riscatto” della propria città. In tutti i casi, come abbiamo
visto, l’enfasi è posta con insistenza sulla soluzione imprenditoriale,
considerata sia per il suo versante decisionista, che consente di operare senza
troppi vincoli per “valorizzare” adeguatamente beni e servizi, ma anche per le
sue virtù emancipatorie, come stimolo ad assumersi delle responsabilità e di
conseguenza come occasione di crescita personale. Ogni azione intrapresa sarà
quindi immancabilmente indirizzata verso il “bene comune”, ma dovrà essere anche
conveniente, redditizia, remunerativa. Potremmo quasi evincerne che dove non ci
sia un utile economico allora mancherà la possibilità stessa di fare del bene.
* * *
In questa fase di pieno dispiegamento dell’industria turistica, superato anche
l’ostacolo alla mobilità globale rappresentato dalla pandemia, il discorso
pionieristico dei grandi enti del Terzo settore, ormai fatto proprio dalle
maggiori istituzioni cittadine, sembra arrivato al culmine della sua parabola:
come una trama di fondo solida e affidabile, esso incrocia e sorregge le
politiche pubbliche, incoraggiandole a proseguire nella direzione intrapresa,
quella della privatizzazione, della deregolamentazione, della crescita
illimitata. È il film che si proietta in ogni convegno, dibattito, inaugurazione
in cui i partner istituzionali si danno appuntamento – il sindaco, il vescovo,
il rettore, la giornalista, il manager del Terzo settore, l’assessora, il
sociologo, l’architetto, il prete imprenditore – per condividere in pubblico le
loro convergenti testimonianze. Ma se solo si cominciano ad analizzare i
fenomeni, ad ascoltare le persone, a connettere i rari studi a disposizione, lo
stesso film ci appare da una prospettiva diversa, con tutti i suoi elementi al
rovescio, come se lo guardassimo dall’altro lato dello schermo.
L’azione degli enti del Terzo settore, anche di quelli che dispongono di
maggiori risorse, nonostante una progressiva espansione, resta per il momento
subordinata alle scelte dei poteri pubblici, i quali, orientando in un senso o
nell’altro le risorse comuni – umane e finanziarie –, hanno ancora la
possibilità di incidere in modo determinante sugli assetti economici e sociali
delle comunità. I grandi enti possono fornire modelli e stimoli, influenzando
anche profondamente i rappresentanti politici, ma il grosso delle risorse e la
titolarità delle decisioni restano in capo a chi amministra la cosa pubblica. Di
questo, i maggiori dirigenti del Terzo settore hanno una chiara consapevolezza:
“Il Fondo [per il contrasto della povertà educativa minorile] – ha scritto Marco
Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i bambini – è una grandissima
opportunità […], ma nonostante i complessivi oltre 600.000.000 di euro messi a
disposizione è necessario che tali pratiche diventino politica pubblica; con ben
altre risorse, partendo dalla messa a sistema di quelle ordinarie, con una
visione temporale più lunga e articolata e ascoltando i bambini/e, i ragazzi/e,
il territorio”⁴. E così padre Antonio Loffredo: “Con il Terzo settore non
possiamo risolvere le cose. Possiamo dare dei segni di speranza, fare dei
piccoli laboratori per far capire che è possibile. Non dobbiamo mai stancarci di
farlo, ma chiaramente è lo Stato che ha le chiavi del cambiamento strutturale”⁵.
È innanzitutto per questo, come abbiamo visto, che i grandi enti indirizzano gli
sforzi del loro “fare politica” verso il campo dei decisori pubblici con
l’obiettivo di influenzarne le scelte secondo i propri interessi e valori. In
ogni città, nei singoli quartieri, l’insieme dell’azione associativa costituisce
un potenziale fattore di vitalità, uno stimolo alla mobilità sociale e alla
partecipazione civica; nella realtà, però, questa azione si spinge raramente
oltre un orizzonte paternalista, garantito dall’alto, in cui le priorità sono
stabilite da chi detiene il denaro e il potere. Le pratiche informali, che pure
mostrano come sia possibile la solidarietà tra pari, la partecipazione diretta,
la messa in discussione degli assetti dati, restano ancora troppo episodiche e
isolate per fornire una base su cui provare a costruire delle alternative. Nel
suo complesso, l’azione associativa non è stata in grado in questi anni di
incidere sulle condizioni di vita, sulle diseguaglianze strutturali, sulla
subalternità culturale degli strati marginali della popolazione; questo perché
non ha voluto (Terzo settore) o non è stata capace (gruppi informali) di
produrre trasformazioni politiche di più ampio respiro.
Nel frattempo, la conformazione spiccatamente imprenditoriale che hanno assunto
i maggiori enti del Terzo settore, e molti di quelli intermedi, ha trasferito
sul piano della convenienza economica, della competitività, della reputazione
mediatica, ogni aspetto dell’azione associativa che li riguarda. Nei grandi
enti, questo tipo di azione si è sempre più differenziata, affiancando
all’abituale sfera socio-assistenziale l’intervento in nuovi settori di mercato;
questo senza rinunciare alla consolidata rete filantropica che continua a
fruttare loro donazioni, finanziamenti diretti e in generale un’abbondanza di
risorse che, tra le altre cose, li colloca in una posizione di vantaggio
rispetto agli operatori con cui sono direttamente in competizione. A Napoli
queste prassi hanno trovato un terreno fertile nel contesto economico, culturale
e politico generato dall’impatto del turismo di massa sul centro storico della
città.
La dimensione imprenditoriale assunta da questi enti ha però bisogno di essere
continuamente alimentata e per farlo è necessario che il contesto in cui essa
fiorisce si espanda, allargando indefinitamente i propri confini. A Napoli
questo significa che i grandi enti del Terzo settore, che abbiamo definito
ultracorpi, sono stati e sono tuttora tra i più attivi e convinti sostenitori
della diffusione dei flussi turistici in ogni interstizio della città. La
responsabilità di questa espansione incontrollata, come abbiamo visto, ricade in
gran parte sulle istituzioni pubbliche, mentre i costi, le “esternalità
negative”, gravano sulle spalle di chi presta lavoro nei gradini più bassi della
fabbrica del turismo; e poi su quei nuclei familiari esposti senza tutele alla
riconversione turistica dell’abitare e all’impennata dei valori immobiliari;
ricadono inoltre sulla generalità dei residenti, che si trovano a dover dividere
risorse e servizi, già cronicamente scarsi, con un gran numero di visitatori
temporanei divenuti nel giro di poco tempo l’oggetto d’attenzione privilegiato
dei loro governanti.
I grandi enti, che pure avrebbero relazioni influenti e uditori qualificati per
farsi ascoltare, di questi “effetti collaterali” non parlano. Il loro discorso
non contempla lati oscuri, contraddizioni, problemi non risolti. È liscio,
levigato, percorso da una sottile euforia: come una lieve scossa elettrica, che
riattiva il corpo ma non fa danno. L’emancipazione, nella loro visione, si
conquista innanzitutto nel cimento imprenditoriale. La mobilità sociale si
realizza attraverso un processo di selezione naturale. Il loro modo di “fare
politica” è quindi rivolto verso un obiettivo ben preciso: la preparazione del
terreno più propizio allo sviluppo delle imprese; innanzitutto le loro, ma
inevitabilmente anche quelle degli altri.
Molti enti del Terzo settore sono infatti imprese a tutti gli effetti (o
consorzi di imprese, o incubatori di imprese) e, come tali, perseguono
innanzitutto i propri interessi. Le maggiori, come abbiamo visto, tendono ad
allargare i propri confini sommando, all’attività educativa e assistenziale,
altri campi d’azione e settori di mercato. Per farlo si dotano di apparati
sempre più sofisticati di comunicazione e propaganda, che lentamente fanno
sparire, sotto un’accattivante cortina di fumo, i dati concreti, gli obiettivi
reali, i referenti ultimi del loro agire. Quando si legano ai poteri pubblici,
lo fanno, come tutte le aziende, seguendo le proprie convenienze. E Napoli non
fa eccezione. Nella città in preda a repentini cambiamenti, queste imprese si
battono per conquistarsi un posto al sole; la loro attività è votata al servizio
dello stesso processo che sta determinando l’impennata del costo della vita e
dei valori immobiliari, la precarietà lavorativa, l’espulsione degli abitanti
dai quartieri storici, la requisizione dei già esigui spazi pubblici per la
cittadinanza. I puntuali benefici vantati dalla loro azione, scolorano di fronte
ai danni strutturali arrecati da questo processo a una platea molto più vasta di
quella dei loro “beneficiari”.
Inoltre, questi ultracorpi non si limitano a fare impresa, ma con sempre
maggiore convinzione ambiscono a “fare politica”, ovvero a estendere i propri
metodi e valori in ambiti ancora più vasti. Essi dichiarano di lavorare per il
bene comune, ma gli interessi che descrivono come generali, se si getta lo
sguardo appena fuori dal loro giardino, si sovrappongono in molti casi a quelli
perseguiti da un manipolo di imprenditori che, nel contesto della “città del
turismo”, stanno accumulando influenza e profitti attraverso l’allargamento
dell’area del lavoro irregolare e della precarietà abitativa.
I grandi enti pensano di poter rimediare all’illegalità, alla speculazione, allo
sfruttamento diffusi nell’industria del turismo semplicemente attraverso il buon
esempio. Ma l’affermata virtuosità di questi enti, per esempio sul piano della
regolarità dei rapporti di lavoro, non si trasmette per contagio – come essi
invece lasciano intendere – ad altri enti o imprese attive negli stessi ambiti o
territori. Come l’azienda di moda dell’imprenditore napoletano Mario Valentino,
che negli anni Settanta esportava i suoi prodotti nei lussuosi atelier di Parigi
e New York, vantando l’impiego di trecento dipendenti con regolare contratto nel
moderno stabilimento delle Fontanelle alla Sanità, così oggi questi grandi enti
incassano le lodi e i riconoscimenti internazionali portando in alto il nome
proprio e quello dei loro quartieri; ma come la fabbrica delle Fontanelle era
attorniata da decine di bassi e sottoscala dove uomini e donne della Sanità
fabbricavano scarpe e borse in nero, inalavano collanti e si buscavano la
polinevrite, così i grandi enti fingono di ignorare che la “rinascita” dei loro
quartieri si sta realizzando sulla pelle della manodopera sfruttata
nell’industria del turismo e su quella di anziani e famiglie senza risorse, che
spesso vi abitano da generazioni e si vedono costretti a lasciare i propri
appartamenti per fare posto ai turisti.
_________________________
¹R. Furfaro, La buona scuola. Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza,
Feltrinelli, Milano 2022, p. 229.
²A. Polito, Paranza & C. I nuovi santi della Sanità, in inserto “Buone notizie”
del “Corriere della Sera”, 18 giugno 2019, p. 6.
³F. Sabella, Intervista a Ernesto Albanese: «Iniziamo a gestire il Comune come
un’azienda di servizi», in “il Riformista”, 16 novembre 2021.
⁴M. Rossi-Doria, Una comunità che apprende, in R. Quaglia, Quartiere educante.
L’esperienza della Scuola diffusa nei Quartieri spagnoli di Napoli, Zeroseiup,
Bergamo 2022, p. 10.
⁵G. Renzi, Dal rione Sanità un modello di sviluppo, in “L’Osservatore Romano”,
11 settembre 2023.
(archivio disegni napolimonitor)
Venerdì 17 gennaio il liceo Pitagora, al Rione Toiano, periferia di Pozzuoli, ha
ospitato l’incontro “Il coraggio di parlare. La forza di ascoltare”, promosso
dal Rotary Club Campi Flegrei sul tema della violenza di genere. All’evento
hanno partecipato diverse figure istituzionali: il sindaco di Pozzuoli Luigi
Manzoni, la presidentessa del Rotary Club Emilia Annunziata, l’assessore alle
politiche sociali di Pozzuoli Fabiana Riccobene; e poi ancora, tra gli altri:
Antonella Sica, presidente della commissione sulla violenza di genere del
Rotary, Shervi Haravi, attivista e funzionaria del ministero della giustizia, la
tenente Maria Virgilio, comandante della stazione dei carabinieri di Pozzuoli.
Un gruppo di studenti legati alla casa del popolo Villa Medusa di Bagnoli ha
organizzato quella stessa mattina un volantinaggio all’ingresso della scuola,
dove c’erano più di cinquecento tra ragazzi e ragazze, preoccupati soprattutto
dal dover entrare in tempo in classe per evitare grane.
Il volantino criticava l’ipocrisia dell’approccio istituzionale alla violenza di
genere. Gli studenti sottolineavano come la narrazione dominante si concentri
sulla “caccia al mostro” e sull’invito alla denuncia individuale, trascurando le
radici strutturali del fenomeno e i meccanismi di esclusione sociale che
colpiscono i soggetti più vulnerabili. Inoltre, veniva evidenziato il paradosso
di affidare l’analisi su un fenomeno così complesso a istituzioni come le forze
dell’ordine e il Rotary Club, elementi pienamente integrati in un sistema
sociale e di potere che ha una incidenza tutt’altro che secondaria sul problema
della violenza di genere.
Molto dura è stata la denuncia dei manifestanti contro le cosiddette politiche
istituzionali “di prevenzione”, incapaci di arginare la violenza, come
dimostrano i dati: solo nel 2024, in Italia, centodieci donne sono state uccise,
per lo più da un loro partner o familiare di sesso maschile.
La maggior parte degli studenti ha preso in consegna il volantino: qualcuno si è
fermato per chiedere informazioni, altri si sono detti d’accordo, ma non c’è
stato molto dibattito. I ragazzi dei diversi indirizzi – classico, scientifico,
scienze applicate – sembravano per lo più accomunati dagli zaini pesanti e
dall’aria assonnata e non sono mancati quelli che passavano oltre senza fermarsi
o gettando appena uno sguardo.
Giorgia, studentessa, ha spiegato di aver provato più volte a proporre la
nascita di un collettivo, ma di essere stata frenata dai rappresentanti di
istituto. La difficoltà ad aggregare gruppi anche piccoli di studenti è
certamente legata alle riforme scolastiche di questi anni, il cui il culmine
sembra essere quella Valditara, che stabilisce, tra le altre cose, la bocciatura
con il 6 in condotta: un provvedimento che limita ulteriormente la libertà degli
studenti, che fanno enorme fatica anche solo a pensare che si possa cambiare
qualcosa insieme.
La situazione strutturale del Pitagora è emblematica della difficoltà che hanno
gli studenti a elaborare una riflessione complessiva sulle condizioni in cui si
trovano a “fare scuola”: da tempo, qui, si ricorre per esempio al sistema della
“rotazione”, perché non ci sono classi per tutti. Una forte limitazione del
diritto allo studio, che però molti studenti percepiscono come un vantaggio:
meno giorni a scuola significa meno stress, meno interrogazioni e compiti
classe. Un’altra questione delicata riguarda i viaggi d’istruzione, che non sono
accessibili a tutti: le famiglie in difficoltà economica spesso non riescono a
sostenere le spese, rendendo queste esperienze, che dovrebbero essere formative,
un privilegio per pochi.
Obiettivamente difficile, in un contesto così ostico per lo sviluppo e la
condivisione di una coscienza critica come è la scuola oggi, che gli studenti
possano mettere in discussione il senso propagandato di certe iniziative, che
hanno come unico fine quello di rafforzare le relazioni istituzionali e di
potere. Lo stesso titolo, “il coraggio di denunciare”, più che analizzare le
cause più profonde del problema ha come unico obiettivo colpevolizzare chi
commette violenza. È come mostrare un quadro visibile a metà, oscurando le cause
sociali e culturali alla base del fenomeno, e l’ambiguo atteggiamento di forze
dell’ordine e istituzioni politiche, che tra l’altro sulla gestione patriarcale
dei rapporti sociali e professionali fondano buona parte del proprio equilibrio.
Le donne che non denunciano la violenza lo fanno anche, per esempio, per paura
di non essere credute o di non ricevere supporto dalle forze dell’ordine. A un
aumento delle chiamate al numero antiviolenza 1522 (quasi diciottomila solo nel
primo trimestre del 2024) non corrisponde una diminuzione delle violenze
sessuali e dei femminicidi. Anche i reati online, come sextortion e revenge
porn, sono cresciuti del 9% dal 2023.
Gli studenti che hanno protestato al Pitagora hanno chiesto che a esprimersi su
questi temi non siano sempre e solo soggetti esterni alla scuola, e percorsi di
autoeducazione: formazione degli insegnanti, presenza di psicologi e
psicoterapeuti, lavoro all’interno di spazi didattici e non, organizzato insieme
agli studenti e le studentesse. I nuovi fondi destinati alla già carente
educazione sessuale nelle scuole, invece, verranno usati (lo ha dichiarato il
ministro Luca Cirani) principalmente per formare gli insegnanti su fertilità e
prevenzione dell’infertilità.
Non è la prima volta che gli studenti di questa scuola si trovano a dover
affrontare interlocutori così ambigui: l’anno scorso, durante un altro incontro
dedicato alla violenza di genere, un tenente colonnello aveva definito “ottimo”
il sistema di sicurezza a tutela delle donne. Giorgia racconta di aver obiettato
a questo assunto, dato l’alto numero di femminicidi, criticando anche la scelta
di coinvolgere le forze dell’ordine in un contesto scolastico. Il tenente
colonnello, alzandosi con fare vagamente intimidatorio, e raccogliendo
l’approvazione dei docenti e di una parte degli studenti, le ha chiesto di
portare dati concreti a sostegno della sua tesi, affermando che avrebbe potuto
facilmente smentirli con le sue esperienze. Evidente già in quel caso fu
l’ipocrisia di coinvolgere militari (così come ricchi e influenti imprenditori,
al vertice di un sistema che alimenta e si fonda sulle disuguaglianze, comprese
quelle di genere) in queste iniziative, che presupporrebbero una capacità di
mettere in discussione la propria persona e il proprio ruolo sociale, cose che
queste due categorie non sembrano disposte a fare.
A ulteriore conferma di come le forze dell’ordine non possano essere un
interlocutore accreditato a esprimersi sul tema della violenza di genere, basta
guardare a quanto accaduto di recente a Brescia, dove le attiviste di Extinction
Rebellion hanno denunciato abusi da parte degli agenti, e raccontato di essere
state costrette a spogliarsi nude in questura, mentre gli uomini non hanno
subito lo stesso trattamento. Inoltre, le donne sono state obbligate a compiere
atti umilianti, come fare piegamenti sulle gambe davanti a un numero non
precisato di agenti, pratiche che alcuni tra i centri antiviolenza del paese
hanno condannato come vere e proprie violazioni dei diritti umani. (serena bruno
– laboratorio di narrazione)