Tornare a casa (per una sera). Il trauma dello sradicamento nella diaspora di Scampia

NapoliMONiTOR - Monday, December 16, 2024
(disegno di giulia landonio)

A giugno di oltre quindici anni fa, nel 2009, abbiamo occupato una casa abbandonata con un gruppo di bambine e bambini in parte abitanti del posto, in parte di altre zone del quartiere. Con loro abbiamo dipinto tutto quello che ci sembrava che non potesse proprio mancare in una casa, un armadio gigante, docce, rubinetti, lavatrici, librerie, un pesce rosso nella sua classica boccia di vetro, uno stereo con le cassette che oggi non sapremmo come usare, una televisione, una chitarra, un vaso con i fiori, un tavolo con acqua e bicchieri, specchi, un lavabo sulla terrazza super panoramica per lavare e mettere a scolare i piatti. Poi abbiamo fatto un grande gioco dei mimi, in cui loro hanno liberamente preso possesso dello spazio usando tutto quello che volevano, come volevano. Complice anche il gran caldo, le docce, le lavate di mani faccia piatti, si sono sprecate, ma non è mancata la lettura di un buon libro seduti in poltrona, una partita piuttosto sofferta del Napoli di Lavezzi Cavani e Callejon, balli e saltelli vari, inclusa una danza al ritmo del cestello della lavatrice, e non si sono dimenticati naturalmente di dare da mangiare al pesce rosso.

Abbiamo racchiuso in un cortometraggio muto questi semplici gesti quotidiani portati avanti con serenità, dolcezza, serietà, sebbene lo scenario in cui si muovevano fosse uno dei luoghi considerati più precari per l’abitare: il quarto piano della Vela Gialla di Scampia. I protagonisti hanno deciso tutto da soli, e non a caso si sono concentrati sull’utilizzo di quello che più gli manca nella vita reale, come l’acqua corrente soprattutto per i piccoli rom abitanti nel campo vicino di Cupa Perillo e l’armonia di una giornata qualunque in una casa qualunque.

Nella totale autogestione, ci hanno poi consegnato un finale poetico affacciandosi da una finestrina dipinta in stile tirolese che apre a una vista mozzafiato sulla Vela di fronte, la Celeste, quella che quest’anno, a luglio, ha visto il crollo di un ballatoio con la conseguente morte di tre persone e decine di feriti, soprattutto bambini.

Ma gli sguardi nonostante tutto fiduciosi di quei bambini del 2009 non potevano prevedere questo triste futuro; quello degli adulti e dei pianificatori, più consapevole della lenta catastrofe che si stava già consumando all’epoca, invece forse sì.

I piccoli e le piccole italiane e rom che hanno partecipato oggi sono adulti che nella maggior parte dei casi non hanno ancora risolto il problema dell’abitare, per lo meno non nelle forme canoniche che siamo abituati a immaginare. Al seguito dei loro genitori e delle loro famiglie, che non sempre hanno potuto scegliere liberamente dove e come abitare, sono stati i testimoni diretti dello scempio che per oltre venti anni si è consumato sulla loro pelle. Nelle Vele, totale assenza di manutenzione, infiltrazioni, la goccia sulla testa nella cameretta, pavimentazioni fragili dei ballatoi, scale assottigliate, sversatoio di rifiuti, pregiudizi esterni diffusi. Nelle baracche, totale assenza di servizi di base tipo fognature e acqua calda, acqua benevola e acqua malevola di pioggia che allaga e infanga, freddo invernale fronteggiato con le stufe a ghisa, pregiudizi esterni diffusi e stereotipi duri a morire. Passeggiando oggi nella Vela Gialla che sta per essere svuotata, scavalchiamo cocci, balziamo in fila indiana sui ballatoi pericolanti, inciampiamo nei ricordi, ritrovando al quarto piano praticamente intatti i nostri armadi e i vasi dipinti pieni di fiorelloni strani, portate per mano da chi prima ci abitava e oggi continua ad andare su una delle terrazze per godersi il panorama, i tramonti, chiacchiere e sigarette. E riaffiorano i momenti belli – le corse di gruppi di ragazzini da una Vela all’altra, le spighe d’estate, i giochi d’acqua – di quella che è (stata) casa e che ora che è murata val bene un pellegrinaggio, come se fosse una tomba di famiglia a cui portare omaggi e dove far rivivere quelle memorie che nessuna ruspa potrà cancellare.

Il lutto del trasferimento, il trauma della demolizione, la pena dello sradicamento, tutti pesi di cui nessuno vuole assumersi responsabilità, tranne tutte le dirette e i diretti interessati che faticosamente e con coraggio pensano a come ricostruirsi una vita senza cadere nella disperazione. Non c’è terapia, non c’è cura, non c’è ascolto per questi tormenti collettivi innanzitutto interiori. Prima o poi si dovevano trasferire, si sapeva, guai a portarla questa disperazione nei luoghi dove si prendono le decisioni, lì non bisogna comportarsi da bambini ma essere seri e accettare questo peso della storia – urbanistica – dell’intera città.

E allora perché il trasferimento non è stato organizzato con cura, rispetto e competenze, nella giusta gradualità dei passaggi, trattando le persone come persone, i bambini come bambini, i vecchi come vecchi, i malati come malati, passando da una lentezza pachidermica a uno stato d’emergenza brutale? È una delle molte domande che ci portiamo dietro ossessivamente che non avranno mai una risposta, se non che tutto rientra nell’ordine della brutalità dei sistemi di potere e burocrazia che ci governano.

Nel frattempo, strette in cerchio in una delle pochissime terrazze agibili, tra lacrime e risate, ci godiamo qualche momento di una luminosa serata invernale insieme e ci ricordiamo che la vita è fatta soprattutto di questi dettagli preziosi che ci tengono unite e ci consentono di non andare in frantumi. (emma ferulano)