Il fantasma della libertà. L’epopea del Vaquilla nella Barcellona degli anni Settanta

NapoliMONiTOR - Wednesday, December 18, 2024
(disegno di ginevra naviglio)

“Sì, il Vaquilla, chi non lo conosce… – dice la donna, mentre aspetta suo figlio all’uscita di  scuola –. Rubava macchine, rapinava le banche, le cose che si facevano allora… È anche uscito, ma poi ricadeva ogni volta”. “La sorella vive ancora nel quartiere. Ha un banco di pesce al mercato – interviene un’altra donna –. Lui è morto in carcere, dicono che si sia ucciso…”.

Alla periferia di Barcellona, nel quartiere della Mina, è ancora viva la memoria del Vaquilla, giovane eroe popolare e bandito morto recluso a quarantadue anni, dopo un’infinità di piccoli reati, condanne ed evasioni rocambolesche. La sua figura si presta all’eccesso e molti non esitano a trasfigurarlo, attribuendogli ogni tipo di imprese, sempre in bilico tra eroismo e delinquenza, nobiltà d’animo e vanteria.

Juan José Moreno Cuenca, detto El Vaquilla, non era morto in carcere, ma in un ospedale di Badalona, per una cirrosi epatica contratta in prigione a causa del virus dell’epatite C. Aveva appena compiuto quarantadue anni, più della metà dei quali trascorsi dietro le sbarre. Gitano, ladro d’auto e rapinatore di banche, negli anni Settanta aveva rappresentato suo malgrado il tipico prodotto della periferia marginale. I mezzi di comunicazione si erano impadroniti della sua storia, trasformandolo nel prototipo del delinquente giovanile. Dalle sue imprese un regista del genere “malavita” aveva tratto tre film di successo. Il gruppo di flamenco più ascoltato di allora gli aveva dedicato una famosa canzone, in cui veniva definito “el alegre bandolero”.

Con la maggiore età, il Vaquilla aveva alimentato la sua fama con sommosse e tentativi di fuga. Una delle evasioni si era conclusa con un inseguimento in pieno centro di Barcellona. La sua spettacolare cattura, ripresa dalle telecamere e trasmessa all’ora di pranzo da tutti i telegiornali, l’aveva consacrato come il delinquente più famoso del paese.

Juan José non aveva conosciuto suo padre. Viveva con la madre in una baracca nei sobborghi di Barcellona. Un giorno la madre fuggì con il suo nuovo compagno. I servizi sociali lo affidarono alla tutela dello zio. Per Juan José cominciò una vita nomade, a bordo di una roulotte, che lo zio parcheggiava ogni sera in luoghi appartati, per evitare il contatto con le forze dell’ordine. A sette anni conobbe i quattro fratelli maggiori, nati da una precedente relazione della madre. Antonet, uno di loro, cominciò a fargli visita con assiduità. Un giorno Juan José salì sul treno che riportava il fratello in città e lasciò per sempre lo zio, accampato in uno spiazzo ai margini dell’autostrada.

Antonet era già sposato. Viveva a Barcellona, nel Campo de la Bota, un insediamento di baracche di fronte al mare, così ai margini della città che nei primi anni della dittatura i franchisti lo usavano per fucilare i prigionieri politici. Gli uomini del Campo partivano ogni notte per spedizioni misteriose, da cui tornavano qualche ora dopo con le macchine cariche di articoli d’ogni tipo: pelli, prosciutti, elettrodomestici, vestiti, sigarette… I bambini salivano sui pali del passaggio a livello all’entrata del campo e davano l’allarme quando da lontano appariva la polizia. Nel frattempo gli uomini scaricavano la mercanzia e le donne la vendevano alle vicine, in un improvvisato ed effimero mercato.

Dopo qualche mese da sentinella Juan José cominciò a uscire con i ragazzi della sua età, a rubare auto e a caricarle con tutto quel che trovavano. A nove anni entrò per la prima volta in  riformatorio. La polizia lo sorprese sulla spiaggia del Campo de la Bota a fare acrobazie su una moto rubata. Qualche giorno dopo scappò, scavalcando il muro di cinta. Lo arrestarono ancora, ma ogni volta si dava alla fuga. Il suo soprannome cominciò ad apparire sulle pagine dei giornali. In quegli articoli il Vaquilla era a capo di una banda di ragazzini che rubava auto di grossa cilindrata; doveva mettere un cuscino sotto il sedere per arrivare all’altezza del volante, ma si diceva che negli inseguimenti fosse imprendibile.

I giudici gli cercarono un riformatorio da cui non potesse scappare, ma alla fine non trovarono altro rimedio che chiuderlo alla Modello di Barcellona, il carcere degli adulti. Aveva tredici anni, l’età penale era fissata a sedici. Alcuni prigionieri politici se ne accorsero e denunciarono il fatto per iscritto. Sette mesi dopo tornò in libertà.

Nel dicembre del ’76 fu arrestato di nuovo. Quando uscì lo affidarono a una casa famiglia, ma l’esperimento non durò a lungo. Aveva voglia di rivedere i fratelli e tornò alla Bota. Non trovò più le baracche, ma palazzi alti e squadrati, innalzati a poca distanza da quel che restava del Campo. Il suo quartiere adesso veniva chiamato la Mina.

Nel ’77 il Vaquilla fu arrestato per due rapine in banca, ma all’ultimo momento i testimoni ritrattarono e tornò in libertà. Un’altra rapina, invece, si concluse in una sparatoria con la polizia. Juan José ne uscì illeso, ma con le manette ai polsi. Il suo compagno lo portarono all’ospedale con due pallottole nei polmoni. Rimase in coma tre mesi, ma si salvò. A lui diedero sei anni e mezzo. Quattro per la pistola, due per la rapina e sei mesi per l’auto rubata. Fu inviato a Herrera de la Mancha, la prima prigione di alta sicurezza inaugurata dalla giovane democrazia spagnola. Passava la maggior parte del tempo in isolamento. Cominciò a leggere Freud, Voltaire, Flaubert e Dostoijevski. La popolarità del suo soprannome gli attirava la curiosità degli altri detenuti, ma soprattutto le violenze dei carcerieri.

Nell’aprile dell’84 capeggiò la sommossa nella prigione Modello di Barcellona. Il piano prevedeva di chiudersi in un ala del carcere, presentare una piattaforma di rivendicazioni e ottenere che i giornalisti entrassero a visitare le celle. Nel frattempo, un gruppo di detenuti sarebbe sceso nei sotterranei del carcere per scavare una galleria che doveva sbucare in strada. Lui stesso si incaricò di fare il primo passo, sbarrando gli accessi della sezione, dopo aver preso in ostaggio quattro guardie con uno stiletto nascosto nello shampoo.

La fuga sotterranea venne frustrata dai reparti speciali, che si infilarono dentro le fogne intorno al penitenziario. Allora il gruppo che guidava la rivolta si concentrò sulle rivendicazioni. Fecero entrare i giornalisti, ma questi, oltrepassati i cancelli, si precipitarono sul Vaquilla, sommergendolo di domande; sembrava non gli importasse il motivo per il quale si trovavano lì dentro. Alla fine si riuscì a organizzare una visita alle celle e una conferenza stampa. I detenuti resero pubblici maltrattamenti e torture. Poi la rivolta terminò. Non c’erano stati incidenti, né feriti.

Il giudice chiese per il Vaquilla quarantotto anni di carcere. Ogni volta che doveva comparire davanti al tribunale di Barcellona Juan José veniva trasferito a Lerida, dove avevano preparato una cella speciale solo per lui. Fu in questo carcere che ritrovò il fratello Antonet. Insieme prepararono un nuovo piano di fuga.

Erano in sei. Travestiti da guardie, presero in ostaggio un funzionario e un cancello dopo l’altro arrivarono fino all’ultima porta. L’uomo riuscì a liberarsi e dare l’allarme, ma in quel momento il Vaquilla e i compagni erano già fuori. Scapparono a piedi attraverso i campi, poi in auto, rubando una vettura dopo l’altra e cambiando continuamente direzione. Gli inseguitori li sorvegliavano dagli elicotteri. In un villaggio ai piedi dei Pirenei i fuggiaschi abbandonarono l’auto e imboccarono un cammino di montagna. Era dicembre, nevicava. Camminarono tutta la notte per arrivare al confine, ma poi decisero di fermarsi e di tornare indietro; rubarono un’altra auto, per arrivare a Barcellona prima dell’alba.

Entrarono in città dalla Gran Via, il lungo viale che corre parallelo al mare. Il Vaquilla, al volante, sfilò al primo controllo senza farsi notare. Dopo qualche metro, però, dovette fermarsi a un semaforo. Lo affiancò un’auto senza contrassegni. Un poliziotto in borghese si sporse lentamente dal finestrino e mostrò la pistola. Anche quelli del posto di blocco ci ripensarono e accostarono dall’altro lato. Al verde, il Vaquilla accelerò bruscamente. Risuonarono gli spari, ma l’auto dei fuggitivi continuò la sua corsa.

L’inseguimento nel traffico del primo mattino durò qualche minuto. Juan José poteva tenere dietro le macchine della polizia, ma le moto, che affluivano da tutte le direzioni, erano più difficili da seminare. Alla fine andò a sbattere contro una macchina che gli apparve davanti all’improvviso. L’auto si accartocciò su se stessa, con le portiere bloccate. I poliziotti cominciarono a sparare. Juan José fu l’unico ferito, alla spalla. Gli agenti lo tirarono fuori e lo ammanettarono davanti alle telecamere. Poi lo lasciarono lì e si misero a litigare tra loro per stabilire a chi toccasse l’onore della sua cattura.

Juan José ricomincerà da zero. Si metterà a studiare e dopo anni di isolamento tornerà alla vita in comune con gli altri reclusi. Con una macchina da scrivere e gli articoli dei detenuti comporrà la rivista Alegato. E scriverà per El Pais un editoriale dal titolo: “Le carceri, senza demagogia”. Cambierà altre carceri e per molti anni ancora sarà trattato come un pericolo pubblico. Si farà coinvolgere in un’altra rivolta, pregiudicando la concessione di un permesso che sembrava imminente. Il giudice lo condannerà a centoquattro anni, ma all’uscita del tribunale giornalisti e fotografi lo attenderanno in mezzo a una folla acclamante. Cercherà di smettere la dipendenza dall’eroina e più d’una volta proverà a suicidarsi: tagliandosi le vene, iniettandosi un’overdose o inghiottendo l’antenna di una radio. Nel gennaio del ’94 gli concederanno finalmente i primi tre giorni di libertà, ma qualche mese dopo scapperà durante un trasferimento. La fuga durerà qualche ora. In carcere apprenderà della morte del fratello Antonet, in una sparatoria dopo una rapina in gioielleria. Beneficerà di un indulto parziale, ma tornerà a rubare per procurarsi la droga, perdendo una volta di più la possibilità di ottenere permessi.

Il Vaquilla non aveva mai ucciso. La pena di sei anni, con la quale era entrato in carcere alla fine degli anni Settanta, si era convertita con il passare del tempo in una condanna a vita. Il giorno della sua morte, il 19 dicembre del 2003, ancora quattro anni lo separavano dal simulacro della libertà. (luca rossomando)