La parola della settimana. Bunker

NapoliMONiTOR - Saturday, December 21, 2024
(disegno di ottoeffe)

Nel rifugio capitava pure gente avventizia: passanti casuali oppure qualche personaggio senza recapito: accattoni, prostitute da poco prezzo, trafficanti di borsa nera […]. Alcuni di costoro, provenienti da Napoli, raccontavano che la città, dai cento bombardamenti che aveva avuto, era ridotta a un cimitero e un carnaio. Tutti quelli che potevano ne erano fuggiti; e i poveri pezzenti che c’erano rimasti, per ripararsi andavano ogni sera a dormire dentro le grotte, dove avevano portato materassi e coperte (elsa morante, la storia).

C’è un posto, nell’università che ho frequentato negli ultimi due anni grazie a una borsa pagata dal Pnrr (vale la pena sottolinearlo perché con la riforma Bernini, e con la fine della sfrenata stagione di ripresa&resilienza, la ricerca accademica si appresta a chiudere definitivamente bottega, il che considerando la situazione attuale potrebbe pure non essere un male), che tutti chiamano “aula bunker”. Si dice fosse il vecchio appartamento di un custode, e in effetti la struttura a stanze e il bagno da casa della nonna lascia pensare che sia così. Non è il massimo del comfort, ma le stufe ci sono, l’affaccio su piazza Banchi Nuovi rende gradevoli le pause, e di recente siamo riusciti ad avere una stampante-fotocopiatrice.

Dentro al bunker, in questi due anni, sono confluite un po’ di persone legate in maniera diversa all’università, e confrontandosi hanno pianificato e organizzato iniziative, costruito alleanze dentro e fuori l’università, creato – con alterne fortune – un minimo di conflitto, fatto insomma quello che si dovrebbe fare quando si sta dentro un’istituzione e se ne vedono tutti i limiti: politica.

Tra le iniziative organizzate nei prossimi mesi e partite dal bunker ci sono due seminari interessanti: uno a febbraio, con una docente e ricercatrice dell’università dell’East London che racconterà il processo di resistenza degli abitanti di Dalston – a cui ha partecipato con i suoi studenti – contro il tentativo di “rigenerazione urbana” (ovvero “capitalizzazione economica”) del quartiere; l’altro con uno tra i più meticolosi studiosi delle forze di polizia del nostro paese, anche lui docente all’università di Torino.

«Presidente, ne approfitto per comunicarvi che l’avvocato Marziale, che difende la posizione della parte civile Fakhri Marouane mi ha appena notiziato […] che il suo assistito purtroppo si è dato fuoco in carcere a Pescara. È in condizioni gravissime, è stato trasportato in eliambulanza sabato a Bari, dove attualmente è ricoverato».
Il ragazzo marocchino aveva trent’anni ed è morto dopo due mesi di agonia in quell’ospedale. Era nel gruppo selezionato dei quattordici il giorno della Mattanza; prelevato con la forza dalla sua cella, aveva percorso il “corridoio umano” prendendo diversi pugni e calci. […] Dopo il corridoio, giunto nella saletta della socialità, Fakhri è costretto a inginocchiarsi al cospetto degli agenti e a strisciare fino al muro della stanza; alzarsi in piedi e poi inginocchiarsi di nuovo dinanzi all’altro agente di polizia. (estratti dalla puntata n.7 di Diario dal bunker, una rubrica della redazione di Napoli Monitor sul processo per le violenze della polizia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere)

Qualche giorno fa il rapper Marracash ha pubblicato un nuovo disco, È finita la pace, suo settimo album. Il pezzo migliore è Factotum: primo perché parla di cose di cui nessuno parla più (i lavoratori, gli operai, gli sfruttati, il lento crepare non solo alla fine, ma anche in mezzo tra il “produci” e il “consuma”) e poi perché mostra che anche se si fa successo si può continuare ad avere contatto con la realtà – rifuggendo per quanto possibile il rifugio – e raccontarla. 

Il lavoro debilita l’uomo,
non rinuncio la sera all’uscita,
vado a letto la notte che muoio e mi sveglio che sono quasi in fin di vita.
Oggi in un cantiere io e un eritreo,
metto canaline su un piano intero.
In pausa stecchiti
dormiamo in cartoni imbottiti di lana di vetro.
La vita è “produci-consuma-crepa”
chiunque di noi prima o poi lo accetta
che si crepa già prima di finire sottoterra.
Produco il mеno possibile, rubo il rubabile, per ritardare che mi crepi l’anima,
poi fuori fa scuro e ognuno va nel formicaio in cui abita.

La pace come condizione strutturale non è più un orizzonte, e lo si è capito da un po’. È opinione comune che viviamo tempi cronicamente bellici, dove per guerra è limitante intendere solo le bombe e le granate contro popoli e territori di conquista, ma anche quella quotidiana ai poveri, ai migranti, ai marginali, a chi protesta.

Tempo fa lessi che Zuckerberg si stava costruendo un gigantesco bunker antiatomico in Nuova Zelanda. A inizio settimana, più modestamente, ho visto un paginone sul Corriere della Sera in cui si pubblicizzava un kit di difesa ai CBRN (chimici, batteriologici, radiologici, nucleari): mille e duecento euro trasporto e iva inclusi, da febbraio 2025, per proteggersi dagli attacchi nemici.

In quei primi anni le strade erano affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti tra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria. (cormac mccharty, la strada)

Una mattina di un bel po’ di anni fa ero in treno con alcuni amici. Era la prima volta che prendevamo un’alta velocità, tutto era nuovo e pulito, e i viaggiatori apparivano molto soddisfatti di poter percorrere il tragitto tra Napoli e Roma in un’ora. Uno tra noi quattro o cinque, credo, non aveva il biglietto. La controllora lo scoprì e, con disgusto, al nostro rifiuto di pagare ci intimò di consegnarle i documenti. Si lasciò scappare, poi, qualcosa sul fatto che su quel tipo di treno, non erano ammessi comportamenti del genere, e che avremmo dovuto vergognarci di un gesto simile. Il mio amico le rispose che quella cosa si chiamava “Repubblica di Weimar” e che “dopo di questo c’è il nazismo”. Lei non colse, ma alla fine non ci fece la multa e neppure lo fece identificare dalle guardie.

C’è una scena nella versione televisiva de La paura numero uno (commedia di De Filippo del 1950) in cui Eduardo prova a spiegare a una perplessa Luisa Conte il rapporto tra consumo compulsivo e guerra.

(credits in nota1)

Insomma, più la fine è vicina, ci dice anche Pasolini, più l’asticella si alza. E nulla è meglio di una villa a Salò, come bunker.

(credits in nota2)

Rifugiati in bunker anti-nucleari
nuje ce l’ammo guadagnata ‘st’aria:
meno uommene, cchiù vuommeche;
‘na sola banca emette carta straccia
e nun è manco eletta pe’ suffragio.
E a nuje ce spetta ‘e muri’ pe’ ‘na causa
pecchè suffri’ vo’ dicere curaggio.
(enzo avitabile ft. co’sang,
 maje ‘cchiù)

(a cura di riccardo rosa)

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¹ Eduardo De Filippo e Luisa Conte in: La paura numero uno, Eduardo De Filippo (1964, versione televisiva)

² Paolo Bonacelli, Uberto Paolo Quintavalle, Hélène Surgère, Sonia Savange in: Salò o le 12o giornate di Sodoma, Pier Paolo Pasolini (1975)