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La parola della settimana. Limite
(disegno di ottoeffe) C’è un povero cristo fuori al tribunale di Napoli che campa vendendo bloc notes, penne, accendini, manifestini di lutto per la Juventus. Ha anche qualche marca da bollo in tasca, e quando gli avvocati, che lo conoscono tutti, sono in ritardo e devono sbrigarsi perché l’ufficio chiude, le prendono da lui e gli fanno un regalo. Il tizio avrà più di sessant’anni. La sua vita è un disastro – me l’ha raccontata venerdì in pochi minuti – e non sta nemmeno troppo bene con la testa. Ha tutta l’aria di chi non sarebbe capace di far male a una mosca, eppure la guardia giurata del tribunale, uno con gli occhiali da Rambo e pistole d’ordinanza sul fianco, gli ha dato addosso perché pretendeva di decidere il limite spaziale entro cui il tizio poteva o non poteva esercitare il suo commercio. Non parliamo del cancello del tribunale, dove finiva la giurisdizione di Rambo – che non essendo neppure capace di vincere un concorso nella penitenziaria opera per conto di quelle agenzie di mercenari, spesso controllate dal Sistema, e che quindi ha esattamente i miei diritti e quelli di chiunque altro a (non) decidere cose che riguardano la pubblica via. Parliamo della strada, per la precisione della fermata di un autobus. Eppure, nella sua testa, Rambo pensava di poter comandare. È finita a insulti alle mamme e con l’apertura di una riflessione sull’idea di limite. Ti farò male più di un colpo di pistola È appena quello che ti meriti Ci provo gusto, me ne accorgo, e allora? Non mi vergogno dei miei limiti (e lividi) (subsonica, colpo di pistola) Una prima definizione matematica di limite pare sia attribuibile a tale Augustin-Louis Cauchy, matematico di inizio Ottocento, e qualche decennio dopo a Heinrich Eduard Heine. Smanettando in rete mi sono reso conto che almeno due-tre degli studiosi che hanno toccato questa materia hanno avuto problemi psichiatrici. È successo a Weierstrass, tedesco, padre dell’analisi moderna (quella matematica, ovviamente): suo padre, ufficiale del governo tedesco di Boemia, lo costrinse a studiare legge a Bonn, ma lui non combinò niente e anzi si avvicinò da autodidatta alla matematica e al gruppo del Crelle’s Journal, che oggi è la più antica rivista di matematica esistente. A un certo punto il giovane Karl se ne va a studiare a Munster (che solo per una strana coincidenza legata ai natali di un mio amico è la squadra tedesca per cui tifo), rompendo con il padre, e diventa un grande esperto di funzioni ellittiche, ma anche un alcoolizzato, sviluppando problemi psichici e nevrosi di vario tipo. Anche Cantor, uno dei più grandi matematici della storia (per intenderci, quello che ha inventato gli insiemi), soffrì di una grave depressione, perché isolato dalla comunità scientifica. Cercò invano supporto in papa Leone XIII e forse anche per questo arrivò a identificare il suo rigorosissimo concetto di infinito assoluto con… Dio. Passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio, ad Halle. L’esaltazione creatrice è intimamente legata alla malinconia, sorella  della depressione e figlia della mania, ma anche parente vicina della follia, dal momento che l’opera non è più sufficiente a contenere tutte le tensioni. […] Il romantico-melanconico coniuga la tristezza al quotidiano e contempla il suo dolore nella profonda solitudine del ripiegarsi su se stesso. “La malinconia è la felicità di essere triste”, scrive Victor Hugo ne Les travailleurs de la mer. Vi si fondono molto intimamente un’attitudine filosofica, la ricerca poetica e la malattia depressiva, condizioni che caratterizzano dolorosamente questi insaziabili sogni d’assoluto. (philippe brenot, le génie et la folie – traduzione mia) È interessante come la matematica associ il limite a quest’idea di assoluto, mentre per la semantica lo stesso vocabolo indica una linea terminale o divisoria, un confine. Qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro curato da Miguel Angel Valdivia, che si chiama appunto Confini, dove dialogano quattro storie di quattro disegnatori, Andrea De Franco, Federica Ferarro, Mario Damiano e Adriana Marineo. I quattro interpretano il concetto in maniera ora concreta ora metafisica, interrogandoci non solo sull’idea di limite, ma anche se non soprattutto su quella dello spazio che si trova prima e dopo di questo. (disegno di andrea de franco, da: confini) Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni dei Duemila andava in onda ogni pomeriggio su Rai Uno (o forse Rai Due) un programma che si chiamava Ci vediamo in Tv, condotto da Paolo Limiti, autore televisivo (Rischiatutto), scrittore di canzoni (La voce del silenzio, Stupidi, Adagio) e regista radiofonico (Il maestro e Margherita). Per quanto ricordi, la trasmissione era un viaggio nostalgico durante il quale si esibivano cantanti perlopiù ottuagenari, rievocando spesso le storie all’origine di brani che erano stati grandi successi anche cinquanta o sessant’anni prima. Vi partecipavano Milva, Ornella Vanoni, Mirna Doris, Angela Luce − cult una sua appassionata esibizione in L’urdema tarantella (Bovio-Tagliaferri, 1936) per la quale rivendicava, con solennità, di aver ricevuto un premio come “unica, grande, sola, vera interprete del sentimento della canzone napoletana”. L’urdema tarantella racconta la drammatica uccisione da parte di una donna gelosa dell’amante del marito, davanti la chiesa della Madonna della Catena, che a Napoli si trova in via Santa Lucia, così chiamata in riferimento al miracolo con cui Maria salvò dalla condanna a morte tre innocenti, nella città di Palermo, spezzando le loro catene. Un’altra drammatica uccisione legata a quella chiesa fu quella dell’ammiraglio Caracciolo, che lì riposa in pace: Caracciolo fu arrestato e fatto uccidere dall’ammiraglio Nelson in persona, dopo aver combattuto contro la flotta borbonica che cercava di restaurare l’ordine dopo le sollevazioni della Repubblica Napoletana. Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata Minerva; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni, il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re. Fu raccolto dai marinari che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa della Santa Lucia che era prossima alla sua abitazione. (mariano d’ayala, saggio storico sulla rivoluzione di napoli 1799 di vincenzo cuoco e sulla vita dell’autore) Ma in matematica, il limite – e qui spero di non deludere C., matematica e scrittrice ben più raffinata di quell’altra ahinoi, invece, più famosa e potente – serve a descrivere che cosa accade a una successione di numeri quando la variabile si avvicina sempre di più a un certo valore, senza doverlo per forza raggiungere. In parole povere, è come avvicinarmi alla felicità, senza mai poterla neppure sfiorare, ma andare sempre nella stessa direzione, in modo che sarà inequivocabile che quella costituisce il mio limite. Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere? (estragone, in: samuel beckett, aspettando godot) a cura di riccardo rosa
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La parola della settimana. Merito
(disegno di ottoeffe) Amame e damme ‘o bene quanno nun m’o merito tanno n’aggio bisogno, l’aggio appreso int’e prete e nun m’o scordo. (co’sang, povere ‘mmano) In epoche di scosse telluriche ed emotive mi sono ritrovato a discutere più volte il concetto di “merito”, mantra della tirannia capitalista e dogma che assume l’iniquità come effetto collaterale di una selezione fintamente naturale. Ne ho parlato per quasi un’ora con un gruppo di adolescenti con cui sto lavorando in una scuola non lontano da casa, che l’hanno associata per lo più al mondo dello sport (“vincere con merito”, “meritare la vittoria”), a una presunta eticità (“onore al merito”, “meritare un riconoscimento”), e qualcuno addirittura a un vecchio adagio di curva, non so attraverso quali canali giuntogli alle orecchie (“chi milita, merita”). Pochissimi tra loro, per fortuna, l’hanno associato alla scuola. Su venticinque ragazzi e ragazze, anzi, soltanto sei conoscevano l’assurdo nome dato dall’attuale governo neofascista al ministero che organizza la loro vita scolastica (ho dovuto fargli notare che il fascismo nasce come braccio armato del grande capitale, che dell’ideologia del “merito” ha bisogno come il pane). Il latino, la Bibbia, l’Occidente. Questo è il nuovo programma scolastico 2026 (elle, 14 marzo 2025) Scuola, passa la riforma del voto in condotta: con 6 compito di cittadinanza; con 5 si è bocciati (la stampa, 30 luglio 2025) “A chi contesta il termine maturità, a chi lo considera superfluo, ridondante o simbolico, rispondiamo con fermezza: questa non è una questione di parole, ma di valori. Abbiamo scelto ‘maturità’ perché l’esame non misura solo ciò che si sa, ma chi si è diventati. […] Chi attacca il termine non attacca un nome, ma la centralità della formazione della persona, e noi su questo principio non arretriamo di un passo. […] Per il governo Meloni, e per il ministro Valditara, il cuore di questa riforma è proprio questo: restituire centralità alla persona, restituire dignità al valore educativo della scuola”. (ella bucalo – membro della commissione cultura del senato e responsabile del “dipartimento istruzione” di fratelli d’italia) Per non essere troppo livoroso ho deciso di non scegliere come parola di questa settimana né “cerchio” né “botte”, e di non dare troppa importanza a un articolo pubblicato su Jacobin, organo di stampa ombra di Alleanza Verdi Sinistra e sfogatoio delle decine di accademici e intellettuali di questo tristo paese bisognosi di accreditarsi come “di sinistra”. Vale però la pena ugualmente entrare nel merito di alcune riflessioni pubblicate in questi giorni sulla stampa nazionale a corollario dell’azione effettuata da alcuni attivisti a Torino, che si sono introdotti nella sede de La Stampa, buttando per aria un po’ di fogli e scrivendo qualche slogan sui muri. Su Monitor abbiamo già espresso la nostra posizione (qui e qui), ma riprendo qualche passaggio a beneficio di chi fatica a leggere più di quattromila battute in un solo articolo: Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) e infine le buone azioni quotidiane. (goffredo fofi, l’immigrazione meridionale a torino) Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. (miriam abu samra, la fiera dell’ipocrisia. intellettuali progressisti e non violenza) Da manuale della Scuola Holden, si diceva, il pezzo pubblicato sulla questione da Jacobin (per i meno avvezzi, la Scuola Holden è un centro di formazione – con sede a Torino – in cui Alessandro Baricco e i suoi insegnano a giovani che sanno usare le parole a metterle al servizio delle aziende, della politica, degli interessi delle classi dirigenti, fingendosi pure soggetti liberi e pensanti).  Con una scaltrezza non da poco Alberto Manconi riesce, nello stesso articolo: ad attaccare strumentalmente il governo Meloni come farebbe un esponente del Pd o di Avs; a indignarsi per la rottura dell’equilibrio liberaldemocratico per cui la libertà di stampa è sacra (tanto più che quel giorno i giornalisti erano “in sciopero per poter svolgere seriamente la propria professione”); a rimestare altra fuffa inutile, ma a essere al contempo precisissimo sui punti sostanziali di questa vicenda, che sono il vero bersaglio del suo discorso: l’azione dei militanti torinesi è “un errore”, “non utile”, “inefficace” e “non intelligente” (avrebbe oscurato il fine settimana di scioperi e indirettamente il fatto che in Palestina non ci sia ancora nessuna pace); chi l’ha compiuta ha fatto “di tutt’erba un fascio” e creato un pretesto per una condanna da destra delle altre posizioni di sinistra, quelle più democratiche e accettabili (vedi Francesca Albanese); l’imam di San Salvario Mohamed Shahin sarebbe in via di deportazione perché avrebbe “contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre”; dulcis in fundo, La Stampa non è certo “il peggior quotidiano nel modo di trattare il genocidio in Palestina”. Una rappresentazione plastica della lotta di classe (da quale lato e contro chi, lo potrete capire da soli), da studiare e ricordare.  “Antisemitismo” e “genocidio”: il peso delle parole dopo il 7 ottobre Abusare di determinati termini confonde la Storia e rischia di cancellare le vere responsabilità morali e politiche (la stampa, 30 agosto 2025) Sdoganare l’antisemitismo, l’altro disastro di Netanyahu (la stampa, 25 settembre 2025) L’attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese. […] Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni – ripropone forme di squadrismo che la storia d’Italia ha già sconfitto e ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi inquinare da una violenza fine a se stessa. […] Tanto più perché La Stampa è uno dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Gaza, il terrorismo dei coloni israeliani e le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. (rula jebreal, la stampa, 3 dicembre 2025)  La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla bocca di coloro che oggi solidarizzano con Gaza, invece, la parola “pace” è scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo, ma tutto Israele. […] I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah, che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo. Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in occasione della guerra di Gaza. (marek halter, la stampa, 26 novembre 2025) Qualche anno fa, ispirati da Aristotele ed Hegel, avevamo una rubrica su Monitor che metteva in evidenza lo squallore di ciò “che ci meritiamo” (i giornali che ci meritiamo; i politici che ci meritiamo; i partigiani che ci meritiamo, e così via). Ci ho ripensato giovedì a proposito dei telegiornali, imbattutomi con g. in un servizio del Tg2 che nel dar conto dell’ennesima strage israeliana a Gaza, dove con la scusa di ammazzare un militare di Hamas sono stati uccisi cinquanta civili, di cui sette bambini, si leggeva il massacro come conseguenza di un attacco di miliziani palestinesi a una pattuglia dell’esercito sionista, che avrebbe provocato il ferimento – fonte: l’esercito stesso – di cinque soldati. (credits in nota 1) Sarebbe bello, anche solo a volte, sapere cosa diavolo abbiamo fatto di male. a cura di riccardo rosa ________________________ ¹ Robert De Niro, Dennis Leary, Anne Heche, Dustin Hoffman in: Sesso e potere, di Barry Levinson (1997)
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parola della settimana
Rewind Roma, novembre 2025 # Case agli italiani, beni pubblici ai fondi immobiliari
(disegno di peppe cerillo) Celebrazioni ovunque per il 2 novembre, cinquantenario dell’omicidio di Pasolini a Ostia. Un’associazione dell’Idroscalo – il quartiere autocostruito a pochi passi dal luogo dell’omicidio – ricrea la partita del ’75 interrotta allora, e convoca gli “Stati generali dell’Idroscalo” per discutere del futuro della zona. Il 3 crolla un pezzo della Torre dei Conti tra via Cavour e Fori Imperiali, uccidendo un operaio romeno sessantaseienne, Octay Stroici, rimasto intrappolato per undici ore sotto le macerie. La sera una dozzina di neofascisti fa irruzione al liceo Righi occupato, con caschi, bottiglie e canti per Mussolini. Il 4 il presidente del municipio V chiede la fine degli sgomberi al Quarticciolo. Presidio davanti al ministero della pubblica istruzione contro la censura nelle scuole e nelle università. Di nuovo un gruppo di fascisti tenta di attaccare il Righi ma viene respinto. Il 5 sgomberi a Cinecittà, in via Eudo Giulioli, “palazzi occupati dai latinos” secondo la stampa. Di notte ancora un attacco di neofascisti, al liceo Aristofane occupato. Il 6 arriva a Roma il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, per incontrare il papa e il presidente della repubblica. Stretta di mano con Mattarella, che continua a inviare armi per massacrare i palestinesi. Il sindaco riceve Robert De Niro, a cui consegna un’onorificenza, la Lupa capitolina. Poi presenta un “rapporto alla città” che sostanzialmente dice che va tutto a gonfie vele. Il 7 gli studenti del Righi manifestano contro le aggressioni fasciste subite durante l’occupazione. Domenica 9 manifestazione a Fiumicino contro la costruzione del Porto Turistico della Royal Caribbean. Il 10 il sindaco annuncia l’accordo con Hines, una delle più grandi società di investimento immobiliare al mondo, per cedere i Mercati Generali sull’Ostiense e farne uno studentato di lusso. Il 12 nuovi sgomberi a Cinecittà-Don Bosco: gli appartamenti ex tutelati saranno ceduti al Fondo Scoiattolo. Siccome sono latinos, gli occupanti sgomberati non avranno nulla. Blitz antidroga su via dell’Idroscalo. Il 13 un trentenne di Torbellamonaca muore al San Filippo Neri, forse per un sedativo somministrato dopo un incidente: i parenti protestano davanti all’ospedale. Il 14 la Regione Lazio scrive al comune di Roma ribadendo che il bosco di Pietralata è vincolato, pertanto gli scavi archeologici per lo stadio non possono avere luogo, nonostante gli annunci pubblici. Il 15 grande assemblea dell’“esercito di terra” per la Palestina alla Sapienza. Al ministero del Made in Italy un assessore scivola sulle scale e distrugge una vetrata artistica made in Italy. Il 16 notte tre ladri sfondano la vetrina di Louis Vuitton a via Condotti e scappano con migliaia di euro di bottino. Fratelli d’Italia convoca una protesta in automobile contro le piste ciclabili, ma il corteo non parte perché c’era troppo traffico. Le auto rimangono bloccate all’Eur, dove erano state convocate. Il 17 il Comune nomina “sindaco per un giorno” l’attore Carlo Verdone per il suo settantacinquesimo compleanno. Il 18 il governo approva la creazione di una Zona Logistica Semplificata nel Lazio, cioè sgravi fiscali per le imprese. A Villa Gordiani un gruppo di una quarantina di persone capeggiate da Forza Nuova cerca di impedire l’accesso a una casa popolare a degli assegnatari regolari, rifugiati dei Balcani, perché rom. Il 19 un compratore anonimo acquista un attico di duecentottanta metri quadri a piazza di Spagna, pagandolo sedici milioni di euro, la compravendita più costosa mai realizzata a Roma. Il 21 inizia il convegno “About a city”, in affidamento diretto alla Fondazione Feltrinelli per sessantamila euro. La giunta approva una memoria perché le librerie possano prendersi pezzi di strada e di marciapiede per vendere cibo e bevande. Intanto il Consiglio di Stato annulla la proibizione delle smartbox dei bnb e l’identificazione a distanza, approvate dopo le azioni del gruppo Robin Hood. Il 22 grande corteo di “Non una di meno” da piazza Repubblica contro la violenza di genere. Il 23 davanti alla stazione Lido Centro a Ostia c’è una grossa rissa tra ventenni, tre ragazzi accoltellati. Il 26 la famiglia assegnataria di Torre Angela rinuncia alla casa popolare per le proteste razziste contro di loro: sindaco e dipartimento patrimonio assecondano la richiesta dell’estrema destra di “case agli italiani”. A Ostiense si tiene un incontro sul futuro degli ex Mercati Generali, per cui il Comune ha già firmato una concessione con il gruppo texano Hines. Decine di abitanti riempiono la sala per protestare contro lo studentato di lusso. Il 28 un operaio ucraino di trentatré anni muore schiacciato da un macchinario sulla ferrovia vicino a Civitavecchia. Muore anche un cinquantenne in motorino, scontrandosi con un furgone al Quartaccio. Sciopero generale, e il 29 grande manifestazione per la Palestina: centomila persone in piazza, tra loro Greta Thurnberg, Francesca Albanese, Thiago Avila. La notte un militare della Folgore muore in un incidente sulla Braccianese, forse per un colpo di sonno. (stefano portelli)
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La parola della settimana. Fucile
(disegno di ottoeffe) L’inizio ‘ell’anne Ottanta, ‘o boom d’a robba ‘int’e fiale, ‘na Delta dint’o viale riflette cu ‘e spurtielle undice piane. ‘Mmano ‘e principiante curtiell’, bravi guagliun’ cu ‘e bazooka, nun bazzeca nisciuno, nun pavano e cunsumano. (co’sang, 80-90) Un paio di settimane fa l’esercito italiano ha organizzato un’iniziativa a Rotonda Diaz, patrocinata dal comune di Napoli e dalla Regione, per celebrare i duemila e cinquecento anni del capoluogo campano. Diciassettemila metri quadri di fiera promozionale del riarmo, con macchine da guerra, robot, droni e fucili ipertecnologici. «Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori. «Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della mattinata…». In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand, ben distanziati uno dall’altro. […] Tra loro c’è qualche scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. […] All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una di loro, l’altra fa spallucce. (edoardo benassai, riarmo e propaganda. in gita al villaggio esercito di napoli) Se è vero che la realtà supera la fantasia, mi è venuto da pensare che all’appello mancavano la suora che in Brazil chiede specifiche tecniche a un militare su una bellissima nuova mitragliatrice, e Travis Bickle, ex Marine, tassista di notte, pornomane, sceso a Napoli per candidarsi come nuovo eroe metropolitano con la sua Colt Python 357 Magnum. Atteso invano a lungo anche il soldato Palla di lardo, annunciato ospite d’onore. (credits in nota 1) A proposito di soldati. Leggo che il ministro della difesa Guido Crosetto, notoriamente legato all’industria bellica, ha rilanciato la proposta di una nuova leva militare, che presenterà come disegno di legge prima al governo e poi al parlamento. L’idea è di un meccanismo volontario, ancora da definire. L’obiettivo sarebbe quello di una riserva di almeno diecimila persone, per farsi trovare pronti alla guerra. Il ponte sullo Stretto rappresenterà un punto importante per il trasporto, per l’evacuazione e per garantire la sicurezza nel caso di un attacco da Sud del fronte Nato. […] Non è solo l’acquisto di armi, la sicurezza. Ho una visione della sicurezza molto ampia. Le infrastrutture sono fondamentali per garantire la sicurezza. Credo che si debbano inserire anche ospedali militari, e non solo, negli interventi e nel conto della percentuale di spese per la sicurezza. Immaginiamo un ospedale specializzato per le vittime di attacchi Nbc (nucleare-batteriologico e chimico). Speriamo che non accada ma bisogna essere pronti. (antonio tajani, ministro degli esteri) Il livello di analisi di Tajani è pari al mio quando auspico che entro una cinquantina d’anni il continente africano sarà stato ridotto talmente allo stremo che la sua intera popolazione si riverserà via mare verso le coste europee, e saranno talmente tanti e arrabbiati che nulla potranno i cannoni della Nato per arginare l’invasione. A questi ottimistici discorsi da bar fa da contraltare la retorica paradossale per cui l’esercito sarebbe il più importante attore nel percorso verso la pace universale nel mondo. Si sente in effetti sempre più in giro, questa roba, per esempio a me è capitato nei venti minuti che ho dedicato qualche settimana fa alla visione di una surreale serata promossa da Rai Uno e dall’esercito italiano dal titolo: “La forza che unisce”, condotta da Fabio Rovazzi e Serena Autieri – è giusto che si prendano le loro responsabilità di fronte ai posteri anche gli altri partecipanti come Noemi (peccato, mi era simpatica), Enrico Brignano (classico comico che non fa ridere), Pietro Mazzocchetti e Luca Cena (ignoro chi siano). Almeno dieci volte in pochi minuti ho sentito dire che l’esercito serve a “garantire sicurezza, ma anche portare aiuto” e soprattutto “a costruire ponti” (forse si riferiva a questo Tajani, parlando di quello sullo Stretto). Un po’ come in quei musicarelli tutta propaganda degli anni Sessanta, dove Morandi e i suoi commilitoni, in servizio di leva sotto il Vesuvio, giocavano sulle brande facendosi scherzi bonari, per poi fidanzarsi, da reclute, con le figlie dei marescialli (povero Nino Taranto, doveva avere seri problemi di soldi per ridursi a fare quella roba). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/morandidef.mp4 (credits in nota 2) Certe vecchie buone abitudini non vanno perdute. Fiction d’accatto, film su presunti eroi in divisa e speciali televisivi non raggiungono tuttavia la sfacciata ipocrisia delle istituzioni, che evidentemente non possono fare a meno di una protezione fucile in spalla per sopravvivere. Il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio, santo patrono di Milano, il comune assegnerà le benemerenze civiche o, come vengono chiamati di solito, gli “Ambrogini d’oro”. Sono riconoscimenti che vengono dati tradizionalmente ogni anno ai cittadini di Milano, agli enti o alle associazioni che “con atti di coraggio e abnegazione civica abbiano giovato a Milano”. […] Tra queste c’è anche il nucleo operativo radiomobile dei carabinieri del comando provinciale di Milano. Non è strano che un riconoscimento del genere venga assegnato a un reparto delle forze dell’ordine: questa unità si occupa del pronto intervento in caso di emergenze, risponde alle chiamate del 112, pattuglia le zone della città e fa i posti di blocco. La candidatura del nucleo radiomobile, però, era stata fatta dalla consigliera leghista ed europarlamentare Silvia Sardone, che l’aveva motivata sottolineando che i carabinieri di questo nucleo “rappresentano un simbolo di affidabilità e credibilità nella Milano di oggi. Lo hanno dimostrato anche la notte del 24 novembre 2024 durante un inseguimento che è poi finito sulle cronache dei giornali alimentando assurde polemiche”. (redazione “il post”, milano assegnerà un “ambrogino d’oro” molto compromettente) Per chi non ricordasse, il 24 novembre è la data in cui un diciannovenne del Corvetto, Ramy Elgamil, è morto cadendo dal motorino al termine di un inseguimento per opera proprio del nucleo radiomobile; le inchieste giudiziarie non hanno chiarito la dinamica dell’incidente, ma l’Arma era finita in enormi polemiche per le modalità con cui gli agenti avevano portato avanti l’inseguimento, testimoniate dalle dash-cam delle auto, e per i tentativi di depistaggio: oggi cinque di loro sono indagati, ma soltanto uno per “omicidio stradale” – per approfondire si consiglia la lettura di La Milano di Ramy e quella delle zone rosse, di Rajaa Ibnou, pubblicato su Monitor il 13 gennaio 2025. A proposito di militari e fucili, una cosa ancora: c’era un vecchio partigiano che ho conosciuto quando ero ragazzo che una volta disse, in un umido box auto allestito a sezione di un partito che si considerava impunemente comunista, che il fucile in sé non è una cosa sbagliata. Bisogna solo che stia nelle mani giuste. Dalla tragedia cilena capimmo le gravi responsabilità dei partiti riformisti che, non avendo dato fiducia alle masse proletarie che chiedevano armi per difendere quel percorso di trasformazione sociale, riposero fiducia nelle istituzioni rendendosi responsabili del massacro. Gli slogan chiarivano il nostro pensiero: «Cile, Cile, mai più senza fucile!». (salvatore ricciardi, maelstrom) (credits in nota 3) a cura di riccardo rosa ________________________ ¹ Ronald Lee Ermey e i suoi aspiranti marines in: Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick (1987) ² Dolores Palumbo, Nino Taranto, Gianni Morandi e Laura Efrikian in: Se non avessi più te, di Ettore Maria Frizzarotti (1965) ³ Diego Armando Maradona ferisce, sparandogli con un fucile ad aria compressa, quattro tra le decine di giornalisti che, in accampamento fuori i cancelli della sua villa di Buenos Aires, gli assediavano casa (1994)
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parola della settimana
La parola della settimana. Pianeta
(disegno di ottoeffe) «La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei». «Cosa?». «Nessuno ne sentirà la mancanza». «Ma dove crescerà Leo?». «L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva». «Potrebbe esserci vita in altri luoghi…». «…ma non c’è». «E tu come lo sai?». «Perché io so le cose». (dialogo tra justine e sua sorella claire, melancholia, di lars von trier) Siccome le cose non vanno un granché ultimamente, ho deciso di calcare la mano e mi sono rivisto in tre giorni tre film di Lars von Trier. Fine del mondo, scoramento, depressione, vendetta, calamità, fustigazione avrebbero tutte potuto essere parole della settimana. Ma non lo sono. Ho visto per la prima volta sia Dogville che Melancholia a un cineforum che alcuni amici tenevano nell’aula delle Mura Greche a palazzo Corigliano, sede dell’Orientale, luogo che nei miei primi anni di università mi sembrava frequentato da gente interessante, pieno di angoli stimolanti (c’era una radio in un’aula occupata proprio sopra le Mura Greche, che oggi è un insopportabile cubo bianco per lezioni che vanno quasi sempre deserte), di continui confronti, e anche scontri, di vario genere.   Del cineforum ho parlato qualche tempo fa a uno studente al primo anno di lingue e letterature moderne. Mentre provavo a dirgli del lavoro di preparazione, delle riflessioni pre e post proiezione, delle connessioni che si cercava di costruire con l’attualità, lui non riusciva a non farmi domande che solo dieci anni prima sarebbero sembrate venire da un altro pianeta. Del tipo: «Eh ma si teneva l’università aperta dopo le sei?», oppure «E il rettore lo faceva fare?», o ancora «Eh ma per i film scaricati da internet nessuno rompeva le scatole?». In effetti i film erano scaricati illegalmente, al rettore solo a volte veniva mandata una mail o un volantino per conoscenza dell’iniziativa, e lo stesso si faceva con le guardie giurate che rimanevano a sorvegliare il palazzo, preoccupandosi appena che non si esagerasse con la birra e le bottiglie in vetro. (dal blog del Cineforum Orientale 2.0) Riguardando più attentamente Dogville (2003) mi sono accorto di non aver notato, a suo tempo, una scena che in un certo senso ne anticipa un’altra, centrale, in Melancholia (2011). Nel primo film c’è Grace (Nicole Kidman) che viaggia su un furgoncino pieno di mele, dove si è nascosta per scappare dalla città. A un tratto il furgoncino viene fermato e Ben, guidatore e proprietario del mezzo in pieno spettro autistico, la stupra minacciandola di consegnarla alla polizia se avesse proferito parola. Quella scena mi è sembrata rimandare a un momento chiave di Melancholia, ovvero quando Justine (Kristen Dust) premonisce la propria depressione dovuta alla consapevolezza di una fine del mondo imminente, e si immagina addormentata sul letto del fiume come Ofelia, che in un fiume si suicida dopo aver preso atto della follia del suo Amleto, in realtà fintosi pazzo. Mentre Justine però, “sa le cose”, e sa che l’impatto con un gigantesco pianeta blu sta per distruggere la Terra, Grace non sa nulla, eppure con la stessa atarassia accetta il destino, giacendo inerme tra le mele, prima, durante e dopo lo stupro, convinta di dover comprendere, se non giustificare, tutto il male che le viene e le verrà fatto («Tu, la mia cara figlia, perdoni gli altri con delle scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa»). Grace può essere letta come una rappresentazione di Cristo, figlio del dio onnipotente e vendicativo del Vecchio Testamento, che lascia il regno del padre per andare in terra, e mondare gli esseri umani dei loro peccati, sacrificando la propria vita per loro. […] Allo stesso modo, si presta ad essere sacrificata per la salvezza morale di Dogville, lasciandosi umiliare e torturare per il raggiungimento di un bene superiore, quello morale, appunto. […] Grace distrugge Dogville, teatro del suo estremo sacrifico, come l’Io sacrificale che sfugge ad un Super Io vendicativo, per poi accettare di compiere una spaventosa vendetta. Nel momento in cui Grace dà l’ordine di uccidere tutti eccetto il cane, noi spettatori godiamo della sua vendetta. Proviamo una soddisfazione infantile e feroce nel vedere ripagati i torti subiti dalla protagonista. […] Von Trier descrive nel personaggio di Grace una anti-Cenerentola, che non viene ripagata con l’amore per essersi fatta maltrattare con educazione e gentilezza; una versione femminile del Tito Andronico di Shakespeare che pretende sangue per sangue, mano tagliata per mano tagliata, figlio per statuetta. Per il regista probabilmente non esiste alcun bene superiore, non esiste alcun dio misericordioso che ci ripaga dei sacrifici che ci siamo autoinflitti, ma solo un dio vendicativo e onnipotente. (valeria colasanti, dogville. di lars von trier, in: doppio sogno. rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni) Va detto che se davvero esiste un dio vendicativo e potente siamo probabilmente spacciati, perché deve averne le palle piene di noi tutti: La Cop30, dove si decide come evitare che il pianeta bruci a causa del riscaldamento globale, è stata sospesa per un incendio (wired, 20 novembre 2025). Eppure una volta “sapute le cose” si potrebbero ancora immaginare delle strategie: Scoperta una Super-Terra, c’è vita sul pianeta GC 251 C? Il pianeta è a “soli” 20 anni luce da noi. E potrebbe ospitare acqua (adnkronos, 24 ottobre 2025) Le ricette non mancano: I filtri nei condizionatori aiutano a salvare il pianeta (hdblog.it, 28 ottobre 2025) A Spoleto un murale per salvare il pianeta (spoletonline.com, 19 settembre 2025) Più tasse a Bezos per salvare il pianeta: maxi striscione di Greenpeace a Venezia (vez.news, 23 giugno 2025) Salvare il pianeta… dagli ambientalisti (corriere della sera, 25 settembre 2025) Diamo dunque il benservito a ogni Grace e Justine: quello che conta è agire! La Danimarca vuole salvare il pianeta… macellando nel suo regno balene e delfini (tviweb.it) (e questo sì che lo farà ammattire, povero principe). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/amletomonitor.mp4 (credits in nota 1) a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Pino Micoli e Giulio Pizzirani in: Amleto, di Maurizio Scaparro (1973)
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parola della settimana
La parola della settimana. Fondo
(disegno di ottoeffe) Il secchio gli disse, gli disse: “Signore, il pozzo è profondo. Più fondo del fondo degli occhi, della notte e del pianto”. Lui disse: “Mi basta, mi basta che sia più profondo di me”. (fabrizio de andrè, andrea) Ha girato molto in questi giorni un articolo scritto dal geologo Benedetto De Vivo e dal tossicologo Maurizio Manno che spiega cosa stanno rischiando di combinare il governo Meloni, il sindaco Manfredi e tutta la struttura commissariale per la bonifica e rigenerazione di Bagnoli, smuovendo il fondo delle acque che circondano la colmata a mare. Un disastro ambientale che segue quello politico, abbiamo titolato su Monitor, un andarsi a cercare la catastrofe con le proprie mani, scavando lì dove non c’è da scavare. (credits in nota 1) Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia. Di conseguenza religioni di due specie si dànno a Isaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento che tirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d’acqua, i tubi verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le aeree impalcature d’Isaura, città che si muove tutta verso l’alto. (italo calvino, le città invisibili) Ha ufficialmente chiuso le proprie attività, a inizio di questa settimana, Scion Capital, il fondo finanziario statunitense di Michael Burry, diventato celebre grazie al film The Big Short (La grande scommessa) sulla crisi finanziaria dei subprime del 2008. La decisione sarebbe maturata in un contesto di preoccupazione diffusa a Wall Street rispetto alle valutazioni gonfiate raggiunte in borsa dai giganti della tecnologia e dell’Intelligenza Artificiale. Burry aveva ottenuto fama e successo per aver previsto lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, un cataclisma finanziario che aveva portato a un quasi-crollo del sistema economico internazionale e aperto una stagione di tutt’ora attive crisi strutturali. Nell’ultimo anno aveva perso diversi milioni di euro per aver scommesso contro aziende come Nvidia e Palantir e forse anche per questo ha deciso di restituire i capitali agli investitori e ritirarsi. Le sue accuse sono comunque piuttosto pesanti: “L’investitore ha pubblicato su X un’analisi dettagliata in cui sostiene che le grandi società tecnologiche stiano manipolando i loro bilanci attraverso un trucco contabile apparentemente semplice ma dalle conseguenze enormi. Burry accusa gli hyperscaler, termine che identifica i principali fornitori di infrastrutture cloud e AI come Microsoft, Meta, Google, Amazon e Oracle, di sottostimare artificialmente l’ammortamento dei loro asset tecnologici. In pratica, secondo Burry, questi gruppi avrebbero esteso la vita utile stimata dei loro chip e server da tre anni a sei anni, permettendo di spalmare i costi su un periodo più lungo e gonfiare i profitti nel breve termine. Secondo il celebre investitore si tratterebbe di “una delle frodi più comuni dell’era moderna”. Burry prevede che tra il 2026 e il 2028 queste società registreranno un’ammortamento inferiore al reale per 176 miliardi di dollari, il che farà apparire i loro profitti più alti di quanto siano in realtà: secondo le sue stime, Oracle sopravvaluterà i profitti del 26,9% e Meta del 20,8% entro il 2028″. (riccardo piccolo, wired.it) Negli stessi giorni in cui Scion Capital chiudeva i battenti, un altro fondo di investimenti americano, Apollo Global Management, è diventato il nuovo azionista di maggioranza della squadra di calcio dell’Atletico Madrid. La proprietà americana ha acquisito il 55% delle azioni della società sborsando una cifra di quasi un miliardo e mezzo di euro, poca roba considerando che Apollo gestisce circa novecento miliardi di dollari di asset (la sola divisione sportiva del fondo ha una liquidità da investire a effetto immediato di cinque miliardi, uno dei quali sarà dedicato alla costruzione di una cittadella sportiva e mega-centro di intrattenimento a pochi passi dallo stadio Metropolitano di Madrid, su terreni ottenuti in concessione per settantacinque anni). Curiosamente, il lancio di stampa e le prime interviste da parte dei dirigenti del fondo Apollo sono arrivate nel giorno dell’anniversario di un altro lancio, di un altro Apollo (il 12), protagonista della seconda missione con cui la Nasa spediva degli umani sulla luna. La missione non iniziò con i migliori auspici, perché il razzo fu colpito da due fulmini nei primi secondi di ascesa, ma raggiunse poi la superficie del satellite, effettuò dei rilievi e in particolare il suo equipaggio riuscì a recuperare alcune parti della sonda robotica Surveyor 3, consentendo successive analisi senza precedenti. A seguire potete guardare la versione integrale di Le Voyage dans la lune, film fantascientifico del 1902 girato dal visionario regista Georges Méliès, considerato tra i padri del cinema insieme ai fratelli Lumière: (credits in nota 2) Nella cultura norrena il termine Ragnarǫk indica una serie di eventi catastrofici che provocheranno un’apocalisse e la distruzione dei nove mondi mitologici. Tra questi eventi vi sono varie calamità naturali, l’incendio e poi la sommersione del mondo, la caduta degli astri fino alla cancellazione totale del creato. L’arrivo dei Ragnarǫk è preceduto dal Fimbulvetr, un rigidissimo inverno lungo più di nove mesi al termine del quale il sole e la luna saranno divorati dai lupi Skǫll e Hati, che li avevano inseguiti invano fin dall’inizio dei tempi. Il buio attaccherà la luce usando fiere come il lupo Fenrir e il mostruoso serpente Miðgarðsormr, mentre una gigantesca nave costruita con le unghie dei morti guiderà le potenze delle tenebre verso la battaglia. Lo scontro tra le forze della luce e delle tenebre, in cui ogni divinità si scontrerà con la propria nemesi, non vedrà però vincitori, ma soltanto distruzione, che avrà il suo culmine nel grande incendio provocato dalla spada di Surtr, gigante del fuoco, e dall’inondazione che sommergerà tutta la vita rimasta sulla Terra, tra cui lo stesso Surtr. La fortuna della parola e del mito dei Ragnarǫk è dovuta però alla sua capacità di indicare contemporaneamente la catastrofe massima e la rigenerazione, attraverso la nascita, dopo l’inondazione, di una nuova dinastia divina e di una nuova popolazione umana discendente da Lif e Lifbrasir, una coppia di esseri umani salvatisi dalla distruzione grazie a una foresta misteriosa in cui erano riusciti a trovare riparo. La palingenesi contestuale del mondo, degli dei e dell’umanità indica la necessità di arrivare al fondo delle cose, e di purificarsi per poter rinascere. Per evitare brutte sorprese ci si dovrà ricordare che proprio mentre il mondo starà iniziando a rivivere dalle proprie ceneri, si innalzerà in cielo come un’ombra il mostro Níðhǫggr, il “drago che vola”, la “serpe scintillante”, che porterà con sé i cadaveri dei morti, a memento del male. “E ora lei si inabissa”, dice la profezia. Forse per sempre. (a cura di riccardo rosa)
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La parola della settimana. Teatro
(disegno di ottoeffe) Da un paio di settimane infuria la polemica legata all’atmosfera dello stadio Maradona, che avrebbe perso, a detta di molti, il suo tipico ardore. La questione esiste, almeno in parte, e le possibili cause sono tante. Prima di tutto il costo dei biglietti che, moltiplicato per il numero di partite (in media si gioca in casa ogni sette-dieci giorni), fa sì che molte persone tra quelle più attive e rumorose, per esempio i più giovani, rimangano spesso escluse per motivi economici; c’è il fattore turisti, che sono sempre di più e che passano la partita a farsi selfie più che a tifare, ma è difficile pensare che questo possa avere una grossa incidenza; ci sono poi regole assurde come il divieto di introdurre nell’impianto persino fumogeni colorati, e c’è la progressiva trasformazione, a cui assistiamo da tempo, dell’evento calcistico in prodotto. Lo diceva un amico in questi giorni: cliente e tifoso sono due cose diverse, anche solo perché se il primo pretende di essere trascinato dalla squadra, il secondo ha come obiettivo quello di trascinare. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/defogiia.mp4 (credits in nota 1) Uno dei paragoni più usati per questa trasformazione, che in effetti avviene in molti stadi, è quello con il teatro («Questa è una curva, non è un teatro!», gridano gli ultras provando a far cantare i tifosi più mosci). Non fanno eccezione i tanti commentatori sportivi locali, a cui andrebbe ricordato, senza bisogno di scomodare l’antica Grecia, che il Globe elisabettiano era tutt’altro che un posto da serate di gala; o che nei teatri popolari dove, per esempio, si portava sul palco la sceneggiata, accadeva di tutto. Durante lo spettacolo la gente si alzava in piedi sulle poltroncine consumate. Gli avevano gridato di cantare ancora. Toglievano il cappello, a lui batteva più forte il cuore. […] Il popolo, quelli che altrimenti al teatro non ci vanno. Quando con l’ultima coltellata l’onore aveva trionfato, loro gli gridavano di colpire ancora. La punizione per il traditore, l’infame, ‘o malamente. Dopo essere stramazzato al suolo, ormai morto, il malamente si alzava. Come per una nuova energia, una nuova vita. Era quello che il pubblico chiedeva. Quello bisognava dargli. Chiedevano di colpire ancora, e al disgraziato di restare in piedi, solo per qualche minuto. Cantare. Tirare forte con quella lama. Delitto d’onore. Era una questione d’istinto. (riccardo rosa, la sfida. storia del re della sceneggiata) Giacché siamo all’autocitazione, tanto vale menzionare che qualche anno fa, nel mezzo di una polemica durissima tra gli ultras del Napoli e il presidente De Laurentiis, scrissi un pezzo su questo tema dell’atmosfera – lo ricordavo migliore, ma così va la vita. In realtà, fin da quando avevo vent’anni, mi è capitato a volte di ascoltare la partita del Napoli in radio, alle spalle della curva, ma con una compagnia abbastanza giusta per capire che non è lo spettacolo a fare il tifoso, ma il contrario. C’è poi un bel video in cui un ragazzino racconta di aver fatto un lungo viaggio per assistere alla partita della sua squadra (il Boca Juniors), e dichiara fiero che essere lì val bene l’aver dovuto vendere la sua Play Station, e la moto del suo papà. «E non abbiamo nemmeno il biglietto!», aggiunge. «Ma questo è il Boca: guarda!». Ho ripensato a quella scena in settimana, durante l’ultima partita del Napoli – anche quella abbastanza noiosa. Tra i cori, i megafoni, le bandiere e le mani alzate, avevo davanti un bambino incappellato, sulle spalle del suo papà: un piccolo tifoso di due o tre anni che ha fatto sentire la sua voce molto più di una buona parte della curva in cui eravamo. Dopo un’oretta è crollato, distrutto, e avendo dato tutto quello che poteva, si è addormentato. Chissà se a teatro avrebbe resistito. I’m only sleeping è solo su un primo livello di lettura un inno alla nota pigrizia di John Lennon, e un attacco alla frenesia del consumismo dei Sessanta – “Tutti sembrano pensare che sono pigro | Non importa | Io penso che sono pazzi loro | Correre ovunque a quella velocità | Finché non trovano qualcosa di cui non c’è bisogno”. In realtà, il pezzo è la traccia numero tre di Revolver, album scritto dai Beatles sotto la totale influenza dell’Lsd, tra amplificatori appesi a una corda, registrazioni riprodotte al contrario e volumi-guida come il Libro Tibetano dei Morti di Timothy Leary. Centrale in quel libro è un passaggio, poi citato in Tomorrow never know, in cui si consiglia di “credere nel proprio cervello”, “fidarsi dei propri compagni” e, davanti ai dubbi, spegnere la testa galleggiando verso la valle. I quattro Beatles avevano in quel periodo una certa esigenza di spegnerla, la testa, dopo il disastroso tour dell’estate del ’65, durante il quale folle urlanti e in delirio avevano reso frustrante ogni esibizione musicale. Un ultimo tentativo era stato fatto sei mesi dopo, ma dopo le tappe invernali la band aveva comunque deciso di scrivere un disco (Revolver, appunto) che non avrebbe potuto essere riprodotto dal vivo. A fargli cambiare idea non erano servite, evidentemente, le serate di Glasgow, Liverpool e Newcastle. In teatro. Non a tutti sta bene come Macciardi ha deciso di iniziare il suo mandato al Teatro San Carlo di Napoli. Qualcuno, in più di un’occasione, avrebbe usato questa frase: “Sono entrata da padrona, mica posso uscire da cameriera”. […] Il riferimento è alla minaccia di “spoil system” che […] l’ex sovrintendente del Comunale di Bologna avrebbe paventato. Un’operazione che potrebbe cambiare i ruoli di molte figure finite nella nostra inchiesta, e che in questi anni hanno goduto di compensi alti, spesso considerati poco regolari anche dal ministero dell’economia. Le storture sono anche di ordine “figliettistico”: l’attuale direttore artistico delle Officine Vigliena, per esempio, è il figlio della Direttrice Generale Spedaliere. E per alcune delle persone coinvolte c’è ora aria di “pensionamento anticipato”. (riccardo canaletti, mowmag.com) a cura di riccardo rosa Post Scriptum: mi sono chiesto in questi mesi se ai protagonisti del poco edificante “San Carlo-Gate” sia noto questo intervento di Eduardo De Filippo che raccontava, nella sua ultima apparizione pubblica, la dedizione, il sacrificio, la sofferenza necessari per questa nobile arte. «Così si fa il teatro», concludeva lapidario. «E così ho fatto». 
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Rewind Roma, ottobre 2025 # Un milione in piazza, scuole occupate, fascisti fuori controllo
(disegno di peppe cerillo) Mercoledì primo ottobre sera, alla notizia del sequestro di alcune navi della Global Sumud Flotilla in acque internazionali, succede l’incredibile: decine migliaia di persone si riversano nel centro di Roma a manifestare contro Israele e per la liberazione della Palestina dal giogo coloniale sionista. La manifestazione penetra nel centro storico fino a piazza San Silvestro, poi torna a piazza Esedra. Pienissimo anche l’accampamento solidale a piazza dei Cinquecento, una piazza con un nome coloniale, ribattezzata per l’occasione “piazza Gaza”. Giovedì 2 continuano le mobilitazioni: la mattina un gruppo di sionisti aggredisce  gli studenti del liceo Caravillani a Monteverde, che condivide il cortile con una sinagoga. Intanto i bambini delle scuole (Piasacane, Mazzini…) manifestano al parco vicino l’istituto, o espongono striscioni e barchette in onore della Flotilla. Nel pomeriggio un nuovo grande corteo parte dal Colosseo e raggiunge Termini; venerdì 3, giorno dello sciopero generale per la Palestina, un altro enorme corteo parte da piazza dei Cinquecento e raggiunge la tangenziale: la testa incontra la coda, circondando la polizia sul ponte dell’A24. Ma i palazzi del potere sono lontani. La sera un medico dello Spallanzani che tornava da un flash-mob di sanitari per la Palestina viene aggredito da tre sionisti. Arriva infine il 4 ottobre, il giorno della manifestazione nazionale: centinaia di migliaia di persone si riversano sulla capitale da tutta Italia, gli enormi viali e spazi vuoti che Leopardi considerava creati per separare le persone sembrano invece non riuscire più a contenerle. Quando inizia a riempirsi piazza San Giovanni – che già di suo contiene centomila persone – piazzale Ostiense è ancora pieno. La manifestazione occupa oltre centocinquantamila metri quadri di spazio urbano, trasformati in un fiume denso di gente. A fine corteo un gruppetto per lo più di giovani che si era staccato dalla coda viene attaccato dalla polizia, che li schiaccia contro la cancellata di Santa Maria Maggiore. Spaccano la testa a una ragazza, identificano tutti e ne arrestano due a caso. In centinaia tornano su dal corteo in solidarietà: ci sono scontri fino alle 22. Intanto una ventina di energumeni di Casa Pound aggrediscono i manifestanti a piazza Vittorio, ma la polizia non arriva. I due fermati vengono processati il 5, un gruppo di solidali si raccoglie davanti al tribunale per l’udienza, poi vengono liberati. Manifestazione anche a Ostia: lo striscione dice: “Il litorale soffia sulle vele della Flotilla“. Il 7 ottobre nel presentare le scuse alla preside del Caravillani per l’aggressione agli studenti da parte di venti adulti della sinagoga, l’ex presidente della comunità ebraica Pacifici accenna alla possibilità di essere picchiati se si protesta per la Palestina, perché “non tutti hanno lo stesso self control”. Nessuna personalità condanna le sue parole. Nel frattempo studenti e studentesse occupano il Kant al Nomentano, il Socrate a Ostiense, e il Levi-Civita al Pigneto; l’8 anche il Plauto sulla Pontina e l’Augusto al Tuscolano, sempre con in solidarietà con la Palestina. Grande corteo serale dal Colosseo. Il 9 chiude il Caffè Greco di via dei Condotti, aperto nel 1760: tra i clienti ha avuto Canova, Goethe, Baudelaire, Joyce, Guttuso. La proprietà, l’Ospedale Israelitico, aveva decuplicato l’affitto, chiedendo centocinquanta mila euro al mese, oltre ad aver sottratto al locale trecento opere d’arte vincolate. Nel frattempo un’altra donna viene sfrattata al Quarticciolo: comune, regione, prefettura e Ater la sbattono in strada ridendo del suo dolore, mentre devastano il suo appartamento. Venerdì 10 assemblea pubblica ai giardini di piazza Vittorio: quasi mille persone discutono con i partecipanti della Flotilla sulle prossime azioni dell'”equipaggio di terra”. Dentro San Pietro un signore si abbassa i pantaloni e piscia sul baldacchino del Bernini. Intanto continuano i presidi per la Palestina, quasi quotidiani: il 12 a Frascati, il 13 alla Figc, contro la partita Italia-Israele  a Udine; il 15 contro il Festival del Cinema all’Auditorium, che ha in programma film israeliani nonostante il Bds, e nonostante le richieste della Corte Penale Internazionale. Inizia l’occupazione anche al Tasso. Il 16 presidio davanti alla FAO, in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, perché il cosiddetto “piano di pace” non ha aperto il valico agli aiuti umanitari: la carestia provocata da Israele continua. Il 17 ottobre notte a Campo Ascolano, vicino Pomezia, esplode una bomba accanto all’auto di Sigfrido Ranucci di Report, minacciato dal 2021 e sotto scorta. Il 18 sit-in davanti alla Rai di via Teulada in sua difesa. Il tribunale di Roma riduce a dieci giorni la sanzione di sei mesi per Christian Raimo, professore accusato di aver criticato il ministro dell’istruzione. Il 19 notte studenti e studentesse del Morgagni provano a occupare la loro scuola a Monteverde, ma vengono presi a pugni da un gruppo di persone tra cui i loro professori e la preside, che provano a fermare l’occupazione con la forza. Il 20 a Rieti un gruppo di ultras fascisti della Sebastiani Rieti Basket prende a sassate il pullman dell’Estra Pistoia Basket, uccidendo uno dei due autisti. La notte vengono occupati sia il Manara a Monteverde che l’Albertelli all’Esquilino. Il 21 all’Hotel Parco dei Principi di Villa Borghese si presenta il Progetto Civico Italia, promosso dal Commissario ai grandi eventi Alessandro Onorati, alla presenza di alte personalità del Pd e del Movimento 5 Stelle. La sera c’è una protesta contro l’inaugurazione del congresso Cyber Tech alla Nuvola dell’Eur: uno schiaffo a chi sperava che un genocidio avrebbe fermato il business delle armi e della sorveglianza. Il 22 viene annullata una conferenza al liceo Righi (già noto per questo caso) a cui avrebbe partecipato un membro della Flotilla e lo storico israeliano antisionista Ilan Pappé, per presunti problemi di “sicurezza”. In risposta, il 23 studenti e studentesse occupano la scuola. Protesta al Pigneto per Tarek, detenuto per una manifestazione dell’ottobre scorso per la Palestina. La notte un gruppo di una quindicina di neofascisti attacca il liceo Bramante occupato al Tufello; lo stesso accade la notte successiva. Il 24 mattina la Regione demolisce un gruppo di case abusive sulla riva del Tevere, altezza Magliana: sbattuti in strada anziani, disabili, bambini, neonati, senza alcuna soluzione tranne lo smembramento delle famiglie, che ovviamente non accettano. Presidio a Regina Coeli per Tarek; intanto la polizia usa gli idranti contro un altro corteo per la Palestina diretto alla Festa del Cinema. Il 25 manifestazione della Cgil a San Giovanni. La notte muore una ventenne in un bruttissimo incidente sulla Colombo: nei primi mesi del 2025 ci sono stati più di mille morti sulle strade in Italia. Il 27 grossa operazione della polizia a Ostia, presentata come risposta a una bomba carta lanciata contro un locale del litorale. Protesta di commercianti bengalesi a Don Bosco per la “sicurezza”. Arriva a Roma il relatore speciale dell’Onu Raj Balakrishnan, che a febbraio ha scritto una lettera al governo chiedendo spiegazioni sugli sfratti di sette famiglie a Roma. Il governo ha risposto che va tutto bene e che sono grandi fan dei diritti umani. Il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, la polizia presidia i dintorni di via Gattamelata al Prenestino, dove cinquant’anni fa fu ucciso un giovane militante neofascista: il 29 mattina il sindaco Gualtieri depone una corona di fiori in suo onore, e nel pomeriggio un centinaio di persone si radunano nel parco a lui dedicato a piazza dei Condottieri. Li proteggono un centinaio di poliziotti e guardie di finanza, mentre la chiesa suona le campane. Manifestazione davanti all’Ater su Lungotevere Tor di Nona, contro la vendita degli alloggi popolari e la speculazione sulle indennità di occupazione. Il 30 a Ostia esplode una bomba carta in un palazzo di via della Tortuga, proprio accanto al murale in memoria di un ragazzo accoltellato sempre nello stesso quartiere. A piazza Santi Apostoli la manifestazione per Israele “con gli ebrei a testa alta” raccoglie pochissime presenze, ma molta visibilità mediatica: una giornalista viene cacciata e chiamata “rotta in culo”. Intanto si avvicina il cinquantesimo anniversario dell’omicidio di Pasolini: il 31 a Ostia si organizza una celebrazione alternativa rievocando la partita di calcio che si giocava quel giorno del 1975, nei prati di via dell’Idroscalo. (stefano portelli)
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La parola della settimana. Fuoriclasse
(disegno di ottoeffe) O’ Ge’, nun chiagnere: ‘o nonno fotte pure ‘a morte. Appena ‘a sente ca sta pe’ arriva’, ‘o nonno se ne va. Se ne va e nun se fa truva’. (napoli centrale, ‘o nonno mio) C’è stato un periodo, persino in questo medievale paese, in cui anche artisti o scrittori famosi e di successo, che si muovevano nel mainstream del mercato culturale, prendevano posizioni estreme e scomode, rivoltando da capo a piedi il dogma con un disco, raccontando la democrazia come privilegio di classe, denunciando sul principale quotidiano italiano i mandanti di un colpo di Stato portato avanti a suon di bombe. Per poterlo fare, naturalmente, la politica, o quantomeno il mercato, dovevano trovarci una convenienza, il che vuol dire che quella roba doveva essere fatta con una qualità sopra la norma. Un romanzo buono ma innocuo è preferibile per un editore a uno buono ma dirompente, altrimenti d’altronde non ci sarebbero così tanti scrittori scarsi famosi. Il problema sorge quando c’è da scegliere tra una cosa buona ma innocua e una eccezionale ma che ti può portare grane. È così che certe cose, a volte, passano. Ma per farle passare ci vogliono i fuoriclasse.   (credits in nota 1) È morto mercoledì a ottant’anni James Senese, strumentista fuoriclasse, uno dei più grandi sassofonisti italiani della musica contemporanea, proletario nato in una periferia napoletana che all’epoca era un paesino di campagna, dalla relazione tra sua madre e un soldato afroamericano tornato in patria poco dopo la sua nascita («Avrà avuto le sue ragioni», rispondeva il sassofonista a chi gliene chiedeva conto). Senese era al primo impatto disturbante (un suo esilarante ritratto emerge nella stranota scena di No grazie, il caffè mi rende nervoso): nel suo modo di porsi, nelle movenze, nella lingua che usava. Era difficile, da questo punto di vista, capire se avesse difficoltà con l’italiano – così come gli dice proprio Arena – o se semplicemente non gli interessava comunicare in una lingua che non sentiva sua. Durante un’intervista che rilasciò qualche anno fa a Marzullo (non si sa perché, ma la Rai l’ha rimossa da Youtube…) passò due-tre minuti a contraddire l’intervistatore che lo definiva “italo-americano”. Quando Senese è morto sono andato a rivedermi Harlem Meets Napoli, documentario cult della Rai che racconta l’esibizione di una buona parte dei fuoriclasse del Neapolitan Power al fianco di James Brown, dei Temptations, di Lester Bowie (che a un certo punto dice: «Sentiamo che a Napoli sta accadendo una rivoluzione musicale…»), e di altra gente di questo calibro. Prima di allora, a quanto pare, a nessun musicista bianco non statunitense era stato concesso di suonare all’Apollo Theatre di Harlem. Al di là della musica, nel documentario sono esilaranti le scene del viaggio, e in particolare quelle che si svolgono a tavola, sempre in dubbie trattorie e ristoranti. Questa è la mia preferita: (credits in nota 2) Se è vero che la classe si esprime su tanti livelli, la politica non fa eccezione. È anche quella un conflitto costante, per dirla alla Nietzsche, tra Apollo e Dioniso, o tra ragione e sentimento se preferite (cfr. Nazionale, 1997). La settimana scorsa una ventina di attivisti napoletani l’ha fatta sotto al naso alla polizia, introducendosi con una elaborata strategia (pagando il biglietto!) in un padiglione della Mostra d’Oltremare – spazio pubblico di proprietà del comune di Napoli – dove si svolgeva la fiera farmaceutica Pharma Expo. Il gruppo si è avvicinato allo stand dell’azienda israeliana Teva – multinazionale che supporta con azioni concrete il regime sionista e il suo esercito –, mentre alcuni esponenti del gruppo Sanitari per Gaza leggevano una lettera di denuncia e di incitamento al boicottaggio. Una volta conclusasi la contestazione, mentre gli attivisti stavano uscendo dalla Mostra, tre di loro sono stati arrestati, condotti in questura e poi in carcere, dove hanno passato tre notti e tre giorni. Le accuse di resistenza e violenza appaiono grottesche, anche perché nei video si vede benissimo che nessuno tra i manifestanti commette alcuna azione illecita. Ancora più assurdo, oltre all’insensatezza di tenere in carcere tre persone che non hanno fatto nulla, è il fatto che una volta rilasciati i tre attivisti siano stati sottoposti all’obbligo di firma per tre volte a settimana. La misura sembra essere stata assegnata in via del tutto strumentale, vista la scelta del pm di non svolgere un processo per direttissima che avrebbe portato a una immediata assoluzione degli imputati e spostato il focus sulle violenze, l’arresto arbitrario e le ricostruzioni della polizia. Ora, se fossi un giornalista di Fanpage o un esponente di un partito di sinistra direi che “l’aria che c’è in giro non mi piace per niente”, e che “stiamo vivendo una fase politica molto delicata”, che “è necessario vigilare sulla democrazia a rischio”. In realtà, succede semplicemente che essendoci un governo di destra, che legifera e agisce in una certa direzione, polizia e magistratura si sentono più tranquilli nel fare quello che più gli piace fare, ovvero esercitare senza limitazioni, e se possibile regole, il proprio potere. Se fossi un maestro elementare, invece, ora mi auto-assegnerei un 4, perché sto andando fuori traccia. Quindi metto un disco dei Napoli Centrale e mi preparo per andare a Materdei a sistemare le ultime cose di Arte contro le pene capitali. Dormono ‘e schiave d’o faraone sazie d’aglie, sazie ‘e fatica, mentre ‘e piramide s’alzano ‘o cielo ca cielo nun è. […] Dorme ‘o surdato ‘ngrassanno ‘a terra, speranno ca almeno chesta fosse l’ultima guerra. Nun ce penza’, statte tranquillo: dimane ‘sta terra a ‘ngrassa pure a tuo figlio. (napoli centrale, ‘o lupo s’a mangiato ‘a pecurella) a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Franca Rame in: Lo Stupro, Fantastico 8 (Rai 1, 1986-87) ² James Senese, Tullio De Piscopo e Tony Esposito in: Harlem meets Napoli, di Ruggero Miti (1987)
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La parola della settimana. Macchina
(da: crash, di david cronenberg) E la macchina sia alleata non nemica ai lavorator. (l’internazionale, versione italiana) Per varie ragioni, negli ultimi tempi, ho letto un po’ di cose sul rapporto tra l’uomo e la macchina. Così venerdì sono andato a rivedermi Crash, il film di Cronenberg forse più angosciante. L’avevo visto una sola volta, una vita fa, durante un corso di Storia e critica del cinema all’Orientale, e mi aveva colpito, complice l’atmosfera sepolcrale delle Mura Greche, il suo nichilismo visionario senza scampo. Quegli uomini e donne che si trascinano nella metropoli, capaci di trovare uno slancio solo verso la morte e attraverso la penetrazione-lacerazione, oggi mi sembrano invece molto plausibili, ancorati alla realtà, più contemporanei ancora dei personaggi di un altro film di C. più recente, che ho amato molto, e che racconta tra le altre cose il farsi esibizione di questo rapporto tra il taglio e l’erotico («La chirurgia è il nuovo sesso»). Quando costruiamo delle macchine è come se fosse la nostra versione del corpo umano. Nel senso che il corpo umano è una macchina. È quello che William Burroughs ha chiamato “the soft machine”. È interessante perché quando apri una macchina vedi la mente dell’uomo che l’ha progettata. […] Mi piace molto lavorare sui motori delle moto e delle auto. In questo modo hai l’intera storia dell’uomo, la tecnologia, il design, la razionalità. […] È un’avventura filosofica lavorare su una macchina. (david cronenberg intervistato da enrico ghezzi per fuori orario, 1988) (credits in nota 1) Alla sua uscita, non capendoci molto, tanti critici bollarono Crash come una sorta di techno-porno. A Londra l’uscita della pellicola fu vietata per molti mesi, in Italia la Repubblica pubblicò due articoli violentissimi firmati da Irene Bignardi. So che i critici italiani hanno scritto che Crash era pornografia ma, guardando film pornografici non mi sembrava che avessero nulla a che vedere con il mio. Forse il problema è strutturale: può darsi che non abbiano mai visto un film che apre con tre scene di sesso e che non sia un porno. È vero che in Crash sono le scene erotiche a portare avanti la narrazione, come nel cinema porno, ed è vero che quelle scene si possono descrivere molto semplicemente come: gente a letto che si dice porcherie e poi ha grossi orgasmi. Ma mi sembra che il modo in cui le scene sono costruite, funzionano nel film e in quello che dicono sia tutto diverso da un film porno. (david cronenberg intervistato da giulia d’agnolo vallan per il manifesto, 1996) Chissà se Cronenberg ha mai conosciuto Carmine Attanasio, o se ha mai saputo che nel novembre di quello stesso anno il leader dei Verdi napoletani propose un ordine del giorno in consiglio comunale per vietare la pellicola anche in Italia. Lo firmarono diciotto consiglieri di Alleanza Nazionale e Rifondazione Comunista, ma l’interpellanza non passò.   Sono in molti, a quanto sembra, a temere un immaginario fatto di violenti urti di carrozzeria e corpi cicatrizzati, post-organici. E l’onda di disgusto si propaga con rapidità: dall’Inghilterra (il film è in attesa di visto), alla pudica America (che rimanda la sua uscita), il “testimone censorio” passa, a sorpresa, a Napoli. Sì, proprio a Napoli, città-modello delle giunte di sinistra. Che si risveglia in un ventoso giorno di novembre stringendo in mano un’interpellanza comunale […] che chiede di bloccare la pericolosa pellicola girata da Cronenberg. Prima ancora che circoli e sia vista, naturalmente. Per pura prevenzione sociale. (arianna di genova, il manifesto) Qualche giorno fa, passeggiando a sera molto tarda per il mio quartiere e attraversando alcuni dei suoi angoli più reconditi, mi sono reso conto della quantità di gente che di notte dorme in macchina, come tra l’altro il personaggio più assurdo e affascinante di Crash («Vivi qui?». «No, io vivo in macchina. Questo è il mio laboratorio»). Il giorno dopo abbiamo pubblicato su Monitor questo articolo molto preciso sulla tragedia di quei tre fratelli che si sono barricati nella loro casa e poi l’hanno fatta esplodere, uccidendo tre carabinieri e innescando contemporaneamente gli ingranaggi di un’altra macchina, molto ben rodata. La notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti: 8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non ce la faccio più”). 15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo. 16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello sfratto”. 19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni. La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da tutti. Tuttavia, trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo impermeabile a ogni analisi, rassicurante, funzionale allo status quo. (antonio malatesta, napolimonitor.it) Nonostante le ripetute rassicurazioni da parte del sindaco di Napoli e dei suoi assessori, le famiglie dell’ex Motel Agip di Secondigliano, sfrattate dall’edificio comunale e abbandonate, sono ancora in strada senza aver ricevuto nessuna proposta alternativa se non la solita elemosina in denaro, in una città in cui il mercato immobiliare impone il possesso di ben altre cifre, e soprattutto garanzie, per potersi assicurare un tetto. Contestato nel corso di un’iniziativa pubblica, il sindaco ha definito le persone che protestavano – molti ex abitanti dell’edificio e un gruppo di solidali − “professionisti della protesta”. Personalmente, l’arroganza e l’indifferenza politica dell’ex rettore mi disgustano quanto gli strali dei tanti che stanno strumentalizzando questa vicenda in vista delle elezioni regionali di novembre, mentre estrema tenerezza provo per quelli che già si stanno allineando verso un “fronte delle sinistre”, al fine di tirare la volata all’improponibile ricandidatura a sindaco dell’ex magistrato vomerese che già abbastanza danni ha fatto alla città in dieci anni di governo. a cura di riccardo rosa
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