(disegno di ottoeffe)
C’è un povero cristo fuori al tribunale di Napoli che campa vendendo bloc notes,
penne, accendini, manifestini di lutto per la Juventus. Ha anche qualche marca
da bollo in tasca, e quando gli avvocati, che lo conoscono tutti, sono in
ritardo e devono sbrigarsi perché l’ufficio chiude, le prendono da lui e gli
fanno un regalo.
Il tizio avrà più di sessant’anni. La sua vita è un disastro – me l’ha
raccontata venerdì in pochi minuti – e non sta nemmeno troppo bene con la testa.
Ha tutta l’aria di chi non sarebbe capace di far male a una mosca, eppure la
guardia giurata del tribunale, uno con gli occhiali da Rambo e pistole
d’ordinanza sul fianco, gli ha dato addosso perché pretendeva di decidere il
limite spaziale entro cui il tizio poteva o non poteva esercitare il suo
commercio. Non parliamo del cancello del tribunale, dove finiva la giurisdizione
di Rambo – che non essendo neppure capace di vincere un concorso nella
penitenziaria opera per conto di quelle agenzie di mercenari, spesso controllate
dal Sistema, e che quindi ha esattamente i miei diritti e quelli di chiunque
altro a (non) decidere cose che riguardano la pubblica via. Parliamo della
strada, per la precisione della fermata di un autobus. Eppure, nella sua testa,
Rambo pensava di poter comandare. È finita a insulti alle mamme e con l’apertura
di una riflessione sull’idea di limite.
Ti farò male più di un colpo di pistola
È appena quello che ti meriti
Ci provo gusto, me ne accorgo, e allora?
Non mi vergogno dei miei limiti (e lividi)
(subsonica, colpo di pistola)
Una prima definizione matematica di limite pare sia attribuibile a tale
Augustin-Louis Cauchy, matematico di inizio Ottocento, e qualche decennio dopo a
Heinrich Eduard Heine. Smanettando in rete mi sono reso conto che almeno due-tre
degli studiosi che hanno toccato questa materia hanno avuto problemi
psichiatrici. È successo a Weierstrass, tedesco, padre dell’analisi moderna
(quella matematica, ovviamente): suo padre, ufficiale del governo tedesco di
Boemia, lo costrinse a studiare legge a Bonn, ma lui non combinò niente e anzi
si avvicinò da autodidatta alla matematica e al gruppo del Crelle’s Journal, che
oggi è la più antica rivista di matematica esistente.
A un certo punto il giovane Karl se ne va a studiare a Munster (che solo per una
strana coincidenza legata ai natali di un mio amico è la squadra tedesca per cui
tifo), rompendo con il padre, e diventa un grande esperto di funzioni
ellittiche, ma anche un alcoolizzato, sviluppando problemi psichici e nevrosi di
vario tipo.
Anche Cantor, uno dei più grandi matematici della storia (per intenderci, quello
che ha inventato gli insiemi), soffrì di una grave depressione, perché isolato
dalla comunità scientifica. Cercò invano supporto in papa Leone XIII e forse
anche per questo arrivò a identificare il suo rigorosissimo concetto di infinito
assoluto con… Dio. Passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio, ad Halle.
L’esaltazione creatrice è intimamente legata alla malinconia, sorella della
depressione e figlia della mania, ma anche parente vicina della follia, dal
momento che l’opera non è più sufficiente a contenere tutte le tensioni. […] Il
romantico-melanconico coniuga la tristezza al quotidiano e contempla il suo
dolore nella profonda solitudine del ripiegarsi su se stesso. “La malinconia è
la felicità di essere triste”, scrive Victor Hugo ne Les travailleurs de la mer.
Vi si fondono molto intimamente un’attitudine filosofica, la ricerca poetica e
la malattia depressiva, condizioni che caratterizzano dolorosamente questi
insaziabili sogni d’assoluto. (philippe brenot, le génie et la folie –
traduzione mia)
È interessante come la matematica associ il limite a quest’idea di assoluto,
mentre per la semantica lo stesso vocabolo indica una linea terminale o
divisoria, un confine.
Qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro curato da Miguel Angel Valdivia, che
si chiama appunto Confini, dove dialogano quattro storie di quattro disegnatori,
Andrea De Franco, Federica Ferarro, Mario Damiano e Adriana Marineo. I quattro
interpretano il concetto in maniera ora concreta ora metafisica, interrogandoci
non solo sull’idea di limite, ma anche se non soprattutto su quella dello spazio
che si trova prima e dopo di questo.
(disegno di andrea de franco, da: confini)
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni dei Duemila andava in onda ogni
pomeriggio su Rai Uno (o forse Rai Due) un programma che si chiamava Ci vediamo
in Tv, condotto da Paolo Limiti, autore televisivo (Rischiatutto), scrittore di
canzoni (La voce del silenzio, Stupidi, Adagio) e regista radiofonico (Il
maestro e Margherita).
Per quanto ricordi, la trasmissione era un viaggio nostalgico durante il quale
si esibivano cantanti perlopiù ottuagenari, rievocando spesso le storie
all’origine di brani che erano stati grandi successi anche cinquanta o
sessant’anni prima. Vi partecipavano Milva, Ornella Vanoni, Mirna Doris, Angela
Luce − cult una sua appassionata esibizione in L’urdema tarantella
(Bovio-Tagliaferri, 1936) per la quale rivendicava, con solennità, di aver
ricevuto un premio come “unica, grande, sola, vera interprete del sentimento
della canzone napoletana”.
L’urdema tarantella racconta la drammatica uccisione da parte di una donna
gelosa dell’amante del marito, davanti la chiesa della Madonna della Catena, che
a Napoli si trova in via Santa Lucia, così chiamata in riferimento al miracolo
con cui Maria salvò dalla condanna a morte tre innocenti, nella città di
Palermo, spezzando le loro catene. Un’altra drammatica uccisione legata a quella
chiesa fu quella dell’ammiraglio Caracciolo, che lì riposa in pace: Caracciolo
fu arrestato e fatto uccidere dall’ammiraglio Nelson in persona, dopo aver
combattuto contro la flotta borbonica che cercava di restaurare l’ordine dopo le
sollevazioni della Repubblica Napoletana.
Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata Minerva; il
suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno
susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo
due giorni, il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi
del re. Fu raccolto dai marinari che tanto l’amavano, e gli furono resi gli
ultimi offici nella chiesa della Santa Lucia che era prossima alla sua
abitazione. (mariano d’ayala, saggio storico sulla rivoluzione di napoli 1799 di
vincenzo cuoco e sulla vita dell’autore)
Ma in matematica, il limite – e qui spero di non deludere C., matematica e
scrittrice ben più raffinata di quell’altra ahinoi, invece, più famosa e potente
– serve a descrivere che cosa accade a una successione di numeri quando la
variabile si avvicina sempre di più a un certo valore, senza doverlo per forza
raggiungere. In parole povere, è come avvicinarmi alla felicità, senza mai
poterla neppure sfiorare, ma andare sempre nella stessa direzione, in modo che
sarà inequivocabile che quella costituisce il mio limite.
Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?
(estragone, in: samuel beckett, aspettando godot)
a cura di riccardo rosa
Tag - rubriche
(disegno di ottoeffe)
Amame e damme ‘o bene quanno nun m’o merito
tanno n’aggio bisogno,
l’aggio appreso int’e prete e nun m’o scordo.
(co’sang, povere ‘mmano)
In epoche di scosse telluriche ed emotive mi sono ritrovato a discutere più
volte il concetto di “merito”, mantra della tirannia capitalista e dogma che
assume l’iniquità come effetto collaterale di una selezione fintamente naturale.
Ne ho parlato per quasi un’ora con un gruppo di adolescenti con cui sto
lavorando in una scuola non lontano da casa, che l’hanno associata per lo più al
mondo dello sport (“vincere con merito”, “meritare la vittoria”), a una presunta
eticità (“onore al merito”, “meritare un riconoscimento”), e qualcuno
addirittura a un vecchio adagio di curva, non so attraverso quali canali
giuntogli alle orecchie (“chi milita, merita”).
Pochissimi tra loro, per fortuna, l’hanno associato alla scuola. Su venticinque
ragazzi e ragazze, anzi, soltanto sei conoscevano l’assurdo nome dato
dall’attuale governo neofascista al ministero che organizza la loro vita
scolastica (ho dovuto fargli notare che il fascismo nasce come braccio armato
del grande capitale, che dell’ideologia del “merito” ha bisogno come il pane).
Il latino, la Bibbia, l’Occidente. Questo è il nuovo programma scolastico 2026
(elle, 14 marzo 2025)
Scuola, passa la riforma del voto in condotta: con 6 compito di cittadinanza;
con 5 si è bocciati (la stampa, 30 luglio 2025)
“A chi contesta il termine maturità, a chi lo considera superfluo, ridondante o
simbolico, rispondiamo con fermezza: questa non è una questione di parole, ma di
valori. Abbiamo scelto ‘maturità’ perché l’esame non misura solo ciò che si sa,
ma chi si è diventati. […] Chi attacca il termine non attacca un nome, ma la
centralità della formazione della persona, e noi su questo principio non
arretriamo di un passo. […] Per il governo Meloni, e per il ministro Valditara,
il cuore di questa riforma è proprio questo: restituire centralità alla persona,
restituire dignità al valore educativo della scuola”. (ella bucalo – membro
della commissione cultura del senato e responsabile del “dipartimento
istruzione” di fratelli d’italia)
Per non essere troppo livoroso ho deciso di non scegliere come parola di questa
settimana né “cerchio” né “botte”, e di non dare troppa importanza a un articolo
pubblicato su Jacobin, organo di stampa ombra di Alleanza Verdi Sinistra e
sfogatoio delle decine di accademici e intellettuali di questo tristo paese
bisognosi di accreditarsi come “di sinistra”.
Vale però la pena ugualmente entrare nel merito di alcune riflessioni pubblicate
in questi giorni sulla stampa nazionale a corollario dell’azione effettuata da
alcuni attivisti a Torino, che si sono introdotti nella sede de La Stampa,
buttando per aria un po’ di fogli e scrivendo qualche slogan sui muri.
Su Monitor abbiamo già espresso la nostra posizione (qui e qui), ma riprendo
qualche passaggio a beneficio di chi fatica a leggere più di quattromila battute
in un solo articolo:
Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di
formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat
ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi.
Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme
sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano
nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e
dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo
specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In
essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della
vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le
cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i
preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti
(narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con
appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano
rapisce…”) e infine le buone azioni quotidiane. (goffredo fofi, l’immigrazione
meridionale a torino)
Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la
violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come
sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è
possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi
rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è
accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia
quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma
di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e
rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte
dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi
viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. (miriam abu samra, la
fiera dell’ipocrisia. intellettuali progressisti e non violenza)
Da manuale della Scuola Holden, si diceva, il pezzo pubblicato sulla questione
da Jacobin (per i meno avvezzi, la Scuola Holden è un centro di formazione – con
sede a Torino – in cui Alessandro Baricco e i suoi insegnano a giovani che sanno
usare le parole a metterle al servizio delle aziende, della politica, degli
interessi delle classi dirigenti, fingendosi pure soggetti liberi e pensanti).
Con una scaltrezza non da poco Alberto Manconi riesce, nello stesso articolo: ad
attaccare strumentalmente il governo Meloni come farebbe un esponente del Pd o
di Avs; a indignarsi per la rottura dell’equilibrio liberaldemocratico per cui
la libertà di stampa è sacra (tanto più che quel giorno i giornalisti erano “in
sciopero per poter svolgere seriamente la propria professione”); a rimestare
altra fuffa inutile, ma a essere al contempo precisissimo sui punti sostanziali
di questa vicenda, che sono il vero bersaglio del suo discorso: l’azione dei
militanti torinesi è “un errore”, “non utile”, “inefficace” e “non intelligente”
(avrebbe oscurato il fine settimana di scioperi e indirettamente il fatto che in
Palestina non ci sia ancora nessuna pace); chi l’ha compiuta ha fatto “di
tutt’erba un fascio” e creato un pretesto per una condanna da destra delle altre
posizioni di sinistra, quelle più democratiche e accettabili (vedi Francesca
Albanese); l’imam di San Salvario Mohamed Shahin sarebbe in via di deportazione
perché avrebbe “contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre”; dulcis in
fundo, La Stampa non è certo “il peggior quotidiano nel modo di trattare il
genocidio in Palestina”. Una rappresentazione plastica della lotta di classe (da
quale lato e contro chi, lo potrete capire da soli), da studiare e ricordare.
“Antisemitismo” e “genocidio”: il peso delle parole dopo il 7 ottobre
Abusare di determinati termini confonde la Storia e rischia di cancellare le
vere responsabilità morali e politiche
(la stampa, 30 agosto 2025)
Sdoganare l’antisemitismo, l’altro disastro di Netanyahu
(la stampa, 25 settembre 2025)
L’attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è
una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese.
[…] Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni –
ripropone forme di squadrismo che la storia d’Italia ha già sconfitto e
ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi
inquinare da una violenza fine a se stessa. […] Tanto più perché La Stampa è uno
dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci
palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Gaza, il terrorismo
dei coloni israeliani e le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. (rula
jebreal, la stampa, 3 dicembre 2025)
La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno
Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per
gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per
ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi
massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per
liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo
sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche
riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni
che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con
una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla
bocca di coloro che oggi solidarizzano con Gaza, invece, la parola “pace” è
scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo,
ma tutto Israele. […] I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah,
che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei
stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo.
Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in
occasione della guerra di Gaza. (marek halter, la stampa, 26 novembre 2025)
Qualche anno fa, ispirati da Aristotele ed Hegel, avevamo una rubrica su Monitor
che metteva in evidenza lo squallore di ciò “che ci meritiamo” (i giornali che
ci meritiamo; i politici che ci meritiamo; i partigiani che ci meritiamo, e così
via). Ci ho ripensato giovedì a proposito dei telegiornali, imbattutomi con g.
in un servizio del Tg2 che nel dar conto dell’ennesima strage israeliana a Gaza,
dove con la scusa di ammazzare un militare di Hamas sono stati uccisi cinquanta
civili, di cui sette bambini, si leggeva il massacro come conseguenza di un
attacco di miliziani palestinesi a una pattuglia dell’esercito sionista, che
avrebbe provocato il ferimento – fonte: l’esercito stesso – di cinque soldati.
(credits in nota 1)
Sarebbe bello, anche solo a volte, sapere cosa diavolo abbiamo fatto di male.
a cura di riccardo rosa
________________________
¹ Robert De Niro, Dennis Leary, Anne Heche, Dustin Hoffman in: Sesso e potere,
di Barry Levinson (1997)
(disegno di peppe cerillo)
Celebrazioni ovunque per il 2 novembre, cinquantenario dell’omicidio di Pasolini
a Ostia. Un’associazione dell’Idroscalo – il quartiere autocostruito a pochi
passi dal luogo dell’omicidio – ricrea la partita del ’75 interrotta allora, e
convoca gli “Stati generali dell’Idroscalo” per discutere del futuro della zona.
Il 3 crolla un pezzo della Torre dei Conti tra via Cavour e Fori Imperiali,
uccidendo un operaio romeno sessantaseienne, Octay Stroici, rimasto intrappolato
per undici ore sotto le macerie. La sera una dozzina di neofascisti fa irruzione
al liceo Righi occupato, con caschi, bottiglie e canti per Mussolini.
Il 4 il presidente del municipio V chiede la fine degli sgomberi al
Quarticciolo. Presidio davanti al ministero della pubblica istruzione contro la
censura nelle scuole e nelle università. Di nuovo un gruppo di fascisti tenta di
attaccare il Righi ma viene respinto. Il 5 sgomberi a Cinecittà, in via Eudo
Giulioli, “palazzi occupati dai latinos” secondo la stampa. Di notte ancora un
attacco di neofascisti, al liceo Aristofane occupato. Il 6 arriva a Roma il
presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, per incontrare il papa e il
presidente della repubblica. Stretta di mano con Mattarella, che continua a
inviare armi per massacrare i palestinesi. Il sindaco riceve Robert De Niro, a
cui consegna un’onorificenza, la Lupa capitolina. Poi presenta un “rapporto alla
città” che sostanzialmente dice che va tutto a gonfie vele.
Il 7 gli studenti del Righi manifestano contro le aggressioni fasciste subite
durante l’occupazione. Domenica 9 manifestazione a Fiumicino contro
la costruzione del Porto Turistico della Royal Caribbean. Il 10 il sindaco
annuncia l’accordo con Hines, una delle più grandi società di investimento
immobiliare al mondo, per cedere i Mercati Generali sull’Ostiense e farne uno
studentato di lusso. Il 12 nuovi sgomberi a Cinecittà-Don
Bosco: gli appartamenti ex tutelati saranno ceduti al Fondo Scoiattolo. Siccome
sono latinos, gli occupanti sgomberati non avranno nulla. Blitz antidroga su via
dell’Idroscalo. Il 13 un trentenne di Torbellamonaca muore al San Filippo Neri,
forse per un sedativo somministrato dopo un incidente: i parenti protestano
davanti all’ospedale. Il 14 la Regione Lazio scrive al comune di Roma ribadendo
che il bosco di Pietralata è vincolato, pertanto gli scavi archeologici per lo
stadio non possono avere luogo, nonostante gli annunci pubblici. Il 15 grande
assemblea dell’“esercito di terra” per la Palestina alla Sapienza. Al ministero
del Made in Italy un assessore scivola sulle scale e distrugge una vetrata
artistica made in Italy.
Il 16 notte tre ladri sfondano la vetrina di Louis Vuitton a via Condotti e
scappano con migliaia di euro di bottino. Fratelli d’Italia convoca una protesta
in automobile contro le piste ciclabili, ma il corteo non parte perché c’era
troppo traffico. Le auto rimangono bloccate all’Eur, dove erano state convocate.
Il 17 il Comune nomina “sindaco per un giorno” l’attore Carlo Verdone per il suo
settantacinquesimo compleanno. Il 18 il governo approva la creazione di una Zona
Logistica Semplificata nel Lazio, cioè sgravi fiscali per le imprese. A Villa
Gordiani un gruppo di una quarantina di persone capeggiate da Forza Nuova cerca
di impedire l’accesso a una casa popolare a degli assegnatari regolari,
rifugiati dei Balcani, perché rom. Il 19 un compratore anonimo acquista un
attico di duecentottanta metri quadri a piazza di Spagna, pagandolo sedici
milioni di euro, la compravendita più costosa mai realizzata a Roma.
Il 21 inizia il convegno “About a city”, in affidamento diretto alla Fondazione
Feltrinelli per sessantamila euro. La giunta approva una memoria perché le
librerie possano prendersi pezzi di strada e di marciapiede per vendere cibo e
bevande. Intanto il Consiglio di Stato annulla la proibizione delle smartbox dei
bnb e l’identificazione a distanza, approvate dopo le azioni del gruppo Robin
Hood. Il 22 grande corteo di “Non una di meno” da piazza Repubblica contro la
violenza di genere. Il 23 davanti alla stazione Lido Centro a Ostia c’è una
grossa rissa tra ventenni, tre ragazzi accoltellati.
Il 26 la famiglia assegnataria di Torre Angela rinuncia alla casa popolare per
le proteste razziste contro di loro: sindaco e dipartimento patrimonio
assecondano la richiesta dell’estrema destra di “case agli italiani”. A Ostiense
si tiene un incontro sul futuro degli ex Mercati Generali, per cui il Comune ha
già firmato una concessione con il gruppo texano Hines. Decine di abitanti
riempiono la sala per protestare contro lo studentato di lusso. Il 28 un operaio
ucraino di trentatré anni muore schiacciato da un macchinario sulla ferrovia
vicino a Civitavecchia. Muore anche un cinquantenne in motorino, scontrandosi
con un furgone al Quartaccio. Sciopero generale, e il 29 grande manifestazione
per la Palestina: centomila persone in piazza, tra loro Greta Thurnberg,
Francesca Albanese, Thiago Avila. La notte un militare della Folgore muore in un
incidente sulla Braccianese, forse per un colpo di sonno. (stefano portelli)
(disegno di ottoeffe)
L’inizio ‘ell’anne Ottanta, ‘o boom d’a robba ‘int’e fiale,
‘na Delta dint’o viale riflette cu ‘e spurtielle undice piane.
‘Mmano ‘e principiante curtiell’, bravi guagliun’ cu ‘e bazooka,
nun bazzeca nisciuno, nun pavano e cunsumano.
(co’sang, 80-90)
Un paio di settimane fa l’esercito italiano ha organizzato un’iniziativa a
Rotonda Diaz, patrocinata dal comune di Napoli e dalla Regione, per celebrare i
duemila e cinquecento anni del capoluogo campano. Diciassettemila metri quadri
di fiera promozionale del riarmo, con macchine da guerra, robot, droni e fucili
ipertecnologici.
«Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci
accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.
«Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della
mattinata…».
In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand,
ben distanziati uno dall’altro. […] Tra loro c’è qualche scolaresca elementare e
superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di
coccarde, medagliette e gradi militari. […]
All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della
rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una
fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle
superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita
scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una
di loro, l’altra fa spallucce.
(edoardo benassai, riarmo e propaganda. in gita al villaggio esercito di napoli)
Se è vero che la realtà supera la fantasia, mi è venuto da pensare che
all’appello mancavano la suora che in Brazil chiede specifiche tecniche a un
militare su una bellissima nuova mitragliatrice, e Travis Bickle, ex Marine,
tassista di notte, pornomane, sceso a Napoli per candidarsi come nuovo eroe
metropolitano con la sua Colt Python 357 Magnum. Atteso invano a lungo anche il
soldato Palla di lardo, annunciato ospite d’onore.
(credits in nota 1)
A proposito di soldati. Leggo che il ministro della difesa Guido Crosetto,
notoriamente legato all’industria bellica, ha rilanciato la proposta di una
nuova leva militare, che presenterà come disegno di legge prima al governo e poi
al parlamento. L’idea è di un meccanismo volontario, ancora da definire.
L’obiettivo sarebbe quello di una riserva di almeno diecimila persone, per farsi
trovare pronti alla guerra.
Il ponte sullo Stretto rappresenterà un punto importante per il trasporto, per
l’evacuazione e per garantire la sicurezza nel caso di un attacco da Sud del
fronte Nato. […] Non è solo l’acquisto di armi, la sicurezza. Ho una visione
della sicurezza molto ampia. Le infrastrutture sono fondamentali per garantire
la sicurezza. Credo che si debbano inserire anche ospedali militari, e non solo,
negli interventi e nel conto della percentuale di spese per la sicurezza.
Immaginiamo un ospedale specializzato per le vittime di attacchi Nbc
(nucleare-batteriologico e chimico). Speriamo che non accada ma bisogna essere
pronti. (antonio tajani, ministro degli esteri)
Il livello di analisi di Tajani è pari al mio quando auspico che entro una
cinquantina d’anni il continente africano sarà stato ridotto talmente allo
stremo che la sua intera popolazione si riverserà via mare verso le coste
europee, e saranno talmente tanti e arrabbiati che nulla potranno i cannoni
della Nato per arginare l’invasione.
A questi ottimistici discorsi da bar fa da contraltare la retorica paradossale
per cui l’esercito sarebbe il più importante attore nel percorso verso la pace
universale nel mondo. Si sente in effetti sempre più in giro, questa roba, per
esempio a me è capitato nei venti minuti che ho dedicato qualche settimana fa
alla visione di una surreale serata promossa da Rai Uno e dall’esercito italiano
dal titolo: “La forza che unisce”, condotta da Fabio Rovazzi e Serena Autieri –
è giusto che si prendano le loro responsabilità di fronte ai posteri anche gli
altri partecipanti come Noemi (peccato, mi era simpatica), Enrico Brignano
(classico comico che non fa ridere), Pietro Mazzocchetti e Luca Cena (ignoro chi
siano).
Almeno dieci volte in pochi minuti ho sentito dire che l’esercito serve a
“garantire sicurezza, ma anche portare aiuto” e soprattutto “a costruire ponti”
(forse si riferiva a questo Tajani, parlando di quello sullo Stretto). Un po’
come in quei musicarelli tutta propaganda degli anni Sessanta, dove Morandi e i
suoi commilitoni, in servizio di leva sotto il Vesuvio, giocavano sulle brande
facendosi scherzi bonari, per poi fidanzarsi, da reclute, con le figlie dei
marescialli (povero Nino Taranto, doveva avere seri problemi di soldi per
ridursi a fare quella roba).
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/morandidef.mp4
(credits in nota 2)
Certe vecchie buone abitudini non vanno perdute. Fiction d’accatto, film su
presunti eroi in divisa e speciali televisivi non raggiungono tuttavia la
sfacciata ipocrisia delle istituzioni, che evidentemente non possono fare a meno
di una protezione fucile in spalla per sopravvivere.
Il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio, santo patrono di Milano, il comune
assegnerà le benemerenze civiche o, come vengono chiamati di solito, gli
“Ambrogini d’oro”. Sono riconoscimenti che vengono dati tradizionalmente ogni
anno ai cittadini di Milano, agli enti o alle associazioni che “con atti di
coraggio e abnegazione civica abbiano giovato a Milano”. […] Tra queste c’è
anche il nucleo operativo radiomobile dei carabinieri del comando provinciale di
Milano. Non è strano che un riconoscimento del genere venga assegnato a un
reparto delle forze dell’ordine: questa unità si occupa del pronto intervento in
caso di emergenze, risponde alle chiamate del 112, pattuglia le zone della città
e fa i posti di blocco. La candidatura del nucleo radiomobile, però, era stata
fatta dalla consigliera leghista ed europarlamentare Silvia Sardone, che l’aveva
motivata sottolineando che i carabinieri di questo nucleo “rappresentano un
simbolo di affidabilità e credibilità nella Milano di oggi. Lo hanno dimostrato
anche la notte del 24 novembre 2024 durante un inseguimento che è poi finito
sulle cronache dei giornali alimentando assurde polemiche”. (redazione “il
post”, milano assegnerà un “ambrogino d’oro” molto compromettente)
Per chi non ricordasse, il 24 novembre è la data in cui un diciannovenne del
Corvetto, Ramy Elgamil, è morto cadendo dal motorino al termine di un
inseguimento per opera proprio del nucleo radiomobile; le inchieste giudiziarie
non hanno chiarito la dinamica dell’incidente, ma l’Arma era finita in enormi
polemiche per le modalità con cui gli agenti avevano portato avanti
l’inseguimento, testimoniate dalle dash-cam delle auto, e per i tentativi di
depistaggio: oggi cinque di loro sono indagati, ma soltanto uno per “omicidio
stradale” – per approfondire si consiglia la lettura di La Milano di Ramy e
quella delle zone rosse, di Rajaa Ibnou, pubblicato su Monitor il 13 gennaio
2025.
A proposito di militari e fucili, una cosa ancora: c’era un vecchio partigiano
che ho conosciuto quando ero ragazzo che una volta disse, in un umido box auto
allestito a sezione di un partito che si considerava impunemente comunista, che
il fucile in sé non è una cosa sbagliata. Bisogna solo che stia nelle mani
giuste.
Dalla tragedia cilena capimmo le gravi responsabilità dei partiti riformisti
che, non avendo dato fiducia alle masse proletarie che chiedevano armi per
difendere quel percorso di trasformazione sociale, riposero fiducia nelle
istituzioni rendendosi responsabili del massacro. Gli slogan chiarivano il
nostro pensiero: «Cile, Cile, mai più senza fucile!». (salvatore ricciardi,
maelstrom)
(credits in nota 3)
a cura di riccardo rosa
________________________
¹ Ronald Lee Ermey e i suoi aspiranti marines in: Full Metal Jacket, di Stanley
Kubrick (1987)
² Dolores Palumbo, Nino Taranto, Gianni Morandi e Laura Efrikian in: Se non
avessi più te, di Ettore Maria Frizzarotti (1965)
³ Diego Armando Maradona ferisce, sparandogli con un fucile ad aria compressa,
quattro tra le decine di giornalisti che, in accampamento fuori i cancelli della
sua villa di Buenos Aires, gli assediavano casa (1994)
(disegno di ottoeffe)
«La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei».
«Cosa?».
«Nessuno ne sentirà la mancanza».
«Ma dove crescerà Leo?».
«L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva».
«Potrebbe esserci vita in altri luoghi…».
«…ma non c’è».
«E tu come lo sai?».
«Perché io so le cose».
(dialogo tra justine e sua sorella claire, melancholia, di lars von trier)
Siccome le cose non vanno un granché ultimamente, ho deciso di calcare la mano e
mi sono rivisto in tre giorni tre film di Lars von Trier. Fine del mondo,
scoramento, depressione, vendetta, calamità, fustigazione avrebbero tutte potuto
essere parole della settimana. Ma non lo sono.
Ho visto per la prima volta sia Dogville che Melancholia a un cineforum che
alcuni amici tenevano nell’aula delle Mura Greche a palazzo Corigliano, sede
dell’Orientale, luogo che nei miei primi anni di università mi sembrava
frequentato da gente interessante, pieno di angoli stimolanti (c’era una radio
in un’aula occupata proprio sopra le Mura Greche, che oggi è un insopportabile
cubo bianco per lezioni che vanno quasi sempre deserte), di continui confronti,
e anche scontri, di vario genere.
Del cineforum ho parlato qualche tempo fa a uno studente al primo anno di lingue
e letterature moderne. Mentre provavo a dirgli del lavoro di preparazione, delle
riflessioni pre e post proiezione, delle connessioni che si cercava di costruire
con l’attualità, lui non riusciva a non farmi domande che solo dieci anni prima
sarebbero sembrate venire da un altro pianeta. Del tipo: «Eh ma si teneva
l’università aperta dopo le sei?», oppure «E il rettore lo faceva fare?», o
ancora «Eh ma per i film scaricati da internet nessuno rompeva le scatole?». In
effetti i film erano scaricati illegalmente, al rettore solo a volte veniva
mandata una mail o un volantino per conoscenza dell’iniziativa, e lo stesso si
faceva con le guardie giurate che rimanevano a sorvegliare il palazzo,
preoccupandosi appena che non si esagerasse con la birra e le bottiglie in
vetro.
(dal blog del Cineforum Orientale 2.0)
Riguardando più attentamente Dogville (2003) mi sono accorto di non aver notato,
a suo tempo, una scena che in un certo senso ne anticipa un’altra, centrale, in
Melancholia (2011).
Nel primo film c’è Grace (Nicole Kidman) che viaggia su un furgoncino pieno di
mele, dove si è nascosta per scappare dalla città. A un tratto il furgoncino
viene fermato e Ben, guidatore e proprietario del mezzo in pieno spettro
autistico, la stupra minacciandola di consegnarla alla polizia se avesse
proferito parola.
Quella scena mi è sembrata rimandare a un momento chiave di Melancholia, ovvero
quando Justine (Kristen Dust) premonisce la propria depressione dovuta alla
consapevolezza di una fine del mondo imminente, e si immagina addormentata sul
letto del fiume come Ofelia, che in un fiume si suicida dopo aver preso atto
della follia del suo Amleto, in realtà fintosi pazzo.
Mentre Justine però, “sa le cose”, e sa che l’impatto con un gigantesco pianeta
blu sta per distruggere la Terra, Grace non sa nulla, eppure con la stessa
atarassia accetta il destino, giacendo inerme tra le mele, prima, durante e dopo
lo stupro, convinta di dover comprendere, se non giustificare, tutto il male che
le viene e le verrà fatto («Tu, la mia cara figlia, perdoni gli altri con delle
scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa»).
Grace può essere letta come una rappresentazione di Cristo, figlio del dio
onnipotente e vendicativo del Vecchio Testamento, che lascia il regno del padre
per andare in terra, e mondare gli esseri umani dei loro peccati, sacrificando
la propria vita per loro. […] Allo stesso modo, si presta ad essere sacrificata
per la salvezza morale di Dogville, lasciandosi umiliare e torturare per il
raggiungimento di un bene superiore, quello morale, appunto. […]
Grace distrugge Dogville, teatro del suo estremo sacrifico, come l’Io
sacrificale che sfugge ad un Super Io vendicativo, per poi accettare di compiere
una spaventosa vendetta. Nel momento in cui Grace dà l’ordine di uccidere tutti
eccetto il cane, noi spettatori godiamo della sua vendetta. Proviamo una
soddisfazione infantile e feroce nel vedere ripagati i torti subiti dalla
protagonista. […]
Von Trier descrive nel personaggio di Grace una anti-Cenerentola, che non viene
ripagata con l’amore per essersi fatta maltrattare con educazione e gentilezza;
una versione femminile del Tito Andronico di Shakespeare che pretende sangue per
sangue, mano tagliata per mano tagliata, figlio per statuetta. Per il regista
probabilmente non esiste alcun bene superiore, non esiste alcun dio
misericordioso che ci ripaga dei sacrifici che ci siamo autoinflitti, ma solo un
dio vendicativo e onnipotente. (valeria colasanti, dogville. di lars von trier,
in: doppio sogno. rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni)
Va detto che se davvero esiste un dio vendicativo e potente siamo probabilmente
spacciati, perché deve averne le palle piene di noi tutti:
La Cop30, dove si decide come evitare che il pianeta bruci a causa del
riscaldamento globale, è stata sospesa per un incendio (wired, 20 novembre
2025).
Eppure una volta “sapute le cose” si potrebbero ancora immaginare delle
strategie:
Scoperta una Super-Terra, c’è vita sul pianeta GC 251 C?
Il pianeta è a “soli” 20 anni luce da noi. E potrebbe ospitare acqua
(adnkronos, 24 ottobre 2025)
Le ricette non mancano:
I filtri nei condizionatori aiutano a salvare il pianeta (hdblog.it, 28 ottobre
2025)
A Spoleto un murale per salvare il pianeta (spoletonline.com, 19 settembre 2025)
Più tasse a Bezos per salvare il pianeta: maxi striscione di Greenpeace a
Venezia (vez.news, 23 giugno 2025)
Salvare il pianeta… dagli ambientalisti (corriere della sera, 25 settembre 2025)
Diamo dunque il benservito a ogni Grace e Justine: quello che conta è agire!
La Danimarca vuole salvare il pianeta… macellando nel suo regno balene e delfini
(tviweb.it)
(e questo sì che lo farà ammattire, povero principe).
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/amletomonitor.mp4
(credits in nota 1)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Pino Micoli e Giulio Pizzirani in: Amleto, di Maurizio Scaparro (1973)
(disegno di ottoeffe)
Il secchio gli disse,
gli disse: “Signore,
il pozzo è profondo.
Più fondo del fondo degli occhi,
della notte e del pianto”.
Lui disse: “Mi basta,
mi basta che sia più profondo di me”.
(fabrizio de andrè, andrea)
Ha girato molto in questi giorni un articolo scritto dal geologo Benedetto De
Vivo e dal tossicologo Maurizio Manno che spiega cosa stanno rischiando di
combinare il governo Meloni, il sindaco Manfredi e tutta la struttura
commissariale per la bonifica e rigenerazione di Bagnoli, smuovendo il fondo
delle acque che circondano la colmata a mare. Un disastro ambientale che segue
quello politico, abbiamo titolato su Monitor, un andarsi a cercare la catastrofe
con le proprie mani, scavando lì dove non c’è da scavare.
(credits in nota 1)
Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago
sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi
verticali sono riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la
città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago
sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si
muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della
roccia. Di conseguenza religioni di due specie si dànno a Isaura. Gli dei della
città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene
sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla
fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano,
negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento
che tirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono
l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli,
negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d’acqua, i tubi
verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le
aeree impalcature d’Isaura, città che si muove tutta verso l’alto. (italo
calvino, le città invisibili)
Ha ufficialmente chiuso le proprie attività, a inizio di questa settimana, Scion
Capital, il fondo finanziario statunitense di Michael Burry, diventato celebre
grazie al film The Big Short (La grande scommessa) sulla crisi finanziaria dei
subprime del 2008. La decisione sarebbe maturata in un contesto di
preoccupazione diffusa a Wall Street rispetto alle valutazioni gonfiate
raggiunte in borsa dai giganti della tecnologia e dell’Intelligenza Artificiale.
Burry aveva ottenuto fama e successo per aver previsto lo scoppio della bolla
immobiliare negli Stati Uniti, un cataclisma finanziario che aveva portato a un
quasi-crollo del sistema economico internazionale e aperto una stagione di
tutt’ora attive crisi strutturali. Nell’ultimo anno aveva perso diversi milioni
di euro per aver scommesso contro aziende come Nvidia e Palantir e forse anche
per questo ha deciso di restituire i capitali agli investitori e ritirarsi. Le
sue accuse sono comunque piuttosto pesanti:
“L’investitore ha pubblicato su X un’analisi dettagliata in cui sostiene che le
grandi società tecnologiche stiano manipolando i loro bilanci attraverso un
trucco contabile apparentemente semplice ma dalle conseguenze enormi. Burry
accusa gli hyperscaler, termine che identifica i principali fornitori di
infrastrutture cloud e AI come Microsoft, Meta, Google, Amazon e Oracle, di
sottostimare artificialmente l’ammortamento dei loro asset tecnologici. In
pratica, secondo Burry, questi gruppi avrebbero esteso la vita utile stimata dei
loro chip e server da tre anni a sei anni, permettendo di spalmare i costi su un
periodo più lungo e gonfiare i profitti nel breve termine. Secondo il celebre
investitore si tratterebbe di “una delle frodi più comuni dell’era moderna”.
Burry prevede che tra il 2026 e il 2028 queste società registreranno
un’ammortamento inferiore al reale per 176 miliardi di dollari, il che farà
apparire i loro profitti più alti di quanto siano in realtà: secondo le sue
stime, Oracle sopravvaluterà i profitti del 26,9% e Meta del 20,8% entro il
2028″. (riccardo piccolo, wired.it)
Negli stessi giorni in cui Scion Capital chiudeva i battenti, un altro fondo di
investimenti americano, Apollo Global Management, è diventato il nuovo azionista
di maggioranza della squadra di calcio dell’Atletico Madrid. La proprietà
americana ha acquisito il 55% delle azioni della società sborsando una cifra di
quasi un miliardo e mezzo di euro, poca roba considerando che Apollo gestisce
circa novecento miliardi di dollari di asset (la sola divisione sportiva del
fondo ha una liquidità da investire a effetto immediato di cinque miliardi, uno
dei quali sarà dedicato alla costruzione di una cittadella sportiva e
mega-centro di intrattenimento a pochi passi dallo stadio Metropolitano di
Madrid, su terreni ottenuti in concessione per settantacinque anni).
Curiosamente, il lancio di stampa e le prime interviste da parte dei dirigenti
del fondo Apollo sono arrivate nel giorno dell’anniversario di un altro lancio,
di un altro Apollo (il 12), protagonista della seconda missione con cui la Nasa
spediva degli umani sulla luna. La missione non iniziò con i migliori auspici,
perché il razzo fu colpito da due fulmini nei primi secondi di ascesa, ma
raggiunse poi la superficie del satellite, effettuò dei rilievi e in particolare
il suo equipaggio riuscì a recuperare alcune parti della sonda robotica Surveyor
3, consentendo successive analisi senza precedenti.
A seguire potete guardare la versione integrale di Le Voyage dans la lune, film
fantascientifico del 1902 girato dal visionario regista Georges Méliès,
considerato tra i padri del cinema insieme ai fratelli Lumière:
(credits in nota 2)
Nella cultura norrena il termine Ragnarǫk indica una serie di eventi
catastrofici che provocheranno un’apocalisse e la distruzione dei nove mondi
mitologici. Tra questi eventi vi sono varie calamità naturali, l’incendio e poi
la sommersione del mondo, la caduta degli astri fino alla cancellazione totale
del creato.
L’arrivo dei Ragnarǫk è preceduto dal Fimbulvetr, un rigidissimo inverno lungo
più di nove mesi al termine del quale il sole e la luna saranno divorati dai
lupi Skǫll e Hati, che li avevano inseguiti invano fin dall’inizio dei tempi. Il
buio attaccherà la luce usando fiere come il lupo Fenrir e il mostruoso serpente
Miðgarðsormr, mentre una gigantesca nave costruita con le unghie dei morti
guiderà le potenze delle tenebre verso la battaglia. Lo scontro tra le forze
della luce e delle tenebre, in cui ogni divinità si scontrerà con la propria
nemesi, non vedrà però vincitori, ma soltanto distruzione, che avrà il suo
culmine nel grande incendio provocato dalla spada di Surtr, gigante del fuoco, e
dall’inondazione che sommergerà tutta la vita rimasta sulla Terra, tra cui lo
stesso Surtr.
La fortuna della parola e del mito dei Ragnarǫk è dovuta però alla sua capacità
di indicare contemporaneamente la catastrofe massima e la rigenerazione,
attraverso la nascita, dopo l’inondazione, di una nuova dinastia divina e di una
nuova popolazione umana discendente da Lif e Lifbrasir, una coppia di esseri
umani salvatisi dalla distruzione grazie a una foresta misteriosa in cui erano
riusciti a trovare riparo. La palingenesi contestuale del mondo, degli dei e
dell’umanità indica la necessità di arrivare al fondo delle cose, e di
purificarsi per poter rinascere.
Per evitare brutte sorprese ci si dovrà ricordare che proprio mentre il mondo
starà iniziando a rivivere dalle proprie ceneri, si innalzerà in cielo come
un’ombra il mostro Níðhǫggr, il “drago che vola”, la “serpe scintillante”, che
porterà con sé i cadaveri dei morti, a memento del male. “E ora lei si
inabissa”, dice la profezia. Forse per sempre. (a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
Da un paio di settimane infuria la polemica legata all’atmosfera dello stadio
Maradona, che avrebbe perso, a detta di molti, il suo tipico ardore. La
questione esiste, almeno in parte, e le possibili cause sono tante. Prima di
tutto il costo dei biglietti che, moltiplicato per il numero di partite (in
media si gioca in casa ogni sette-dieci giorni), fa sì che molte persone tra
quelle più attive e rumorose, per esempio i più giovani, rimangano spesso
escluse per motivi economici; c’è il fattore turisti, che sono sempre di più e
che passano la partita a farsi selfie più che a tifare, ma è difficile pensare
che questo possa avere una grossa incidenza; ci sono poi regole assurde come il
divieto di introdurre nell’impianto persino fumogeni colorati, e c’è la
progressiva trasformazione, a cui assistiamo da tempo, dell’evento calcistico in
prodotto. Lo diceva un amico in questi giorni: cliente e tifoso sono due cose
diverse, anche solo perché se il primo pretende di essere trascinato dalla
squadra, il secondo ha come obiettivo quello di trascinare.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/defogiia.mp4
(credits in nota 1)
Uno dei paragoni più usati per questa trasformazione, che in effetti avviene in
molti stadi, è quello con il teatro («Questa è una curva, non è un teatro!»,
gridano gli ultras provando a far cantare i tifosi più mosci). Non fanno
eccezione i tanti commentatori sportivi locali, a cui andrebbe ricordato, senza
bisogno di scomodare l’antica Grecia, che il Globe elisabettiano era tutt’altro
che un posto da serate di gala; o che nei teatri popolari dove, per esempio, si
portava sul palco la sceneggiata, accadeva di tutto.
Durante lo spettacolo la gente si alzava in piedi sulle poltroncine consumate.
Gli avevano gridato di cantare ancora. Toglievano il cappello, a lui batteva più
forte il cuore. […] Il popolo, quelli che altrimenti al teatro non ci vanno.
Quando con l’ultima coltellata l’onore aveva trionfato, loro gli gridavano di
colpire ancora. La punizione per il traditore, l’infame, ‘o malamente. Dopo
essere stramazzato al suolo, ormai morto, il malamente si alzava. Come per una
nuova energia, una nuova vita. Era quello che il pubblico chiedeva. Quello
bisognava dargli. Chiedevano di colpire ancora, e al disgraziato di restare in
piedi, solo per qualche minuto. Cantare. Tirare forte con quella lama. Delitto
d’onore. Era una questione d’istinto. (riccardo rosa, la sfida. storia del re
della sceneggiata)
Giacché siamo all’autocitazione, tanto vale menzionare che qualche anno fa, nel
mezzo di una polemica durissima tra gli ultras del Napoli e il presidente De
Laurentiis, scrissi un pezzo su questo tema dell’atmosfera – lo ricordavo
migliore, ma così va la vita. In realtà, fin da quando avevo vent’anni, mi è
capitato a volte di ascoltare la partita del Napoli in radio, alle spalle della
curva, ma con una compagnia abbastanza giusta per capire che non è lo spettacolo
a fare il tifoso, ma il contrario.
C’è poi un bel video in cui un ragazzino racconta di aver fatto un lungo viaggio
per assistere alla partita della sua squadra (il Boca Juniors), e dichiara fiero
che essere lì val bene l’aver dovuto vendere la sua Play Station, e la moto del
suo papà. «E non abbiamo nemmeno il biglietto!», aggiunge. «Ma questo è il Boca:
guarda!».
Ho ripensato a quella scena in settimana, durante l’ultima partita del Napoli –
anche quella abbastanza noiosa. Tra i cori, i megafoni, le bandiere e le mani
alzate, avevo davanti un bambino incappellato, sulle spalle del suo papà: un
piccolo tifoso di due o tre anni che ha fatto sentire la sua voce molto più di
una buona parte della curva in cui eravamo. Dopo un’oretta è crollato,
distrutto, e avendo dato tutto quello che poteva, si è addormentato. Chissà se a
teatro avrebbe resistito.
I’m only sleeping è solo su un primo livello di lettura un inno alla nota
pigrizia di John Lennon, e un attacco alla frenesia del consumismo dei Sessanta
– “Tutti sembrano pensare che sono pigro | Non importa | Io penso che sono pazzi
loro | Correre ovunque a quella velocità | Finché non trovano qualcosa di cui
non c’è bisogno”. In realtà, il pezzo è la traccia numero tre di Revolver, album
scritto dai Beatles sotto la totale influenza dell’Lsd, tra amplificatori appesi
a una corda, registrazioni riprodotte al contrario e volumi-guida come il Libro
Tibetano dei Morti di Timothy Leary. Centrale in quel libro è un passaggio, poi
citato in Tomorrow never know, in cui si consiglia di “credere nel proprio
cervello”, “fidarsi dei propri compagni” e, davanti ai dubbi, spegnere la testa
galleggiando verso la valle.
I quattro Beatles avevano in quel periodo una certa esigenza di spegnerla, la
testa, dopo il disastroso tour dell’estate del ’65, durante il quale folle
urlanti e in delirio avevano reso frustrante ogni esibizione musicale. Un ultimo
tentativo era stato fatto sei mesi dopo, ma dopo le tappe invernali la band
aveva comunque deciso di scrivere un disco (Revolver, appunto) che non avrebbe
potuto essere riprodotto dal vivo. A fargli cambiare idea non erano servite,
evidentemente, le serate di Glasgow, Liverpool e Newcastle. In teatro.
Non a tutti sta bene come Macciardi ha deciso di iniziare il suo mandato al
Teatro San Carlo di Napoli. Qualcuno, in più di un’occasione, avrebbe usato
questa frase: “Sono entrata da padrona, mica posso uscire da cameriera”. […] Il
riferimento è alla minaccia di “spoil system” che […] l’ex sovrintendente del
Comunale di Bologna avrebbe paventato. Un’operazione che potrebbe cambiare i
ruoli di molte figure finite nella nostra inchiesta, e che in questi anni hanno
goduto di compensi alti, spesso considerati poco regolari anche dal ministero
dell’economia. Le storture sono anche di ordine “figliettistico”: l’attuale
direttore artistico delle Officine Vigliena, per esempio, è il figlio della
Direttrice Generale Spedaliere. E per alcune delle persone coinvolte c’è ora
aria di “pensionamento anticipato”. (riccardo canaletti, mowmag.com)
a cura di riccardo rosa
Post Scriptum: mi sono chiesto in questi mesi se ai protagonisti del poco
edificante “San Carlo-Gate” sia noto questo intervento di Eduardo De Filippo che
raccontava, nella sua ultima apparizione pubblica, la dedizione, il sacrificio,
la sofferenza necessari per questa nobile arte.
«Così si fa il teatro», concludeva lapidario. «E così ho fatto».
(disegno di peppe cerillo)
Mercoledì primo ottobre sera, alla notizia del sequestro di alcune navi della
Global Sumud Flotilla in acque internazionali, succede l’incredibile: decine
migliaia di persone si riversano nel centro di Roma a manifestare contro Israele
e per la liberazione della Palestina dal giogo coloniale sionista. La
manifestazione penetra nel centro storico fino a piazza San Silvestro, poi torna
a piazza Esedra. Pienissimo anche l’accampamento solidale a piazza dei
Cinquecento, una piazza con un nome coloniale, ribattezzata per l’occasione
“piazza Gaza”. Giovedì 2 continuano le mobilitazioni: la mattina un gruppo di
sionisti aggredisce gli studenti del liceo Caravillani a Monteverde, che
condivide il cortile con una sinagoga. Intanto i bambini delle scuole
(Piasacane, Mazzini…) manifestano al parco vicino l’istituto, o espongono
striscioni e barchette in onore della Flotilla. Nel pomeriggio un nuovo grande
corteo parte dal Colosseo e raggiunge Termini; venerdì 3, giorno dello sciopero
generale per la Palestina, un altro enorme corteo parte da piazza dei
Cinquecento e raggiunge la tangenziale: la testa incontra la coda, circondando
la polizia sul ponte dell’A24. Ma i palazzi del potere sono lontani. La sera un
medico dello Spallanzani che tornava da un flash-mob di sanitari per la
Palestina viene aggredito da tre sionisti. Arriva infine il 4 ottobre, il giorno
della manifestazione nazionale: centinaia di migliaia di persone si riversano
sulla capitale da tutta Italia, gli enormi viali e spazi vuoti che Leopardi
considerava creati per separare le persone sembrano invece non riuscire più a
contenerle. Quando inizia a riempirsi piazza San Giovanni – che già di suo
contiene centomila persone – piazzale Ostiense è ancora pieno. La manifestazione
occupa oltre centocinquantamila metri quadri di spazio urbano, trasformati in un
fiume denso di gente. A fine corteo un gruppetto per lo più di giovani che si
era staccato dalla coda viene attaccato dalla polizia, che li schiaccia contro
la cancellata di Santa Maria Maggiore. Spaccano la testa a una ragazza,
identificano tutti e ne arrestano due a caso. In centinaia tornano su dal corteo
in solidarietà: ci sono scontri fino alle 22. Intanto una ventina di energumeni
di Casa Pound aggrediscono i manifestanti a piazza Vittorio, ma la polizia non
arriva. I due fermati vengono processati il 5, un gruppo di solidali si
raccoglie davanti al tribunale per l’udienza, poi vengono liberati.
Manifestazione anche a Ostia: lo striscione dice: “Il litorale soffia sulle vele
della Flotilla“.
Il 7 ottobre nel presentare le scuse alla preside del Caravillani per
l’aggressione agli studenti da parte di venti adulti della sinagoga, l’ex
presidente della comunità ebraica Pacifici accenna alla possibilità di essere
picchiati se si protesta per la Palestina, perché “non tutti hanno lo stesso
self control”. Nessuna personalità condanna le sue parole. Nel frattempo
studenti e studentesse occupano il Kant al Nomentano, il Socrate a Ostiense, e
il Levi-Civita al Pigneto; l’8 anche il Plauto sulla Pontina e l’Augusto al
Tuscolano, sempre con in solidarietà con la Palestina. Grande corteo serale dal
Colosseo. Il 9 chiude il Caffè Greco di via dei Condotti, aperto nel 1760: tra i
clienti ha avuto Canova, Goethe, Baudelaire, Joyce, Guttuso. La proprietà,
l’Ospedale Israelitico, aveva decuplicato l’affitto, chiedendo centocinquanta
mila euro al mese, oltre ad aver sottratto al locale trecento opere d’arte
vincolate. Nel frattempo un’altra donna viene sfrattata al Quarticciolo: comune,
regione, prefettura e Ater la sbattono in strada ridendo del suo dolore, mentre
devastano il suo appartamento. Venerdì 10 assemblea pubblica ai giardini di
piazza Vittorio: quasi mille persone discutono con i partecipanti della Flotilla
sulle prossime azioni dell'”equipaggio di terra”. Dentro San Pietro un signore
si abbassa i pantaloni e piscia sul baldacchino del Bernini. Intanto continuano
i presidi per la Palestina, quasi quotidiani: il 12 a Frascati, il 13 alla Figc,
contro la partita Italia-Israele a Udine; il 15 contro il Festival del
Cinema all’Auditorium, che ha in programma film israeliani nonostante il Bds, e
nonostante le richieste della Corte Penale Internazionale. Inizia l’occupazione
anche al Tasso. Il 16 presidio davanti alla FAO, in occasione della Giornata
mondiale dell’alimentazione, perché il cosiddetto “piano di pace” non ha aperto
il valico agli aiuti umanitari: la carestia provocata da Israele continua.
Il 17 ottobre notte a Campo Ascolano, vicino Pomezia, esplode una bomba accanto
all’auto di Sigfrido Ranucci di Report, minacciato dal 2021 e sotto scorta. Il
18 sit-in davanti alla Rai di via Teulada in sua difesa. Il tribunale di Roma
riduce a dieci giorni la sanzione di sei mesi per Christian Raimo, professore
accusato di aver criticato il ministro dell’istruzione. Il 19 notte studenti e
studentesse del Morgagni provano a occupare la loro scuola a Monteverde, ma
vengono presi a pugni da un gruppo di persone tra cui i loro professori e la
preside, che provano a fermare l’occupazione con la forza. Il 20 a Rieti un
gruppo di ultras fascisti della Sebastiani Rieti Basket prende a sassate il
pullman dell’Estra Pistoia Basket, uccidendo uno dei due autisti. La notte
vengono occupati sia il Manara a Monteverde che l’Albertelli all’Esquilino. Il
21 all’Hotel Parco dei Principi di Villa Borghese si presenta il Progetto Civico
Italia, promosso dal Commissario ai grandi eventi Alessandro Onorati, alla
presenza di alte personalità del Pd e del Movimento 5 Stelle. La sera c’è una
protesta contro l’inaugurazione del congresso Cyber Tech alla Nuvola dell’Eur:
uno schiaffo a chi sperava che un genocidio avrebbe fermato il business delle
armi e della sorveglianza.
Il 22 viene annullata una conferenza al liceo Righi (già noto per questo caso) a
cui avrebbe partecipato un membro della Flotilla e lo storico israeliano
antisionista Ilan Pappé, per presunti problemi di “sicurezza”. In risposta, il
23 studenti e studentesse occupano la scuola. Protesta al Pigneto per Tarek,
detenuto per una manifestazione dell’ottobre scorso per la Palestina. La notte
un gruppo di una quindicina di neofascisti attacca il liceo Bramante occupato al
Tufello; lo stesso accade la notte successiva. Il 24 mattina la Regione
demolisce un gruppo di case abusive sulla riva del Tevere, altezza Magliana:
sbattuti in strada anziani, disabili, bambini, neonati, senza alcuna soluzione
tranne lo smembramento delle famiglie, che ovviamente non accettano. Presidio a
Regina Coeli per Tarek; intanto la polizia usa gli idranti contro un altro
corteo per la Palestina diretto alla Festa del Cinema. Il 25 manifestazione
della Cgil a San Giovanni. La notte muore una ventenne in un bruttissimo
incidente sulla Colombo: nei primi mesi del 2025 ci sono stati più di mille
morti sulle strade in Italia. Il 27 grossa operazione della polizia a Ostia,
presentata come risposta a una bomba carta lanciata contro un locale del
litorale. Protesta di commercianti bengalesi a Don Bosco per la “sicurezza”.
Arriva a Roma il relatore speciale dell’Onu Raj Balakrishnan, che a febbraio ha
scritto una lettera al governo chiedendo spiegazioni sugli sfratti di sette
famiglie a Roma. Il governo ha risposto che va tutto bene e che sono grandi fan
dei diritti umani.
Il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, la polizia presidia i dintorni
di via Gattamelata al Prenestino, dove cinquant’anni fa fu ucciso un giovane
militante neofascista: il 29 mattina il sindaco Gualtieri depone una corona di
fiori in suo onore, e nel pomeriggio un centinaio di persone si radunano nel
parco a lui dedicato a piazza dei Condottieri. Li proteggono un centinaio di
poliziotti e guardie di finanza, mentre la chiesa suona le campane.
Manifestazione davanti all’Ater su Lungotevere Tor di Nona, contro la
vendita degli alloggi popolari e la speculazione sulle indennità di occupazione.
Il 30 a Ostia esplode una bomba carta in un palazzo di via della Tortuga,
proprio accanto al murale in memoria di un ragazzo accoltellato sempre nello
stesso quartiere. A piazza Santi Apostoli la manifestazione per Israele “con gli
ebrei a testa alta” raccoglie pochissime presenze, ma molta visibilità
mediatica: una giornalista viene cacciata e chiamata “rotta in culo”. Intanto si
avvicina il cinquantesimo anniversario dell’omicidio di Pasolini: il 31 a Ostia
si organizza una celebrazione alternativa rievocando la partita di calcio che si
giocava quel giorno del 1975, nei prati di via dell’Idroscalo. (stefano
portelli)
(disegno di ottoeffe)
O’ Ge’, nun chiagnere: ‘o nonno fotte pure ‘a morte.
Appena ‘a sente ca sta pe’ arriva’,
‘o nonno se ne va.
Se ne va e nun se fa truva’.
(napoli centrale, ‘o nonno mio)
C’è stato un periodo, persino in questo medievale paese, in cui anche artisti o
scrittori famosi e di successo, che si muovevano nel mainstream del mercato
culturale, prendevano posizioni estreme e scomode, rivoltando da capo a piedi il
dogma con un disco, raccontando la democrazia come privilegio di classe,
denunciando sul principale quotidiano italiano i mandanti di un colpo di Stato
portato avanti a suon di bombe.
Per poterlo fare, naturalmente, la politica, o quantomeno il mercato, dovevano
trovarci una convenienza, il che vuol dire che quella roba doveva essere fatta
con una qualità sopra la norma. Un romanzo buono ma innocuo è preferibile per un
editore a uno buono ma dirompente, altrimenti d’altronde non ci sarebbero così
tanti scrittori scarsi famosi. Il problema sorge quando c’è da scegliere tra una
cosa buona ma innocua e una eccezionale ma che ti può portare grane. È così che
certe cose, a volte, passano. Ma per farle passare ci vogliono i fuoriclasse.
(credits in nota 1)
È morto mercoledì a ottant’anni James Senese, strumentista fuoriclasse, uno dei
più grandi sassofonisti italiani della musica contemporanea, proletario nato in
una periferia napoletana che all’epoca era un paesino di campagna, dalla
relazione tra sua madre e un soldato afroamericano tornato in patria poco dopo
la sua nascita («Avrà avuto le sue ragioni», rispondeva il sassofonista a chi
gliene chiedeva conto).
Senese era al primo impatto disturbante (un suo esilarante ritratto emerge
nella stranota scena di No grazie, il caffè mi rende nervoso): nel suo modo di
porsi, nelle movenze, nella lingua che usava. Era difficile, da questo punto di
vista, capire se avesse difficoltà con l’italiano – così come gli dice
proprio Arena – o se semplicemente non gli interessava comunicare in una lingua
che non sentiva sua. Durante un’intervista che rilasciò qualche anno fa a
Marzullo (non si sa perché, ma la Rai l’ha rimossa da Youtube…) passò due-tre
minuti a contraddire l’intervistatore che lo definiva “italo-americano”.
Quando Senese è morto sono andato a rivedermi Harlem Meets Napoli, documentario
cult della Rai che racconta l’esibizione di una buona parte dei fuoriclasse del
Neapolitan Power al fianco di James Brown, dei Temptations, di Lester Bowie (che
a un certo punto dice: «Sentiamo che a Napoli sta accadendo una rivoluzione
musicale…»), e di altra gente di questo calibro. Prima di allora, a quanto pare,
a nessun musicista bianco non statunitense era stato concesso di suonare
all’Apollo Theatre di Harlem.
Al di là della musica, nel documentario sono esilaranti le scene del viaggio, e
in particolare quelle che si svolgono a tavola, sempre in dubbie trattorie e
ristoranti. Questa è la mia preferita:
(credits in nota 2)
Se è vero che la classe si esprime su tanti livelli, la politica non fa
eccezione. È anche quella un conflitto costante, per dirla alla Nietzsche, tra
Apollo e Dioniso, o tra ragione e sentimento se preferite (cfr.
Nazionale, 1997).
La settimana scorsa una ventina di attivisti napoletani l’ha fatta sotto al naso
alla polizia, introducendosi con una elaborata strategia (pagando il biglietto!)
in un padiglione della Mostra d’Oltremare – spazio pubblico di proprietà del
comune di Napoli – dove si svolgeva la fiera farmaceutica Pharma Expo. Il gruppo
si è avvicinato allo stand dell’azienda israeliana Teva – multinazionale che
supporta con azioni concrete il regime sionista e il suo esercito –, mentre
alcuni esponenti del gruppo Sanitari per Gaza leggevano una lettera di denuncia
e di incitamento al boicottaggio. Una volta conclusasi la contestazione, mentre
gli attivisti stavano uscendo dalla Mostra, tre di loro sono stati arrestati,
condotti in questura e poi in carcere, dove hanno passato tre notti e tre
giorni.
Le accuse di resistenza e violenza appaiono grottesche, anche perché nei video
si vede benissimo che nessuno tra i manifestanti commette alcuna azione
illecita. Ancora più assurdo, oltre all’insensatezza di tenere in carcere tre
persone che non hanno fatto nulla, è il fatto che una volta rilasciati i tre
attivisti siano stati sottoposti all’obbligo di firma per tre volte a settimana.
La misura sembra essere stata assegnata in via del tutto strumentale, vista la
scelta del pm di non svolgere un processo per direttissima che avrebbe portato a
una immediata assoluzione degli imputati e spostato il focus sulle violenze,
l’arresto arbitrario e le ricostruzioni della polizia.
Ora, se fossi un giornalista di Fanpage o un esponente di un partito di sinistra
direi che “l’aria che c’è in giro non mi piace per niente”, e che “stiamo
vivendo una fase politica molto delicata”, che “è necessario vigilare sulla
democrazia a rischio”. In realtà, succede semplicemente che essendoci un governo
di destra, che legifera e agisce in una certa direzione, polizia e magistratura
si sentono più tranquilli nel fare quello che più gli piace fare, ovvero
esercitare senza limitazioni, e se possibile regole, il proprio potere.
Se fossi un maestro elementare, invece, ora mi auto-assegnerei un 4, perché sto
andando fuori traccia. Quindi metto un disco dei Napoli Centrale e mi preparo
per andare a Materdei a sistemare le ultime cose di Arte contro le pene
capitali.
Dormono ‘e schiave d’o faraone
sazie d’aglie, sazie ‘e fatica,
mentre ‘e piramide s’alzano ‘o cielo
ca cielo nun è.
[…] Dorme ‘o surdato ‘ngrassanno ‘a terra,
speranno ca almeno chesta
fosse l’ultima guerra.
Nun ce penza’, statte tranquillo:
dimane ‘sta terra a ‘ngrassa pure a tuo figlio.
(napoli centrale, ‘o lupo s’a mangiato ‘a pecurella)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Franca Rame in: Lo Stupro, Fantastico 8 (Rai 1, 1986-87)
² James Senese, Tullio De Piscopo e Tony Esposito in: Harlem meets Napoli, di
Ruggero Miti (1987)
(da: crash, di david cronenberg)
E la macchina sia alleata non nemica ai lavorator. (l’internazionale, versione
italiana)
Per varie ragioni, negli ultimi tempi, ho letto un po’ di cose sul rapporto tra
l’uomo e la macchina. Così venerdì sono andato a rivedermi Crash, il film di
Cronenberg forse più angosciante. L’avevo visto una sola volta, una vita fa,
durante un corso di Storia e critica del cinema all’Orientale, e mi aveva
colpito, complice l’atmosfera sepolcrale delle Mura Greche, il suo nichilismo
visionario senza scampo. Quegli uomini e donne che si trascinano nella
metropoli, capaci di trovare uno slancio solo verso la morte e attraverso la
penetrazione-lacerazione, oggi mi sembrano invece molto plausibili, ancorati
alla realtà, più contemporanei ancora dei personaggi di un altro film di C. più
recente, che ho amato molto, e che racconta tra le altre cose il farsi
esibizione di questo rapporto tra il taglio e l’erotico («La chirurgia è il
nuovo sesso»).
Quando costruiamo delle macchine è come se fosse la nostra versione del corpo
umano. Nel senso che il corpo umano è una macchina. È quello che William
Burroughs ha chiamato “the soft machine”. È interessante perché quando apri una
macchina vedi la mente dell’uomo che l’ha progettata. […] Mi piace molto
lavorare sui motori delle moto e delle auto. In questo modo hai l’intera storia
dell’uomo, la tecnologia, il design, la razionalità. […] È un’avventura
filosofica lavorare su una macchina. (david cronenberg intervistato da enrico
ghezzi per fuori orario, 1988)
(credits in nota 1)
Alla sua uscita, non capendoci molto, tanti critici bollarono Crash come una
sorta di techno-porno. A Londra l’uscita della pellicola fu vietata per molti
mesi, in Italia la Repubblica pubblicò due articoli violentissimi firmati da
Irene Bignardi.
So che i critici italiani hanno scritto che Crash era pornografia ma, guardando
film pornografici non mi sembrava che avessero nulla a che vedere con il mio.
Forse il problema è strutturale: può darsi che non abbiano mai visto un film che
apre con tre scene di sesso e che non sia un porno. È vero che in Crash sono le
scene erotiche a portare avanti la narrazione, come nel cinema porno, ed è vero
che quelle scene si possono descrivere molto semplicemente come: gente a letto
che si dice porcherie e poi ha grossi orgasmi. Ma mi sembra che il modo in cui
le scene sono costruite, funzionano nel film e in quello che dicono sia tutto
diverso da un film porno. (david cronenberg intervistato da giulia d’agnolo
vallan per il manifesto, 1996)
Chissà se Cronenberg ha mai conosciuto Carmine Attanasio, o se ha mai saputo che
nel novembre di quello stesso anno il leader dei Verdi napoletani propose un
ordine del giorno in consiglio comunale per vietare la pellicola anche in
Italia. Lo firmarono diciotto consiglieri di Alleanza Nazionale e Rifondazione
Comunista, ma l’interpellanza non passò.
Sono in molti, a quanto sembra, a temere un immaginario fatto di violenti urti
di carrozzeria e corpi cicatrizzati, post-organici. E l’onda di disgusto si
propaga con rapidità: dall’Inghilterra (il film è in attesa di visto), alla
pudica America (che rimanda la sua uscita), il “testimone censorio” passa, a
sorpresa, a Napoli. Sì, proprio a Napoli, città-modello delle giunte di
sinistra. Che si risveglia in un ventoso giorno di novembre stringendo in mano
un’interpellanza comunale […] che chiede di bloccare la pericolosa pellicola
girata da Cronenberg. Prima ancora che circoli e sia vista, naturalmente. Per
pura prevenzione sociale. (arianna di genova, il manifesto)
Qualche giorno fa, passeggiando a sera molto tarda per il mio quartiere e
attraversando alcuni dei suoi angoli più reconditi, mi sono reso conto della
quantità di gente che di notte dorme in macchina, come tra l’altro il
personaggio più assurdo e affascinante di Crash («Vivi qui?». «No, io vivo in
macchina. Questo è il mio laboratorio»). Il giorno dopo abbiamo pubblicato
su Monitor questo articolo molto preciso sulla tragedia di quei tre fratelli
che si sono barricati nella loro casa e poi l’hanno fatta esplodere, uccidendo
tre carabinieri e innescando contemporaneamente gli ingranaggi di un’altra
macchina, molto ben rodata.
La notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che il paese
sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più spesso, ai
danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti:
8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto
piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non
ce la faccio più”).
15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne
si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo.
16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello
sfratto”.
19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al
balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni.
La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri
morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta
alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita
nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da
tutti. Tuttavia, trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre
contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico
sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo
impermeabile a ogni analisi, rassicurante, funzionale allo status quo. (antonio
malatesta, napolimonitor.it)
Nonostante le ripetute rassicurazioni da parte del sindaco di Napoli e dei suoi
assessori, le famiglie dell’ex Motel Agip di Secondigliano, sfrattate
dall’edificio comunale e abbandonate, sono ancora in strada senza aver ricevuto
nessuna proposta alternativa se non la solita elemosina in denaro, in una città
in cui il mercato immobiliare impone il possesso di ben altre cifre, e
soprattutto garanzie, per potersi assicurare un tetto.
Contestato nel corso di un’iniziativa pubblica, il sindaco ha definito le
persone che protestavano – molti ex abitanti dell’edificio e un gruppo di
solidali − “professionisti della protesta”. Personalmente, l’arroganza e
l’indifferenza politica dell’ex rettore mi disgustano quanto gli strali dei
tanti che stanno strumentalizzando questa vicenda in vista delle elezioni
regionali di novembre, mentre estrema tenerezza provo per quelli che già si
stanno allineando verso un “fronte delle sinistre”, al fine di tirare la volata
all’improponibile ricandidatura a sindaco dell’ex magistrato vomerese che già
abbastanza danni ha fatto alla città in dieci anni di governo.
a cura di riccardo rosa