(disegno di ottoeffe)
Remember when you were young / Ricorda quando eri giovane
how the hero was never hung, / come l’eroe non finiva mai impiccato,
always got away. / sempre riusciva a scappare.
(john lennon, remember)
Se n’è andato all’alba di venerdì, a ottantotto anni, Goffredo Fofi, “il
Vecchio”, come lo chiamavano affettuosamente i miei amici più grandi, con alcuni
dei quali pure negli anni se ne era detto di tutti i colori. Lucido, corrosivo,
impietoso narratore e analista del mondo che ci circonda, è stato instancabile
agitatore culturale e riferimento per quei pochi scrittori, autori
cinematografici e teatrali, giornalisti e tutto il resto, che ancora possono più
o meno dirsi degni di appartenere a queste categorie.
Tutte le persone che valeva la pena conoscere, il Vecchio le conosceva e le
metteva in contatto, e molte tra queste (e anche non tra queste) in questi
giorni lo hanno celebrato sui giornali e sui social network. Parecchi ricordi si
concludevano con aneddoti autoreferenziali del tipo “apprezzò molto il mio
lavoro su…” o “avevamo spesso parlato di”. Io invece ricordo che nel 2020, dopo
una presentazione di Baby Gang a cui partecipò, e a sua domanda sui miei
progetti futuri, gli parlai con entusiasmo di un romanzo sulla città
postindustriale a cui stavo lavorando, romanzo che forse anche grazie a lui non
scriverò mai. Mi ascoltò con attenzione, mi diede un buffetto sul viso e
lapidario mi disse: «Sarà sicuramente una cacata…» (qualche anno dopo, durante
un pranzo con altre persone, all’improvviso mi guardò, e stupendomi perché si
ricordava di quella conversazione mi disse, provocatorio: «Allora, l’hai scritto
questo grande romanzo?»).
Ma il bambino nel cortile si è fermato,
si è stancato di seguire aquiloni.
Si è seduto tra i ricordi vicini, i rumori lontani,
guarda il muro e si guarda le mani.
(fabrizio de andrè, le storie di ieri)
In questi giorni si è molto parlato di alcuni studenti che, una volta raggiunto
il punteggio minimo per superare l’esame di maturità, si sono rifiutati di
sostenere il colloquio orale avendo già ufficialmente ottenuto la promozione
grazie alla somma tra i crediti formativi ottenuti durante i cinque anni e i
“punti” accumulati con le prove scritte. Gli studenti coinvolti hanno spiegato
che la scelta è stata presa per protestare “contro i meccanismi di valutazione
scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente”
(il virgolettato è di Maddalena Bianchi, diciannove anni, di Belluno).
Gli adulti ovviamente si sono rizelati e in molti (soprattutto docenti e
dirigenti scolastici) hanno iniziato ad attaccare pubblicamente questi studenti,
come se una scelta del genere non fosse coerente reazione al modello di
formazione che loro stessi hanno creato, fatto di punteggi, crediti formativi,
valutazioni aritmetiche per ogni scorreggia fatta dagli studenti e dalle
studentesse. Raggiungo il punteggio? Sono “dentro”, arrivederci e grazie.
Dio cane, dio cane, cominciava a fare quello, che era un torinese. Si chiamano
barott, sono quelli della cintura torinese, dei contadini sono. Sono tuttora dei
contadini, che c’hanno la terra e la moglie la lavora. Sono i pendolari, gente
durissima, ottusi, senza un po’ di fantasia, pericolosi. Mica fascisti, ottusi
proprio. PCI erano, pane e lavoro. […] Stavano qua a lavorare per anni, per tre
anni, per dieci anni. Che uno invecchia subito e muore presto. Per quei quattro
soldi che non ti bastano mai è solo un ottuso, un servo che può farlo. Restare
per anni in questa prigione di merda e fare un lavoro che annienta la vita.
Comunque questo qua ha il sospetto che voglio fargli il culo e allora abbandona
il posto e ferma la linea. Arrivano i capi. Quando si ferma una linea si accende
il rosso dove è stata fermata la linea e arrivano tutti i capi lí. Che succede?
C’è questo che non vuole lavorare. Ma stai dicendo un’infamia, perché io sto
lavorando, non ci riesco perché sto imparando. Mica sono intelligente come te,
tu ci stai da dieci anni qua dentro è chiaro che uno come te impara tutto
subito. […] Allora il capo mi dice: Senta a me sembra che lei vuole fare un po’
il lavativo. Invece deve mettersi in mente che alla Fiat si deve lavorare, non
si deve fare il lavativo. Se vuole fare il lavativo vada a via Roma lí dove ci
stanno gli amici suoi. Gli dico: Guardi io non lo so se a via Roma c’ho degli
amici. Comunque io vengo qua perché c’ho bisogno dei soldi. Sto lavorando, non
ho imparato ancora e quando imparo lavoro. Mi volete dare sei giorni di prova o
no? Ma come sei giorni di prova, dice il capo, lei già sta da un mese qua. Sí,
da un mese, ma stavo a quel posto là, non a questo qua. Adesso devo avere altri
sei giorni di prova e lui il fuorilinea per sei giorni deve stare qua con me. Se
no non faccio un cazzo. (nanni balestrini, vogliamo tutto)
Al ministro Valditara, che annuncia una riforma perché questa contestazione non
possa più ripetersi, verrebbe da dire che chi semina Invalsi raccoglie
boicottaggi, e che siamo noi a non meritarci ragazzi che pensano con la loro
testa e che si sottraggono al dogma della produttività in nome del minimo
risultato utile. Personalmente, delle mie scuole superiori ho un ricordo
pessimo: un edificio che assomigliava a un carcere, professori ignoranti come e
più degli studenti (salvando la buona pace di un paio tra loro), competitività
che fuoriusciva da ogni senga delle porte di legno scricchiolanti, incapacità
dell’istituzione di fornire risposte adeguate a una platea molto eterogenea.
Alla maturità presi 94/100 e se non mi venne in mente di non presentarmi
all’orale è solo perché per prepararlo mi impegnai veramente poco,
concentrandomi sul mio futuro.
Chillu criaturo all’erta a destra, ‘o taglio a spazzolina:
Vittorio Alfieri, terza C, foto ingiallita,
tute d’a Lotto tutt’e juorne, niente Tod’s e Paciotti,
Air Force 180 nera e blu cobalto,
‘o baffo bianco, ‘a scritta rossa ‘ncopp’o strappo
identica e precisa ‘a scena ‘e Get rich or die trying,
e io annanz’ ‘e vetrine ‘e Simon a Marano.
‘E 125 erano ‘a marce,
sunnavo al massimo ‘a Leovinci sott’o motorino
e ‘o gruppo Polini.
“Chill’e Mani Pulite erano cchiù politici”,
ma quanno maje nuje simm’ stati uniti…
‘E Stati Uniti e Porto Rico, è chello che vulesse ‘a Lega Nord:
scennere ‘cca ‘a stagione, e sparagna’ ‘na cosa ‘e sorde.
(patto mc ft. co’sang, da venti anni a mo’)
(a cura di riccardo rosa)
Tag - parola della settimana
(disegno di ottoeffe)
Giovedì il consiglio comunale di Napoli ha approvato una mozione che lo impegna
alla rescissione di una serie di accordi con lo stato di Israele, nonché ad
aprire una discussione con le università della città affinché anche i rapporti
accademici tra gli atenei napoletani e quelli israeliani vengano interrotti. La
mozione è stata approvata faticosamente dopo le pressioni della Rete Napoli per
la Palestina, che aveva ottenuto la convocazione di un consiglio sul genocidio
in corso, salvo poi scoprire che la seduta avrebbe avuto come oggetto una
generica “crisi umanitaria a Gaza”.
Ho trovato fastidioso il paternalismo con cui i giornali, ma anche le persone
sui social, persino attivisti e militanti di vari gruppi, hanno commentato il
discorso di G., una compagna del Centro culturale Handala Ali che ha fatto un
ottimo intervento davanti al consiglio, simile alle dichiarazioni che si fanno
in parlamento per spingere i membri dell’assemblea a un voto giusto. La cosa più
rilevante è stata la capacità di G. di ri-bilanciare il rapporto tra la comunità
cittadina – che aveva chiesto azioni concrete al Comune – e i suoi
rappresentanti, a cui ha ricordato che se la città gli chiede di fare qualcosa,
loro sono tenuti a (e pagati per) farlo.
E invece è stato tutto un magnificare quanto questa ragazza fosse stata
grintosa, decisa, chiara, “immensa”, “fantastica” e così via, tutti scioccati
probabilmente dal fatto che G. sia giovane – ma nemmeno tanto: a cinque anni
Mozart aveva già scritto il Minuetto e alla stessa età Torquato Tasso scriveva
perfettamente in latino –, lucida, poco emozionata, e magari anche che parlasse
bene l’italiano per quanto mezza palestinese (andrebbe spiegato che G. è
palestinese ma anche napoletana, che fa già politica da un bel po’ di anni, è
abituata a parlare in pubblico, a scrivere, e si fa un cu…ore così in giro per
l’Italia per sostenere la Resistenza del suo popolo).
Quando Macciocchi scrive il suo diario di campo, la rivolta delle nuove
generazioni è in corso da mesi. Sulle bocche degli studenti sono rinate parole
scomparse dal lessico del partito: rivoluzione, borghesia, proletariato. I
giovani discutono della rivoluzione culturale cinese, di Che Guevara, del
Vietnam, ma nel partito sono guardati con sospetto. […] I giovani rompono la
burocratizzazione, le liturgie interne, i metodi antidemocratici. Se ne
infischiano delle elezioni e della composizione delle liste. Per metterli in
disparte si dice che sono immaturi, che devono fare esperienza. In federazione o
nelle sezioni Macciocchi incontra ragazzi incuriositi da una donna che “parla
come un uomo” e che rompe il vecchio schema della subordinazione femminile.
Molte sezioni di periferia, annota Macciocchi, registrano in quei mesi una
“secessione cinese”. Il partito si trincera dietro formule vuote – “la gioventù
non è un fatto anagrafico”, “ci si trasforma restando uguali”, “rinnovamento
nella continuità” –, slogan che rivelano solo una tenace resistenza al
mutamento. (luca rossomando, le fragili alleanze)
Alcuni tra quelli che posso considerare dei “maestri” mi hanno insegnato tempo
fa, senza proclami ma facendomelo vedere giorno per giorno, che il modo migliore
per non scivolare sulla buccia di banana del paternalismo è trattare alla pari
il proprio interlocutore, indipendentemente dalla sua età, la sua condizione
sociale, e tutto il resto.
(credits in nota1)
Quando ero alle medie, invece, avevo letto due o tre libri di Dickens. Mi erano
piaciuti molto (mi piacciono tuttora) ma sentivo che c’era qualcosa che non
andava e non riuscivo a capire. Anni dopo lessi un altro libro, di Orwell, che
mi fece notare che il problema del paternalismo di Dickens nei confronti dei
suoi personaggi poveri e sfruttati stava nel messaggio di fondo: tutti possono
crescere e migliorare, anche (oppure solo?) da soli, comprendendo errori,
modificando condotte, insomma dandosi da fare per uscire dalla propria
condizione senza necessariamente sovvertire l’ordine delle cose.
Ho discusso di Dickens in termini del suo “messaggio”, tenendo da parte le sue
qualità letterarie. Ma ogni scrittore, soprattutto ogni romanziere, ha un
“messaggio”, lo ammetta o no, e i più piccoli dettagli della sua opera ne sono
influenzati. Tutta l’arte è propaganda. Né lo stesso Dickens né la maggior parte
dei romanzieri vittoriani avrebbero pensato di negarlo. […] Ci viene detto che
nella nostra epoca qualsiasi libro che abbia un genuino merito letterario avrà
anche una tendenza più o meno “progressista”. Ciò ignora il fatto che nel corso
della storia è stata infuriata una lotta tra progresso e reazione, e che i
migliori libri di ogni epoca sono sempre stati scritti da diversi punti di
vista, alcuni dei quali palesemente più falsi di altri. Nella misura in cui uno
scrittore è un propagandista, il massimo che si può chiedere da lui è che creda
sinceramente in ciò che dice, e che non sia qualcosa di incredibilmente
sciocco. (george orwell, letteratura palestra di libertà)
Il paternalismo di un uomo maturo che cerca di non farsi sedurre da una giovane
di lui invaghita è un topos ricorrente della musica napoletana. Una bella
canzone, seppur impregnata di questo paternalismo tendente a sminuire il
sentimento (femminile), è Nun t’annammura’, cantata da Natale Galletta ed
Emiliana Cantone:
EC:
Dimme pecché me ne cacce,
pecché nun vuo’ chesti braccia…
Nun me chiamma’ guagliuncella io so femmena già!
[…]
NG:
No, tu nun t’e ‘a ‘nnammura’
è colpa dell’età
è solo n’attrazione che col tempo passerà…
L’ho riascoltata qualche giorno fa mentre ero al mare e pensavo a cosa scrivere
in questa rubrica. L’algoritmo a quel punto si è attivato e mi ha proposto
alcuni tra i pezzi cult della musica cittadina tra gli anni Novanta e Duemila.
Mentre pensavo alla rubrica, però, pensavo anche, insieme ad alcuni colleghi
dottorandi e dottorande, al testo di una dura mail che abbiamo poi scritto
all’Orientale lamentando che per l’ennesima volta il bonifico con i soldi della
borsa di ricerca che abbiamo vinto tre anni fa fosse in grosso ritardo. Pensavo,
ascoltavo e mi appisolavo, e non so se sia stato sogno o realtà, mi sono trovato
davanti il rettore Tottoli in costume da bagno, che mi dava una pacca sulla
spalla canticchiando una vecchia canzone di Finizio che racconta di quanto
all’amore faccia bene essere poveri (spoiler: non fa bene affatto).
E chistu suonno t’o giuro m’ha fatto riflettere
ca senza sorde l’ammore cchiù bello ‘o può vivere.
Sulo ‘na sera te prego vestimmece a povere
e senza machina a per’ te porto cu me:
‘na cammenata a Mergellina ‘nzieme a te
senza nemmeno mille lire p’o cafè,
dint’o pacchetto sulamente n’ati tre
e me spartevo dint’ e vase ‘nzieme a te.
(gigi finizio, ‘na cammenata a mergellina)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Vittorio De Sica e Pierino Bilancione in: I giocatori / L’oro di Napoli, di
Vittorio De Sica (1954)
(disegno di ottoeffe)
Credi davvero
che sia sincero
quando ti parlo di me?
Credi davvero
che mi spoglio
di ogni orgoglio davanti a te?
Non credi di essere un po’ ingenuo?
Non credi di essere rimasto un po’ indietro?
Non ti fidare mai:
non sono gli uomini a tradire ma i loro guai.
(vasco rossi, credi davvero)
“Quando ero più giovane e ingenuo” è uno dei miei incipit preferiti. Forse
perché non mi dispiace invecchiare, né considerarmi sempre più furbo e scaltro
con il passare del tempo (già a quindici anni, a dire il vero, pensavo di essere
più sveglio degli altri).
Quando ero più giovane e ingenuo, dicevo, pensavo che non potessero esistere
persone omosessuali di destra. Credevo che se uno fa parte di un gruppo sociale,
di una minoranza etnica, di una qualsiasi collettività che viene discriminata
per il suo modo di essere, per la propria religione, per il proprio orientamento
sessuale, subendo una limitazione di diritti da parte delle classi dominanti,
non può che avere come obiettivo il rovesciamento della società che lo
discrimina, l’abbattimento del potere, la costruzione di un mondo più giusto.
Invece può accadere che neri d’America votino Trump; che i percettori di reddito
di cittadinanza votino una che gli dice che glielo toglierà; che operai si
astengano dal votare a un referendum che vuole abolire una parte delle leggi che
ne limitano i diritti; che il gay pride venga sponsorizzato dalle multinazionali
che fondano la propria ricchezza sulla divisione del mondo tra oppressori e
oppressi; che il presidente dell’Arcigay e di una sezione dell’Associazione
Partigiani (al secolo Antonello Sannino) partecipi a iniziative governative in
un paese che sta sterminando una popolazione da quasi due anni, e che ci venga
pure a dire di come gli israeliani sono bravi perché rispettano i diritti
civili, o che alcuni di loro non condividono questo genocidio.
Le recenti notizie relative alla partecipazione di esponenti del movimento
LGBTQ+ italiano a iniziative promosse dallo stato d’Israele hanno scosso Arcigay
Nazionale, che si è detta “non al corrente”, sottolineando come coloro che sono
rimasti bloccati a Tel Aviv e che hanno preso parte a tali iniziative “lo hanno
fatto a titolo personale”. Nel suo comunicato ha parlato di azioni “in contrasto
con la linea politica di Arcigay su quanto sta accadendo in Medio Oriente”.
Anche dalla più grande organizzazione LGTBIAQ+ italiana, dunque, giunge la
condanna alla “sistematica strategia del rainbow washing” messa in atto dalle
autorità israeliane, ribadendo la “narrazione tossica” fatta negli anni dal
governo israeliano. “Arcigay rigetta con fermezza l’idea che la battaglia per i
diritti LGBTQIA+ possa essere strumentalizzata per legittimare politiche
belliche, aggressioni unilaterali o campagne di regime change”, stigmatizzando
il coinvolgimento di attivisti e organizzazioni internazionali che prestano il
fianco a tali narrazioni. (emanuela longo, gay.it)
Conosco il presidente di Arcigay Napoli da molti anni. Non che l’abbia mai
frequentato, ma incrociato spesso nell’ambito della sua carriera politica, sì.
Ero già meno ingenuo, quando l’ho conosciuto, da potermi accorgere che si tratta
di un uomo di destra, molto interessato al potere e alla legittimazione politica
del potere. È stato un fedelissimo, e amico, dell’ex sindaco de Magistris, che
ha celebrato il matrimonio tra Sannino e il suo compagno condendo l’iniziativa
con la sua solita retorica populista (per tirare la volata al primo cittadino
alle elezioni del 2016, tra l’altro, Sannino organizzò a pochi giorni dal voto
un imbarazzante pride a Bagnoli, insieme al peggio del terzo settore cittadino,
strumentalizzando le lotte territoriali e tutto quello che poteva
strumentalizzare, raggranellando alla fine appena trecento voti). Attualmente è
in fase di cambio casacca: ha ottimi rapporti con i pezzi grossi napoletani dei
Cinque Stelle (su tutti la parlamentare Gilda Sportiello e il futuro presidente
della regione Roberto Fico), con il sindaco e la segretaria del Pd Elly Schlein,
e ha partecipato alla piazza per il riarmo dell’Europa il 15 marzo a Roma. È
notoriamente insensibile, o cieco, rispetto alla politica coloniale e fascista
dello stato di Israele, di cui è un esplicito supporter.
“Ma se questo viene dalle favelas, perché sostiene un fascista che odia i neri e
se potesse li sterminerebbe?”, mi chiedevo fino a un po’ di tempo fa ogni qual
volta un Neymar, un Robinho o un Ronaldinho pronunciava un endorsement per l’ex
presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Qualcosa di simile sta succedendo oggi in
Argentina, dove un brutto colpo me l’aveva già rifilato el Titan Martin
Palermo, sostenitore e amico del presidente Milei. Il governo sta infatti
lavorando a una mega riforma del calcio nazionale, che prevede tra le altre cose
l’eliminazione di ciò che resta dell’istituto giuridico per cui le società di
calcio, anche professioniste, possono avere forma di una cooperativa popolare
fortemente improntata ad attività sociali.
Sponsor di questa operazione è Juan Sebastian Veron (ex Lazio, Inter, Chelsea e
Manchester United), presidente dell’Estudiantes di La Plata e personaggio assai
chiacchierato in patria, legato a grandi gruppi economici canadesi e
statunitensi. Dall’altra parte, a tutelare quel che fu della mia ingenuità e a
opporsi alla riforma, c’è Juan Ramon Riquelme, bandiera del Boca Juniors persino
più di Maradona, attuale presidente che ha di recente fronteggiato la polizia in
curva, durante una partita di campionato, per fermare gli scontri tra gli agenti
e i suoi tifosi. Lasciatemi pensare che tutto questo c’entri col fatto che Veron
è figlio di miliardari (il padre era un calciatore) e Riquelme nasce invece come
un poveraccio, in una famiglia da undici figli in un sobborgo di Buenos Aires.
Non è territorio per ingenui il processo penale, come è apparso evidente questa
settimana, durante le udienze che hanno portato alla sbarra tre uomini
palestinesi a L’Aquila (l’intera vicenda è ben ricostruita sull’ultimo
numero de Lo stato delle città): il primo reo di supportare logisticamente un
gruppo di partigiani che combatte conto l’occupante israeliano in Cisgiordania;
gli altri solo, di fatto, di essere suoi amici.
Eppure la cosa più divertente è quando gli avvocati fanno i finti ingenui per
far dire le cose ai testimoni e gli imputati, come hanno fatto nel caso
specifico i due della difesa – Rossi Albertini e Formoso – smascherando la
superficialità delle indagini della polizia italiana, che (a un occhio poco
ingenuo) sembra aver lavorato su commissione di una potenza straniera – lo stato
di Israele, che di Anan Yaesh aveva chiesto invano l’estradizione.
Avv.: Ispettore lei sa se in Cisgiordania ci sono altri gruppi armati?
Silenzio.
Avv.: Sa se ci sono formazioni che operano sul territorio, che posizioni
politiche hanno, che rapporti con la popolazione?
Silenzio.
Avv.: Sa i nomi dei comandanti, su quanti militanti possono contare, quali sono
le gerarchie?
Teste: Non posso rispondere.
Avv.: Non può rispondere o non lo sa?
Teste: Il mio compito su questo materiale era quello di…
Avv.: Non le ho chiesto quale era il suo compito, mi risponde sì o no?
Teste: No.
The less we say about it the better / Meno ne parliamo meglio è.
Make it up as we go along: / Ce lo inventeremo strada facendo:
feet on the ground, head in the sky / piedi per terra, testa in aria.
It’s okay, I know nothing’s wrong, nothing / Tutto ok, so che non c’è niente di
male… niente.
[talkin heads, this must be the place (naive melody) / deve essere questo il
posto (motivetto ingenuo)]
a cura di riccardo rosa
(disegno di ottoeffe)
Un’amica mi ha raccontato che nel piccolo paese da cui proviene è ancora molto
in voga, pure tra i giovani, “Padrone e sotto”, antico gioco praticato in molte
regioni meridionali. Funziona più o meno così: la prima parte è una partita a
scopa a squadre, o una tirata a tocco; chi ha il punto di primiera più alto, o
chi ha vinto il tocco, viene nominato “padrone”, mentre chi ha il secondo è il
“sotto”; il sotto e il padrone decidono di volta in volta il giocatore che potrà
bere dalla brocca o dalle bottiglie comuni, cercando di lasciare fuori qualcuno
di non gradito. A volte, però, facendo finta di volergli offrire da bere a
oltranza, i due cercano di mettere in mezzo uno dei partecipanti, concentrando
su di lui le bevute per farlo ubriacare e denigrarlo. Non è detto che le
alleanze portino al risultato prefissato, e in quel caso tanto vino sarà andato
sprecato.
Durante la prima presentazione di un libro che ho scritto molto tempo fa (La
sfida. Storia del re della sceneggiata), alla Sala Assoli del Teatro Nuovo di
Napoli, il maestro Pino Mauro, accompagnato da Franco Ricciardi, Carmine
Paternoster e Marco Giusti, si mise a recitare Questione ‘e tuocco, di E.A.
Mario, che parla di una vendetta all’arma bianca consumata durante una giocata a
Padrone e sotto.
Proprio accussì, tre anne carcerato
pe ‘na quistione ‘e tuocco e mo’ so’ asciuto,
maje s’è appurato ‘o fatto comm’è juto
e ‘a chesta vocca maje se po’ appura’.
Però nun fuje p’o vino, fuje pe’ ‘na parola
ascette ‘mmiezo ‘o nomme ‘e ‘na figliola
ca nun s’aveva proprio annumena’…
– Meh, jammo’: a chi adda essere?
Adda essere a vuje, ‘gnorsì cumpa’!
[…] Sbagliaje, curtellaje ‘nnucentemente
a chi nun era ‘nfame comme a te,
embè stasera ‘o vendico:
chesta è pe’ isso, e chesta ‘cca è pe’ me!
(pino mauro, questione ‘e tuocco)
Si è ormai diffusa in diverse città d’Italia la pratica del Graduation day,
durante il quale i neolaureati si ritrovano in una sede universitaria o in una
piazza della città per celebrare il raggiungimento dell’obiettivo lanciando in
aria il tocco, cappello che simboleggia la fine e il successo di un percorso di
studio. A Novara in piazza dei Martiri erano, lo scorso weekend, in più di
mille; a Macerata, in piazza Vittorio Veneto, diverse centinaia, provenienti da
più di trenta paesi. Gli studenti sono stati salutati dal rettore McCourt, primo
straniero a capo di un ateneo italiano, che ha esaltato la capacità
dell’università nel formare i giovani “a capire, pensare, affrontare le
complessità del presente”. Da più di un anno il rettore (membro del cda di
UniItalia, ente che si occupa della cooperazione accademica internazionale)
viene duramente contestato per gli accordi dell’università con atenei
israeliani, accordi che non ha finora voluto rescindere, a differenza di quanto
fatto con le università russe dopo l’invasione dell’Ucraina.
(da: al jazeera)
Dieci anni fa ricevetti in regalo per il mio compleanno un libro che riprende i
migliori discorsi tenuti da Kurt Vonnegut ai laureandi, al termine dell’anno
accademico.
Il rettore voleva eliminare ogni forma di pensiero negativo dal suo discorso di
saluto, e quindi mi ha chiesto di farvi quest’annuncio: “Tutti quelli che hanno
ancora in sospeso il pagamento del parcheggio sono pregati saldare il conto
prima di uscire da questo edificio, altrimenti si ritroveranno una sorpresina
sul libretto”.
Quando ero ragazzino a Indianapolis c’era uno scrittore umoristico di nome Kin
Hubbard. Ogni giorno scriveva una freddura di qualche riga per l’Indianapolis
News. […] Spesso era arguto quanto Oscar Wilde. Disse, per esempio, che era
meglio avere il proibizionismo che stare senza alcool. O che chiunque sostenga
che il sapore della birra analcolica si avvicina a quello della birra è incapace
di misurare le distanze. Do per scontato che le cose veramente importanti vi
siano già state insegnate nel corso dei quattro anni qui e non abbiate gran
bisogno di sentire granché dal sottoscritto. Buon per me. Ho solo una cosa da
dire: questa è la fine, questa è sicuramente la fine dell’infanzia. “Ci dispiace
tanto”, come dicevano durante la guerra del Vietnam. (kurt vonnegut, fredonia
college, new york, 20 maggio 1978)
Ancora, a proposito di tocco e di università: gira su Youtube un video in cui
padre Mike Schmitz, cappellano all’Università del Minnesota Duluth (una via di
mezzo tra l’Hugh Grant di Nottingh Hill e lo Sturby di Marco Marzocca), spiega
il rapporto tra sorte e Spirito Santo quando c’è da prendere qualche decisione
importante. Nello specifico si parla di Conclave ed elezione del Papa:
Una mia amica una volta mi ha detto: “Pensavo che tutto il processo fosse molto
più… santo. Una cosa quasi mistica. Tipo, entri nella Cappella Sistina, ti metti
in preghiera e chiedi allo Spirito Santo di guidare le decisioni”. Invece ha
scoperto che i cardinali parlano, discutono, dibattono. Possono
persino cercare consensi, cercare voti. E questo le sembrava… meno spirituale,
diciamo così. Eppure, se torniamo alla Bibbia, vediamo che
lo Spirito Santo agisce attraverso persone comuni, attraverso mezzi, eventi
e circostanze che non ci aspetteremmo. Per esempio, negli Atti degli Apostoli,
Giuda è morto, e gli apostoli si riuniscono per decidere chi prenderà il suo
posto. Come scelgono tra Giuseppe il Giusto e Mattia? Tirano a sorte! È come se
lanciassero i dadi per decidere chi sarà il prossimo apostolo. Non sembra molto
santo, ma è proprio quello che fecero. E questi sono uomini che camminarono con
Gesù, che furono istruiti e formati da lui. Eppure, dicono: “Non lo sappiamo.
Tiriamo a sorte”. (fr. mike schmitz, da uccr online, davvero lo spirito santo
elegge il nuovo papa?)
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/06/la-banda-tagliato.mp4
(credits in nota1)
(a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Camillo Mastrocinque
(1956)
(disegno di ottoeffe)
Ruinosa è senza la base del timor ogni clemenza. (torquato tasso, gerusalemme
liberata; canto quinto)
Sono giorni di attacchi missilistici incrociati tra Israele e Iran, attacchi che
assai assomigliano a una guerra, e che un po’ di preoccupazione destano,
considerando le potenze che ne sono protagoniste e il possibile innesco del
sistema di alleanze internazionali.
Israele ha presentato l’attacco come un’azione preventiva contro la minaccia
rappresentata dal programma nucleare iraniano, sostenendo che l’Iran ha al
momento troppo uranio arricchito, utilizzabile per quindici potenziali bombe
(solo pochi mesi fa l’intelligence americana aveva escluso che l’Iran stesse
allestendo un arsenale militare nucleare).
L’attacco israeliano è partito da Teheran, e in particolare da una base segreta
di droni costruita dal Mossad vicino la capitale. L’intelligence israeliana
avrebbe sfruttato una rete logistica interna al paese per far entrare armi,
veicoli e sistemi di comando.
E già gli altri, insieme al glorioso Odisseo,
stavano nella piazza di Troia, nascosti dentro il cavallo:
gli stessi Troiani lo avevano tirato fin sull’acropoli.
Così quello era lì: ed essi confusamente a lungo parlavano,
seduti all’intorno: tre pareri piacevano loro,
o infilzare il cavo legno con bronzo spietato,
o gettarlo giù dalle rocce, trascinato fino a un dirupo,
o lasciare che fosse un gran dono propiziatorio per gli dei.
E proprio così poi doveva andare:
infatti, era destino che essi perissero, appena la città avesse accolto
il grande cavallo di legno, dove sedevano tutti i più forti
degli Argivi, portando strage e rovina ai Troiani.
E cantava come distrussero la città i figli degli Achei,
calati giù dal cavallo, dopo aver lasciato la concava insidia.
(omero, odissea VIII; vv. 485-522)
Nelle ultime ore il governo iraniano ha annunciato che colpirà anche le basi
degli alleati di Israele, facendo riferimento neppure troppo velatamente agli
Stati Uniti. Proprio alcune mosse dell’imprevedibile Trump sono state, in
realtà, secondo molti analisti, una delle cause indirette dell’accelerazione
israeliana nell’avvio del conflitto: il criminale di guerra Netanyahu sarebbe
stato parecchio indispettito dalla riapertura dei negoziati tra gli Usa e l’Iran
sul nucleare, dalla tregua americana con i principali gruppi armati yemeniti e
dall’apertura di un canale diplomatico e soprattutto commerciale (ovviamente si
parla di armi…) con l’Arabia Saudita.
Qualche giorno fa hanno dato in televisione Rain Man, film a dir poco
sopravvalutato che si lascia guardare per la bellezza di Valeria Golino e per un
paio di spunti indovinati. Il migliore, ma solo in lingua originale, è la
ripresa di una vecchia gag di Abbott e Costello (in italiano Gianni e Pinotto),
in cui i due discutono dei nomi dei giocatori di una squadra di baseball.
Costello chiede al suo partner chi è il giocatore in prima base, e Abbott gli
risponde che si chiama Who (che in inglese significa “chi”). “Who’s on first!”,
continua a ripetergli, generando confusione nell’altro, il quale pensa che
Abbott stia rispondendo alla sua domanda sulla posizione del giocatore (mi rendo
conto che a spiegarla così non fa ridere, per cui meglio godersela in video e
zitti):
In chimica inorganica, si dicono “basi” quelle sostanze che in soluzione acquosa
si scindono dando ioni idrossido OH-; oppure, parlando di sistemi acido-base, le
sostanze in grado di acquistare uno o più protoni da un’altra sostanza (acido):
hanno l’effetto di far divenire rossa una soluzione incolore di fenolftaleina, e
azzurra una soluzione rossa di tornasole. In chimica organica, invece, le “basi”
sono i derivati contenenti azoto, ottenuti sostituendo con radicali organici gli
atomi d’idrogeno dell’ammoniaca o dell’idrossido d’ammonio.
In riferimento agli stupefacenti, il termine indica la forma non-salificata di
una sostanza che può essere vaporizzata o fumata (una forma che può avere
un’assimilazione più rapida rispetto alla sua forma salificata, più comunemente
usata per la somministrazione orale o endovenosa).
Fra’, nun sì ‘e ccà,
nun saje che ‘e a fa cu l’ammoniaca:
scarfa a nuvanta grad’ int’a cucina,
‘e frate mieje so’ chef, io arap’ ‘e ristorant’.
(luchè, ‘e cumpagne mie)
In napoletano, “base” è anche una delle tante parole usate per indicare “la
piazza” (di spaccio). Molti anni fa ascoltai a teatro un pezzo di Lanzetta che
parlava della solitudine del “palo”, quello che fa la vedetta alla base per
avvisare dell’eventuale arrivo della polizia, uno degli ultimi gradini della
scala socio-criminale. Non di rado, in effetti, si tratta di poveracci a
malapena organici al Sistema, che tirano fuori non pochi soldi per un lavoro che
non sporca le mani e che forse proprio per questo, pur nella sua importanza
strategica, è tenuto in poca o nulla considerazione.
E guardie stanno ‘nculo, ormai se so’ ncullate
vacce a spiega’ che ‘e a fa’ magna’ ‘e criature,
biberon, ciuccio, pannuline e ‘n ce a faje cchiù a senti’ “pipì e puppù!”.
Perciò staje abbascio all’edificio e cirche e te fa’ ricco,
e si ce daje ‘o dentifricio sicc’ chill’ s’o pippa pure.
Ma diciteme vuje: quale persona nun vulesse nu burzone ‘e Loui-V
chin’ ‘e fasul’ e parti’ a luglio? ‘E a fa’ sule duje biglietti!
Fitta ‘na vettura e vire comme te divierte,
invece ‘e a bere latte Berna scaduto, si addeventato sgarrupo,
t’adatti o fernisc’ int’a ‘na traversa vattutto
cu tre ‘nfamune ca colpiscen’ a turno ‘a cavia d’a caccia notturna.
Craccomani acrobati arrobbano ‘ncopp’ e balcune,
perdono ‘o malloppo pe’ fujì d’e robocòp,
Range Evoque, roba over’ io e Rocco!
(nto ft. rocco hunt, quante cose)
a cura di riccardo rosa
(disegno di ottoeffe)
Una cosa che mi hanno insegnato molto tempo fa è che quando si scrive, o si
interviene in un consesso pubblico, bisogna saper far emergere la rabbia ma
occultare il livore.
Rabbia: Irritazione violenta, spesso incontrollata, provocata da gravi offese,
contrarietà o delusioni; oppure sorda e contenuta, dovuta a sdegno o dispetto,
senso d’impotenza o anche di invidia.
Livore: Astio o rancore astioso.
(da: google.com)
Una decina d’anni fa i redattori di Monitor mi fecero riscrivere più volte un
pezzo-invettiva contro il gruppo comico dei Jackal, perché tracimava, appunto,
livore da ogni parola.
I video dei Jackal ammiccano caricando all’estremo i personaggi del cosiddetto
“popolino”, enfatizzandone a dismisura il dialetto, le movenze, le abitudini più
colorite, insomma tutto quanto si può reputare, a seconda della convenienza, ora
pittoresco ora intollerabile. Anche quando non si dà addosso ai parcheggiatori
abusivi o ci si fa beffe delle vrenzole (al limite della denuncia i video in cui
due ragazzi discorrono tra loro, imitando male le donne dei quartieri popolari,
con un accento taroccato quanto quello del poliziotto italo-americano dei
Simpson), l’immagine della città è talmente stereotipata da risultare grottesca
anche per il turista tedesco o americano. (riccardo rosa, the jackal, la napoli
che viaggia in rete)
Un giornalista molto bravo nel suo genere – quello di attaccare i potenti, in
particolare quelli legati al mondo del giornalismo, con articoli al vetriolo ma
lasciando sottoterra l’ascia del livore – è stato Nello Cozzolino, che per molti
anni ha gestito un blog, dal nome Iustitia, interamente dedicato a questa
funzione. Piccolo capolavoro è un pezzo del 2005 che smascherava l’ambiguo iter
con cui il paladino della legalità Francesco Emilio Borrelli aveva ottenuto il
tesserino di giornalista professionista.
Il 25 novembre 2003 Borrelli comincia il praticantato giornalistico alla
redazione di Lamezia Terme, un centro di settantamila abitanti della Calabria
centrale affacciato sul Basso Tirreno. Lamezia ha l’aeroporto, ma non ci sono
voli diretti con Napoli; per raggiungerla rimangono il treno, con tre ore e
mezzo di Eurostar, se va bene, o 390 chilometri di autostrada. […] L’assunzione
viene comunicata al neo-praticante dall’amministratore unico di
Teleregione, Domenica Sarnataro, come il marito Giuseppe Giordano dal 21 ottobre
agli arresti domiciliari. […] Ma torniamo a Borrelli e alle bizzarre modalità
con cui viene assunto: teleradioreporter con contratto a contribuzione zero per
l’editore […]; la precondizione per ottenere gli sgravi è lo stato di
disoccupato di chi deve essere assunto. Anzi, la legge 407 è applicabile
soltanto ai disoccupati di lunga durata, lavoratori che da almeno due anni sono
in cassa integrazione o senza lavoro. Per ottenere gli sgravi, i dirigenti di
Teleregione. […] Va infine segnalato che […] “non è possibile svolgere il
praticantato quando si ha un contratto, anche di consulenza, in esclusiva con un
ente pubblico (come il Comune o la Provincia di Napoli, ndr). Lo vietano gli
articoli della legge 150 del 7 giugno 2000, che regola la comunicazione
pubblica”. (nello cozzolino, un telereporter a lamezia terme)
Col tempo credevo di aver imparato a distinguere anche io tra questi due nobili
sentimenti, eppure in settimana, dopo la pubblicazione di questo articolo, una
redattrice del giornale mi ha detto: «Ma alla vostra età scrivete ancora questi
pezzi?» (in realtà il vero punto è che pezzi così non li scrivono i redattori e
le redattrici più giovani, ma questa è un’altra storia).
Mussolini è il più grande bluff d’Europa. Anche se domattina mi facesse
arrestare e fucilare, continuerei a considerarlo un bluff. Sarebbe un bluff
anche la fucilazione. Provate a prendere una buona foto del signor Mussolini ed
esaminatela. Vedrete nella sua bocca quella debolezza che lo costringe ad
accigliarsi nel famoso cipiglio mussoliniano imitato in Italia da ogni fascista
diciannovenne. Studiate il suo passato. Studiate quella coalizione tra capitale
e lavoro che è il fascismo e meditate sulla storia delle coalizioni passate.
Studiate il suo genio nel rivestire piccole idee con paroloni. Studiate la sua
predilezione per il duello. Gli uomini veramente coraggiosi non hanno nessun
bisogno di battersi a duello, mentre molti vigliacchi duellano in continuazione
per farsi credere coraggiosi. E guardate la sua camicia nera e le sue ghette
bianche. C’è qualcosa che non va, anche sul piano istrionico, in un uomo che
porta le ghette bianche con una camicia nera. (ernest hemingway, by-line)
Lo scorso fine settimana è andato in scena a Roma il Cage Warriors 189, incontro
di MMA tra l’irlandese Paddy McCorry e l’israeliano Shuki Farage. Dopo avere
atterrato il suo avversario, il pugile irlandese lo ha bloccato a terra e mentre
gli assestava altri colpi gli ha urlato più volte nelle orecchie di andare a
fare in culo e, soprattutto, “Palestina libera!”. All’annuncio della vittoria,
decretata all’unanimità dai giudici, McCorry ha alzato una bandiera palestinese
e ha nuovamente gridato “Free Palestine!”, applaudito dal pubblico.
Esattamente cinquant’anni fa usciva uno dei pezzi più belli e poetici di Joan
Baez, scritto qualche mese prima, successivamente a una telefonata notturna del
suo ex compagno Bob Dylan, che come sempre “lasciava vaghe le cose importanti”,
ma la chiamava per capire se lei fosse ancora innamorata di lui. Con l’eleganza
che la contraddistingue, Baez domina il livore e assesta due o tre colpi al suo
vecchio amante (il più divertente è “unwashed phenomenon”, espressione con cui
Dylan era stato definito anni prima da un portiere di un albergo nel quale
avrebbe voluto prenotare una stanza, proprio insieme a Baez). La cantante alla
fine scarica il suo poeta, dicendogli in sostanza che “ha già dato” e non ha
intenzione di accettare più né i suoi diamanti né la sua ruggine. Qualche anno
dopo, in un festival in Texas, Baez avrebbe cantato il pezzo cambiando le parole
finali, e ricevendo un’ovazione al suo: “E se hai intenzione di offrirmi
diamanti e ruggine… prendo solo i diamanti”.
Now you’re telling me | E ora mi dici
you’re not nostalgic | che non hai nostalgia
then give me another word for it | e allora dammi un’altra parola per dirla
you who are so good with words | tu che sei così bravo con le parole
and at keeping things vague | e a lasciare le cose vaghe,
‘cause I need some of that vagueness now | perché ho bisogno di un po’ di quella
vaghezza ora
it’s all come back too clearly | che tutto mi torna così chiaro.
Yes, I loved you dearly | Sì, ti ho amato dolcemente
and if you’re offering me diamonds and rust | e se mi stai offrendo diamanti e
ruggine
I’ve already paid | ho già pagato.
(joan baez, diamonds and rust)
a cura di riccardo rosa
(disegno di ottoeffe)
La parola “scudo” viene dal latino scutum, in riferimento al cosiddetto scudo
oblungo, elemento difensivo “con una nervatura centrale lignea di rinforzo,
detta ‘spina’, dal materiale organico, derivato da più antichi modelli micenei e
utilizzato dall’esercito romano ma anche da bande guerriere”. A parte alcune
rare eccezioni, non è stato più usato in battaglia fin dall’introduzione delle
armi da fuoco. Una di queste eccezioni è il “targe scozzese”, piccolo scudo in
legno, cuoio e metallo, utilizzato fino al 1700 e capace di difendere anche dai
proiettili dell’epoca.
«Per anni allo United sono entrato in campo per difendere, da mediano o
centrale, ma il mio istinto è offensivo. Il mio punto di forza è buttarmi in
area, segnare, creare pericoli». (scott mc tominay)
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bv.mp4
(credits in nota1)
Lo scudo può avere forme diverse: c’è lo “scudo normanno”, triangolare, con la
punta in basso; lo “scudo gotico antico”, con i fianchi ricurvi; il “gotico
moderno”, con la parte inferiore arrotondata; lo “scudo inglese” o “da torneo”,
che riproduce il modello di “targe” di cui sopra. In araldica lo scudetto è la
struttura di legno su cui vengono disegnate figure e simboli. In battaglia
poteva capitare di veder sventolare i simboli nemici, capovolti, per evidenziare
la loro disfatta o resa.
(curva b, scudetto 2023)
Nel linguaggio sportivo, lo “scudetto” è un piccolo scudo tricolore che viene
cucito sulla maglia degli atleti campioni d’Italia, nel calcio ma anche in altri
sport di squadra. La sua introduzione risale alla stagione 1924-25, anche se nel
1930, e per tredici anni, Mussolini impose l’apposizione del fascio littorio sul
petto dei campioni in carica. Lo scudetto fu contestualmente retrocesso a
simbolo della vittoria in Coppa Italia, fino a quando non tornò in palio, con la
ripresa dei campionati nell’ottobre 1945 (al termine della stagione fu assegnato
al Torino ma privo dello stemma sabaudo, nonostante al referendum che decretava
la fine della monarchia mancasse ancora quasi un anno).
Per quelli innamorati come noi,
per quelli che non ti han tradito mai,
magico Napoli, torna campion:
cuci sul petto un’altra volta il tricolor!
(coro ultras napoli sulle note de i maschi, di gianna nannini)
Quando ero bambino mi ci è voluto un po’ per capire che non a tutte le squadre
vincitrici nel mondo di un campionato spettasse lo scudo tricolore. In Germania
il premio per la vittoria è il Meisterschale, il “piatto dei campioni”, dal peso
di cinque chili e mezzo e dal valore di venticinquemila euro circa; in Francia
il capitano della squadra vincente alza al cielo il meno pregiato Hexagoal,
trofeo minimalista, in alluminio spazzolato con innesti dorati. In Inghilterra,
la coppa in palio tra il vincitore del campionato e della FA Cup si chiama
Community Shield (“lo scudo della comunità”). Il suo nome era prima Charity
Shield (“scudo della beneficenza”) ma nel 2002 la Charity Commission inglese
scoprì che la federazione calcistica si era intascata i soldi che avrebbe dovuto
devolvere per opere di bene e ne impose il cambiamento. Quest’anno per
conquistarselo si sfideranno il Liverpool e il Crystal Palace, squadra del
brutto sobborgo operaio di Croydon, che si chiama così perché fu fondata,
seppure non ancora ufficialmente, dagli operai dell’omonima struttura costruita
per l’Esposizione Universale di Londra, nel 1851.
(credits in nota2)
Uno dei momenti più emozionanti della premiazione del Napoli campione venerdì
sera è stato quando sul maxischermo è comparsa la mano di un incisore che
calcava sulla coppa scudetto il nome della mia squadra. Mi sono guardato intorno
e ho visto gente piangere, altra telefonare alla propria moglie, altra consumare
sostanze (va detto che all’intervallo della partita i bar della curva avevano
già tutti esaurito le scorte di birra). Al fischio finale di Napoli-Fiorentina
del 10 maggio 1987, intervistato da Giampiero Galeazzi, Maradona disse che la
vittoria di quello scudetto valeva persino più del Mondiale che aveva vinto un
anno prima, perché quella vittoria era avvenuta “a casa mia”. È bello che oggi
quella casa porti il suo nome, e fa riflettere (forse fa riflettere solo me) che
da quando gli è stata intitolata, il Napoli abbia vinto due scudetti e una Coppa
Italia.
Insieme a un paio di amici con cui abbiamo visto la partita-scudetto al
Maradona, riflettevamo, durante la cerimonia di premiazione, su quanto a volte
la vita possa essere ingiusta, sulla potenza del caso e delle sue sliding
doors, e su quanto sia importante trovarsi al posto giusto al momento giusto.
Non che avessimo la forza per teorizzare, ma qualcosa del tipo:
A: Scudetti vinti da Zico?
B: Zero!
A: E da Ronaldo?
B: Zero!
A: Mmmm… da Kroll? Hamsik? Cavani?
B: Zero!
A: Scudetti vinti da Okafor?
B: Uno!
A: E da RafaMarin?
B: Uno!
A: Juan Jesus?
B: Due…
.
PS. Una menzione speciale sento il dovere di farla allo steward che in queste
ore sta rischiando il suo precario posto di lavoro, perché ripreso dai soliti
invadenti videoamatori mentre si disinteressa di una piccola folla che a pochi
passi da lui scavalca i cancelli dello stadio, per entrare in curva utilizzando
il biglietto di un altro settore. Buona fortuna amico mio, questo scudetto è
anche tuo. (a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Da: Braveheart. Cuore impavido, di Mel Gibson (1995)
² Operai inglesi smantellano il Crystal Palace. Cinegiornale a cura del British
Pathé.
(disegno di ottoeffe)
Un cittadino bolognese si è visto annullare la scorsa settimana migliaia di euro
di multe relative a infrazioni del codice della strada, sfruttando il sistema
del silenzio-assenso. L’uomo aveva presentato un ricorso al prefetto per ognuna
delle multe ricevute e, non essendogli stata recapitata l’istanza di rigetto,
aveva presentato domanda di annullamento in autotutela. Il Comune aveva comunque
proceduto a emettere cartelle di pagamento contro di lui, ma alla fine a
spuntarla è stato il multato, grazie all’intervento del giudice di pace.
Perplessità dal comando locale della polizia municipale.
(credits in nota1)
Dopo decenni di corteggiamento, e dopo momenti tristemente memorabili – la
sindaca Iervolino che attende i risultati sull’assegnazione della sede in mezzo
ad assessori e giornalisti, stringendo un corniciello rosso fuoco – finalmente
Napoli riesce a ottenere il ruolo di città ospitante della Coppa America di
vela. Esultano i giornali, che tornano a parlare di Bagnoli annunciando la
realizzazione di piattaforme a mare e di un costruzione di un villaggio
organizzativo sulla colmata (l’abbiamo già sentita); colmata che, come
ampiamente prevedibile e previsto, una volta blindata dall’accoppiata
Manfredi-Meloni, si prepara a diventare uno spazio privatizzato per grandi
eventi e sottratto, come da settant’anni a questa parte, ai cittadini.
«Bagnoli è stato un elemento essenziale per convincere gli organizzatori – ha
detto il ministro dello sport Andrea Abodi – e l’America’s Cup sarà un elemento
di accelerazione per un processo che è andato avanti troppo lentamente
sottraendo all’Italia un’area che può essere produttiva e che sarà la vera
eredità di questa sfida».
Ora con tal Ricorso di Cose Umane Civili, che particolarmente in questo libro si
è ragionato, si rifletta su i confronti, che per tutta quest’opera in un gran
numero di materie si sono fatti, circa i tempi primi e gli ultimi delle Nazioni
antiche e moderne: e si avrà tutta spiegata la Storia, non già particolare […];
ma dall’identità in sostanza d’intendere, e diversità de’ modi lor di spiegarsi,
si avrà la Storia Ideale delle Leggi eterne, sopra le quali corron’i fatti di
tutte le Nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini, se
ben fusse, lo che è certamente falso, che dall’Eternità di tempo in tempo
nascessero Mondi Infiniti. (giambattista vico, la scienza nuova)
Nelle estati del 2012 e del 2013, con il collettivo Ba.Fu.Ca.
(Bagnoli-Fuorigrotta-Cavalleggeri) e con altre realtà di movimento, mettemmo in
piedi, per fare il verso alla ricorrente farsesca candidatura napoletana alla
competizione velistica (all’epoca “LuisVittonCup”), una regata autorganizzata.
La chiamammo Giggin Vuitton Cup, una coppa finalmente dedicata a un povero
Cristo di Bagnoli, senza casa né lavoro, che si arrangiava vendendo prodotti
taroccati.
A proposito tengo ‘nu frat’
che da quindici anni sta disoccupato.
Che s’ha fatto cinquanta concorsi,
novanta domande e duecento ricorsi.
Voi che date conforto e lavoro,
eminenza, vi bacio e v’imploro:
chillo dorme cu’ mamma e cu’ me,
che crema d’Arabia ch’è chistu cafè!
(fabrizio de andrè, don rafè)
La “coppa America dei poveri” portò a Bagnoli centinaia di persone, improvvisati
skipper di imbarcazioni incerte e traballanti, canoe sgangherate, zattere mezze
marce, bidoni dell’immondizia riciclati che girarono la scogliera antistante il
Lido Fortuna provando ad arrivare in testa. Barche affondate, remate in testa,
gavettoni: tutto era concesso data l’assenza di regole, lo stesso spirito con
cui gli amministratori avevano agito nei vent’anni precedenti (oggi ne sono
passati più di trenta e non è cambiato nulla) truccando una finta bonifica,
elaborando progetti urbanistici sconclusionati, sognando una speculazione
edilizia che è ancora dietro l’angolo.
(foto d’archivio)
Se Bagnoli piange, i bagnolesi non ridono. Sono passati più di due mesi dallo
sciame sismico di marzo e dalla più violenta scossa degli ultimi cinquant’anni e
le risposte istituzionali sono assolutamente insufficienti su tutti i fronti (i
più eclatanti: un decreto governativo che sa di elemosina; il mancato pagamento
del sostegno agli affitti; il mancato arrivo dei fondi per la messa in sicurezza
degli edifici; la mancata programmazione di una sistemazione in strutture
pubbliche e private per gli sfollati, che vengono trattati come pacchi vedendosi
prorogato un soggiorno in alberghi dall’altra parte della città ogni dieci
giorni).
Lo scorso mercoledì era programmato un incontro tra l’Assemblea popolare e tutti
gli assessori competenti, che è saltato senza nessun avviso. Rimandato a
venerdì, le risposte sono state a dir poco imbarazzanti. Successivamente, nella
stessa giornata, un corteo ha attraversato il quartiere ribadendo l’urgenza di
interventi reali e non di rappezzi che sanno di presa in giro.
Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante
bombardamento dell’informazione. […] Il flusso è costante, – riprese Alfonse. –
Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde,
particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra
attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché
capitino da un’altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California.
Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di
massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri
perché nell’intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono
stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a
condannarli. (alfonse spiega a jack la sua teoria sulle catastrofi in: rumore
bianco, di don delillo)
Le impronte digitali e di notte le pattuglie
che inseguono le falene
e le comete come te.
Tra le lettere d’amore scritte a computer
Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore,
nelle nostre camere separate
a inchiodare le stelle,
a dichiarare guerre.
(a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Valerio Mastandrea in: Non pensarci, di Gianni Zanasi e Lucio Pellegrini
(2009)
(disegno di ottoeffe)
Avevo vent’anni, ero giovane e inesperto ma scrivevo già meglio di altri
colleghi con il doppio della mia età. Il caporedattore di Cronache di Napoli mi
mise a fare un’inchiesta sulla casa. Era una roba abbastanza complessa: si
trattava di mettere in relazione, andandola a verificare sul campo, la
condizione penosa dell’edilizia pubblica nei quartieri più periferici e
complicati con il piano politico, e soprattutto con le vicende giudiziarie che
stavano coinvolgendo Alfredo Romeo, gestore di quel patrimonio per conto del
Comune. In due mesi tirai fuori un bel lavoro, così che qualcuno mi suggerì,
dopo la sua pubblicazione, di proporlo anche a un periodico di approfondimento e
reportage, all’epoca a me sconosciuto (forse ho già raccontato di questa
vicenda, ma la memoria ormai m’inganna). L’inchiesta – ampiamente rivista dal
responsabile editoriale – fu il mio primo pezzo per Monitor: andò in prima
pagina sul tabloid, una sciccheria che, ad averci i soldi, bisognerebbe
riproporre.
(n. 26, ottobre 2009)
Mentre facevo le interviste, raccolsi anche del materiale video e lo montai in
un documentario, dal contenuto interessante ma dalla forma oscena. I redattori
di Monitor me lo fecero comunque proiettare in un evento pubblico nella
redazione della Sanità, credo per incoraggiarmi a continuare a frequentare il
giornale. Quando qualche mese dopo gli chiesi un parere su quel lavoro, R. mi
rispose laconico: «La forma è il contenuto».
Tuttavia ci sono delle menzogne che, se le si crede, non recano alcun danno, per
quanto l’intenzione di ingannare anche con questo tipo di menzogne non è esente
da danni: i quali però ricadono su chi mente e non su chi gli presta
fede. (sant’agostino, contro la menzogna)
Oltre che in matematica, a scuola, ero molto scarso anche in filosofia, complici
docenti dalla preparazione e dalle capacità comunicative imbarazzanti. So, però,
che su forma e contenuto delle cose interessanti le ha dette Kant, così me ne
sono andate a cercare alcune. Oggi mi sembrano più chiare.
Nella sua Critica della ragion pura adopera la parola “forma” per descrivere le
categorie entro cui la conoscenza è in grado di ordinare la realtà fenomenica.
Spazio e tempo cessano di essere contenuti e iniziano ad essere modi, categorie
attraverso cui la sensibilità umana può conoscere. Ma la forma, ogni forma, pone
sempre il problema della sua necessità. E così, nella Critica del giudizio, Kant
si domanda quale sia la facoltà umana in grado di trovare il senso della forma.
È l’intelletto, legiferante, che stabilisce i significati. (carlotta
bandieramonte, culturefuture.net)
Se il linguaggio è contenuto e il contenuto è politico, allora il linguaggio è
politico. E quindi ci sono parole precise per discriminare una persona per la
sua religione, il suo colore della pelle o la sua provenienza, e altre per
attaccarne un’altra che si professa seguace di una ideologia basata
sull’omicidio e la deportazione (caso in cui, per quanto mi riguarda,
bisognerebbe direttamente menargli, alla persona in questione). Sulla vicenda
del blitz di due provocatori sionisti in un ristorante napoletano che aderisce a
campagne contro l’apartheid israeliano si è detto e scritto anche troppo:
l’importante è che la comunità vicina a Nives Monda (che è proprietaria e
organizzatrice di quel luogo) sia riuscita a rispondere con una certa prontezza
proteggendola da un linciaggio assai pericoloso, nei tempi in cui un cinguettio
e una recensione su Tripadvisor, e le implicazioni che si trascinano dietro,
possono far sicuramente più male di un calcio nel sedere.
Resta l’indecente figura fatta dal comune di Napoli e dalla sua assessora al
turismo Teresa Armato, che si è precipitata a solidarizzare con i provocatori
sionisti, invece di provare a capire i fatti e andare a sostenere Nives e i
lavoratori di quell’attività.
La Suprema Corte (sent. n. 48553/2011) ha stabilito che chiamare “parassita” un
personaggio politico costituisce diffamazione a meno che non si argomentino le
ragioni dalle quali l’insulto è scaturito. Perché vi sia esercizio del diritto
di critica, è necessario insomma che il giudizio – anche severo, anche
irriverente – sia collegato col dato fattuale dal quale il “criticante” prende
spunto. (laleggepertutti.it)
Tornando su piani più alti, se il rapporto tra forma e contenuto, per esempio
nell’arte, è tema troppo profondo persino per questa rubrica, alcuni spunti
utili possono tornarci da immagini efficaci, pur portatrici di linee
discutibili.
Apprezzabile, sul tema, è Vladimir Ermakov, critico letterario e traduttore
russo:
La forma si fonde al meglio con il contenuto proprio quando non si fa notare. È
come la buona vodka in un bicchiere trasparente.
Un po’ meno Wilde:
Odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe
essere costretto ad usarla. È l’unica cosa per cui è adatto.
Altre suggestioni dal più noto Bertoli:
E adesso che farò non so che dire:
ho freddo come quando stavo solo,
ho sempre scritto i versi con la penna
non ho ordini precisi di lavoro. […]
Adesso dovrei fare le canzoni
con i dosaggi esatti degli esperti.
Magari poi vestirmi come un fesso
per fare il deficiente nei concerti.
E dal solito Tolstoj:
Il contenuto deve essere facile da capire, non astratto. È assolutamente falso.
Il contenuto può essere come volete. Ma non si deve sostituire l’andare al sodo
con le chiacchiere, non si deve nascondere con parole scelte il vuoto del
contenuto.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bsg-clip.mp4
(credits in nota1)
POST SCRIPTUM – Qualche giorno fa, parlando con una cara amica e compagna di
forma e contenuto nel discorso politico “interno” (inteso come il confronto tra
militanti che fanno parte di uno stesso gruppo), riflettevamo sull’opportunità o
meno di inserire dei filtri nel linguaggio, a beneficio degli attivisti più
giovani che hanno sviluppato una sensibilità più elevata, rispetto alla nostra,
in relazione alla forma-parola. Abbiamo preso atto alla fine che forse dovremmo,
ma che probabilmente non ne siamo capaci, per cui la sua soluzione (sensata) è
dire a tutti (e tutte) qualcosa tipo: mi dispiace se ho avuto dei modi troppo
diretti, fatemelo notare, magari davanti a una birra così siamo tutti più
rilassati.
Forse sbagliammo ‘e modi
ma nun sbagliammo moda.
Trasimm’ int’a galera
cu ‘a tuta r’a Legea.
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Christoph Waltz in: Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino (2009)
(disegno di ottoeffe)
Figlio: Papà mi dai cinquemila lire?
Padre: Quattromila lire? Che devi fare con tremila lire? Hai sempre voluto
duemila lire mo’ vuoi mille lire? Prenditi cinquecento lire e dividi con tuo
fratello!
Questa gag – ripetuta ossessivamente dal papà di un amico, ai tempi della
scuola, per non sganciare soldi a suo figlio – mi è tornata in mente quando ho
ascoltato la conferenza stampa del ministro Musumeci, che dopo la riunione
dell’esecutivo ha annunciato in pompa magna la destinazione di fondi per
l’emergenza sismica e geologica nel paese. Una roba tipo: “Abbiamo destinato un
miliardo” […] “da dividere per quattro regioni” […] “che cacceremo in dieci
anni” […] “forse dodici” […] “solo una minima parte nel primo anno” (l’ho un po’
semplificata ma è andata veramente così). Alla fine è venuto fuori, come
prevedibile, che per Bagnoli ci sono pochi spiccioli, assolutamente
insufficienti per l’unica cosa che si dovrebbe fare: un investimento a tappeto
per il miglioramento e/o l’adeguamento sismico di tutto l’abitato, con
l’obiettivo di permettere alle persone di “convivere con il bradisismo”
(espressione di cui le istituzioni si riempiono la bocca senza avere minimamente
l’idea di cosa stiano dicendo).
“Fuori gli sghei per i Campi Flegrei”, recitava uno striscione a una
manifestazione di qualche settimana fa. Sta andando più o meno così:
Ieri di ritorno da Lecce abbiamo ascoltato la partita dell’Inter sperando che il
Verona potesse strappare un risultato contro una squadra stanca e piena di
assenze. I nerazzurri hanno fatto una partitaccia ma è bastata, considerando la
qualità veramente scadente degli avversari (raramente si sono viste in serie A
tutte insieme squadre così scarse come i vari Lecce, Verona, Empoli, Cagliari,
Monza di quest’anno).
Si rifletteva, in macchina, sul fatto che mentre due anni fa la preoccupazione
principale di noi tifosi era fare continui conticini su pezzetti di carta
improvvisati per capire in che giornata il Napoli avrebbe vinto lo scudetto,
quest’anno dovremmo soffrire fino all’ultimo secondo dell’ultima partita, ma
almeno ci risparmieremo di metterci a fare i ragionieri. Pure per questo va
ringraziato Conte, anche se personalmente non so se sono pronto. Le energie non
solo fisiche ma anche mentali (retorica degli addetti ai lavori calcistici per
dire che azzeccare con la testa su una cosa stanca anche il corpo) sono quasi
all’esaurimento, e al ritorno a casa ho dovuto mangiare un chilo di patatine
fritte per ristabilizzare la serotonina che aveva fatto su e giù tra la partita
del Napoli e quella dell’Inter.
Durante la fase maniacale queste persone vivono un momento di grande autostima,
sono molto loquaci, parlano rapidamente, passano di continuo da un argomento
all’altro, si sentono invulnerabili e per questo assumono comportamenti
rischiosi, anche nella sfera sessuale, possono darsi a spese pazze che non si
possono permettere, sono irritabili e a volte molesti. Un tratto caratteristico
è la mancanza di sonno: possono non aver bisogno di dormire per diversi giorni.
[…] Questa situazione deve durare almeno una settimana per poter essere definita
clinicamente “maniacale”. (luigi ripamonti, siamo tutti bipolari? per fortuna
no: gli sbalzi d’umore non sono una malattia in: corriere salute, 31 luglio
2022)
L’alcool interferisce con il funzionamento di due recettori neuronali: quelli
per il GABA (acido gamma-aminobutirrico) e quelli per il glutammato. […] Se da
una parte l’aumento dell’attività del GABA produce gli effetti sedativi,
dall’altra la soppressione dell’attività del glutammato, anche a dosi molto
basse, ha un effetto specifico sulla formazione dei ricordi e sulle funzioni
esecutive, come i processi decisionali, di problem solving e di memoria di
lavoro. […] Con l’assunzione cronica di alcool, si verificano dei cambiamenti
irreversibili a strutture cerebrali importanti per la memoria, come l’ippocampo.
[…] La perdita delle cellule nervose dell’ippocampo è responsabile dei
cosiddetti “black-out”, con perdita di memoria a breve termine. I ripetuti
blackout, un chiaro segno di consumo eccessivo, possono causare danni permanenti
che impediscono al cervello di conservare nuovi ricordi. Ad esempio, un
individuo può essere in grado di ricordare eventi passati con perfetta chiarezza
ma non ricordare di aver avuto la conversazione poche ore dopo. (da:
brainandcare.com)
Come il Verona sul campo da calcio, sono sempre stato molto scarso in
matematica. Al terzo o al quarto anno di liceo incominciai a prendere lezioni da
un amico più grande, per cercare di capirci qualcosa di disequazioni, funzioni e
derivate. Un giorno, mentre correggevamo un esercizio, mi chiese come potevo
averlo risolto in un certo modo, dato che quel metodo si basava su operazioni
che avrei studiato almeno l’anno successivo (in realtà me l’ero fatto fare mio
fratello più grande, che già studiava architettura). Quando dissi che ci avevo
perso molto tempo, finché non mi era “venuta un’intuizione”, mi cacciò di casa,
telefonò a mia madre per dirgli che con me si perdeva il tempo e che si sarebbe
dimesso dal suo incarico.
(credits in nota1)
Vattenne a ‘lloco,
vattenne pazzarella!
Va’ palummella e torna,
e torna a st’aria
accussì fresca e bella!
‘O bbi’ ca io pure
m’abbaglio chianu chiano,
e ca m’abbrucio ‘a mano
pe’ te ne vulè caccià?
(palomma ‘e notte)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Carlo Cecchi in: Morte di un matematico napoletano, di Mario Martone (1992)