(disegno di ottoeffe)
Figlio: Papà mi dai cinquemila lire?
Padre: Quattromila lire? Che devi fare con tremila lire? Hai sempre voluto
duemila lire mo’ vuoi mille lire? Prenditi cinquecento lire e dividi con tuo
fratello!
Questa gag – ripetuta ossessivamente dal papà di un amico, ai tempi della
scuola, per non sganciare soldi a suo figlio – mi è tornata in mente quando ho
ascoltato la conferenza stampa del ministro Musumeci, che dopo la riunione
dell’esecutivo ha annunciato in pompa magna la destinazione di fondi per
l’emergenza sismica e geologica nel paese. Una roba tipo: “Abbiamo destinato un
miliardo” […] “da dividere per quattro regioni” […] “che cacceremo in dieci
anni” […] “forse dodici” […] “solo una minima parte nel primo anno” (l’ho un po’
semplificata ma è andata veramente così). Alla fine è venuto fuori, come
prevedibile, che per Bagnoli ci sono pochi spiccioli, assolutamente
insufficienti per l’unica cosa che si dovrebbe fare: un investimento a tappeto
per il miglioramento e/o l’adeguamento sismico di tutto l’abitato, con
l’obiettivo di permettere alle persone di “convivere con il bradisismo”
(espressione di cui le istituzioni si riempiono la bocca senza avere minimamente
l’idea di cosa stiano dicendo).
“Fuori gli sghei per i Campi Flegrei”, recitava uno striscione a una
manifestazione di qualche settimana fa. Sta andando più o meno così:
Ieri di ritorno da Lecce abbiamo ascoltato la partita dell’Inter sperando che il
Verona potesse strappare un risultato contro una squadra stanca e piena di
assenze. I nerazzurri hanno fatto una partitaccia ma è bastata, considerando la
qualità veramente scadente degli avversari (raramente si sono viste in serie A
tutte insieme squadre così scarse come i vari Lecce, Verona, Empoli, Cagliari,
Monza di quest’anno).
Si rifletteva, in macchina, sul fatto che mentre due anni fa la preoccupazione
principale di noi tifosi era fare continui conticini su pezzetti di carta
improvvisati per capire in che giornata il Napoli avrebbe vinto lo scudetto,
quest’anno dovremmo soffrire fino all’ultimo secondo dell’ultima partita, ma
almeno ci risparmieremo di metterci a fare i ragionieri. Pure per questo va
ringraziato Conte, anche se personalmente non so se sono pronto. Le energie non
solo fisiche ma anche mentali (retorica degli addetti ai lavori calcistici per
dire che azzeccare con la testa su una cosa stanca anche il corpo) sono quasi
all’esaurimento, e al ritorno a casa ho dovuto mangiare un chilo di patatine
fritte per ristabilizzare la serotonina che aveva fatto su e giù tra la partita
del Napoli e quella dell’Inter.
Durante la fase maniacale queste persone vivono un momento di grande autostima,
sono molto loquaci, parlano rapidamente, passano di continuo da un argomento
all’altro, si sentono invulnerabili e per questo assumono comportamenti
rischiosi, anche nella sfera sessuale, possono darsi a spese pazze che non si
possono permettere, sono irritabili e a volte molesti. Un tratto caratteristico
è la mancanza di sonno: possono non aver bisogno di dormire per diversi giorni.
[…] Questa situazione deve durare almeno una settimana per poter essere definita
clinicamente “maniacale”. (luigi ripamonti, siamo tutti bipolari? per fortuna
no: gli sbalzi d’umore non sono una malattia in: corriere salute, 31 luglio
2022)
L’alcool interferisce con il funzionamento di due recettori neuronali: quelli
per il GABA (acido gamma-aminobutirrico) e quelli per il glutammato. […] Se da
una parte l’aumento dell’attività del GABA produce gli effetti sedativi,
dall’altra la soppressione dell’attività del glutammato, anche a dosi molto
basse, ha un effetto specifico sulla formazione dei ricordi e sulle funzioni
esecutive, come i processi decisionali, di problem solving e di memoria di
lavoro. […] Con l’assunzione cronica di alcool, si verificano dei cambiamenti
irreversibili a strutture cerebrali importanti per la memoria, come l’ippocampo.
[…] La perdita delle cellule nervose dell’ippocampo è responsabile dei
cosiddetti “black-out”, con perdita di memoria a breve termine. I ripetuti
blackout, un chiaro segno di consumo eccessivo, possono causare danni permanenti
che impediscono al cervello di conservare nuovi ricordi. Ad esempio, un
individuo può essere in grado di ricordare eventi passati con perfetta chiarezza
ma non ricordare di aver avuto la conversazione poche ore dopo. (da:
brainandcare.com)
Come il Verona sul campo da calcio, sono sempre stato molto scarso in
matematica. Al terzo o al quarto anno di liceo incominciai a prendere lezioni da
un amico più grande, per cercare di capirci qualcosa di disequazioni, funzioni e
derivate. Un giorno, mentre correggevamo un esercizio, mi chiese come potevo
averlo risolto in un certo modo, dato che quel metodo si basava su operazioni
che avrei studiato almeno l’anno successivo (in realtà me l’ero fatto fare mio
fratello più grande, che già studiava architettura). Quando dissi che ci avevo
perso molto tempo, finché non mi era “venuta un’intuizione”, mi cacciò di casa,
telefonò a mia madre per dirgli che con me si perdeva il tempo e che si sarebbe
dimesso dal suo incarico.
(credits in nota1)
Vattenne a ‘lloco,
vattenne pazzarella!
Va’ palummella e torna,
e torna a st’aria
accussì fresca e bella!
‘O bbi’ ca io pure
m’abbaglio chianu chiano,
e ca m’abbrucio ‘a mano
pe’ te ne vulè caccià?
(palomma ‘e notte)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Carlo Cecchi in: Morte di un matematico napoletano, di Mario Martone (1992)
Tag - parola della settimana
(disegno di ottoeffe)
Non riesco ad affrontare la vita quando sono sobrio (charles bukowski, musica
per organi caldi)
Venerdì sera avevo la televisione accesa mentre cenavo. Nel programma di Lilli
Gruber si parlava della Resistenza, ma sembrava più un teatrino dei pupi (con
tutto il rispetto enorme per il teatro dei pupi) con i copioni scritti per
esaltare le caratteristiche dei diversi personaggi. La Gruber faceva quella
indignata-brillante contro l’avanzata delle destre (a furia di farla, la parte
dell’indignata-brillante le riesce meglio che venti anni fa) ma non aveva
disdegnato di invitare, per bilanciare la presenza di una storica di sinistra,
un tizio che ha annunciato come presidente della Fondazione Vittoriale degli
italiani. Il soggetto in questione è Giordano Bruno Guerri, ex radicale oggi
vicino a Forza Italia, studioso della chiesa cattolica e del fascismo, fondatore
con Ida Magli di un ambiguo “movimento culturale” dal nome Italiani Liberi.
Il copione dei pupi è andato avanti per un’ora, esattamente come ce lo si poteva
aspettare, ovvero all’insegna della par condicio (Gruber però si indignava
quando parlava quello di destra), come se invece di fascismo e Resistenza
stessimo parlando di – che ne so – referendum sulla cittadinanza, Brexit, legge
elettorale. Il tutto, comunque, con sobrietà.
Sia la premier che i ministri all’unanimità, che io stesso, non abbiamo mai
pensato né di vietare né di ostacolare alcunché, figuriamoci una celebrazione
così importante come l’anniversario della fine della guerra civile e del
ripristino della democrazia. […] Ognuno la sobrietà la interpreta e vive in base
alle proprie sensibilità, con la serenità dei credenti e con la buona educazione
dei non credenti. Balli e canti scatenati si potrebbero evitare, ecco, mentre la
salma è ancora non tumulata. (nello musumeci, ministro per la protezione civile
e le politiche del mare)
Nell’idea di rispettare le indicazioni del governo vado a completare questa
rubrica richiamando all’etimologia del termine (“misuratezza”), riprendendo
alcuni documenti – storici e letterari – che mostrano perché effettivamente si
può ritenere che gli stessi partigiani rifuggirono qualsiasi eccesso, facendo
semplicemente ciò che andava fatto.
Carissima mamma, ti spedisco la fotografia di Delio. Il mio processo è fissato
per il 28 maggio: questa volta la partenza deve essere prossima. […] Non
preoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi diano: io credo che sarà
dai quattordici ai diciassette anni, ma potrebbe essere anche più grave, appunto
perché contro di me non ci sono prove. Cosa non posso aver commesso, senza
lasciar prove? Sta’ di buon animo. Ti abbraccio, Nino (lettera dal carcere di
antonio gramsci a sua madre, 30 aprile 1928)
VM: Noi per esempio non prendevamo la tessera, perché mio padre mi ricordo che
venne dalla maestra, je disse: “Io sono così, le mie figlie non voglio che
prendano la tessera”. Cinque lire se pagava ‘sta tessera. Ma noi a parte che non
ce l’avevamo proprio le cinque lire da daje p’a tessera d’a balilla, ma poi mio
padre non voleva. Poi, magari noi abbiamo trovato pure una maestra che ha capito
questa cosa, poi s’è stancata e non ce l’ha chiesti più. Però poi in classe
veniva una, la fascista [del quartiere], veniva con la divisa, la signorina
Serpi se chiamava […]: “Questa qui è ‘na bambina che ‘l padre è comunista e che
la tessera del fascio no’ la prende”. E allora sai quante volte m’è toccato
litigare co’ dei bambini, perché quando uscivamo da scuola, io e le mie sorelle,
ci additavano come “le comuniste”.
(testimonianza di valtèra menichetti raccolta da alessandro portelli e
pubblicata in: ribelle e mai domata. canti e racconti di antifascismo e
resistenza)
Nei pressi della stazione mi incontrai con Guglielmo, che mi doveva consegnare
la valigia. […] Avevo preso la rivoltella che, di solito, negli attacchi con
bombe preferivo non portami dietro, perché se fossi stata fermata e se me
l’avessero trovata, non sarei sfuggita alla tortura e alla morte. Ma questa
volta ero sola e avevo pensato che armata avrei sempre potuto fuggire sparando,
o spararmi nel caso non avessi avuto scampo. Dal lato della stazione verso via
Marsala, dove ci sono alcuni ruderi dell’antica Roma, c’era ‘na finestrella che
dava proprio nel Banhoff, sempre affollato di truppe tedesche dirette ad Anzio.
Sistemai la valigia sul davanzale, dopo averla capovolta, e mi allontanai
frettolosamente, ma senza correre. Avevo appena raggiunto i giardini di via
delle Terme, quando ci fu la deflagrazione, violentissima. (maria teresa
regard, autobiografia. testimonianze e ricordi)
“Ascolta, dovremmo passare in un paese che ha un nostro presidio. Naturalmente
anche lì c’è gente scottata. In particolare ci sono due miei compagni ai quali
avete ammazzato i fratelli. […] Quelli vorranno mangiarti il cuore. Quindi noi
scarteremo quel paese, lo aggireremo per un vallone che so io. Ma tu non
farmi…”.
Le dita del sergente si slacciarono da sulla nuca con uno schiocco terribile. Le
braccia remigavano nel cielo bianco. Così sospeso era tremendo e goffo. Volava
di lato, verso il ciglio e il corpo già pareva arcuarsi nel tuffo in giù.
“No!”, aveva gridato Milton. Ma la Colt sparò, come se fosse stato il grido ad
azionare il grilletto.
Ricadde sulle ginocchia e stette per un attimo, tutto contratto, con la testa
appiattita e il naso piccolo e marcato come conficcato nel cielo. […]
“No!”, ripetè Milton e gli risparò, mirando alla grande macchia rossa che gli
stava divorando la schiena.
(un sergente della divisione fascista San Marco incontra il partigiano
milton in una questione privata, di beppe fenoglio)
MM: Ma ti dirò, io non credo che nessuno di noi, non lo so per gli altri, si sia
posto il problema etico dell’uccisione. […] Io non credo – cioè la situazione
era talmente estrema – più che di terrore – c’era il terrore – ma di violenza
continua – per cui non puoi dire. Forse ci vorrebbe lo psicologo per spiegarlo;
ma l’idea di uccidere – a me non è mai venuto mai, “uccido, faccio male”. Non mi
sono mai posta questo problema.
AP: E dopo?
MM: Assolutamente. Se penso, che so, d’aver contribuito con una bomba a far
saltare in aria un soldato tedesco, non penso, che so, che quello era un figlio
di mamma, che era il padre di un bambino piccolo. Non la vivo così. Vedo
torturatori di via tasso, rastrellatori di ebrei, guardia ai campi di
sterminio. (testimonianza di marisa musu raccolta da alessandro portelli e
pubblicata in: ribelle e mai domata. canti e racconti di antifascismo e
resistenza)
Guido, Sanmarchi e il Lupo avevano fatto un giuramento: di continuare in tutti i
modi la lotta, se uno dei tre fosse stato preso od ucciso. Perciò Guido, appena
seppe dell’arresto del Lupo caricò la pistola, e andò dal maresciallo dei
carabinieri. […] Gli disse che se non liberava il Lupo avrebbe fatto saltare in
aria la caserma, poi lo minacciò con la pistola. A questi argomenti il
maresciallo si arrese, e il Lupo fu rilasciato. Da quella volta non si era fatto
più vedere in paese, era andato nel bosco vicino a Monte Sole. […] Sugano,
vestito con una divisa tedesca, stava sulla strada. Fece cenno di fermare, poi,
colla pistola in mano, salì: “Voi scendere!”, disse a Sanmarchi. Lui. rispose:
“Ma io essere camerata. Io SS”. Sugano ripetè: “Voi scendere!” e intimò
all’autista: “Rauch!” […] Adesso Sanmarchi e Sugano erano soli sulla strada:
“Possiamo parlare anche in bolognese – disse Sugano –. Sono un partigiano del
Lupo”. Sanmarchi fece per saltargli addosso e si prese cinque palle nello
stomaco. “Sei morto?”, disse Sugano. “Si, sono morto. Perchè mi fai tanto
male?”, rispose Sanmarchi. Allora Sugano gli sparò nella testa. (la partigiana
brunetta musolesi della “brigata stella rossa” racconta l’uccisione della spia
fascista infiltrata olindo sanmarchi)
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao
Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era
sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni
del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più
sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non
appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava
crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo
in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò
più nulla in carriera)
Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci
divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora
non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una
cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore
Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono
invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso
dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al
Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi
atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare.
(screenshot dal forum di partenopeo.net)
Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di
retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un
intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una
cosa reale.
In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho
mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato
spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il
ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”.
Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un
barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un
santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così,
quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film.
C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che
interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete
delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da
vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da
fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo
mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport)
In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di
“falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando
un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede
pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili
all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il
termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza
bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo
album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche
la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona
che cerca di imitare altri senza successo.
Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’.
‘O vero mast’ ‘e festa,
‘o peggio guastafeste p’e pezzott’,
vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […]
Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC,
siente e statte: uno, doje, tre e quatte!
Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto,
‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto!
(la famiglia; uno, due, tre e quatto)
Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire
informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador.
Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia
dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa,
ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni
terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre
o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è
troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un
casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità,
ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione
in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di
fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa
da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi,
camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini
terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi
metodo.
.
I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri
e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il
Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2
febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il
terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova
(dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee
Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su
una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai
testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna,
percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se
il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura
della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il
Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue
smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche
specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di
Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla
Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15
febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei
deputati del 22 marzo 1982)
(immagine da: les complotistes)
Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les
Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni,
insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il
tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a
terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono
salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in
fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
Maje lassat’ ‘a questura
fotografie e impronte,
pecché capette forse
ca ‘eva brucia’ ‘a bandiera ‘e l’obbedienza a l’uniforme.
(co’sang, fuje tanno)
Ho un’amica a cui tengo molto, vive all’estero da tanto tempo – non so se queste
cose siano in relazione tra loro, ma non credo. Credo invece che andiamo
d’accordo perché ha un carattere spigoloso simile al mio, e più di me dice
sempre quello che pensa, a costo di risultare antipatica. Conosce bene Praga,
città in cui vive da anni (forse per questo non la sopporta più) e la
letteratura del paese che l’ha “adottata”.
Qualche tempo fa mi ha parlato di Jaroslav Hašek, irriverente e anticonformista
scrittore ceco, morto solo e in miseria quarantenne, noto soprattutto per il suo
romanzo Le fatidiche (o fatali) avventure del buon soldato Švejk durante la
guerra mondiale, parodistico testo antimilitarista tradotto in centoventi
lingue. Il soldato Švejk è un uomo semplice, gioviale, modesto, amante del bere,
e che cerca sempre di accontentare il prossimo. Vive senza drammi tutte le
assurdità che la vita e il potere gli riservano, dal manicomio alla galera,
dall’esercito alla guerra, agendo assai più razionalmente del mondo pazzo con
cui deve confrontarsi e che non perde occasione per accusarlo di sabotaggio e
diserzione.
M. mi raccontava che a dispetto della chiarezza del messaggio di Hašek, il
soldato Švejk viene oggi ritratto in patria come un ingenuo fessacchiotto (un
pepe, si dice nel suo dialetto). Il gruppo del calcetto del lunedì di cui faccio
parte ha pensato invece di stamparsi sulle maglie un disegno che lo ritrae. La
squadra si chiamerà, anche in suo onore, “I disertori”.
–.Voi avete tradito sua maestà l’imperatore!
–.Gesummaria e quando?
–.Smettetela con queste stupidaggini.
–.Faccio rispettosamente notare che tradire sua maestà l’imperatore non è per
niente una stupidaggine…
–.Non volete confessare? Avete volontariamente indossato un’uniforme russa?
–.Volontariamente.
–.Senza alcuna pressione?
–.Senza alcuna pressione.
–.Sapete che siete perduto?
–.Lo so, al 91º reggimento mi staranno senz’altro cercando…
(da un dialogo tra il soldato švejk e il maggiore che presiede il tribunale
militare)
Al contrario di quanto comunemente noto, la diserzione non è un atto solo
confinato all’ambito militare. Disertare è, da dizionario, anche “abbandonare” o
“non recarsi in un luogo” in cui si è attesi o dove si sarebbe forzati a essere.
Per estensione figurativa, è anche “esimersi dal compimento di un obbligo”.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high-2.mp4
(credits in nota1)
Qualche anno fa gli ultras del Napoli protestarono per l’emanazione da parte
della società di un regolamento d’uso dello stadio (all’epoca ancora San Paolo)
che sembrava fatto apposta per rompergli le scatole. No fumogeni, no bandiere,
no megafoni per lanciare i cori. Non si poteva vedere la partita in piedi e si
era obbligati a rispettare il posto numerico scritto sul biglietto. Per chi è
abituato a seguire la partita in maniera attiva e non da semplice spettatore, i
gradoni rischiavano di diventare così una specie di servizio militare.
Fortunatamente, col tempo si è arrivati a più miti consigli e, forse
informalmente – personalmente non so che fine abbia fatto quell’astruso
regolamento – almeno in curva si lascia l’agibilità meritata a chi vive la
partita come un precetto (la parola “diserzione”, riferita allo stadio, dice
molto di questo rapporto di vincolo reciproco).
(foto di archivio)
Nelle ultime settimane si è molto parlato del disco di La Niña, cantante
napoletana figlia d’arte, laureata in filosofia e con un master in comunicazione
musicale preso a Milano. Dopo aver vissuto a Londra e aver scritto testi in
inglese La Niña è tornata a Napoli e ha iniziato a cantare in napoletano. È
stata scritturata dalla Sony e da lì la sua produzione si è gradualmente fissata
su un folk-elettronico che mi sembra di aver già sentito molte volte e che trovo
francamente troppo ammiccante. Furesta, l’album del momento, mi è parso
abbastanza scontato e ripetitivo. Rolling Stone (giornale bollito da tempo) ha
definito invece La Niña “la nuova Teresa De Sio”.
Teresa stanca di guerra
senza scarpe se ne va,
su questa terra che è bella
muove i piedi in libertà.
E ha un cappello dalle falde larghe larghe,
che se piange non si sente,
ma se ride tu la puoi sentire mentre ride,
e cantando se ne va.
Teresa stanca di guerra.
(teresa de sio, teresa stanca di guerra)
(a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Russel Mulcahy (1956)
(disegno di ottoeffe)
E po’ chi ‘o ssape cumm’è
ma io nun me scordo maje:
sole che abbrucia ‘o malamente,
acqua che scende pe’ lava’.
(teresa de sio, voglia ‘e turna’)
È uscito in settimana Little Funky Intro, una sorta di spoiler del prossimo
disco di Neffa, un ritorno al rap atteso come il quarto scudetto del Napoli, in
arrivo ad aprile (il disco; lo scudetto arriverà con ogni probabilità a
maggio). I messaggeri della dopa è stato, insieme a Quarantunesimo parallelo, il
primo disco rap che ho sentito nella mia vita. Erano passati credo quattro o
cinque anni dalla loro uscita, ma a me, che ne avrò avuti quattordici o
quindici, sembrò di aver scoperto l’America. Internet era buono per le ricerche
di geografia e storia dell’arte e per scaricare le foto dei calendari con le
soubrette semisvestite. Se però qualcuno a casa, per sbaglio, alzava la cornetta
del telefono, la connessione cadeva e dovevi ricominciare daccapo. Qualche anno
dopo, un ragazzo a scuola mi regalò un adesivo dove c’era scritto Don’t hate the
media. Become the media!
C’ho ancora dieci sacchi in tasca e mo’ c’è l’euro,
la fila di invidiosi è lunga e pronta per la neuro.
Ancora sento in giro questi stolti, draculi
ciucciano, ma sto troppo in alto sopra i trampoli.
Non mi faccio coca né paste,
ancora qui che fumo, c’ho TH nelle lastre.
E mi fa ridere che dicono che quando rappo
sembra stare nei Novanta, guardo il mondo è vecchio,
buio pesto, dimmi se mi sbaglio, stai onesto.
(neffa, little funky intro)
Ho sempre subito il fascino dei ritorni (Maradona al Boca, il primo: avevo otto
anni). Nel 2005 volevo spendere tutti i miei risparmi per andare a sentire i
Pink Floyd a Londra nella reunion definitiva, ma poi mi misero l’esame di
maturità il giorno dopo e forse all’epoca ho iniziato a odiare lo Stato.
È vero che negli ultimi tempi questo fascino è aumentato – forse è un segno
dell’età – ma quella che si va aprendo si annuncia come una settimana di ritorni
troppo importanti per finire in una rubrica così vanesia e autoreferenziale. A
proposito: lunedì scorso ho sentito un amico suonare collegando all’impianto e
ai piatti un mangiacassette del Cippo a Forcella, e ho pensato che se avesse un
po’ più di cazzimma e un buon social media manager potrebbe farci i soldi. Per
fortuna lavora all’aeroporto e la sua massima aspirazione in termini di fama è
stata scrivere un racconto a puntate per Monitor.
C’erano i Mondiali, si giocavano anche qui, e per il mio compleanno avevo
chiesto il biglietto di una partita. Papà con i suoi giri
sindacato-cral-circoletto-sezionePCI era riuscito ad averne uno e mi aveva
accontentato. La partita era Inghilterra-Camerun. Ora, io al posto dei libri,
così come i miei compagni, nella cartella ci tenevo il Supertifo. E dato che la
mia edicola era fornita, ogni tanto potevo infilarci pure una copia di Hooligans
, che faceva da sponda alle partite trasmesse una volta a settimana
da Telemontecarlo e che soddisfacevano la mia fame da lanci lunghi dalla difesa
e spizzata di testa del centravanti. Quella sera andai allo stadio con papà, ma
misi subito le cose in chiaro: io quando entro mi vado a sedere vicino agli
inglesi, tu fai come ti pare, nel caso ci vediamo vicino alla Fiat Uno. Era il
modo più carino per allontanarlo: che figura avrei fatto se gli inglesi mi
avessero visto andare allo stadio con papà? (gerardo picarelli, zona est novanta
#1)
Martedì ho intervistato un vecchio operaio di Bagnoli. Ha centodue anni e si
mantiene lucido. Mi ha raccontato della sua vita, della fabbrica, del quartiere,
scusandosi – senza ragione – di aver dimenticato cose. È stato prigioniero in
Algeria per due anni, durante la Seconda guerra mondiale, ma più traumatico
ancora è stato il suo ritorno: arrivò a Bagnoli, tra i primi rimpatriati in
assoluto, e trovò la sua casa distrutta e tutti i suoi cari morti. Deve tanto a
suo fratello elettricista, l’unico sopravvissuto, che lo prese con sé e lo fece
assumere come manutentore all’Ilva. È l’unico superstite che conosco che ha
assistito da vicino alla ricostruzione degli impianti di Bagnoli da parte degli
operai (gli americani non erano entusiasti di riaprire una fabbrica con migliaia
di potenziali comunisti nel cuore del Mediterraneo, e non ci misero una lira). A
un certo punto mi ha detto che se anche certe cose non possono ritornare, questo
non è un buon motivo per dimenticarle.
Scola d’e nocche toste a chi sposta c‘a vocca,
se mozzeca ‘a lengua mentre mastica ‘a gomma.
A ‘sti carogne ce dai ‘o core e loro vonn’ ‘a coda (fosse ‘o culo),
capisci ca sì sulo ma allora, nun è comme pensavo:
pe’ meza mia ‘e fatto ‘o rap ‘e miez’ a via, ma nun saje
ca può cagna’ cumpagne, femmene, nummero, indirizzo, bisinìss
ma nun sì omm’ si ‘n fernesc’ addò stive all’inizio.
(sangue mostro ft. nto, tutt’ cos’ cagna)
Ho una fissa: ci sono una cinquantina di film per me cult che rivedo ogni volta
che ne ho l’occasione. Quasi sempre g. si rifiuta di darmi corda, soprattutto
quando il film l’ho visto io in passato e lei no, e allora passo un sacco di
tempo a provare a convincerla che ne valga la pena. Raramente ci riesco, e
quando ci riesco spesso il film le fa cagare. Altre volte diventa cult anche per
lei, tipo una pellicola degli anni Ottanta il cui titolo, tra le altre cose, i
ragazzini di Montesanto usavano come soprannome per uno dei nostri amici.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high.mp4
Insieme a A kind of magic (è una specie di magia…), la colonna sonora
di Highlander comprende un altro pezzo da novanta dei Queen, Who wants to live
forever, che Brian May scrisse in taxi tornando dall’aeroporto di Londra, e il
cui video fu l’ultimo girato con Freddy Mercury prima che gli venisse
diagnosticato l’Aids.
AIDS – America is dying slowly, fu negli stessi anni il titolo di un album
prodotto dai più famosi artisti afroamericani per denunciare le migliaia di
morti tra le comunità nere all’inizio dei Novanta, negli Stati Uniti, a causa
del virus. Nell’album c’è un pezzo dei Wu-Tang con Killah Priest che anticipa la
reunion del gruppo, a quattro anni di distanza dal dirompente esordio di Enter
the Wu-Tang (36 Chambers). Delle varie pause e ritorni del clan parla, tra le
altre cose, Back in the game (del 2001), canzone impreziosita poi dal remix di
Phoniks, che ci mette dentro uno spettacolare sample di Do you believe, della
cantante folk Melanie (hippie della prima ora, esibitasi a Woodstock e all’Isola
di Wight appena ventenne).
Piccola chicca: ad aprire Back in the Game, ritorna lo stesso sample che
introduce il primo disco del clan (“If what you say is true, the Shaolin and the
Wu-Tang could be dangerous!”), parte di un dialogo tratto da Shaolin vs. Wu
Tang (1983), film sulla rivalità tra le due scuole di arti marziali. Iconiche le
scene in cui protagonisti ritornano ai rispettivi templi per allenarsi allo
scontro finale.
Ps: Per scoprire come va a finire tra i due clicca qui (AI verificata).
(a cura di riccardo rosa)
I danni strutturali. Le crepe, le signore del quartiere, Rosa, Fortuna, Mena,
produci consuma crolla. Il sindaco, il prefetto, Musumeci, la Protezione civile,
Bertolaso, Berto-naso, le discariche, gli scontri, l’Opus Dei. Gli zaini pieni,
le mutande da lavare, le camicie, l’acidità di stomaco, dormire male, mangiare
peggio. Le birre, il liquore all’arancio, l’aria nella pancia. Ciro, Pietro, il
divano, Fisciano, il gruppo Whatsapp, gli sfollati, i ritardi. I baraccati, la
mensa, le patate, il sopralluogo, la Protezione civile, i pompieri, Propaganda
Live, via Enea, via Di Niso, via Caio Asinio Pollione. L’assemblea, il bonus
affitto, il tendone. Le brandine, le carte, le cartine, le canne, il vino
scadente, l’acidità di stomaco. La Botte Buona, le botte buone, i celerini, le
casse, il corteo. Lo spazzolino, il dentifricio, i pezzi di muro, l’intonaco, i
vicini, l’amministratore, la signora delle pulizie.
C’a facimm’ ‘a galera!
‘A dint’ o ‘a fore è ‘o stess’:
mutanda Uomo,
cazettin’ No Stress.
(speranza, givova)
Il telefono scarico, la penna di tre euro e cinquanta, la tesi di dottorato, il
Manifesto. Il filo del computer, il caffè a letto, il letto sfatto, il Labriola,
lo sfratto, gli sgomberi, i crolli, i pompieri, il mare, il Praru, la radio,
l’armadio. Il centro analisi, l’assicurazione della macchina, l’assicurazione
del motorino, l’assicurazione che ne usciamo sempre. Il cibo nel frigorifero, la
tisana zenzero e limone, i crampi, le scarpe nuove, la pancia gonfia, il jeans
sporco, la camicia pulita.
– ‘E visto ‘cca che panza ca sto facenno, ma’?
– Uh mamma mia, mo’ caccia n’ata nuvità: ‘a panza! Ma aro’ a vire ‘sta panza?
Quello è il nervosismo. […] Tu te crire ca quanno uno sta accussì, senza fa’
niente, sta calmo e sta tranquillo: Vince’, la mente ave bisogno di sta’…
occupata, insomma, ‘e fa qualche cosa, non so, un lavoro…
– Eh, ‘nu lavoro… ‘o ‘ssapevo!
– Eh! ‘Nu lavoro… nun l’hai visto a tuo fratello?
– Uh ma’, ja lasciami… Vai ja, mo’ vengo! Io ‘o ‘ssapevo: tuo fratello! Quanno
parl’ ‘e chill’ mamma mia d’o Carmine… Me saglie ‘o nervosismo… saje addo’? Me
faje veni’ ‘na panza ‘e chesta manera!
(massimo troisi e olimpia di maio, scusate il ritardo)
Il casello, l’autostrada, Marcianise, i Quartieri, il Vomero. La genovese, la
dieta, il cornetto vegano, il registratore, l’operaio più anziano. Il bonus
affitti, Alessia, Antonella, Pina, i guardiani della Nato, la Protezione civile,
la dirigente incivile. L’ingegnere strutturista, i pompieri, l’ingegnere
strutturale, il raffreddore, l’umidità, le scale a piedi, i borsoni, i
giradischi, il rione Sanità, la sanità pubblica, la sanità privata, la sanità
mentale, l’insanità statale.
Breathe the pressure, come play my game, I’ll test ya.
Psychosomatic, addict, insane. Come play my game.
L’Africa, Parigi, 18 vagues. I senza tetto, i senza casa, i balconi pericolanti.
I tramezzi, i muri maestri, i venerabili maestri, i maestri di strada, i maestri
in strada, la strada maestra, le bandiere, la Digos. La delegazione, palazzo
Chigi, Musumeci. Le nuove edificazioni, il Praru, Manfredi, Meloni, Fitto,
Mattarella. Daniele, Enzina, Carmela, libanese grande, libanese piccola. Via
Boezio, Cupa Starza, il pazzo del quartiere, i cazzi da cacare, il freddo, le
guardie. Walter, Paone, la colmata, la stuccata, i polacchi, gli albanesi,
l’assemblea popolare. Iskra, l’Assise, i No Box, Mare Libero. Villa Medusa,
Villa Avellino, Potere al popolo, potere al povero, potere scomodo, potere
lurido. Perditempo, Alfonso, Tonino, la Nastro, le casse, le tasse. Il garage, i
debiti, i crediti, l’abilitazione, gli anni Sessanta, Boccaccio Settanta.
Pasolini, il Peroncino, le birrette. Vonk, i pozzi, le fumarole, Tonino lo
scienziato, i terremotati, la grondaia, la colata, la colmata.
I miei mali fisici andavano e venivano sovente o a distanza di tempo, proprio
come un cambiare e rimettersi del tempo che dobbiamo subire e che non possiamo
modificare. […] I medici mi dichiaravano malato perché sapevano quanto io
soffrissi e come certe volte, ogni giorno, facessi fatica a resistere, ad andare
avanti. E loro invece di aiutarmi a prevalere sui miei mali li rafforzavano per
sgominarmi del tutto. […] Avevo denunciato i miei mali perché ero abituato a
farlo mentalmente; perché il farlo costituiva ormai un fatto quotidiano o almeno
frequente della mia vita; un’operazione che mi consentiva allora di sollevare i
miei mali un momento dal mio corpo e dalla mia anima e di vederli distanti,
lontani, come sopra un davanzale dal quale fosse poi possibile farli sparire o
riprenderli, secondo la mia volontà. […]. Ma insieme avevo il timore che fossero
improvvisamente scomparsi. (paolo volponi, memoriale)
Subito, Tecnocasa, Bakeka, Idealista. Un idealista, un turnista, un ciclista. Un
prete, un poeta, un comunista. Due comunisti, tre comunisti, quattro comunisti,
i muri, i graffiti, le crepe, le crepe a croce, le croci con la mano sinistra, i
disoccupati, i proletari, gli affittuari, i proprietari, i magliari, i falsari.
Licola, Varcaturo, Monteruscello. Gli speculatori, i mediatori, i sensali, i
muratori. Le caparre, le agenzie, le referenze, le competenze, i vulcanologi,
gli urbanisti, gli ingegneri, la Protezione civile. Il 110, il bonus sisma, il
bonus affitto, il bonus nella bolletta. La sosta del campionato, la sosta
sull’autogrill, le pizze, le cocacole, le frittate di maccheroni, i copertoni,
il gommista, il cambio d’olio, il tagliando in corso, il tagliando vecchio, il
passato il presente il futuro, è meglio niente ‘nzieme che essere ricco sulo.
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
[…] quando a tanta scossa il povero regno italico faceva da ogni parte le
crepe. (giosué carducci, prose)
Ashikaga Yoshimasa fu nominato shōgun (una via di mezzo tra un comandante
dell’esercito e un dittatore militare) nel 1449. Contribuì allo sviluppo
culturale del Giappone: in particolare durante il suo governo nacquero la
cerimonia del tè, l’Ikebana, il teatro Nō e la pittura con inchiostro cinese.
Promosse infine l’armonizzazione tra la cultura della corte imperiale (Kuge) e
quella dei samurai (Bushi).
Un giorno Yoshimasa fece inviare in Cina una sua preziosa ciotola di tè per
ripararla. Quando gli fu rispedita indietro a corte, però, si imbestialì perché
le crepe erano ancora ben visibili. Per placarlo, gli artigiani giapponesi
usarono un escamotage: utilizzarono, per riempire prima e ricoprire poi le
crepe, la foglia oro, dando all’oggetto un’immagine nuova, risplendente grazie
alla lucentezza del metallo. Quella tecnica divenne celebre in Giappone con il
nome di Kintsugi (金継ぎ), letteralmente “riparare con l’oro”, grazie alla sua
doppia valenza: da un lato permette agli oggetti rovinati di riacquistare
splendore, dall’altro mostra con orgoglio le cicatrici, saldando sì le crepe ma
valorizzandole, rendendole l’elemento più prezioso di un oggetto.
L’assemblea sottolinea lo stretto legame esistente tra la situazione
bradisismica e gli sviluppi futuri sull’area ex Italsider, in particolare
rifiutando ogni possibile azione speculativa e che aumenti le cubature edilizie,
la cementificazione e il congestionamento dell’area. […] L’assemblea ha
approvato all’unanimità le seguenti rivendicazioni:
– Controllo e censimento a tappeto per la stabilità di edifici pubblici e
privati a carico dello stato
– Pubblicazione della documentazione relativa alla verifica sismica
– Soluzioni alternative, sostenibili e dignitose, sul territorio, per gli
sfollati da edifici a rischio
– Blocco dei mutui, senza maturazione degli interessi, e degli affitti per
tutti gli sfollati
– Blocco e annullamento della cementificazione ulteriore dei Campi
Flegrei, fermando subito tutti i nuovi progetti di edilizia privata
(dal verbale della quarta assemblea della decima municipalità occupata –
continua a leggere qui)
Vurria addeventa’ ricco e chino e sorde
Pe’ chello ca me credo ca è ‘a ricchezza:
è ‘o sanghe e ll’ate, nu braccio ca se spezza.
Vurria penza’ a sta buono ogni matina
Pensanno ca so’ stato fortunato,
Ca si guadagno è n’copp ‘o sanghe ‘e ll’ate.
(24 grana, ‘e kose ka spakkano)
.
A dispetto degli annunci fatti dal ministro già dalla fine del 2023, la gestione
della fuga dalle abitazioni in occasione delle scosse più forti è solo sulle
spalle dei trentamila cittadini della zona. Le simulazioni di questi mesi sono
state poche e mal organizzate, mentre soltanto di recente prefettura e
Protezione civile hanno elaborato protocolli per persone con disabilità e piani
specifici per la gestione degli sciami sismici in orario scolastico (d’altronde
solo dal 5 marzo è online la piattaforma per chiedere un sopralluogo agli
edifici privati). […] La poca disponibilità del sindaco Manfredi e
dell’assessore Cosenza a indire incontri informativi sul territorio è stata
messa in evidenza dai cittadini che hanno partecipato al consiglio comunale di
lunedì. In tutta risposta questi hanno ricevuto rassicurazioni per un una
giornata di confronto alla municipalità… il 28 aprile! Per aprire alla
popolazione le porte della ex base Nato, invece, […] è stata necessaria una
piccola sommossa: fino a mercoledì, infatti, le centinaia di cittadini che con
gli eventi sismici più importanti lasciavano la propria casa, venivano
dimenticate per ore sul viale della Liberazione, dove si riunivano pur senza
acqua e possibilità di andare in bagno, e avendo come unico referente una o due
pattuglie della polizia municipale. (riccardo rosa, la gestione della fuga sulle
spalle dei residenti)
La parola “crepare” viene dal latino col significato di “scricchiolare”, ma
anche di “scoppiare”. La frattura separa in modo netto due parti, che potranno
essere riunite solo grazie a un intervento antropico, o rimarranno separate.
Se la lingua è mondo, è
specchio, trovatici con la pupilla
spalancata, pescaci da quel nero
quell’inchiostro che dica la parola
verticale. Alla sua ombra crescono
domande, si fa spazio
al respiro del pensare.
(elisa biagini, da una crepa)
Il consiglio è stata la solita fiera delle belle parole senza fatti concreti.
Tutte le istituzioni hanno espresso la necessità di “continuare a sensibilizzare
la popolazione” partendo dalle scuole e dagli infopoint sul territorio (pochi e
malgestiti), cercando nell’ordine degli psicologi una sponda per il supporto
psicologico. In realtà appare, questo, uno dei punti più critici della gestione
del fenomeno in questi due anni, e l’elemento che ha creato la vera frattura tra
le istituzioni e le persone, lasciate sole sia nei momenti di rallentamento
delle scosse che in quelli in cui la cosiddetta emergenza (si può definire tale
un fenomeno naturale che si ripresenta cronicamente e per periodi tutt’altro che
brevi?) si fa più pressante, a cominciare dalle notti in cui centinaia di
cittadini si radunano sul vialone dell’ex base Nato di Bagnoli e, a stento,
vengono mandati a supportarli una o due pattuglie di vigili urbani. Altro tema
centrale è il sostegno economico per la messa in sicurezza degli
edifici. (francesco nunziante, bradisismossessivo. un mese di “emergenza” tra
scosse, occupazioni e istituzioni latitanti)
C’è una parola molto in voga nel gergo calcistico internazionale, craque. Una
parola che in molti, anche tra gli addetti ai lavori, usano senza capirla,
riconducendola a crack. Un calciatore è un crack perché “spacca le partite”,
semplicemente entra e le cambia, oppure perché all’improvviso decide di entrare
in azione e fa un po’ ciò che vuole; ancora, secondo altri, perché la sua
esplosione segna una frattura, una crepa, tra ciò che c’era prima e dopo di lui.
Come un Cristo, o un Buddha.
Baggio è, davanti a Vialli, il cannoniere di questa piccola Coppa, con nove reti
in otto partite. […] Se le cifre si estendono a tutta l’estate, ecco che per
Baggio diventa un trionfo. Ha fatto gol amichevoli al Casteldelpiano, al
Poggibonsi, alla Lucchese (prima delle quattro doppiette finora realizzate,), al
Torino. E poi quasi sempre in Coppa Italia: all’Avellino, alla Virescit,
all’Ancona, all’Udinese, infine all’Inter. Siamo di fronte al nuovo crack del
calcio italiano. (due campioni da scoprire, 30 settembre 1988)
In realtà la parola viene dal calcio sudamericano, ed è semplicemente la
traduzione di “asso”. Esiste anche un premio, nel campionato brasiliano, “El
Craque do brasileirao”, lo scorso anno vinto da Luiz Henrique André Rosa da
Silva, più noto come Luiz Henrique. L’attaccante di Petropolis, comune dell’area
metropolitana di Rio, ha ventiquattro anni ma ha già girato mezzo mondo. Tra i
diciotto e i ventuno anni ha giocato nel Fluminense, poi al Betis di Siviglia,
poi è tornato in Brasile (Botafogo, con il quale è stato nominato miglior
giocatore della finale di Coppa Libertadores, vinta per 3-1 contro l’Atletico
Mineiro) e un mesetto fa è tornato in Europa, acquistato dallo Zenit di San
Pietroburgo, per trentacinque milioni di euro. Henrique, dopo aver segnato,
esulta di solito con la mossa di T’Challa, personaggio Marvel e re del Wakanda,
e protettore del paese nei panni dell’eroe Black Panther.
La sconfitta complessiva del movimento nato negli anni Sessanta, è stata
particolarmente dura per la componente afroamericana. […] La massiccia
introduzione di droga – soprattutto il devastante crack – nella comunità nera,
nell’indifferenza, se non compiacenza, delle autorità, ha trasformato i ghetti
in “terre di nessuno” dove l’attività criminale e l’appartenenza a una gang
rimane l’unica forma di ascesa sociale e di riconoscimento, e la violenza dei
neri contro neri ha raggiunto livelli intollerabili. Il “problema nero” è stato
abbandonato a se stesso, al suo autocontrollo distruttivo, da una società
americana sorda e insicura che ha rinchiuso i neri poveri fra le mura invisibili
del ghetto e quelle, tangibili, delle prigioni» (paolo bertella farnetti,
pantere nere. storia e mito del black panther party)
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di ottoeffe)
«Dalla disperazione alla disperanza», mi ha proposto -ma venerdì sera, al
termine del concerto di presentazione del nuovo disco di Ciro Riccardi (per gli
amici Cerone), e nell’invitarci a berne ancora un ultimo, in un noto bar rifugio
dei poeti decadenti del centro città.
Del disco di Ciro (Ncopp’a sta terra, prodotto da Phonotype Records) il brano
più bello mi è parso Arrassusia, scritto e interpretato da Libera Velo, regina
del rocksteady cittadino. È, “arrassusia”, una parola di scongiuro ma anche –
appunto – di speranza, condivisa da due o tre dialetti meridionali, che scaccia
la iattura e gli iettatori, la malasorte e le ciucciuvettole, e chi più ne ha
più ne metta.
Io nun te voglio appacia’,
‘e criature a dummeneca nun ce vonno jì dint’e centre commerciale…
Cavie, zoccole p’e saittelle!
Io nun te pozz’ appacia’,
‘e criature a dummeneca nun se ne vanno p’e centre commerciale…
Cavie, zoccole: puortàle ‘o mare!
(libera velo, cricche)
Ora, su questa “dis-peranza” ho riflettutto durante tutto il viaggio in motorino
di ritorno verso casa, e pure la mattina dopo mentre lavoravo con un gruppetto
di ragazzi e ragazze del liceo del quartiere. Il dizionario sembra le dia
dignità solo mettendola in competizione con la disperazione (“ha sign. più tenue
che disperazione, ma nella lingua ant. le due parole sono sinonimi”), eppure a
me sembra una condizione assai diversa, definibile più per sottrazione, che poi
è la cosa su cui meglio sto lavorando con questi adolescenti, con cui ci
interroghiamo sulle tecniche per raccontare attraverso un testo il reale.
C’è un ulteriore uso che merita di essere citato, perché arricchisce la
tavolozza dei nostri sentimenti: è stata detta “disperanza” anche quel
sentimento sublime di sgomento che si prova davanti all’immenso,
all’indomabilmente vasto — e ciò che ha questi caratteri. Per esempio, si può
parlare della disperanza delle vette innevate, o del mare in tempesta. Non è un
nesso abituale, ma è facile accorgersi come ci possa essere o possa mancare, nel
rapporto con le grandezze del mondo, un senso di fiducia che è una sfumatura di
speranza, o di sfiducia che è disperanza. (unaparolaalgiorno.it)
Che sia, quindi una questione di ottimismo? Di punti di vista? Di narrazione?
Infatti ho speranza, finché non muoio,
che tanto è l’ultima e m’illumina nel vuoto.
Decollo, pronto al volo col mio poto,
plata o plomo, parla poco, placca l’uomo e dà un cazzotto,
romanzo l’accaduto in un salotto,
perché sono scrittore e interprete, Black Lives Matter!
Per ogni sbirro che spara nelle vertebre e mai smette.
Come evadi dai problemi che ti fai, in pochi metri quadri?
Giocherai alla Play dal tuo compagno di banco delle elementari.
(speranza e tedua, a la muerte)
Ho avuto varie discussioni interessanti in questi giorni con alcune tra le
persone che hanno occupato, questa settimana, la sede della municipalità di
Bagnoli, soprattutto sulla necessità di rilanciare la lotta sulla rigenerazione
urbana dell’ex area industriale, ora che l’accoppiata Manfredi-Meloni sta pezzo
dopo pezzo smantellando gli elementi più scomodi (per loro) del piano, ovvero
quelli che recepivano trent’anni di lotte popolari sul territorio. Il tema è
sempre quello, provare di continuo a rinnovare le pratiche e i linguaggi,
giocare all’attacco elaborando nuove strategie da integrare alle forme di lotta
tradizionali, superare lo sfinimento della comunità del territorio logorata da
trent’anni di scientifico abbandono e sperpero di centinaia di milioni di euro
senza risultati. Dis-perare allora, o seguitar il canto con quel suono di cui le
Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono?
In questo passaggio del Canto I del Purgatorio, Dante in fondo ci risponde:
chiede a Calliope di aiutare il suo canto con quello stesso suono con cui la
musa della poesia sconfisse le figlie di Pierio, re di Tessaglia, che l’avevano
sfidata con un grave atto di superbia. È superbia, lottare nella disperanza?
Ostinazione, inflessibilità, autoassoluzione? Ho nel mio studio un manifesto
incorniciato che sempre mi ricorda:
(da: elpressentiment.net)
Post scriptum. Le Piche in cui vengono trasformate le figlie di Pierio, altro
non sono che delle gazze (pica pica è il nome latino dell’animale), uccelli
appartenenti alla famiglia dei corvidi, dal colore nero sericeo e bianco
candido. Gazza è anche il soprannome di uno dei miei calciatori preferiti, e per
alcuni dei miei amici pure il mio; è inoltre il simbolo della città del nord est
inglese a cui sono legato, e da cui proviene quello stesso giocatore. Un giorno,
gironzolando per le sale del museo d’arte moderna di Madrid, rimasi a guardare
affascinato un piccolo libro di Lise Deharme e Joan Mirò, che ha per tema
proprio la sintesi tra lo sperare e il dis-perare, al di fuori di qualsiasi
condizionamento proveniente dal mondo reale (In questo modo, l’autore rimane
fedele all’idea surrealista che la disperazione è – paradossalmente – una fonte
di speranza, leggo qui / traduzione mia). Il libro si chiama La petite pie.
Ovvero, “la piccola gazza”.
Il était une petite pie / C’era una volta una piccola gazza
Toujours au désespoir / Sempre disperata
Et toujours dans son lit / E sempre a letto
Elle était toute noire / Era tutta nera
Mais quand même très jolie / Ma ancora molto bella
Elle partit à cheval / Andava a cavallo
À cheval sur une souris / A cavallo di un topo
En revint au plus mal / E in un brutto modo tornò
Et mourut dans son lit / E nel suo letto morì
(joan mirò, il était une petite pie)
(disegno di ottoeffe)
Leggo avidamente il giornale. È la mia unica fonte di continua finzione
letteraria. (aneurin bevan)
Ha provato in ogni modo Donald Trump a richiamare all’ordine, senza successo,
l’utile idiota, nazionalista e filonazista Volodymyr Zelenskyj, scaricato e
quasi menato dal multimiliardario e fascista presidente degli Stati Uniti nel
corso di una concitata conversazione in favore di telecamera, nello Studio ovale
della Casa Bianca.
s.m. [dim. di teatro]. – 1. Piccolo teatro, spec. per rappresentazioni di
burattini o di marionette (e in questo caso può significare anche lo spettacolo
stesso o il suo genere) e come giocattolo per bambini. 2. estens., spreg.
Situazione o condizione ambientale in cui tutto si riduce a un gioco delle parti
nel quale ognuno finge di recitare un certo ruolo: il t. della politica,
espressione usata per definire una politica basata su tattiche e strategie
collaudate. (teatrino: treccani.it)
Zelenskyi ha provato inutilmente a dimenarsi, ma tra gli amici di un tempo
(Trump l’aveva perso già anni fa, quando i due litigarono perché il presidente
Usa gli aveva bloccato quattrocento milioni di dollari di aiuti militari, come
emerso dall’Ucrainagate) non gli resta ora che qualche sparuto sodale in Europa.
(vignetta di vauro)
“Il difficile è la doppia voce, cioè alternare la voce naturale con quella
artificiale ottenuta con la pivetta. Io dico che difficile è la voce artificiale
per mettere in guardia l’apprendista: chi vuole apprenderla deve farlo con una
volontà tale da fargli superare la paura. Solo così riuscirà. […] Poi riguardo
alla scultura di un pupazzo, questa… (Nunzio guardò con ironia la testa) è
ridicola, ma ridicolo mi sembra derivi dalla parola ridere e se fa ridere va
bene per uno spettacolo; se poi sbagli e la fai seria servirà per un personaggio
serio, non possono essere tutti buffoni, altrimenti è una buffonata, non è più
uno spettacolo. L’importante non è il movimento, ma l’impostazione del dialogo e
delle voci: quella del guappo è grossolana, prepotente, violenta; quella di
Pulcinella può essere più violenta ancora ma si distingue per quel tono
ottonato; poi si possono fare altre voci. Il burattinaio deve saper fare tutto:
la donna, il prete, il carabiniere, Pulcinella”. (bruno leone racconta il suo
primo incontro con nunzio zampella, in: le guarattelle. vita da burattinaio)
(credits in nota1)
I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che
interessa a me è un’altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il
comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime.
(carmelo bene)
Oltre al carnevale propriamente detto, con tutte le sue azioni e processioni
complicate che occupavano per giorni interi le piazze e le strade, si
celebravano la “festa dei folli” (festa stultorum) e la “festa dell’asino”; ed
esisteva anche uno speciale “riso pasquale” (risus paschalis) libero, consacrato
dalla tradizione. Inoltre, quasi tutte le feste religiose avevano un loro
aspetto comico, pubblico e popolare, anch’esso consacrato dalla tradizione.
Questo era il caso, per esempio, delle “feste del tempio”, accompagnate di
solito da fiere, con il loro apparato ricco e vario di divertimenti pubblici (vi
si esibivano giganti, nani, mostri, bestie sapienti). […] Il carnevale, in
opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione
temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione
provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei
tabù. Era l’autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del
rinnovamento. Si opponeva a ogni perpetuazione, a ogni carattere definitivo e a
ogni fine. Volgeva il suo sguardo all’avvenire incompiuto. (michail bachtin,
l’opera di rabelais e la cultura popolare. riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale)
(carnevale di dusseldorf, 2019)
Scoprimmo che a carnevale si fittava la palestra a iniziative private, per fare
il concorso “La più bella mascherina”; la gente s’accattava ‘e vestite: damina
dell’Ottocento, Zorro, eccetera, facevano la sfilata e poi si premiava qualcuno.
Dicemmo: cazzo! Il carnevale è stata una cosa popolare, di rivoluzione, che non
ha niente a che vedere col recupero delle tradizioni borghesi tipo il Carnevale
di Venezia, né con la grande spanciata di cose che sento di “critica sociale”,
tipo il Carnevale di Viareggio. Il carnevale è fatto con materiali di recupero,
senza spendere denari, gratuitamente, col coinvolgimento dei bambini che se lo
ricordano per anni. Una volta un bambino ha scritto: “Oggi è una bella giornata,
non perché c’è il sole ma perché stiamo lavorando insieme”. Classi diverse che
collaborano, insegnanti meno stronzi degli altri che danno una mano e che si
entusiasmano a fare ‘ste cose. Corteo: per le strade, la domenica, quando la
scuola sta chiusa: o si costringe la scuola ad aprire o si porta la roba fuori,
però si fa sperimentare alla gente del quartiere che cosa si può produrre nella
scuola. Non costano niente, non c’è l’alibi: “nun tenimmo denari”, perché si
usano materiali vecchi, ruote di carrozzino, le uniche spese sono il filo di
ferro, la pittura e ‘a colla, poi la carta di giornale, anche se qua nessuno
compra i giornali, ma la Gazzetta dello Sport va bene lo stesso. E in più
l’abolizione di divisione tra alunni e professori, divisione di competenze, per
cui magari l’alunno con difficoltà in italiano e matematica sape ‘nchiuva’ e si
sente riqualificato nel rapporto con gli insegnanti e… e quest’è. Mi pare
abbastanza, no? (felice pignataro in: felice!, di matteo antonelli e desirée
klain)
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/03/pomiglianolow-1.mp4
(credits in nota2)
Guappo: Ovvillann’ ‘ovvì! Nun te movere!
Pulcinella: No no, aspett’ a ttè!
Guappo: Aspe’ Pullecenè, acchiappa, tè! E una, doje, doje e mmiez…
Pulcinella: E tre! (colpisce col bastone, poi i due combattono, continuano i
lazzi, a un certo punto il guappo colpisce Pulcinella di striscio)
Guappo: Ah! (colpisce)
Pulcinella: Aaaah! Papàa! Aaaah, papàaa! (si accascia sulla ribalta)
Guappo: Uè!
Pulcinella: Oh! (si alza e si accascia di nuovo)
Guappo: Che d’è? Susete. (lascia la spada sulla ribalta) Pullecenè!
Pullecenè! Nè, che veco? Pullecenella ha fatto ‘a faccia janca janca, vuo’
vede’ che è muort’ Pullecenella? Finalmente Pullecenella è muort’!
Pulcinella: (si alza e poi si abbassa) Frisc’ all’anema ‘e chi t’è muort’!
Guappo: (si guarda intorno) Eh, mo sa’ che faccio, vaco a chiamma’ duje
schiattamuort’ cu nu’ bellu tavuto, e facce veni’ ccà e ‘o port’ ‘o campusant’…
(va via)
Pulcinella: Addò vaje? Cuopp’ alless’! T’aggio fatt’ fesso! Appena arriva ccà,
prrrr; ‘o facce spurtusa’ ‘o pertus’! Ovvilloco ovvì, arriva arriva… (si
abbassa sulla ribalta)
Guappo: Jamme giuvino’, purtate ‘o tavuto ‘a chesta parte, ‘o muort’ sta ccà
‘nterra, facimm’ ambressa, jamme!
Pulcinella: Ovvilloco ovvì.
Guappo: Jamm’, n’ati quatte pass’ site arrivat’. Caro Pullecenella, je nun te
vulev’ accidere, perciò ‘a colpa è ‘a toja, mo ‘o paese sapenn’ nutizia ca je
t’aggio acciso, addò me vedono vedono, mi chiammano e me fanno ‘on Pascà…
Pulcinella: (si alza senza essere visto) ‘A capocchia! (si abbassa di nuovo)
Guappo: (dopo aver scrutato tra il pubblico) Nun ce sta nisciuno! Che stevo
dicenn’? Uommeni, anzian’, viecchie, giuvin’ e giuvinott’, se levan’ coppole e
cappiello, e me diceno ‘on Pascà…
Pulcinella: (si alza) Prrrr! (si abbassa di nuovo)
Guappo: (al pubblico) Uè! Uèeee giuvino’! Vien’ a ccà! Dunque Pullecenè, al
bando le chiacchiere, ‘o tavut’ sta arrivann’, je te mett’ arint’, te porto ‘o
campusant’ e te sutterr’, poi essendo libero, me ne scapp’ a’ ‘Merica e
accussì…
Pulcinella: (si alza di scatto, prende la spada e lo colpisce) Pò!
Guappo: Aaaah!
Pulcinella: Scappa a’ ‘Merica, va’!
Guappo: Aaaah! (resta con la spada infilata nel corpo)
Pulcinella: Ah aaaah! Che d’è? Mo te fa male ‘a panza?
Guappo: Pullecenè!
Pulcinella: Che d’è?
Guappo: Pullecenè te voglie bene, aiutame…
Pulcinella: Pecché, che d’è?
Guappo: Sto murenn…
Pulcinella: Jett’ ‘o sang’!
(nunzio zampella, il posto privato, l’arresto, la confessione e l’impiccagione)
(credits in nota3)
Due appuntamenti in tema, per chiudere: questo pomeriggio alle 18:00, a Casa
Guarattelle (vico Pazzariello, 15/a), la Pulcinellata, con Bruno Leone e Planos
Sklavenitis; martedì pomeriggio, alle 15:00, con partenza da piazza
Montecalvario, corteo di Carnevale dei Quartieri Spagnoli (con arrivo e grande
fuoco rituale a piazza del Gesù, insieme agli altri carnevali sociali del Centro
storico)
(a cura di riccardo rosa)
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¹ Le mazzate di Pulcinella, Bruno Leone (2010)
² Carnevale popolare di Pomigliano d’Arco, Gruppo di ideazione e produzione
“Cronaca” (1977)
³ Ninetto Davoli, Totò, Carlo Pisacane, Franco Franchi, Laura Betti, Ciccio
Ingrassia, Adriana Asti, Domenico Modugno, in: Che cosa sono le nuvole, Pier
Paolo Pasolini (1968)
(disegno di ottoeffe)
Ci sono adulti che hanno metodi particolari, talvolta efficaci, talvolta meno,
per incoraggiare i giovani a coltivare le proprie ambizioni (sul tema
della “motivazione” ci si è già espressi in questa rubrica).
Avevamo una scuola di calcio popolare a Bagnoli, e c’era un allenatore che aveva
dei metodi educativi interessanti, ma che a volte richiedevano discussioni
collettive e, in certi casi, un reindirizzamento. Una volta, per far riflettere
sulla sua arroganza un ragazzo che prendeva in giro un paio di compagni non
ritenendoli alla sua altezza calcistica, gli fece fare un intero allenamento con
un cartello sulla schiena su cui c’era scritto “Io sono di legno”. Un’altra,
durante una riunione pre-allenamento in cui si parlava della scelta delle scuole
superiori per l’anno successivo («Io voglio fare l’alberghiero, mi piace
cucinare»; «A me piacerebbe il liceo classico»), pensò bene di suggerire a un
ragazzo che non brillava per impegno scolastico: «Secondo me, Vince’, tu t’e ‘a
mettere sulo ‘a marenna sott’o braccio pe’ jì a fatica’!».
Avevo poi un professore, alle scuole medie, che in base all’idea che si era
fatto dei suoi studenti gli pronosticava un futuro professionale. Tu, Giovanni?
Medico! Tu, Ivana? Farai la scrittrice. Per quelli meno volenterosi, o meno
svegli, aveva un’unica soluzione: il vigile urbano.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/02/lascuola.mp4
(credits in nota1)
In queste settimane ha molto girato un articolo pubblicato da Osservatorio
Repressione sull’approvazione del decreto Milleproroghe da parte del parlamento,
che prevede, tra le altre cose, la possibilità di dotare i vigili urbani di
tutti i comuni italiani del taser (della situazione napoletana avevamo
accennato qui). Negli stessi giorni ventidue avvisi di garanzia sono stati
consegnati ad altrettanti dipendenti della polizia municipale di Vico Equense
per assenteismo e uso indebito, a fini privati, delle auto di servizio (una
efficace analisi del fenomeno è rintracciabile, come direbbero gli accademici,
nel lavoro di Fastidio, G., 2013).
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/02/ginof.mp4
Esiste molto materiale cult sul tema della percezione sociale del vigile urbano
da parte della popolazione. Fondamentale è la deposizione in tribunale di Andrea
Alongi, testimone nel processo per il caso Bonsu, ventiduenne ghanese pestato
brutalmente da alcuni agenti della polizia municipale a Parma, nel 2008.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/02/alongi.mp4
Utile, anche se con risvolti decisamente meno drammatici, la visione del
film Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (scritto da Maccari e
Scola, e con un cast di fuoriclasse: Cervi, De Filippo, Fabrizi, Manfredi,
Sordi). Alberto Sordi, in particolare, interpreta l’agente Randolfi, uno che
“non perdona nessuna infrazione”, appioppando multe alle alte cariche
istituzionali, ai pompieri, al passante che non attraversa con la dovuta
precisione le strisce pedonali. Alla fine del film Randolfi verrà miseramente
bocciato all’esame di francese con cui spera di far decollare la propria
carriera e soprattutto, per la sua intransigenza mal digerita, trasferito a
Milano”.
A proposito di teste senza corpi e passaggi tra la vita e la morte: un centinaio
di persone, o forse anche di più, sono state fortunate venerdì a vedere
un’azione sonora all’Auditorium Novecento di Napoli. Era There lives what has no
name (letteralmente: “Lì vive ciò che non ha nome”), un susseguirsi di ululati,
soffi, colpi a fiato e a tamburi, piatti e triangoli per opera di Chris Corsano,
Walter Forestiere, Antonio Raia e Makoto Sato, il tutto dentro le fiamme, i
lacci, gli spuntoni e gli sputi, i cadaveri, le lingue e le frecce dei
personaggi disegnati da Roberto-C.
(foto di pazzaglia)
Mi è rimasta impressa in particolare – forse è il fatto che in questi giorni il
Papa sembra rischiare, come si dice a Napoli molto efficacemente, di “farsi la
cartella” – l’immagine del corteo funebre di un cardinale portato in spalla da
figuri tormentati mentre i tamburi dettano il passo.
Per i latini feretrum non era solo la cassa da morto, ma anche la portatina su
cui questa veniva traslata, utilizzata anche per le processioni, il trasporto in
gloria delle statue degli dei e dei trofei (e infatti feretrum si traduce anche
con “trofeo”).
Pietro: Anche se ti sto già osservando da tempo con attenzione, non vedo in te
alcuna traccia di santità, ma piuttosto molta empietà. Che significa mai questa
compagnia che ti segue, tanto lontana dall’essere pontificia? Porti con te quasi
ventimila persone, eppure in questa grande folla non vedo nemmeno uno che mostri
un volto cristiano. Vedo una mescolanza orribile di uomini, nulla se non
bordelli, vino e polvere da sparo che emana un odore disgustoso. Mi sembrano
ladri assoldati, o piuttosto anime dannate che sono risorte dall’inferno per
scatenare guerre in cielo. Ora, quanto più ti osservo, tanto meno vedo in te
tracce di un uomo apostolico. Prima di tutto, che cos’è questa mostruosità, che
mentre indossi l’abito del sacerdote celeste, dentro di te sei armato di armi
insanguinate, tremando e facendo rumore? Inoltre, che occhi feroci, che bocca
sfrontata, che fronte minacciosa, che sopracciglio altezzoso e arrogante! È
davvero vergognoso dirlo e fastidioso anche solo vederlo: non c’è parte del tuo
corpo che non sia contaminata dai segni di una lussuria mostruosa e abominevole.
Senza parlare del fatto che sembri ancora ruttare e puzzare di vino e liquori,
come se stessi per vomitare. Certamente, il tuo corpo appare in tale stato che
sembri ridotto non tanto dalla vecchiaia o dalle malattie, ma dalla rovina
dovuta alla dissolutezza, alla debolezza e all’abuso di cibo e bevande. (san
pietro commenta l’arrivo al paradiso di giuliano della rovere, già papa giulio
II, in: erasmo da rotterdam, iulius exclusus e coelis / traduzione –
probabilmente discutibile – mia)
(a cura di riccardo rosa)
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¹ Roberto Nobile in: La scuola, Daniele Luchetti (1995)