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La parola della settimana. Scudo
(disegno di ottoeffe) La parola “scudo” viene dal latino scutum, in riferimento al cosiddetto scudo oblungo, elemento difensivo “con una nervatura centrale lignea di rinforzo, detta ‘spina’, dal materiale organico, derivato da più antichi modelli micenei e utilizzato dall’esercito romano ma anche da bande guerriere”. A parte alcune rare eccezioni, non è stato più usato in battaglia fin dall’introduzione delle armi da fuoco. Una di queste eccezioni è il “targe scozzese”, piccolo scudo in legno, cuoio e metallo, utilizzato fino al 1700 e capace di difendere anche dai proiettili dell’epoca. «Per anni allo United sono entrato in campo per difendere, da mediano o centrale, ma il mio istinto è offensivo. Il mio punto di forza è buttarmi in area, segnare, creare pericoli». (scott mc tominay) https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bv.mp4 (credits in nota1) Lo scudo può avere forme diverse: c’è lo “scudo normanno”, triangolare, con la punta in basso; lo “scudo gotico antico”, con i fianchi ricurvi; il “gotico moderno”, con la parte inferiore arrotondata; lo “scudo inglese” o “da torneo”, che riproduce il modello di “targe” di cui sopra. In araldica lo scudetto è la struttura di legno su cui vengono disegnate figure e simboli. In battaglia poteva capitare di veder sventolare i simboli nemici, capovolti, per evidenziare la loro disfatta o resa. (curva b, scudetto 2023) Nel linguaggio sportivo, lo “scudetto” è un piccolo scudo tricolore che viene cucito sulla maglia degli atleti campioni d’Italia, nel calcio ma anche in altri sport di squadra. La sua introduzione risale alla stagione 1924-25, anche se nel 1930, e per tredici anni, Mussolini impose l’apposizione del fascio littorio sul petto dei campioni in carica. Lo scudetto fu contestualmente retrocesso a simbolo della vittoria in Coppa Italia, fino a quando non tornò in palio, con la ripresa dei campionati nell’ottobre 1945 (al termine della stagione fu assegnato al Torino ma privo dello stemma sabaudo, nonostante al referendum che decretava la fine della monarchia mancasse ancora quasi un anno). Per quelli innamorati come noi, per quelli che non ti han tradito mai, magico Napoli, torna campion: cuci sul petto un’altra volta il tricolor! (coro ultras napoli sulle note de i maschi, di gianna nannini) Quando ero bambino mi ci è voluto un po’ per capire che non a tutte le squadre vincitrici nel mondo di un campionato spettasse lo scudo tricolore. In Germania il premio per la vittoria è il Meisterschale, il “piatto dei campioni”, dal peso di cinque chili e mezzo e dal valore di venticinquemila euro circa; in Francia il capitano della squadra vincente alza al cielo il meno pregiato Hexagoal, trofeo minimalista, in alluminio spazzolato con innesti dorati. In Inghilterra, la coppa in palio tra il vincitore del campionato e della FA Cup si chiama Community Shield (“lo scudo della comunità”). Il suo nome era prima Charity Shield (“scudo della beneficenza”) ma nel 2002 la Charity Commission inglese scoprì che la federazione calcistica si era intascata i soldi che avrebbe dovuto devolvere per opere di bene e ne impose il cambiamento. Quest’anno per conquistarselo si sfideranno il Liverpool e il Crystal Palace, squadra del brutto sobborgo operaio di Croydon, che si chiama così perché fu fondata, seppure non ancora ufficialmente, dagli operai dell’omonima struttura costruita per l’Esposizione Universale di Londra, nel 1851. (credits in nota2) Uno dei momenti più emozionanti della premiazione del Napoli campione venerdì sera è stato quando sul maxischermo è comparsa la mano di un incisore che calcava sulla coppa scudetto il nome della mia squadra. Mi sono guardato intorno e ho visto gente piangere, altra telefonare alla propria moglie, altra consumare sostanze (va detto che all’intervallo della partita i bar della curva avevano già tutti esaurito le scorte di birra). Al fischio finale di Napoli-Fiorentina del 10 maggio 1987, intervistato da Giampiero Galeazzi, Maradona disse che la vittoria di quello scudetto valeva persino più del Mondiale che aveva vinto un anno prima, perché quella vittoria era avvenuta “a casa mia”. È bello che oggi quella casa porti il suo nome, e fa riflettere (forse fa riflettere solo me) che da quando gli è stata intitolata, il Napoli abbia vinto due scudetti e una Coppa Italia. Insieme a un paio di amici con cui abbiamo visto la partita-scudetto al Maradona, riflettevamo, durante la cerimonia di premiazione, su quanto a volte la vita possa essere ingiusta, sulla potenza del caso e delle sue sliding doors, e su quanto sia importante trovarsi al posto giusto al momento giusto. Non che avessimo la forza per teorizzare, ma qualcosa del tipo:  A: Scudetti vinti da Zico? B: Zero! A: E da Ronaldo? B: Zero! A: Mmmm… da Kroll? Hamsik? Cavani? B: Zero! A: Scudetti vinti da Okafor? B: Uno! A: E da RafaMarin? B: Uno! A: Juan Jesus? B: Due… . PS. Una menzione speciale sento il dovere di farla allo steward che in queste ore sta rischiando il suo precario posto di lavoro, perché ripreso dai soliti invadenti videoamatori mentre si disinteressa di una piccola folla che a pochi passi da lui scavalca i cancelli dello stadio, per entrare in curva utilizzando il biglietto di un altro settore. Buona fortuna amico mio, questo scudetto è anche tuo. (a cura di riccardo rosa) __________________________ ¹ Da: Braveheart. Cuore impavido, di Mel Gibson (1995) ² Operai inglesi smantellano il Crystal Palace. Cinegiornale a cura del British Pathé.
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parola della settimana
La parola della settimana. Ricorsi
(disegno di ottoeffe) Un cittadino bolognese si è visto annullare la scorsa settimana migliaia di euro di multe relative a infrazioni del codice della strada, sfruttando il sistema del silenzio-assenso. L’uomo aveva presentato un ricorso al prefetto per ognuna delle multe ricevute e, non essendogli stata recapitata l’istanza di rigetto, aveva presentato domanda di annullamento in autotutela. Il Comune aveva comunque proceduto a emettere cartelle di pagamento contro di lui, ma alla fine a spuntarla è stato il multato, grazie all’intervento del giudice di pace. Perplessità dal comando locale della polizia municipale. (credits in nota1) Dopo decenni di corteggiamento, e dopo momenti tristemente memorabili – la sindaca Iervolino che attende i risultati sull’assegnazione della sede in mezzo ad assessori e giornalisti, stringendo un corniciello rosso fuoco – finalmente Napoli riesce a ottenere il ruolo di città ospitante della Coppa America di vela. Esultano i giornali, che tornano a parlare di Bagnoli annunciando la realizzazione di piattaforme a mare e di un costruzione di un villaggio organizzativo sulla colmata (l’abbiamo già sentita); colmata che, come ampiamente prevedibile e previsto, una volta blindata dall’accoppiata Manfredi-Meloni, si prepara a diventare uno spazio privatizzato per grandi eventi e sottratto, come da settant’anni a questa parte, ai cittadini. «Bagnoli è stato un elemento essenziale per convincere gli organizzatori – ha detto il ministro dello sport Andrea Abodi – e l’America’s Cup sarà un elemento di accelerazione per un processo che è andato avanti troppo lentamente sottraendo all’Italia un’area che può essere produttiva e che sarà la vera eredità di questa sfida». Ora con tal Ricorso di Cose Umane Civili, che particolarmente in questo libro si è ragionato, si rifletta su i confronti, che per tutta quest’opera in un gran numero di materie si sono fatti, circa i tempi primi e gli ultimi delle Nazioni antiche e moderne: e si avrà tutta spiegata la Storia, non già particolare […]; ma dall’identità in sostanza d’intendere, e diversità de’ modi lor di spiegarsi, si avrà la Storia Ideale delle Leggi eterne, sopra le quali corron’i fatti di tutte le Nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini, se ben fusse, lo che è certamente falso, che dall’Eternità di tempo in tempo nascessero Mondi Infiniti. (giambattista vico, la scienza nuova) Nelle estati del 2012 e del 2013, con il collettivo Ba.Fu.Ca. (Bagnoli-Fuorigrotta-Cavalleggeri) e con altre realtà di movimento, mettemmo in piedi, per fare il verso alla ricorrente farsesca candidatura napoletana alla competizione velistica (all’epoca “LuisVittonCup”), una regata autorganizzata. La chiamammo Giggin Vuitton Cup, una coppa finalmente dedicata a un povero Cristo di Bagnoli, senza casa né lavoro, che si arrangiava vendendo prodotti taroccati. A proposito tengo ‘nu frat’ che da quindici anni sta disoccupato. Che s’ha fatto cinquanta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. Voi che date conforto e lavoro, eminenza, vi bacio e v’imploro: chillo dorme cu’ mamma e cu’ me, che crema d’Arabia ch’è chistu cafè! (fabrizio de andrè, don rafè) La “coppa America dei poveri” portò a Bagnoli centinaia di persone, improvvisati skipper di imbarcazioni incerte e traballanti, canoe sgangherate, zattere mezze marce, bidoni dell’immondizia riciclati che girarono la scogliera antistante il Lido Fortuna provando ad arrivare in testa. Barche affondate, remate in testa, gavettoni: tutto era concesso data l’assenza di regole, lo stesso spirito con cui gli amministratori avevano agito nei vent’anni precedenti (oggi ne sono passati più di trenta e non è cambiato nulla) truccando una finta bonifica, elaborando progetti urbanistici sconclusionati, sognando una speculazione edilizia che è ancora dietro l’angolo. (foto d’archivio) Se Bagnoli piange, i bagnolesi non ridono. Sono passati più di due mesi dallo sciame sismico di marzo e dalla più violenta scossa degli ultimi cinquant’anni e le risposte istituzionali sono assolutamente insufficienti su tutti i fronti (i più eclatanti: un decreto governativo che sa di elemosina; il mancato pagamento del sostegno agli affitti; il mancato arrivo dei fondi per la messa in sicurezza degli edifici; la mancata programmazione di una sistemazione in strutture pubbliche e private per gli sfollati, che vengono trattati come pacchi vedendosi prorogato un soggiorno in alberghi dall’altra parte della città ogni dieci giorni). Lo scorso mercoledì era programmato un incontro tra l’Assemblea popolare e tutti gli assessori competenti, che è saltato senza nessun avviso. Rimandato a venerdì, le risposte sono state a dir poco imbarazzanti. Successivamente, nella stessa giornata, un corteo ha attraversato il quartiere ribadendo l’urgenza di interventi reali e non di rappezzi che sanno di presa in giro. Di quando in quando abbiamo bisogno di una catastrofe per spezzare l’incessante bombardamento dell’informazione. […] Il flusso è costante, – riprese Alfonse. – Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, granellini di polvere. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un’altra parte. Ed è qui che entra in ballo la California. Smottamenti, incendi nei boschi, erosione delle coste, terremoti, massacri di massa eccetera. Possiamo metterci lì tranquilli a goderci tutti questi disastri perché nell’intimo sappiamo che la California ha quello che si merita. Sono stati loro a inventare il concetto di stile di vita. Basta questo a condannarli. (alfonse spiega a jack la sua teoria sulle catastrofi in: rumore bianco, di don delillo) Le impronte digitali e di notte le pattuglie che inseguono le falene e le comete come te. Tra le lettere d’amore scritte a computer Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore, nelle nostre camere separate a inchiodare le stelle, a dichiarare guerre. (a cura di riccardo rosa) __________________________ ¹ Valerio Mastandrea in: Non pensarci, di Gianni Zanasi e Lucio Pellegrini (2009)
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La parola della settimana. Forma
(disegno di ottoeffe) Avevo vent’anni, ero giovane e inesperto ma scrivevo già meglio di altri colleghi con il doppio della mia età. Il caporedattore di Cronache di Napoli mi mise a fare un’inchiesta sulla casa. Era una roba abbastanza complessa: si trattava di mettere in relazione, andandola a verificare sul campo, la condizione penosa dell’edilizia pubblica nei quartieri più periferici e complicati con il piano politico, e soprattutto con le vicende giudiziarie che stavano coinvolgendo Alfredo Romeo, gestore di quel patrimonio per conto del Comune. In due mesi tirai fuori un bel lavoro, così che qualcuno mi suggerì, dopo la sua pubblicazione, di proporlo anche a un periodico di approfondimento e reportage, all’epoca a me sconosciuto (forse ho già raccontato di questa vicenda, ma la memoria ormai m’inganna). L’inchiesta – ampiamente rivista dal responsabile editoriale – fu il mio primo pezzo per Monitor: andò in prima pagina sul tabloid, una sciccheria che, ad averci i soldi, bisognerebbe riproporre. (n. 26, ottobre 2009) Mentre facevo le interviste, raccolsi anche del materiale video e lo montai in un documentario, dal contenuto interessante ma dalla forma oscena. I redattori di Monitor me lo fecero comunque proiettare in un evento pubblico nella redazione della Sanità, credo per incoraggiarmi a continuare a frequentare il giornale. Quando qualche mese dopo gli chiesi un parere su quel lavoro, R. mi rispose laconico: «La forma è il contenuto». Tuttavia ci sono delle menzogne che, se le si crede, non recano alcun danno, per quanto l’intenzione di ingannare anche con questo tipo di menzogne non è esente da danni: i quali però ricadono su chi mente e non su chi gli presta fede. (sant’agostino, contro la menzogna) Oltre che in matematica, a scuola, ero molto scarso anche in filosofia, complici docenti dalla preparazione e dalle capacità comunicative imbarazzanti. So, però, che su forma e contenuto delle cose interessanti le ha dette Kant, così me ne sono andate a cercare alcune. Oggi mi sembrano più chiare. Nella sua Critica della ragion pura adopera la parola “forma” per descrivere le categorie entro cui la conoscenza è in grado di ordinare la realtà fenomenica. Spazio e tempo cessano di essere contenuti e iniziano ad essere modi, categorie attraverso cui la sensibilità umana può conoscere. Ma la forma, ogni forma, pone sempre il problema della sua necessità. E così, nella Critica del giudizio, Kant si domanda quale sia la facoltà umana in grado di trovare il senso della forma. È l’intelletto, legiferante, che stabilisce i significati. (carlotta bandieramonte, culturefuture.net) Se il linguaggio è contenuto e il contenuto è politico, allora il linguaggio è politico. E quindi ci sono parole precise per discriminare una persona per la sua religione, il suo colore della pelle o la sua provenienza, e altre per attaccarne un’altra che si professa seguace di una ideologia basata sull’omicidio e la deportazione (caso in cui, per quanto mi riguarda, bisognerebbe direttamente menargli, alla persona in questione). Sulla vicenda del blitz di due provocatori sionisti in un ristorante napoletano che aderisce a campagne contro l’apartheid israeliano si è detto e scritto anche troppo: l’importante è che la comunità vicina a Nives Monda (che è proprietaria e organizzatrice di quel luogo) sia riuscita a rispondere con una certa prontezza proteggendola da un linciaggio assai pericoloso, nei tempi in cui un cinguettio e una recensione su Tripadvisor, e le implicazioni che si trascinano dietro, possono far sicuramente più male di un calcio nel sedere. Resta l’indecente figura fatta dal comune di Napoli e dalla sua assessora al turismo Teresa Armato, che si è precipitata a solidarizzare con i provocatori sionisti, invece di provare a capire i fatti e andare a sostenere Nives e i lavoratori di quell’attività. La Suprema Corte (sent. n. 48553/2011) ha stabilito che chiamare “parassita” un personaggio politico costituisce diffamazione a meno che non si argomentino le ragioni dalle quali l’insulto è scaturito. Perché vi sia esercizio del diritto di critica, è necessario insomma che il giudizio – anche severo, anche irriverente – sia collegato col dato fattuale dal quale il “criticante” prende spunto. (laleggepertutti.it) Tornando su piani più alti, se il rapporto tra forma e contenuto, per esempio nell’arte, è tema troppo profondo persino per questa rubrica, alcuni spunti utili possono tornarci da immagini efficaci, pur portatrici di linee discutibili. Apprezzabile, sul tema, è Vladimir Ermakov, critico letterario e traduttore russo: La forma si fonde al meglio con il contenuto proprio quando non si fa notare. È come la buona vodka in un bicchiere trasparente. Un po’ meno Wilde: Odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l’unica cosa per cui è adatto.  Altre suggestioni dal più noto Bertoli: E adesso che farò non so che dire: ho freddo come quando stavo solo, ho sempre scritto i versi con la penna non ho ordini precisi di lavoro. […] Adesso dovrei fare le canzoni con i dosaggi esatti degli esperti. Magari poi vestirmi come un fesso per fare il deficiente nei concerti. E dal solito Tolstoj: Il contenuto deve essere facile da capire, non astratto. È assolutamente falso. Il contenuto può essere come volete. Ma non si deve sostituire l’andare al sodo con le chiacchiere, non si deve nascondere con parole scelte il vuoto del contenuto.  https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bsg-clip.mp4 (credits in nota1) POST SCRIPTUM – Qualche giorno fa, parlando con una cara amica e compagna di forma e contenuto nel discorso politico “interno” (inteso come il confronto tra militanti che fanno parte di uno stesso gruppo), riflettevamo sull’opportunità o meno di inserire dei filtri nel linguaggio, a beneficio degli attivisti più giovani che hanno sviluppato una sensibilità più elevata, rispetto alla nostra, in relazione alla forma-parola. Abbiamo preso atto alla fine che forse dovremmo, ma che probabilmente non ne siamo capaci, per cui la sua soluzione (sensata) è dire a tutti (e tutte) qualcosa tipo: mi dispiace se ho avuto dei modi troppo diretti, fatemelo notare, magari davanti a una birra così siamo tutti più rilassati. Forse sbagliammo ‘e modi ma nun sbagliammo moda. Trasimm’ int’a galera cu ‘a tuta r’a Legea. a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Christoph Waltz in: Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino (2009)  
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La parola della settimana. Matematica
(disegno di ottoeffe) Figlio: Papà mi dai cinquemila lire? Padre: Quattromila lire? Che devi fare con tremila lire? Hai sempre voluto duemila lire mo’ vuoi mille lire? Prenditi cinquecento lire e dividi con tuo fratello! Questa gag – ripetuta ossessivamente dal papà di un amico, ai tempi della scuola, per non sganciare soldi a suo figlio – mi è tornata in mente quando ho ascoltato la conferenza stampa del ministro Musumeci, che dopo la riunione dell’esecutivo ha annunciato in pompa magna la destinazione di fondi per l’emergenza sismica e geologica nel paese. Una roba tipo: “Abbiamo destinato un miliardo” […] “da dividere per quattro regioni” […] “che cacceremo in dieci anni” […] “forse dodici” […] “solo una minima parte nel primo anno” (l’ho un po’ semplificata ma è andata veramente così). Alla fine è venuto fuori, come prevedibile, che per Bagnoli ci sono pochi spiccioli, assolutamente insufficienti per l’unica cosa che si dovrebbe fare: un investimento a tappeto per il miglioramento e/o l’adeguamento sismico di tutto l’abitato, con l’obiettivo di permettere alle persone di “convivere con il bradisismo” (espressione di cui le istituzioni si riempiono la bocca senza avere minimamente l’idea di cosa stiano dicendo). “Fuori gli sghei per i Campi Flegrei”, recitava uno striscione a una manifestazione di qualche settimana fa. Sta andando più o meno così:   Ieri di ritorno da Lecce abbiamo ascoltato la partita dell’Inter sperando che il Verona potesse strappare un risultato contro una squadra stanca e piena di assenze. I nerazzurri hanno fatto una partitaccia ma è bastata, considerando la qualità veramente scadente degli avversari (raramente si sono viste in serie A tutte insieme squadre così scarse come i vari Lecce, Verona, Empoli, Cagliari, Monza di quest’anno). Si rifletteva, in macchina, sul fatto che mentre due anni fa la preoccupazione principale di noi tifosi era fare continui conticini su pezzetti di carta improvvisati per capire in che giornata il Napoli avrebbe vinto lo scudetto, quest’anno dovremmo soffrire fino all’ultimo secondo dell’ultima partita, ma almeno ci risparmieremo di metterci a fare i ragionieri. Pure per questo va ringraziato Conte, anche se personalmente non so se sono pronto. Le energie non solo fisiche ma anche mentali (retorica degli addetti ai lavori calcistici per dire che azzeccare con la testa su una cosa stanca anche il corpo) sono quasi all’esaurimento, e al ritorno a casa ho dovuto mangiare un chilo di patatine fritte per ristabilizzare la serotonina che aveva fatto su e giù tra la partita del Napoli e quella dell’Inter. Durante la fase maniacale queste persone vivono un momento di grande autostima, sono molto loquaci, parlano rapidamente, passano di continuo da un argomento all’altro, si sentono invulnerabili e per questo assumono comportamenti rischiosi, anche nella sfera sessuale, possono darsi a spese pazze che non si possono permettere, sono irritabili e a volte molesti. Un tratto caratteristico è la mancanza di sonno: possono non aver bisogno di dormire per diversi giorni. […] Questa situazione deve durare almeno una settimana per poter essere definita clinicamente “maniacale”. (luigi ripamonti, siamo tutti bipolari? per fortuna no: gli sbalzi d’umore non sono una malattia in: corriere salute, 31 luglio 2022) L’alcool interferisce con il funzionamento di due recettori neuronali: quelli per il GABA (acido gamma-aminobutirrico) e quelli per il glutammato. […] Se da una parte l’aumento dell’attività del GABA produce gli effetti sedativi, dall’altra la soppressione dell’attività del glutammato, anche a dosi molto basse, ha un effetto specifico sulla formazione dei ricordi e sulle funzioni esecutive, come i processi decisionali, di problem solving e di memoria di lavoro. […] Con l’assunzione cronica di alcool, si verificano dei cambiamenti irreversibili a strutture cerebrali importanti per la memoria, come l’ippocampo. […] La perdita delle cellule nervose dell’ippocampo è responsabile dei cosiddetti “black-out”, con perdita di memoria a breve termine. I ripetuti blackout, un chiaro segno di consumo eccessivo, possono causare danni permanenti che impediscono al cervello di conservare nuovi ricordi. Ad esempio, un individuo può essere in grado di ricordare eventi passati con perfetta chiarezza ma non ricordare di aver avuto la conversazione poche ore dopo. (da: brainandcare.com) Come il Verona sul campo da calcio, sono sempre stato molto scarso in matematica. Al terzo o al quarto anno di liceo incominciai a prendere lezioni da un amico più grande, per cercare di capirci qualcosa di disequazioni, funzioni e derivate. Un giorno, mentre correggevamo un esercizio, mi chiese come potevo averlo risolto in un certo modo, dato che quel metodo si basava su operazioni che avrei studiato almeno l’anno successivo (in realtà me l’ero fatto fare mio fratello più grande, che già studiava architettura). Quando dissi che ci avevo perso molto tempo, finché non mi era “venuta un’intuizione”, mi cacciò di casa, telefonò a mia madre per dirgli che con me si perdeva il tempo e che si sarebbe dimesso dal suo incarico. (credits in nota1) Vattenne a ‘lloco, vattenne pazzarella! Va’ palummella e torna, e torna a st’aria accussì fresca e bella! ‘O bbi’ ca io pure m’abbaglio chianu chiano, e ca m’abbrucio ‘a mano pe’ te ne vulè caccià? (palomma ‘e notte) a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Carlo Cecchi in: Morte di un matematico napoletano, di Mario Martone (1992)
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La parola della settimana. Sobrietà
(disegno di ottoeffe) Non riesco ad affrontare la vita quando sono sobrio (charles bukowski, musica per organi caldi) Venerdì sera avevo la televisione accesa mentre cenavo. Nel programma di Lilli Gruber si parlava della Resistenza, ma sembrava più un teatrino dei pupi (con tutto il rispetto enorme per il teatro dei pupi) con i copioni scritti per esaltare le caratteristiche dei diversi personaggi. La Gruber faceva quella indignata-brillante contro l’avanzata delle destre (a furia di farla, la parte dell’indignata-brillante le riesce meglio che venti anni fa) ma non aveva disdegnato di invitare, per bilanciare la presenza di una storica di sinistra, un tizio che ha annunciato come presidente della Fondazione Vittoriale degli italiani. Il soggetto in questione è Giordano Bruno Guerri, ex radicale oggi vicino a Forza Italia, studioso della chiesa cattolica e del fascismo, fondatore con Ida Magli di un ambiguo “movimento culturale” dal nome Italiani Liberi. Il copione dei pupi è andato avanti per un’ora, esattamente come ce lo si poteva aspettare, ovvero all’insegna della par condicio (Gruber però si indignava quando parlava quello di destra), come se invece di fascismo e Resistenza stessimo parlando di – che ne so – referendum sulla cittadinanza, Brexit, legge elettorale. Il tutto, comunque, con sobrietà. Sia la premier che i ministri all’unanimità, che io stesso, non abbiamo mai pensato né di vietare né di ostacolare alcunché, figuriamoci una celebrazione così importante come l’anniversario della fine della guerra civile e del ripristino della democrazia. […] Ognuno la sobrietà la interpreta e vive in base alle proprie sensibilità, con la serenità dei credenti e con la buona educazione dei non credenti. Balli e canti scatenati si potrebbero evitare, ecco, mentre la salma è ancora non tumulata. (nello musumeci, ministro per la protezione civile e le politiche del mare) Nell’idea di rispettare le indicazioni del governo vado a completare questa rubrica richiamando all’etimologia del termine (“misuratezza”), riprendendo alcuni documenti – storici e letterari – che mostrano perché effettivamente si può ritenere che gli stessi partigiani rifuggirono qualsiasi eccesso, facendo semplicemente ciò che andava fatto. Carissima mamma, ti spedisco la fotografia di Delio. Il mio processo è fissato per il 28 maggio: questa volta la partenza deve essere prossima. […] Non preoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi diano: io credo che sarà dai quattordici ai diciassette anni, ma potrebbe essere anche più grave, appunto perché contro di me non ci sono prove. Cosa non posso aver commesso, senza lasciar prove? Sta’ di buon animo. Ti abbraccio, Nino (lettera dal carcere di antonio gramsci a sua madre, 30 aprile 1928) VM: Noi per esempio non prendevamo la tessera, perché mio padre mi ricordo che venne dalla maestra, je disse: “Io sono così, le mie figlie non voglio che prendano la tessera”. Cinque lire se pagava ‘sta tessera. Ma noi a parte che non ce l’avevamo proprio le cinque lire da daje p’a tessera d’a balilla, ma poi mio padre non voleva. Poi, magari noi abbiamo trovato pure una maestra che ha capito questa cosa, poi s’è stancata e non ce l’ha chiesti più. Però poi in classe veniva una, la fascista [del quartiere], veniva con la divisa, la signorina Serpi se chiamava […]: “Questa qui è ‘na bambina che ‘l padre è comunista e che la tessera del fascio no’ la prende”. E allora sai quante volte m’è toccato litigare co’ dei bambini, perché quando uscivamo da scuola, io e le mie sorelle, ci additavano come “le comuniste”. (testimonianza di valtèra menichetti raccolta da alessandro portelli e pubblicata in: ribelle e mai domata. canti e racconti di antifascismo e resistenza) Nei pressi della stazione mi incontrai con Guglielmo, che mi doveva consegnare la valigia. […] Avevo preso la rivoltella che, di solito, negli attacchi con bombe preferivo non portami dietro, perché se fossi stata fermata e se me l’avessero trovata, non sarei sfuggita alla tortura e alla morte. Ma questa volta ero sola e avevo pensato che armata avrei sempre potuto fuggire sparando, o spararmi nel caso non avessi avuto scampo. Dal lato della stazione verso via Marsala, dove ci sono alcuni ruderi dell’antica Roma, c’era ‘na finestrella che dava proprio nel Banhoff, sempre affollato di truppe tedesche dirette ad Anzio. Sistemai la valigia sul davanzale, dopo averla capovolta, e mi allontanai frettolosamente, ma senza correre. Avevo appena raggiunto i giardini di via delle Terme, quando ci fu la deflagrazione, violentissima. (maria teresa regard, autobiografia. testimonianze e ricordi) “Ascolta, dovremmo passare in un paese che ha un nostro presidio. Naturalmente anche lì c’è gente scottata. In particolare ci sono due miei compagni ai quali avete ammazzato i fratelli. […] Quelli vorranno mangiarti il cuore. Quindi noi scarteremo quel paese, lo aggireremo per un vallone che so io. Ma tu non farmi…”. Le dita del sergente si slacciarono da sulla nuca con uno schiocco terribile. Le braccia remigavano nel cielo bianco. Così sospeso era tremendo e goffo. Volava di lato, verso il ciglio e il corpo già pareva arcuarsi nel tuffo in giù. “No!”, aveva gridato Milton. Ma la Colt sparò, come se fosse stato il grido ad azionare il grilletto. Ricadde sulle ginocchia e stette per un attimo, tutto contratto, con la testa appiattita e il naso piccolo e marcato come conficcato nel cielo. […] “No!”, ripetè Milton e gli risparò, mirando alla grande macchia rossa che gli stava divorando la schiena. (un sergente della divisione fascista San Marco incontra il partigiano milton in una questione privata, di beppe fenoglio) MM: Ma ti dirò, io non credo che nessuno di noi, non lo so per gli altri, si sia posto il problema etico dell’uccisione. […] Io non credo – cioè la situazione era talmente estrema – più che di terrore – c’era il terrore – ma di violenza continua – per cui non puoi dire. Forse ci vorrebbe lo psicologo per spiegarlo; ma l’idea di uccidere – a me non è mai venuto mai, “uccido, faccio male”. Non mi sono mai posta questo problema. AP: E dopo? MM: Assolutamente. Se penso, che so, d’aver contribuito con una bomba a far saltare in aria un soldato tedesco, non penso, che so, che quello era un figlio di mamma, che era il padre di un bambino piccolo. Non la vivo così. Vedo torturatori di via tasso, rastrellatori di ebrei, guardia ai campi di sterminio. (testimonianza di marisa musu raccolta da alessandro portelli e pubblicata in: ribelle e mai domata. canti e racconti di antifascismo e resistenza) Guido, Sanmarchi e il Lupo avevano fatto un giuramento: di continuare in tutti i modi la lotta, se uno dei tre fosse stato preso od ucciso. Perciò Guido, appena seppe dell’arresto del Lupo caricò la pistola, e andò dal maresciallo dei carabinieri. […] Gli disse che se non liberava il Lupo avrebbe fatto saltare in aria la caserma, poi lo minacciò con la pistola. A questi argomenti il maresciallo si arrese, e il Lupo fu rilasciato. Da quella volta non si era fatto più vedere in paese, era andato nel bosco vicino a Monte Sole. […] Sugano, vestito con una divisa tedesca, stava sulla strada. Fece cenno di fermare, poi, colla pistola in mano, salì: “Voi scendere!”, disse a Sanmarchi. Lui. rispose: “Ma io essere camerata. Io SS”. Sugano ripetè: “Voi scendere!” e intimò all’autista: “Rauch!” […] Adesso Sanmarchi e Sugano erano soli sulla strada: “Possiamo parlare anche in bolognese – disse Sugano –. Sono un partigiano del Lupo”. Sanmarchi fece per saltargli addosso e si prese cinque palle nello stomaco. “Sei morto?”, disse Sugano. “Si, sono morto. Perchè mi fai tanto male?”, rispose Sanmarchi. Allora Sugano gli sparò nella testa. (la partigiana brunetta musolesi della “brigata stella rossa” racconta l’uccisione della spia fascista infiltrata olindo sanmarchi) (a cura di riccardo rosa)
parola della settimana
La parola della settimana. Fake
(disegno di ottoeffe) Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò più nulla in carriera) Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare. (screenshot dal forum di partenopeo.net) Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una cosa reale. In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”. Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così, quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film. C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport) In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di “falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona che cerca di imitare altri senza successo. Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’. ‘O vero mast’ ‘e festa, ‘o peggio guastafeste p’e pezzott’, vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […] Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC, siente e statte: uno, doje, tre e quatte! Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto, ‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto! (la famiglia; uno, due, tre e quatto) Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador. Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa, ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità, ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi, camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi metodo.  . I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2 febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova (dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna, percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15 febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei deputati del 22 marzo 1982) (immagine da: les complotistes) Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni, insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.  (a cura di riccardo rosa)
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parola della settimana
La parola della settimana. Diserzione
(disegno di ottoeffe) Maje lassat’ ‘a questura fotografie e impronte, pecché capette forse ca ‘eva brucia’ ‘a bandiera ‘e l’obbedienza a l’uniforme. (co’sang, fuje tanno) Ho un’amica a cui tengo molto, vive all’estero da tanto tempo – non so se queste cose siano in relazione tra loro, ma non credo. Credo invece che andiamo d’accordo perché ha un carattere spigoloso simile al mio, e più di me dice sempre quello che pensa, a costo di risultare antipatica. Conosce bene Praga, città in cui vive da anni (forse per questo non la sopporta più) e la letteratura del paese che l’ha “adottata”. Qualche tempo fa mi ha parlato di Jaroslav Hašek, irriverente e anticonformista scrittore ceco, morto solo e in miseria quarantenne, noto soprattutto per il suo romanzo Le fatidiche (o fatali) avventure del buon soldato Švejk durante la guerra mondiale, parodistico testo antimilitarista tradotto in centoventi lingue. Il soldato Švejk è un uomo semplice, gioviale, modesto, amante del bere, e che cerca sempre di accontentare il prossimo. Vive senza drammi tutte le assurdità che la vita e il potere gli riservano, dal manicomio alla galera, dall’esercito alla guerra, agendo assai più razionalmente del mondo pazzo con cui deve confrontarsi e che non perde occasione per accusarlo di sabotaggio e diserzione. M. mi raccontava che a dispetto della chiarezza del messaggio di Hašek, il soldato Švejk viene oggi ritratto in patria come un ingenuo fessacchiotto (un pepe, si dice nel suo dialetto). Il gruppo del calcetto del lunedì di cui faccio parte ha pensato invece di stamparsi sulle maglie un disegno che lo ritrae. La squadra si chiamerà, anche in suo onore, “I disertori”. –.Voi avete tradito sua maestà l’imperatore! –.Gesummaria e quando? –.Smettetela con queste stupidaggini. –.Faccio rispettosamente notare che tradire sua maestà l’imperatore non è per niente una stupidaggine… –.Non volete confessare? Avete volontariamente indossato un’uniforme russa? –.Volontariamente. –.Senza alcuna pressione? –.Senza alcuna pressione. –.Sapete che siete perduto? –.Lo so, al 91º reggimento mi staranno senz’altro cercando… (da un dialogo tra il soldato švejk e il maggiore che presiede il tribunale militare) Al contrario di quanto comunemente noto, la diserzione non è un atto solo confinato all’ambito militare. Disertare è, da dizionario, anche “abbandonare” o “non recarsi in un luogo” in cui si è attesi o dove si sarebbe forzati a essere. Per estensione figurativa, è anche “esimersi dal compimento di un obbligo”. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high-2.mp4 (credits in nota1) Qualche anno fa gli ultras del Napoli protestarono per l’emanazione da parte della società di un regolamento d’uso dello stadio (all’epoca ancora San Paolo) che sembrava fatto apposta per rompergli le scatole. No fumogeni, no bandiere, no megafoni per lanciare i cori. Non si poteva vedere la partita in piedi e si era obbligati a rispettare il posto numerico scritto sul biglietto. Per chi è abituato a seguire la partita in maniera attiva e non da semplice spettatore, i gradoni rischiavano di diventare così una specie di servizio militare. Fortunatamente, col tempo si è arrivati a più miti consigli e, forse informalmente – personalmente non so che fine abbia fatto quell’astruso regolamento – almeno in curva si lascia l’agibilità meritata a chi vive la partita come un precetto (la parola “diserzione”, riferita allo stadio, dice molto di questo rapporto di vincolo reciproco).   (foto di archivio) Nelle ultime settimane si è molto parlato del disco di La Niña, cantante napoletana figlia d’arte, laureata in filosofia e con un master in comunicazione musicale preso a Milano. Dopo aver vissuto a Londra e aver scritto testi in inglese La Niña è tornata a Napoli e ha iniziato a cantare in napoletano. È stata scritturata dalla Sony e da lì la sua produzione si è gradualmente fissata su un folk-elettronico che mi sembra di aver già sentito molte volte e che trovo francamente troppo ammiccante. Furesta, l’album del momento, mi è parso abbastanza scontato e ripetitivo. Rolling Stone (giornale bollito da tempo) ha definito invece La Niña “la nuova Teresa De Sio”. Teresa stanca di guerra senza scarpe se ne va, su questa terra che è bella muove i piedi in libertà. E ha un cappello dalle falde larghe larghe, che se piange non si sente, ma se ride tu la puoi sentire mentre ride, e cantando se ne va. Teresa stanca di guerra. (teresa de sio, teresa stanca di guerra) (a cura di riccardo rosa) __________________________ ¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Russel Mulcahy (1956)
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La parola della settimana. Ritorno
(disegno di ottoeffe) E po’ chi ‘o ssape cumm’è ma io nun me scordo maje: sole che abbrucia ‘o malamente, acqua che scende pe’ lava’. (teresa de sio, voglia ‘e turna’) È uscito in settimana Little Funky Intro, una sorta di spoiler del prossimo disco di Neffa, un ritorno al rap atteso come il quarto scudetto del Napoli, in arrivo ad aprile (il disco; lo scudetto arriverà con ogni probabilità a maggio). I messaggeri della dopa è stato, insieme a Quarantunesimo parallelo, il primo disco rap che ho sentito nella mia vita. Erano passati credo quattro o cinque anni dalla loro uscita, ma a me, che ne avrò avuti quattordici o quindici, sembrò di aver scoperto l’America. Internet era buono per le ricerche di geografia e storia dell’arte e per scaricare le foto dei calendari con le soubrette semisvestite. Se però qualcuno a casa, per sbaglio, alzava la cornetta del telefono, la connessione cadeva e dovevi ricominciare daccapo. Qualche anno dopo, un ragazzo a scuola mi regalò un adesivo dove c’era scritto Don’t hate the media. Become the media! C’ho ancora dieci sacchi in tasca e mo’ c’è l’euro, la fila di invidiosi è lunga e pronta per la neuro. Ancora sento in giro questi stolti, draculi ciucciano, ma sto troppo in alto sopra i trampoli. Non mi faccio coca né paste, ancora qui che fumo, c’ho TH nelle lastre. E mi fa ridere che dicono che quando rappo sembra stare nei Novanta, guardo il mondo è vecchio, buio pesto, dimmi se mi sbaglio, stai onesto. (neffa, little funky intro) Ho sempre subito il fascino dei ritorni (Maradona al Boca, il primo: avevo otto anni). Nel 2005 volevo spendere tutti i miei risparmi per andare a sentire i Pink Floyd a Londra nella reunion definitiva, ma poi mi misero l’esame di maturità il giorno dopo e forse all’epoca ho iniziato a odiare lo Stato. È vero che negli ultimi tempi questo fascino è aumentato – forse è un segno dell’età – ma quella che si va aprendo si annuncia come una settimana di ritorni troppo importanti per finire in una rubrica così vanesia e autoreferenziale. A proposito: lunedì scorso ho sentito un amico suonare collegando all’impianto e ai piatti un mangiacassette del Cippo a Forcella, e ho pensato che se avesse un po’ più di cazzimma e un buon social media manager potrebbe farci i soldi. Per fortuna lavora all’aeroporto e la sua massima aspirazione in termini di fama è stata scrivere un racconto a puntate per Monitor. C’erano i Mondiali, si giocavano anche qui, e per il mio compleanno avevo chiesto il biglietto di una partita. Papà con i suoi giri sindacato-cral-circoletto-sezionePCI era riuscito ad averne uno e mi aveva accontentato. La partita era Inghilterra-Camerun. Ora, io al posto dei libri, così come i miei compagni, nella cartella ci tenevo il Supertifo. E dato che la mia edicola era fornita, ogni tanto potevo infilarci pure una copia di Hooligans , che faceva da sponda alle partite trasmesse una volta a settimana da Telemontecarlo e che soddisfacevano la mia fame da lanci lunghi dalla difesa e spizzata di testa del centravanti. Quella sera andai allo stadio con papà, ma misi subito le cose in chiaro: io quando entro mi vado a sedere vicino agli inglesi, tu fai come ti pare, nel caso ci vediamo vicino alla Fiat Uno. Era il modo più carino per allontanarlo: che figura avrei fatto se gli inglesi mi avessero visto andare allo stadio con papà? (gerardo picarelli, zona est novanta #1) Martedì ho intervistato un vecchio operaio di Bagnoli. Ha centodue anni e si mantiene lucido. Mi ha raccontato della sua vita, della fabbrica, del quartiere, scusandosi – senza ragione – di aver dimenticato cose. È stato prigioniero in Algeria per due anni, durante la Seconda guerra mondiale, ma più traumatico ancora è stato il suo ritorno: arrivò a Bagnoli, tra i primi rimpatriati in assoluto, e trovò la sua casa distrutta e tutti i suoi cari morti. Deve tanto a suo fratello elettricista, l’unico sopravvissuto, che lo prese con sé e lo fece assumere come manutentore all’Ilva. È l’unico superstite che conosco che ha assistito da vicino alla ricostruzione degli impianti di Bagnoli da parte degli operai (gli americani non erano entusiasti di riaprire una fabbrica con migliaia di potenziali comunisti nel cuore del Mediterraneo, e non ci misero una lira). A un certo punto mi ha detto che se anche certe cose non possono ritornare, questo non è un buon motivo per dimenticarle. Scola d’e nocche toste a chi sposta c‘a vocca, se mozzeca ‘a lengua mentre mastica ‘a gomma. A ‘sti carogne ce dai ‘o core e loro vonn’ ‘a coda (fosse ‘o culo), capisci ca sì sulo ma allora, nun è comme pensavo: pe’ meza mia ‘e fatto ‘o rap ‘e miez’ a via, ma nun saje ca può cagna’ cumpagne, femmene, nummero, indirizzo, bisinìss ma nun sì omm’ si ‘n fernesc’ addò stive all’inizio. (sangue mostro ft. nto, tutt’ cos’ cagna) Ho una fissa: ci sono una cinquantina di film per me cult che rivedo ogni volta che ne ho l’occasione. Quasi sempre g. si rifiuta di darmi corda, soprattutto quando il film l’ho visto io in passato e lei no, e allora passo un sacco di tempo a provare a convincerla che ne valga la pena. Raramente ci riesco, e quando ci riesco spesso il film le fa cagare. Altre volte diventa cult anche per lei, tipo una pellicola degli anni Ottanta il cui titolo, tra le altre cose, i ragazzini di Montesanto usavano come soprannome per uno dei nostri amici. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high.mp4 Insieme a A kind of magic (è una specie di magia…), la colonna sonora di Highlander comprende un altro pezzo da novanta dei Queen, Who wants to live forever, che Brian May scrisse in taxi tornando dall’aeroporto di Londra, e il cui video fu l’ultimo girato con Freddy Mercury prima che gli venisse diagnosticato l’Aids. AIDS – America is dying slowly, fu negli stessi anni il titolo di un album prodotto dai più famosi artisti afroamericani per denunciare le migliaia di morti tra le comunità nere all’inizio dei Novanta, negli Stati Uniti, a causa del virus. Nell’album c’è un pezzo dei Wu-Tang con Killah Priest che anticipa la reunion del gruppo, a quattro anni di distanza dal dirompente esordio di Enter the Wu-Tang (36 Chambers). Delle varie pause e ritorni del clan parla, tra le altre cose, Back in the game (del 2001), canzone impreziosita poi dal remix di Phoniks, che ci mette dentro uno spettacolare sample di Do you believe, della cantante folk Melanie (hippie della prima ora, esibitasi a Woodstock e all’Isola di Wight appena ventenne). Piccola chicca: ad aprire Back in the Game, ritorna lo stesso sample che introduce il primo disco del clan (“If what you say is true, the Shaolin and the Wu-Tang could be dangerous!”), parte di un dialogo tratto da Shaolin vs. Wu Tang (1983), film sulla rivalità tra le due scuole di arti marziali. Iconiche le scene in cui protagonisti ritornano ai rispettivi templi per allenarsi allo scontro finale. Ps: Per scoprire come va a finire tra i due clicca qui (AI verificata). (a cura di riccardo rosa)
parola della settimana
La parola della settimana. Stress
I danni strutturali. Le crepe, le signore del quartiere, Rosa, Fortuna, Mena, produci consuma crolla. Il sindaco, il prefetto, Musumeci, la Protezione civile, Bertolaso, Berto-naso, le discariche, gli scontri, l’Opus Dei. Gli zaini pieni, le mutande da lavare, le camicie, l’acidità di stomaco, dormire male, mangiare peggio. Le birre, il liquore all’arancio, l’aria nella pancia. Ciro, Pietro, il divano, Fisciano, il gruppo Whatsapp, gli sfollati, i ritardi. I baraccati, la mensa, le patate, il sopralluogo, la Protezione civile, i pompieri, Propaganda Live, via Enea, via Di Niso, via Caio Asinio Pollione. L’assemblea, il bonus affitto, il tendone. Le brandine, le carte, le cartine, le canne, il vino scadente, l’acidità di stomaco. La Botte Buona, le botte buone, i celerini, le casse, il corteo. Lo spazzolino, il dentifricio, i pezzi di muro, l’intonaco, i vicini, l’amministratore, la signora delle pulizie. C’a facimm’ ‘a galera! ‘A dint’ o ‘a fore è ‘o stess’: mutanda Uomo, cazettin’ No Stress. (speranza, givova) Il telefono scarico, la penna di tre euro e cinquanta, la tesi di dottorato, il Manifesto. Il filo del computer, il caffè a letto, il letto sfatto, il Labriola, lo sfratto, gli sgomberi, i crolli, i pompieri, il mare, il Praru, la radio, l’armadio. Il centro analisi, l’assicurazione della macchina, l’assicurazione del motorino, l’assicurazione che ne usciamo sempre. Il cibo nel frigorifero, la tisana zenzero e limone, i crampi, le scarpe nuove, la pancia gonfia, il jeans sporco, la camicia pulita. – ‘E visto ‘cca che panza ca sto facenno, ma’? – Uh mamma mia, mo’ caccia n’ata nuvità: ‘a panza! Ma aro’ a vire ‘sta panza? Quello è il nervosismo. […] Tu te crire ca quanno uno sta accussì, senza fa’ niente, sta calmo e sta tranquillo: Vince’, la mente ave bisogno di sta’… occupata, insomma, ‘e fa qualche cosa, non so, un lavoro… – Eh, ‘nu lavoro… ‘o ‘ssapevo! – Eh! ‘Nu lavoro… nun l’hai visto a tuo fratello? – Uh ma’, ja lasciami… Vai ja, mo’ vengo! Io ‘o ‘ssapevo: tuo fratello! Quanno parl’ ‘e chill’ mamma mia d’o Carmine… Me saglie ‘o nervosismo… saje addo’? Me faje veni’ ‘na panza ‘e chesta manera! (massimo troisi e olimpia di maio, scusate il ritardo) Il casello, l’autostrada, Marcianise, i Quartieri, il Vomero. La genovese, la dieta, il cornetto vegano, il registratore, l’operaio più anziano. Il bonus affitti, Alessia, Antonella, Pina, i guardiani della Nato, la Protezione civile, la dirigente incivile. L’ingegnere strutturista, i pompieri, l’ingegnere strutturale, il raffreddore, l’umidità, le scale a piedi, i borsoni, i giradischi, il rione Sanità, la sanità pubblica, la sanità privata, la sanità mentale, l’insanità statale. Breathe the pressure, come play my game, I’ll test ya. Psychosomatic, addict, insane. Come play my game. L’Africa, Parigi, 18 vagues. I senza tetto, i senza casa, i balconi pericolanti. I tramezzi, i muri maestri, i venerabili maestri, i maestri di strada, i maestri in strada, la strada maestra, le bandiere, la Digos. La delegazione, palazzo Chigi, Musumeci. Le nuove edificazioni, il Praru, Manfredi, Meloni, Fitto, Mattarella. Daniele, Enzina, Carmela, libanese grande, libanese piccola. Via Boezio, Cupa Starza, il pazzo del quartiere, i cazzi da cacare, il freddo, le guardie. Walter, Paone, la colmata, la stuccata, i polacchi, gli albanesi, l’assemblea popolare. Iskra, l’Assise, i No Box, Mare Libero. Villa Medusa, Villa Avellino, Potere al popolo, potere al povero, potere scomodo, potere lurido. Perditempo, Alfonso, Tonino, la Nastro, le casse, le tasse. Il garage, i debiti, i crediti, l’abilitazione, gli anni Sessanta, Boccaccio Settanta. Pasolini, il Peroncino, le birrette. Vonk, i pozzi, le fumarole, Tonino lo scienziato, i terremotati, la grondaia, la colata, la colmata. I miei mali fisici andavano e venivano sovente o a distanza di tempo, proprio come un cambiare e rimettersi del tempo che dobbiamo subire e che non possiamo modificare. […] I medici mi dichiaravano malato perché sapevano quanto io soffrissi e come certe volte, ogni giorno, facessi fatica a resistere, ad andare avanti. E loro invece di aiutarmi a prevalere sui miei mali li rafforzavano per sgominarmi del tutto. […] Avevo denunciato i miei mali perché ero abituato a farlo mentalmente; perché il farlo costituiva ormai un fatto quotidiano o almeno frequente della mia vita; un’operazione che mi consentiva allora di sollevare i miei mali un momento dal mio corpo e dalla mia anima e di vederli distanti, lontani, come sopra un davanzale dal quale fosse poi possibile farli sparire o riprenderli, secondo la mia volontà. […]. Ma insieme avevo il timore che fossero improvvisamente scomparsi. (paolo volponi, memoriale) Subito, Tecnocasa, Bakeka, Idealista. Un idealista, un turnista, un ciclista. Un prete, un poeta, un comunista. Due comunisti, tre comunisti, quattro comunisti, i muri, i graffiti, le crepe, le crepe a croce, le croci con la mano sinistra, i disoccupati, i proletari, gli affittuari, i proprietari, i magliari, i falsari. Licola, Varcaturo, Monteruscello. Gli speculatori, i mediatori, i sensali, i muratori. Le caparre, le agenzie, le referenze, le competenze, i vulcanologi, gli urbanisti, gli ingegneri, la Protezione civile. Il 110, il bonus sisma, il bonus affitto, il bonus nella bolletta. La sosta del campionato, la sosta sull’autogrill, le pizze, le cocacole, le frittate di maccheroni, i copertoni, il gommista, il cambio d’olio, il tagliando in corso, il tagliando vecchio, il passato il presente il futuro, è meglio niente ‘nzieme che essere ricco sulo. (a cura di riccardo rosa)
parola della settimana
La parola della settimana. Crepa
(disegno di ottoeffe) […] quando a tanta scossa il povero regno italico faceva da ogni parte le crepe. (giosué carducci, prose) Ashikaga Yoshimasa fu nominato shōgun (una via di mezzo tra un comandante dell’esercito e un dittatore militare) nel 1449. Contribuì allo sviluppo culturale del Giappone: in particolare durante il suo governo nacquero la cerimonia del tè, l’Ikebana, il teatro Nō e la pittura con inchiostro cinese. Promosse infine l’armonizzazione tra la cultura della corte imperiale (Kuge) e quella dei samurai (Bushi). Un giorno Yoshimasa fece inviare in Cina una sua preziosa ciotola di tè per ripararla. Quando gli fu rispedita indietro a corte, però, si imbestialì perché le crepe erano ancora ben visibili. Per placarlo, gli artigiani giapponesi usarono un escamotage: utilizzarono, per riempire prima e ricoprire poi le crepe, la foglia oro, dando all’oggetto un’immagine nuova, risplendente grazie alla lucentezza del metallo. Quella tecnica divenne celebre in Giappone con il nome di Kintsugi (金継ぎ), letteralmente “riparare con l’oro”, grazie alla sua doppia valenza: da un lato permette agli oggetti rovinati di riacquistare splendore, dall’altro mostra con orgoglio le cicatrici, saldando sì le crepe ma valorizzandole, rendendole l’elemento più prezioso di un oggetto. L’assemblea sottolinea lo stretto legame esistente tra la situazione bradisismica e gli sviluppi futuri sull’area ex Italsider, in particolare rifiutando ogni possibile azione speculativa e che aumenti le cubature edilizie, la cementificazione e il congestionamento dell’area. […] L’assemblea ha approvato all’unanimità le seguenti rivendicazioni: –       Controllo e censimento a tappeto per la stabilità di edifici pubblici e privati a carico dello stato –       Pubblicazione della documentazione relativa alla verifica sismica –       Soluzioni alternative, sostenibili e dignitose, sul territorio, per gli sfollati da edifici a rischio –       Blocco dei mutui, senza maturazione degli interessi, e degli affitti per tutti gli sfollati –       Blocco e annullamento della cementificazione ulteriore dei Campi Flegrei, fermando subito tutti i nuovi progetti di edilizia privata (dal verbale della quarta assemblea della decima municipalità occupata – continua a leggere qui) Vurria addeventa’ ricco e chino e sorde Pe’ chello ca me credo ca è ‘a ricchezza: è ‘o sanghe e ll’ate, nu braccio ca se spezza. Vurria penza’ a sta buono ogni matina Pensanno ca so’ stato fortunato, Ca si guadagno è n’copp ‘o sanghe ‘e ll’ate. (24 grana, ‘e kose ka spakkano) . A dispetto degli annunci fatti dal ministro già dalla fine del 2023, la gestione della fuga dalle abitazioni in occasione delle scosse più forti è solo sulle spalle dei trentamila cittadini della zona. Le simulazioni di questi mesi sono state poche e mal organizzate, mentre soltanto di recente prefettura e Protezione civile hanno elaborato protocolli per persone con disabilità e piani specifici per la gestione degli sciami sismici in orario scolastico (d’altronde solo dal 5 marzo è online la piattaforma per chiedere un sopralluogo agli edifici privati). […] La poca disponibilità del sindaco Manfredi e dell’assessore Cosenza a indire incontri informativi sul territorio è stata messa in evidenza dai cittadini che hanno partecipato al consiglio comunale di lunedì. In tutta risposta questi hanno ricevuto rassicurazioni per un una giornata di confronto alla municipalità… il 28 aprile! Per aprire alla popolazione le porte della ex base Nato, invece, […] è stata necessaria una piccola sommossa: fino a mercoledì, infatti, le centinaia di cittadini che con gli eventi sismici più importanti lasciavano la propria casa, venivano dimenticate per ore sul viale della Liberazione, dove si riunivano pur senza acqua e possibilità di andare in bagno, e avendo come unico referente una o due pattuglie della polizia municipale. (riccardo rosa, la gestione della fuga sulle spalle dei residenti) La parola “crepare” viene dal latino col significato di “scricchiolare”, ma anche di “scoppiare”. La frattura separa in modo netto due parti, che potranno essere riunite solo grazie a un intervento antropico, o rimarranno separate. Se la lingua è mondo, è specchio, trovatici con la pupilla spalancata, pescaci da quel nero quell’inchiostro che dica la parola verticale. Alla sua ombra crescono domande, si fa spazio al respiro del pensare. (elisa biagini, da una crepa) Il consiglio è stata la solita fiera delle belle parole senza fatti concreti. Tutte le istituzioni hanno espresso la necessità di “continuare a sensibilizzare la popolazione” partendo dalle scuole e dagli infopoint sul territorio (pochi e malgestiti), cercando nell’ordine degli psicologi una sponda per il supporto psicologico. In realtà appare, questo, uno dei punti più critici della gestione del fenomeno in questi due anni, e l’elemento che ha creato la vera frattura tra le istituzioni e le persone, lasciate sole sia nei momenti di rallentamento delle scosse che in quelli in cui la cosiddetta emergenza (si può definire tale un fenomeno naturale che si ripresenta cronicamente e per periodi tutt’altro che brevi?) si fa più pressante, a cominciare dalle notti in cui centinaia di cittadini si radunano sul vialone dell’ex base Nato di Bagnoli e, a stento, vengono mandati a supportarli una o due pattuglie di vigili urbani. Altro tema centrale è il sostegno economico per la messa in sicurezza degli edifici. (francesco nunziante, bradisismossessivo. un mese di “emergenza” tra scosse, occupazioni e istituzioni latitanti) C’è una parola molto in voga nel gergo calcistico internazionale, craque. Una parola che in molti, anche tra gli addetti ai lavori, usano senza capirla, riconducendola a crack. Un calciatore è un crack perché “spacca le partite”, semplicemente entra e le cambia, oppure perché all’improvviso decide di entrare in azione e fa un po’ ciò che vuole; ancora, secondo altri, perché la sua esplosione segna una frattura, una crepa, tra ciò che c’era prima e dopo di lui. Come un Cristo, o un Buddha. Baggio è, davanti a Vialli, il cannoniere di questa piccola Coppa, con nove reti in otto partite. […] Se le cifre si estendono a tutta l’estate, ecco che per Baggio diventa un trionfo. Ha fatto gol amichevoli al Casteldelpiano, al Poggibonsi, alla Lucchese (prima delle quattro doppiette finora realizzate,), al Torino. E poi quasi sempre in Coppa Italia: all’Avellino, alla Virescit, all’Ancona, all’Udinese, infine all’Inter. Siamo di fronte al nuovo crack del calcio italiano. (due campioni da scoprire, 30 settembre 1988) In realtà la parola viene dal calcio sudamericano, ed è semplicemente la traduzione di “asso”. Esiste anche un premio, nel campionato brasiliano, “El Craque do brasileirao”, lo scorso anno vinto da Luiz Henrique André Rosa da Silva, più noto come Luiz Henrique. L’attaccante di Petropolis, comune dell’area metropolitana di Rio, ha ventiquattro anni ma ha già girato mezzo mondo. Tra i diciotto e i ventuno anni ha giocato nel Fluminense, poi al Betis di Siviglia, poi è tornato in Brasile (Botafogo, con il quale è stato nominato miglior giocatore della finale di Coppa Libertadores, vinta per 3-1 contro l’Atletico Mineiro) e un mesetto fa è tornato in Europa, acquistato dallo Zenit di San Pietroburgo, per trentacinque milioni di euro. Henrique, dopo aver segnato, esulta di solito con la mossa di T’Challa, personaggio Marvel e re del Wakanda, e protettore del paese nei panni dell’eroe Black Panther. La sconfitta complessiva del movimento nato negli anni Sessanta, è stata particolarmente dura per la componente afroamericana. […] La massiccia introduzione di droga – soprattutto il devastante crack – nella comunità nera, nell’indifferenza, se non compiacenza, delle autorità, ha trasformato i ghetti in “terre di nessuno” dove l’attività criminale e l’appartenenza a una gang rimane l’unica forma di ascesa sociale e di riconoscimento, e la violenza dei neri contro neri ha raggiunto livelli intollerabili. Il “problema nero” è stato abbandonato a se stesso, al suo autocontrollo distruttivo, da una società americana sorda e insicura che ha rinchiuso i neri poveri fra le mura invisibili del ghetto e quelle, tangibili, delle prigioni» (paolo bertella farnetti, pantere nere. storia e mito del black panther party) (a cura di riccardo rosa)
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