Costellazione d’assenza. Le scritture di Enzo Moscato messe in scena da Giovanni Ludeno

NapoliMONiTOR - Friday, January 31, 2025
(disegno di roberto-c.)

Nella Sala Assoli di Napoli il 14 e 15 gennaio scorsi, nell’ambito della rassegna dedicata al ricordo di Enzo Moscato, è apparso S’ENZ, una fugace inedita imprevista costellazione (Moscato avrebbe scritto co’stell’azione) di brani, frammenti delle scritture di Enzo Moscato, scintillanti su una scena ombrosa e raccolta.  Scrivo “scritture” al plurale perché l’esperienza di scrittura di Moscato è stata segnata non solo da una disseminata poligrafia – testi teatrali, letterari, poetici in senso stretto, teorico-filosofici-semiologici – ma anche dalla divisione tra scritture rese pubbliche e scritture più o meno clandestine, ora volutamente inedite, ora trattenute il più possibile nel segreto, edite in parte, o utilizzate come frammenti-schegge nei testi destinati alla pubblicazione. Scritture tenute in disparte, ritratte ma operanti, parti dell’opera a tutti gli effetti. Opera segreta che ha preparato, accompagnato, nell’ombra e come ombra, l’opera manifesta di Moscato. E che possiamo immaginare essere stata ispirata a sua volta dall’esperienza delle scritture pubblicate e/o messe in scena. A pensarci, il modo stesso di stare in scena di Enzo Moscato, punteggiato dalla sua presenza assente, dalla sua lontananza in presenza, dal “farsi ombra” in piena luce o dal dislocarsi nelle zone oscure della scenografia, cadendo nel silenzio o in un mormorio sommesso appena percettibile, testimoniava l’impossibilità di una sua adesione totale alla messa in scena o, più precisamente, la messa in scena di una lontananza, di uno scarto, di un essere “altrove” in presenza, di un venire dall’altrove e di desiderare l’altrove. Si può ben dire che Enzo Moscato abbia fatto parte della cerchia dei napoletani-altrove. Altrove non perché abbiano abbandonato Napoli per stabilirsi in un altro luogo, ma perché abitando nell’altrove, pur scoprendo di non poter che restare-patire nella località che ha nome Napoli, non si sono stabiliti, stabilizzati, in nessun luogo. Come se proprio la natura porosa della città, che viene evocata in S’ENZ, consentisse, a chi quei pori, quei vuoti, non intende tapparli con gli stereotipi della napoletanità, di mantenersi in rapporto con l’altrove. Divenire la propria porosità, decidersi per il proprio esser bucati, grazie al caso di essere nati a Napoli: “la città da cui mi onoro (e talvolta) disonoro di prendere origine”.      

S’ENZ – lo spettacolo ideato e interpretato da Giovanni Ludeno, musicato e cantato da Massimo Cordovani, con la preziosa collaborazione artistica di Roberto cyop – è come se, nel vasto sgomento e dolore per il venir(ci) a mancare di Enzo, volesse ricordare, non tanto questo o quel tratto particolare dell’esistenza di Moscato al fine di tentare di riempire con il ricordo il vuoto lasciato dalla sua scomparsa, ma commemorare le scritture del suo ritrarsi o dimettersi in loco e in vita, ossia da una parte il lato in ombra, inedito, dell’opera, dall’altra l’assentarsi, il sottrarsi, come uno spettro, nell’atto stesso del venire in scena, del presentarsi in pubblico – è questo, a mio avviso, l’aspetto toccante, commovente e profondamente “giusto” dello spettacolo, che gli consente di sottrarsi per nostra fortuna ai rituali auto-compiaciuti della memoria personale. Del resto gli spettri, scrive Moscato in Co’stell’azioni, vengono tra noi non per acquietarci o renderci “sentimentali”, ma per “recare disturbo”, recarlo “in fondo all’occhio e al cuore”. Se Moscato si aggira come uno spettro in scena, se scrive dall’altrove per l’altrove, è per recare “disturbo”, “a guisa di ventata, di folata, / che fa tremmà ’e cappielle”. Gli spettri vengono “pe ffà ammuina, pe fa ’a guerra, mmiezz’a vvuie, / crià nu poco ’e vita, pe mezz’ora, nzieme a vvuie”. Lo spettro, il morto non morto, recando “disturbo”, “ammuina” e “pòlemos”, crea vita, tenta di risvegliare dal sonno i vivi, proprio in virtù della sua ferma distanza, del suo non cedere alla “comunella”. Grazie al ritmo con cui Ludeno ha montato i frammenti che compongono S’ENZ, la ventata, il tremore, “nu poco ’e vita” hanno investito gli spettatori, ora lasciandoli, mi è parso, in un silenzio attonito e stupito dalla rivelazione della elaborata filosofia di Moscato, di un Moscato filosofo a tutti gli effetti, ora agitati e ridenti per la straordinaria ironia “ammuinante” di alcuni più noti frammenti, recitati da Ludeno con un ritmo più trattenuto di altre volte, in consonanza, credo, con quella commemorazione della spettralità, del semi-vivo, di cui ho parlato.       

Rammemorando il divenire spettro in vita di Moscato, S’ENZ ne commemora la poetica, consente di farla tornare, la evoca e mostra nello stesso tempo la necessità di una sua ri-scrittura, perché il disturbo, il risveglio abbiano a reinventarsi. Solo così il poeta, “che si fa morto da vivo”, può attraverso la voce, il gesto, la musica e il canto altrui, di eredi o antenati, continuare, in una dimensione atemporale, a farsi “vivente nella morte”. 

Giovanni Ludeno dà voce e gesti a lacerti di scritture inedite, li compone, direi li “sfrega”, con frammenti estratti, con studio, intuizione e atto di forza, da noti testi moscatiani, ne fa fuoco o scintilla, “volubili volute di fiamma o di scintilla”, a seconda della intensità con cui quei lacerti di scrittura vengono sfregati. Compone così un nuovo testo, una nuova costellazione, facendola brillare anche di alcuni versi “stellari” di Leopardi e Dante, così da donare ulteriore “intensa vita, comm’è chella ca penzamme piglià pére ncopp’ ’stelle”. Ma la vita intensa è quella che non solo sa assentarsi o entrare in stato di morte apparente, ma anche decomporsi, dirsi volutamente in frammenti: “Tengo, allora, ’na nutizia, grande e triste, a ve purtà: ca io so vivo! / E mi dirò ‘in frammenti’. / Dunque: io so’ vivo, e l’unica condizione che pongo per continuare ad esserlo / è il frammento, la di me scompo-sizione”. Scomponendo una scrittura che già di per sé si vota al frammento, Ludeno risponde al desiderio di Moscato di offrirsi come esperimento per una “autopsia perpetua”. Fare l’autopsia di una scrittura disseminata e frammentaria, significa continuare a frammentarla. Ma la frammentazione, la disintegrazione, l’esplosione sono gesti interni a una spinta irresistibile ad affermare nuove composizioni, inventare scritture, lingue inesistenti. Spinta verso ciò che non c’è: ancora il non ancora.

Il frammento non ha chiudersi su sé stesso, deve mantenersi aperto, perciò ha bisogno di un’autopsia, di una violazione, di un atto di forza. Perpetua autopsia significa perpetua scomposizione e apertura di un varco per la scrittura dell’avvenire e l’avvenire della scrittura.

“M’ avit’ ’a fà l’autopsìa, insomma, l’autopsìa perpetua, si vulite ca stu cuorpo, o l’ànema – ca po’ so’ ’a stessa cosa – continuino a vibrarvi
tra le mani,
dint’ ’e recchie,
ncopp’ ’a lengua
dint’ all’uocchie,
sott’ ’o naso…
dint’ a tutti i cinque sensi!”. 

(maurizio zanardi)