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Costellazione d’assenza. Le scritture di Enzo Moscato messe in scena da Giovanni Ludeno
(disegno di roberto-c.) Nella Sala Assoli di Napoli il 14 e 15 gennaio scorsi, nell’ambito della rassegna dedicata al ricordo di Enzo Moscato, è apparso S’ENZ, una fugace inedita imprevista costellazione (Moscato avrebbe scritto co’stell’azione) di brani, frammenti delle scritture di Enzo Moscato, scintillanti su una scena ombrosa e raccolta.  Scrivo “scritture” al plurale perché l’esperienza di scrittura di Moscato è stata segnata non solo da una disseminata poligrafia – testi teatrali, letterari, poetici in senso stretto, teorico-filosofici-semiologici – ma anche dalla divisione tra scritture rese pubbliche e scritture più o meno clandestine, ora volutamente inedite, ora trattenute il più possibile nel segreto, edite in parte, o utilizzate come frammenti-schegge nei testi destinati alla pubblicazione. Scritture tenute in disparte, ritratte ma operanti, parti dell’opera a tutti gli effetti. Opera segreta che ha preparato, accompagnato, nell’ombra e come ombra, l’opera manifesta di Moscato. E che possiamo immaginare essere stata ispirata a sua volta dall’esperienza delle scritture pubblicate e/o messe in scena. A pensarci, il modo stesso di stare in scena di Enzo Moscato, punteggiato dalla sua presenza assente, dalla sua lontananza in presenza, dal “farsi ombra” in piena luce o dal dislocarsi nelle zone oscure della scenografia, cadendo nel silenzio o in un mormorio sommesso appena percettibile, testimoniava l’impossibilità di una sua adesione totale alla messa in scena o, più precisamente, la messa in scena di una lontananza, di uno scarto, di un essere “altrove” in presenza, di un venire dall’altrove e di desiderare l’altrove. Si può ben dire che Enzo Moscato abbia fatto parte della cerchia dei napoletani-altrove. Altrove non perché abbiano abbandonato Napoli per stabilirsi in un altro luogo, ma perché abitando nell’altrove, pur scoprendo di non poter che restare-patire nella località che ha nome Napoli, non si sono stabiliti, stabilizzati, in nessun luogo. Come se proprio la natura porosa della città, che viene evocata in S’ENZ, consentisse, a chi quei pori, quei vuoti, non intende tapparli con gli stereotipi della napoletanità, di mantenersi in rapporto con l’altrove. Divenire la propria porosità, decidersi per il proprio esser bucati, grazie al caso di essere nati a Napoli: “la città da cui mi onoro (e talvolta) disonoro di prendere origine”.       S’ENZ – lo spettacolo ideato e interpretato da Giovanni Ludeno, musicato e cantato da Massimo Cordovani, con la preziosa collaborazione artistica di Roberto cyop – è come se, nel vasto sgomento e dolore per il venir(ci) a mancare di Enzo, volesse ricordare, non tanto questo o quel tratto particolare dell’esistenza di Moscato al fine di tentare di riempire con il ricordo il vuoto lasciato dalla sua scomparsa, ma commemorare le scritture del suo ritrarsi o dimettersi in loco e in vita, ossia da una parte il lato in ombra, inedito, dell’opera, dall’altra l’assentarsi, il sottrarsi, come uno spettro, nell’atto stesso del venire in scena, del presentarsi in pubblico – è questo, a mio avviso, l’aspetto toccante, commovente e profondamente “giusto” dello spettacolo, che gli consente di sottrarsi per nostra fortuna ai rituali auto-compiaciuti della memoria personale. Del resto gli spettri, scrive Moscato in Co’stell’azioni, vengono tra noi non per acquietarci o renderci “sentimentali”, ma per “recare disturbo”, recarlo “in fondo all’occhio e al cuore”. Se Moscato si aggira come uno spettro in scena, se scrive dall’altrove per l’altrove, è per recare “disturbo”, “a guisa di ventata, di folata, / che fa tremmà ’e cappielle”. Gli spettri vengono “pe ffà ammuina, pe fa ’a guerra, mmiezz’a vvuie, / crià nu poco ’e vita, pe mezz’ora, nzieme a vvuie”. Lo spettro, il morto non morto, recando “disturbo”, “ammuina” e “pòlemos”, crea vita, tenta di risvegliare dal sonno i vivi, proprio in virtù della sua ferma distanza, del suo non cedere alla “comunella”. Grazie al ritmo con cui Ludeno ha montato i frammenti che compongono S’ENZ, la ventata, il tremore, “nu poco ’e vita” hanno investito gli spettatori, ora lasciandoli, mi è parso, in un silenzio attonito e stupito dalla rivelazione della elaborata filosofia di Moscato, di un Moscato filosofo a tutti gli effetti, ora agitati e ridenti per la straordinaria ironia “ammuinante” di alcuni più noti frammenti, recitati da Ludeno con un ritmo più trattenuto di altre volte, in consonanza, credo, con quella commemorazione della spettralità, del semi-vivo, di cui ho parlato.        Rammemorando il divenire spettro in vita di Moscato, S’ENZ ne commemora la poetica, consente di farla tornare, la evoca e mostra nello stesso tempo la necessità di una sua ri-scrittura, perché il disturbo, il risveglio abbiano a reinventarsi. Solo così il poeta, “che si fa morto da vivo”, può attraverso la voce, il gesto, la musica e il canto altrui, di eredi o antenati, continuare, in una dimensione atemporale, a farsi “vivente nella morte”.  Giovanni Ludeno dà voce e gesti a lacerti di scritture inedite, li compone, direi li “sfrega”, con frammenti estratti, con studio, intuizione e atto di forza, da noti testi moscatiani, ne fa fuoco o scintilla, “volubili volute di fiamma o di scintilla”, a seconda della intensità con cui quei lacerti di scrittura vengono sfregati. Compone così un nuovo testo, una nuova costellazione, facendola brillare anche di alcuni versi “stellari” di Leopardi e Dante, così da donare ulteriore “intensa vita, comm’è chella ca penzamme piglià pére ncopp’ ’stelle”. Ma la vita intensa è quella che non solo sa assentarsi o entrare in stato di morte apparente, ma anche decomporsi, dirsi volutamente in frammenti: “Tengo, allora, ’na nutizia, grande e triste, a ve purtà: ca io so vivo! / E mi dirò ‘in frammenti’. / Dunque: io so’ vivo, e l’unica condizione che pongo per continuare ad esserlo / è il frammento, la di me scompo-sizione”. Scomponendo una scrittura che già di per sé si vota al frammento, Ludeno risponde al desiderio di Moscato di offrirsi come esperimento per una “autopsia perpetua”. Fare l’autopsia di una scrittura disseminata e frammentaria, significa continuare a frammentarla. Ma la frammentazione, la disintegrazione, l’esplosione sono gesti interni a una spinta irresistibile ad affermare nuove composizioni, inventare scritture, lingue inesistenti. Spinta verso ciò che non c’è: ancora il non ancora. Il frammento non ha chiudersi su sé stesso, deve mantenersi aperto, perciò ha bisogno di un’autopsia, di una violazione, di un atto di forza. Perpetua autopsia significa perpetua scomposizione e apertura di un varco per la scrittura dell’avvenire e l’avvenire della scrittura. “M’ avit’ ’a fà l’autopsìa, insomma, l’autopsìa perpetua, si vulite ca stu cuorpo, o l’ànema – ca po’ so’ ’a stessa cosa – continuino a vibrarvi tra le mani, dint’ ’e recchie, ncopp’ ’a lengua dint’ all’uocchie, sott’ ’o naso… dint’ a tutti i cinque sensi!”.  (maurizio zanardi)
January 31, 2025 / NapoliMONiTOR
🎭Reclaim the Theatre vol. II
Con la volontà di riappropriarsi di questa forma d’arte come veicolo espressivo, divulgativo e sociale. Con la consapevolezza che il teatro è quasi sempre in grado di abbracciare le rivoluzioni e diventarne un megafono potente e privilegiato. Speriamo che, a loro volta, anche le nostre rivoluzioni possano intessere un legame profondo e fertile con il teatro.   Scopri il programma qui
January 26, 2025 / C.S.O.A. GABRIO
[2024-11-06] Penelope 2.0 - Spettacolo teatrale @ Spazio Popolare Neruda
PENELOPE 2.0 - SPETTACOLO TEATRALE Spazio Popolare Neruda - Corso Ciriè 7, 10124, Torino (mercoledì, 6 novembre 19:30) Benvenutə al 2° spettacolo della rassegna teatrale e circense:" il Neruda non si rassegna" "PENELOPE 2.0" Nell'immaginario collettivo Penelope è una donna conosciuta per la sua immensa pazienza e mitologica fedeltà ma l'attrice chiamandosi lei stessa Penelope rivoluzionerà la scena, stravolgendone il significato! APERITIVO h.19.30 INZIO SPETTACOLO h. 21:00 Aperitivo e spettacoli ad OFFERTA LIBERA, per un'arte accessibile a tuttə!
October 29, 2024 / Gancio
Teatro proletario dei bambini. Asja Lacis e Walter Benjamin a Napoli e Capri
(asja lacis) Il progetto “Sud e porosità – south & porosity” prende spunto dal centenario del soggiorno di Walter Benjamin e Asja Lacis a Capri e a Napoli (1924-2024). Curato dalla germanista Valentina Di Rosa e dall’artista Andris Brinkmanis, prevede dal 23 al 26 ottobre un convegno, una mostra, una performance e l’apposizione di una targa commemorativa a Capri.   Approfittiamo di questa felice occasione per pubblicare lo storico testo di Asja Lacis sul teatro proletario dei bambini. *     *     * Mentre sostenevo gli ultimi esami allo studio, a Pietrogrado fu preso il Palazzo d’Inverno: i soviet erano al potere. Da Pietrogrado la rivoluzione balzò verso Mosca, nonostante la resistenza di qualche gruppo isolato di Junker durasse ancora qualche giorno. Lo studio continuava a lavorare. La sera, mentre rincasavo, sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo. La rivoluzione stava cambiando i rapporti fra le persone, la concezione del lavoro; si aprivano prospettive completamente nuove. Allo studio si formarono gruppi avversi, si esigeva un immediato cambiamento del repertorio e del piano di studi. Gran parte degli insegnanti della scuola lettone per i profughi era convinta che il potere dei soviet non avrebbe retto a lungo, ma gli scrittori, gli insegnanti e gli studenti di sinistra sentivano l’avvicinarsi di tempi nuovi. Quando lessi sui muri delle case i primi appelli “A tutti! A tutti!” firmati da Lenin, fui completamente per il soviet: volevo essere un buon soldato della rivoluzione è modificare la mia vita sotto la sua guida. La vita intanto cambiava tutt’intorno; il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro. Cominciava l’“Ottobre teatrale”. I teatri non cambiarono rotta simultaneamente: alcuni si mantennero scettici più a lungo e temporeggiarono. Il dottor Dappertutto di Pietroburgo, l’infaticabile sperimentatore, fu il primo fra la gente di teatro a prendere posizione per il soviet. Cercò il contatto con i lavoratori nelle fabbriche, con gli appartenenti all’Armata rossa, con il Komsomol, e organizzò dovunque circoli teatrali. Indossava l’uniforme dell’Armata rossa. La sua messa in scena a Pietrogrado della Presa del Palazzo d’Inverno** costituì il modello per successive rappresentazioni di massa all’aperto, a cui prendevano parte migliaia di persone, mentre decine di migliaia vi assistevano. Le messe in scena delle opere rivoluzionarie Mistero buffo, La terra in subbuglio, Trust D. B. e altre ancora proseguirono gli esperimenti precedenti (abolizione della ribalta, riscoperta del macchinismo teatrale, colloquio col pubblico, stile scenografico “condizionato”) e introdussero importanti innovazioni (pubblicistica dichiaratamente di parte, caratterizzazione sociologica, drammaturgia aperta che si rifaceva alle tecniche del varietà, scena costruttivista, ecc.). Fu considerato il capo dell’Ottobre teatrale. La mia attività registica a Orel, Riga, Mosca, Kasakistan e Walmiera deve molto a Mejerchol’d. Oggi vedo chiaramente quale forza fosse contenuta nel suo “teatro condizionato” e nella sua filosofia dell’arrangiamento, e con quale inesauribile fantasia egli utilizzasse i mezzi di espressione teatrale. Nel 1918 mi trasferii a Orel, per lavorare come regista al teatro cittadino: avevo la strada spianata, quindi. Ma le cose andarono diversamente. Per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprisorniki. Fra loro c’erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di briganti, vittime della guerra mondiale e di quella civile. Il governo sovietico si adoperava per sistemare i bambini sbandati in collegi e officine, ma riuscivano sempre a scappare. Negli ospizi municipali invece erano ospitati gli orfani di guerra. Volli visitarli. Questi bambini avevano da mangiare, erano vestiti decorosamente, avevano un tetto sul capo, ma guardavano intorno come vecchi: occhi stanchi, tristi, nulla li interessava. Bambini senza infanzia… Non si poteva rimanere indifferenti davanti a quello spettacolo, dovevo fare qualcosa e capii subito che in questo caso non sarebbero certo bastate le canzoncine e i balletti. Per ridestarli dal loro letargo occorreva un impegno che li coinvolgesse totalmente e riuscisse a liberare le loro facoltà traumatizzate. E io sapevo quale forza prodigiosa fosse racchiusa nel gioco teatrale. Abitavo in una bella casa aristocratica dove, si dice, devono aver vissuto gli eroi del Nido di nobili di Turgènev. Le stanze avevano grandi finestre di linea gotica; attraverso gli annosi alberi di acacia la vista giungeva fino alla conca del fiume. Spazi del genere sembravano fatti apposta per un teatro di ragazzi. Andai dal responsabile dell’istruzione popolare della città e gli esposi il mio progetto. A Ivan Michail Curin il piano piacque. Le stanze furono unite a formare una sala, le cui pareti furono decorate di affreschi. Avevamo calcolato che sarebbero venuti quindici bambini: ne vennero cento. Ero convinta che fosse possibile risvegliare e formare i bambini per mezzo del lavoro teatrale. Certo sarebbe stato semplice trovare un brano adatto per i bambini, assegnare le parti e provare con i ragazzi fino ad arrivare alla rappresentazione. Questo avrebbe certamente tenuto occupati i bambini per un periodo di tempo, ma la loro evoluzione difficilmente ne sarebbe stata stimolata. Quando si prova con i bambini un testo dato, si lavora fin dall’inizio soprattutto per una meta precisa: la prima rappresentazione. I bambini avvertono incessantemente una volontà estranea che li guida e li costringe: la volontà del regista. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo: la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà estetiche e morali. Io volevo portare i bambini a che il loro occhio vedesse meglio, il loro orecchio udisse più finemente, le loro mani formassero dal materiale informe oggetti utili. A questo fine ripartii il lavoro in sezioni. Per sviluppare l’occhio, la vista, i bambini dipingevano e disegnavano. Dirigeva questa sezione Viktor Šestakòv, che più tardi lavorò come scenografo con Mejerchol’d. Un pianista guidava l’educazione musicale. C’era poi l’addestramento tecnico: i bambini costruivano oggetti, edifici, animali, figure e così via. Altre sezioni della mia scuola sperimentale a Orel erano dedicate al ritmo e alla ginnastica, alla dizione e all’improvvisazione. Le forze latenti che si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si sviluppavano, le unificavamo mediante l’improvvisazione. Così nasceva il nostro teatro, in cui bambini recitavano per bambini: l’insieme delle attività si traduceva in una forma estetica rigorosa e nel contempo collettiva. L’educazione borghese tende a sviluppare una facoltà particolare, un particolare talento. Stimola gli individui unilateralmente. Per dirla con Brecht: essa vuole “commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, la comparsa davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando. Il regista come pedagogo si tiene continuamente in primo piano e tormenta i bambini. (Una battuta indovinata: “Che cos’è un palo del telegrafo? È un abete riveduto e corretto”. Purtroppo vengono spesso riveduti e corretti in tal modo anche i nostri bambini). Scopo dell’educazione comunista è liberare la produttività sulla base di un alto livello generale di formazione, siano o non siano presenti attitudini particolari. La mia origine proletaria e gli studi presso il professor Bechterev a Pietroburgo mi spingevano verso questo principio educativo, e a Orel io cercavo di applicarlo all’educazione estetico-proletaria dei bambini. Punto di partenza per educatori ed educandi fu per noi l’osservazione. I bambini osservavano le cose, i loro rapporti reciproci e la loro modificabilità; gli educatori osservavano i bambini, ciò che riuscivano a ottenere e fino a che punto sapevano utilizzare in maniera produttiva le proprie capacità. L’osservazione non veniva praticata e sviluppata soltanto all’interno dello studio con il disegno, la pittura, la musica, ma anche all’aperto. Al mattino presto e poi ancora alla sera ce ne andavamo fuori con i bambini e facevamo notare loro come i colori mutassero a seconda della distanza e dell’ora del giorno, come di mattina e di sera suoni e rumori risuonassero diversamente, e come il silenzio può cantare… Con i bambini che venivano alla casa di Turgènev dagli ospizi municipali non ci furono difficoltà. Ai besprisorniki invece non riuscii ad avvicinarmi per molto tempo. Quando rivolsi loro la parola per la prima volta al mercato e li invitai a venire da noi, mi schernirono, mi minacciarono coi bastoni e mi mandarono a quel paese. Ma io ritornai. Si abituarono a me e ai nostri battibecchi, tanto che se rimanevo lontana molto tempo e poi tornavo, mi si facevano intorno urlando, come con una vecchia conoscenza. Frattanto alla casa di Turgênev il lavoro progrediva. Notammo che ormai i bambini chiedevano di materializzare in oggetti la fantasia e le capacità acquisite. Una tappa importante: questo bisogno deve essere soddisfatto, la fantasia infantile non deve andare perduta: passammo quindi all’improvvisazione con materiali concreti. Avevo scelto un pezzo per bambini di Mejerchol’d, Alinur (dalla fiaba di Oscar Wilde Il ragazzo delle stelle). I bambini non conoscevano i miei piani. Diedi loro come esercizio di improvvisazione una scena tratta da questo lavoro: alcuni predoni siedono nella foresta intorno al fuoco e si vantano delle proprie imprese. Nel bel mezzo di questa scena ricevemmo, poco dopo, la prima visita dei besprisorniki alla nostra casa. I bambini saltarono in piedi e volevano scappar via da quegli invasori, che avevano effettivamente un aspetto temibile: elmi di carta sul capo, corazze di rami e pezzi di latta, picche e bastoni in mano. Convinsi i bambini a continuare l’improvvisazione senza prestare attenzione agli intrusi. Dopo un po’ Vanika, il capo dei besprisorniki, entrò nel cerchio di quelli che recitavano e fece un cenno al suo gruppo: i compagni spinsero da parte i bambini e cominciarono a recitare essi stessi la scena. Si vantavano di assassinii, incendi, ruberie, con cui cercavano di superarsi a vicenda in crudeltà; poi si alzarono e squadrarono con disprezzo beffardo i nostri ragazzi: “Ecco come sono i briganti!”. Secondo tutte le regole pedagogiche avrei dovuto interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti, ma io volevo riuscite a conquistarmi un ascendente su di loro. Infatti vinsi la partita; i besprisorniki ritornarono e presero in seguito parte attiva al nostro teatro. Improvvisare lo spettacolo significò per i bambini felicità e avventura. Si impegnarono a fondo e il loro interesse si ridestò. Si lavorò seriamente; tagliando, incollando, danzando e cantando impararono i testi. Così prese vita la figura del cattivo ragazzo tartaro Alinur, che insultava sua madre e terrorizzava gli altri bambini. Soltanto quando il lavoro delle singole sezioni sembrò richiedere una sintesi, si discusse se rappresentare il testo pubblicamente. Emerse così l’esigenza di un fare collettivo – l’educazione morale-politica in senso socialista – e il desiderio di mostrare il lavoro anche a tutti gli altri bambini della città. La rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli accessori e le scene. A loro si unirono spettatori piccoli e grandi. La sera furono in molti a seguirci nella strada di ritorno verso la casa di Turgènev. Il nostro metodo si era dimostrato valido. Avevamo avuto la prova che era giusto far rimanere completamente in disparte gli adulti. I bambini avevano la certezza di fare tutto da soli, e giocando lo facevano. Nessuna ideologia era stata loro imposta e inculcata; si erano appropriati di ciò che trovava riscontro nella loro esperienza. Anche noi, gli educatori, avevamo imparato e visto molte cose nuove: con quale facilità i bambini sappiano adattarsi alle situazioni, fino a che punto siano creativi e con quale sensibilità reagiscano. Quegli stessi bambini che sembravano incapaci e limitati, avevano rivelato capacità e talenti insospettati. Durante la rappresentazione si erano liberate tensioni sorprendenti, che la fantasia scatenata delle loro invenzioni rendeva tangibili. Nel 1928 a Berlino raccontai di questo mio lavoro a Johannes R. Becher e a Gerhard Bisler. Il modello di un’educazione estetica dei bambini piacque e mi proposero di creare un teatro di bambini di questo tipo nella casa di Liebknecht. Dovevo dunque stendere il programma. A Capri (1924) avevo già parlato con Benjamin del mio teatro dei bambini ed egli aveva mostrato uno straordinario interesse al riguardo. “Scriverò io il programma – disse – e spiegherò e motiverò teoricamente il tuo lavoro pratico”. Lo scrisse davvero, ma nella prima stesura le mie teorie furono esposte in maniera terribilmente complicata. Alla casa di Liebknecht lessero e risero: “Questo te l’ha scritto sicuramente Benjamin!”. Riportai il programma a Walter Benjamin: doveva scrivere in maniera più comprensibile. Nacque così il Programma per un teatro proletario dei bambini nella sua seconda stesura (la prima non è più stata ritrovata). Brano tratto da A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, 1976, pp. 78-83. ________________________________ *L’A. attribuisce erroneamente a Mejerchol’d la regia de La presa del Palazzo d’Inverno, che porta invece la firma di Evreinov. [N.A.T.]
October 25, 2024 / NapoliMONiTOR
[2024-10-05] 2 GIORNI IN PIAZZA CRISPI: SPETTACOLO DETENUTI A CIELO APERTO @ Piazza Crispi, Torino
2 GIORNI IN PIAZZA CRISPI: SPETTACOLO DETENUTI A CIELO APERTO Piazza Crispi, Torino - - (sabato, 5 ottobre 18:00) DUE GIORNI IN PIAZZA CRISPI SABATO 5 OTTOBRE ALLE 18 BANCHETTI INFORMATIVI CONTRO OGNI GALERA, APERICENA E MUSICA ALLE 19:30 SPETTACOLO TEATRALE DETENUTI A CIELO APERTO DI E CON PAOLA FRANCESCA IOZZI Ci sono persone detenute, chi con una condanna da scontare, chi in attesa di un processo e poi ci sono i familiari, persone che sono detenute per metà: madri, padri, figlie, figli, fratelli, sorelle, amici e amiche che nonostante stiano fuori vivono secondo i tempi, i ritmi, le norme del carcere. Colloqui, pacchi, file, perquisizioni, porte che si chiudono alle spalle di coloro che vivono l’assenza dei propri cari detenuti. Uno sguardo dentro un’umanità sconosciuta ai più che pure ci appartiene.
September 21, 2024 / Gancio
[2024-05-19] Spettacolo Teatrale Le Avventure di Cipollina @ Radio Blackout 105.250
SPETTACOLO TEATRALE LE AVVENTURE DI CIPOLLINA Radio Blackout 105.250 - Via Cecchi 21/a, Torino (domenica, 19 maggio 17:00) Una storia sull'uragano che sa essere l'amicizia, una storia per la libertà e contro ogni autorità, col sapore del coraggio e della fantasia colletiva, adatto a bimbe e grandi dai 6 anni in sù. Uno spettacolo tratto dal romanzo del 1951 di Gianni Rodari, liberamente reinterpretato e preziosamente musicato dalla Compagna dei Rovesci! https://www.compagniadeirovesci.it/ Dalle 17.00 grande merenda, e dalle 18.30 puntuali inizio dello spettacolo! Venite gente, che le Avventure di Cipollina ci porteranno a salpare verso nuovi lidi e grandi avventure! Presso Radio Blackout, in Via Antonio Cecchi 21/A, Torino.
May 2, 2024 / Gancio