Il panico morale come strumento di repressione politica

Osservatorio Repressione - Monday, February 3, 2025

Recensione al libro di Donatella Della Porta, “Guerra all’antisemitismo?”

di Micol Stivala (Università di Palermo) da Studi sulla questione criminale

Cosa vuol dire non essere più liberi di esprimere il proprio dissenso?

In cosa consiste il panico morale al quale sono soggetti, da oltre un anno, intellettuali e artisti che tentano di portare alla luce il perpetuarsi delle violazioni dei diritti umani attuate dal governo israeliano?

Quesiti che restano ad oggi aperti, vivi, più che mai urgenti e a cui tenta di dare una definizione Donatella Della Porta nel suo testo Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica.

La riflessione sorge dalla necessità di analizzare e comprendere l’origine della preoccupante deriva repressiva alla quale stiamo assistendo, forse senza il dovuto clamore, troppo spesso in assoluto silenzio.

Della Porta mette fin da subito in evidenza il profondo senso di smarrimento provato dalle personalità ebree convintamente antisionisti. La struttura del testo, suddivisa in tre parti centrali, consente di individuare i protagonisti del discorso: a) gli imprenditori del panico morale, ovvero i giornalisti, politici e gli organi amministrativi specializzati nell’antisemitismo b) i folk devils[1] o anche definiti soggetti devianti, intellettuali che pur essendo tutti promotori di posizioni antirazziste, sono stati vittime dell’accusa di “nuovo antisemitismo” c) il disciplinamento, ovvero la campagna posta in essere dalle politiche governative israeliane che ha condotto al licenziamento ed a comportamenti di autolimitazione di tutte le voci dissenzienti.

Il panico morale viene quindi inteso come una strutturale narrativa di allarme sociale, che spinge gli stessi intellettuali antirazzisti ad una forma di autocensura, derivata dall’impossibilità di poter manifestare il proprio dissenso, in quanto, ove venga espresso un parere non aderente alle politiche governative israeliane, immediata conseguenza risulta essere quella di venire classificati come soggetti devianti, automaticamente antisemiti e, pertanto, estranei alla “società perbene”. È questo ciò a cui sono stati e vengono tutt’oggi sottoposti gli intellettuali progressisti ed antirazzisti, anche di origine ebraica che hanno mostrato solidarietà al popolo palestinese.

Che cosa deve intendersi quindi per panico morale? L’idea è quella che taluni soggetti vengano «considerati estranei ai valori della società tradizionale e rappresentati come una minaccia per quest’ultima, in quanto responsabili di ciò che viene definito come un problema sociale.»[2]

Della Porta aiuta il lettore a porsi dalla prospettiva di chi, all’interno di un conflitto, si trova in contrasto con le politiche governative del suo stesso Stato di appartenenza; la prospettiva di soggetti che, pur appartenendo al gruppo, sono sottoposti a forme di repressione silenti, tese a limitare ed «escludere le idee e le singole identità nel dibattito pubblico.»[3]

L’evento scatenante risulta essere la premiazione del docufilm “No Other Land” avvenuto al festival del Cinema di Berlino del 2023, opera realizzata congiuntamente da Yuval Abraham e Basel Adra, rispettivamente di cittadinanza israeliana e palestinese. La risposta immediata dei media  tedeschi all’esito della premiazione è stata una dura condanna di antisemitismo, successiva alla semplice richiesta di un “cessate il fuoco” rivolta al governo israeliano.

In ciò consiste il concetto di panico morale: la possibilità di limitare un diverso punto di vista basandosi su «radicate paure razziste»[4], alimentate dalla produzione di notizie giornalistiche veicolate e strutturate in modo tale da ridurre sensibilmente la libertà dei cosiddetti soggetti devianti. La risposta a tali atti di repressione suscita quindi un’autolimitazione, una tendenza all’isolamento di individui che risultano scomodi e, in quanto tali, vulnerabili. Judith Butler, già in tempi meno allarmanti sottolineava che la vulnerabilità è un concetto che può diventare punto di vista centrale per comprendere meglio le dinamiche della guerra. Appare evidente ancor più oggi, come i social media influiscano sulla scelta di immagini e di racconti che assumono un ruolo a sé stante della macchina bellica. L’impressione, infatti, sembra essere quella di vivere immersi all’interno di un narrato che cerca di ridurre un conflitto, per sua natura complesso, a una “favola semplice” in cui Israele si erge a unica vittima. Le voci degli ebrei dissenzienti e contrarie alle politiche governative di Netanyahu vengono stigmatizzate, con la conseguenza che gli stessi vengono tacciati di antisemitismo e, infine censurati.

Segnatamente, vediamo come «in Israele si è passati quasi istantaneamente a riprodurre in modo crudo gli eventi del 7 ottobre 2023 attraverso esperienze mediate, a volte con l’obiettivo di contrastare le notizie false che negavano i crimini commessi, ma spesso allo scopo di ridurre la solidarietà verso i palestinesi»[5]. Forme di controllo sistematiche si sono registrate anche in rapporto alla limitazione della libertà di manifestazione. In Germania, in special modo a partire dal maggio del 2023, anche le manifestazioni pacifiche sono state oggetto di repressione, attraverso veri e propri atti di divieto preventivo. La limitazione dell’agentività corporea e l’utilizzo di una forza prevaricatrice da parte degli agenti di polizia operanti viene giustificata dal fine di una presunta tutela dell’incombente odio verso Israele.

Della Porta giunge, in tal senso, a evidenziare la pressione subita, analizzando casi specifici di repressione. In modo particolare, è utile soffermarci su alcuni esempi dalla stessa approfonditi e posti in risalto. Paradigmatico è il caso di Nancy Fraser, filosofa di origine ebraica che avrebbe dovuto ottenere nell’aprile del 2024 l’assegnazione della cattedra Albertus Magnus dell’Università di Colonia. Il motivo della rescissione del contratto consegue alla pubblicazione della lettera Philosophie for Palestine, al cui interno la filosofa dichiara apertamente che gli atti del 7 ottobre 2023 andrebbero letti alla luce di uno sguardo storico completo e di sistema, elevandoli poi ad «atto di resistenza legittima»[6]. Ancora Fraser cerca di sottolineare come questo attacco risulti sistematicamente rivolto all’ambiente universitario, in quanto bersaglio tangibile dei bombardamenti che hanno portato all’abbattimento di tutte le principali università palestinesi. L’impossibilità di palesare il proprio dissenso mina ciò che per Butler è la capacità di dare forza produttiva a un discorso, inscrivendo in esso nuovi significati. In altre parole, il discorso non è più capace di divenire «il luogo della ricostituzione e della risignificazione della legge»[7].

Un altro esempio di quelle che, parafrasando Butler, sarebbero da considerare vite scomode, costrette al silenzio perché contrarie alle politiche governative israeliane è quella di Peter Schäfer, professore ordinario presso l’università di Princeton. Della Porta mette in evidenza l’effetto della drammatica campagna mediatica di emarginazione alla quale è stato sottoposto. Emarginazione invadente al punto da spingere il professore di Princeton a dimettersi dal ruolo di direttore del Museo ebraico di Berlino. Emerge un chiaro esempio di auto-isolamento, una risposta, si potrebbe dire, necessaria e conseguente alla stigmatizzazione di un individuo: l’essere poiché “contrario” anche “scomodo”. Netanyahu in primis aveva espresso la sua disapprovazione a seguito della promozione della mostra “Welcome to Israel”[8] e ne aveva sottolineato la “preoccupante” gestione, definita come “direttoriale”, del Museo, del tutto distaccato dalla comunità ebraica e dai suoi valori.  L’attacco mediatico, la limitazione di un rapporto pacifico e l’emersione di uno stigma negativo associato alla dimensione del dialogo fra la comunità ebraica e la comunità musulmana, hanno costretto al silenzio ben «240 intellettuali israeliani ed ebrei»[9]. Emerge chiaramente come anche la comunità musulmana sia stata vittima di una campagna scandalistica mediatica, ciò a seguito di un tweet pubblicato dall’ufficio stampa del Museo, dove venivano riportate «una serie di lettere aperte che criticavano la risoluzione anti-Bsd approvata dal parlamento federale»[10]

Alla luce di ciò, Della Porta individua gli strumenti per comprendere a fondo il contesto e per leggerlo attraverso lenti nuove. Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica è un lavoro di ricerca sul presente che ponendo in risalto casi concreti di campagna di panico morale consente di rileggere il conflitto in atto, evidenziando le problematicità della condizione di chi, essendo israeliano, non può allo stesso tempo essere libero di dichiararsi antisionista. Le problematicità sembrano comunque non riducibili a tale aspetto, che è certamente il più paradossale. Il problema centrale è che sembra proprio di essere immersi all’interno di una vera e propria criminalizzazione di ogni forma di dissenso politico. Sembra quasi di essere immersi all’interno di un sistema di costrizione al silenzio, di vulnerabilità e di arbitrio nell’uso politico del termine “antisemitismo”, inteso come scontro necessario fra due civiltà. La repressione delle voci dissenzienti incide significativamente sullo spazio pubblico, limitandoil dialogo e imponendo conseguentemente un’auto-censura. Il rischio del panico morale è, quindi, quello di pervenire ad una chiusura netta del dialogo, giustificata da un presunto odio razziale che non lascia spazio alla libera manifestazione del pensiero, impedendo la tutela dei soggetti che sono posti in condizioni di vulnerabilità. «Questi critici non contestano la protezione della vita ebraica. […] Stanno contestando la negazione della vita dei palestinesi e il diritto all’esistenza della Palestina»[11]

[1] S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics, The creation of the Mods and Rockers,Routledge, Londra 2002,p.

[2] D. Della Porta, Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica, Altrəconomia, Milano, 2024, p.15

[3] D. Della Porta, op.cit, p.18

[4] D. Della Porta, op cit, p.16

[5] N. Klein, Israeele usa il suo trauma come arma di guerra, in Internazionale, 2024, p.48

[6] D. Della Porta, op cit, p.38

[7] J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Castelvecchi, Roma, 2023, p.99

[8] D. Della Porta, op.cit, p.39

[9] Ibidem, p.40

[10] Ibidem, p.40

[11] Ibidem, p.108

Bibliografia

Butler, J. (2023). Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Roma: Castelvecchi.

Cohen, S. (2002). Folk Devils and Moral Panics, The creation of the Mods and Rockers. Londra: Routledge.

Della Porta, D. (2024). Guerra all’antisemitismo? il panico morale come strumento della repressione. Milano: Altraeconomia.

Klein, N. (2024). Israeele usa il suo trauma come arma di guerra. Internazionale, 46-54.

Per citare questo post:

M. Stivala (2025), Recensione al libro di Donatella Della Porta, Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica (Altrəconomia, 2024) in Blog Studi sulla Questione Criminale, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/01/29/recensione-al-libro-di-donatella-della-porta-guerra-allantisemitismo-il-panico-morale-come-strumento-di-repressione-politica-altraeconomia-2024/

 

 

 

 

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