“Zone rosse” e sicurezza

Osservatorio Repressione - Wednesday, February 12, 2025

Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi dell’Insubria

di Emma Besseghini da Altreconomia

Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti considerati “pericolosi”.

La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza. Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che -anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici.

Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi dell’Insubria.

Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto urbano?
Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta ulteriormente.

Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio pubblico?
L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici, nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione.

In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica?
Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo “aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a nostro piacimento.

Come stanno cambiando le città?
Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del “ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali: tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate -e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari, nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come la segregazione scolastica nei quartieri periferici.

I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di sicurezza?
Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche. Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può permettere, magari) diventa prima o poi paura.

Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più controllata dalle forze dell’ordine?
Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione, l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi, con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove.

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