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La memoria della voce. Studs Terkel, l’intervista, la storia orale
(disegno di cyop&kaf) Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la città”, ai tempi del mensile cartaceo. Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene: Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di seguito. *     *     *  Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni, raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui: rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe – leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera, pubblicando libri letti da generazioni. «Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo. Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di ascoltare. «Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire. Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro. «Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard Times, Terkel  cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente, il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone. «La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione, di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times, dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di chiarire certi concetti metodologici. «Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione. Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione, e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto, cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza. Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera, intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo. «Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo: tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che continuavo ad andarci –  sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti. Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in grado di scrivere niente. «Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce, ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia ma era diventato un racconto condiviso, comune».
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L’ex Br Bertulazzi: «Sono in fuga dal 1980, ma non regalo mea culpa»
Intervista a Leonardo Bertulazzi, 74 anni sta scontando i domiciliari in Argentina e rischia l’estradizione in Italia: «Ero un rifugiato, poi è arrivato Milei…». Deve scontare 27 anni, ma non ha reati di sangue. L’ultima parola alla Corte suprema di Mario Di Vito da il manifesto Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002. «Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan». E lei arriva lì.  Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore. E poi? Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia. Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni? Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai. Da allora il paese è molto cambiato. Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta. In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.  La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza. Veniamo ai suoi processi. Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni. La procura di Genova scrive: «È ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia». Lo stesso giudice argentino che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo. Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)». Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo. Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi». Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista. Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia? Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando. Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti? Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però, la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione. Quale sarebbe il fatto nuovo? Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires. La Cassazione aveva annullato la prescrizione. Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo. Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti? Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza. > Un altro processo a Bertulazzi: la promessa impossibile dell’Italia > Primo sì dei giudici argentini alla estradizione dell’ex Br Bertulazzi > Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo > Bertulazzi in Argentina > L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex > brigatista Leonardo Bertulazzi > Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente > Milei     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
interviste
Mimmo, il sindaco ingombrante
Intervista a Mimmo Lucano, per quattro volte sindaco di Riace e ora parlamentare europeo. Odiato e perseguitato non soltanto da Salvini e dalle destre ma anche da chi, nel centrosinistra, pensa che l’accoglienza sia “pericolosa” e faccia perdere le elezioni. Storia di un uomo buono e di una speranza: esportare in Europa il “modello Riace” di Anna Pizzo da DINAMOpress Riace si è fatta conoscere in tutto il mondo per tre dei suoi cittadini: Etocle, Polinice e Mimmo. I primi due sono stati ripescati nel 1972 nel mare là davanti e da allora tutti li chiamano “I bronzi di Riace” anche se nel paesino calabrese sono rimasti ben poco, subito trasferiti nel museo di Reggio Calabria perché una tale scoperta non poteva restare in uno sperduto paesucolo di 1.760 anime spopolato dalle continue emigrazioni forzate. Il terzo è Mimmo Lucano, classe 1958, molto più giovane dei suoi due illustri concittadini ma altrettanto imponente. Anzi “ingombrante”. A raccontarlo è lui stesso alla vigilia di una delle ennesime imprese impossibili: quella di trasformare il suo “modello Riace” in un progetto destinato a diffondersi in tutta Europa. Perché dici di essere ingombrante? Dal 2004 al 2014 per tre volte ho fatto il sindaco ed è quello che so fare meglio perché mi piace e perché credo di saperlo fare, anche se una certa magistratura la pensa diversamente. Ma di questo parliamo dopo. Ora ti dico perché ho capito di essere considerato uno scomodo. Quasi al termine del mio terzo mandato ho chiesto un incontro con l’allora presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, per capire il senso delle scelte politiche dissennate che l’allora governo di centrosinistra stava compiendo sui migranti. Chiedo che interceda per farmi incontrare il ministro dell’interno, Marco Minniti, perché noi, che dal 2007 avevamo partecipato all’accoglienza dei kurdi sbarcati, stavamo facendo un magnifico lavoro, avevamo trasformato il nostro paese di poche anime in un luogo vivo, ma non avevamo risorse e il governo stava tagliando ulteriormente i fondi. E, aggiungo, addirittura una rivista americana aveva citato la nostra esperienza. Forte di queste mie ragioni chiedo a Oliverio di mettermi in contatto con il ministro dell’interno e lui alza il telefono e chiama Minniti. Per tutta risposta quello  gli dice che il partito, che sta indietro nei sondaggi, non può dare spago a idee come quelle del sindaco che pratica una accoglienza pericolosa e gli consiglia di non avere niente a che fare con me. Dalla accoglienza “pericolosa” ai procedimenti giudiziari, il passo è breve: alla fine del 2016 la relazione del prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, parla di anomalie nel funzionamento del sistema, che portano ad aprire una indagine su di te. Vieni accusato di truffa e concussione, parte il processo Xenia e poco più di un anno dopo vieni sospeso dalla carica di sindaco. Esatto. Nel 2021 arriva la condanna in primo grado a tredici anni e due mesi. Nemmeno due anni dopo in appello la condanna viene ridotta a un anno e sei mesi con la sospensione della pena. Qualche giorno fa, la Cassazione ha confermato quella condanna per un solo procedimento. Perché ho resistito? Per molte ragioni, forse soprattutto perché un illustre giurista ed ex-magistrato come Luigi Ferraioli mi diceva, con quel suo tono pacato e fermo che si trattava di una aberrazione giuridica. Così, ho vissuto fino al 2014: da una parte i ripetuti agguati di Salvini che è venuto un paio di volte per cogliermi in fallo, dall’altra tanti riconoscimenti. Anche Giorgia Meloni ha voluto dire la sua, all’indomani della sentenza, scagliandosi contro «l’idolo della sinistra immigrazionista». Che sarei io. Beh, un po’ famoso sei: nel 2010 Wim Wenders costruisce sulla tua figura il cortometraggio Il volo. Nel 2016 vieni inserito dalla rivista americana “Fortune” tra i cinquanta leader più importanti del mondo. E poi premi, riconoscimenti. Fino alle elezioni europee del 2024. Io volevo fare il sindaco, però quando Alleanza Verdi Sinistra mi propone la candidatura alle Europee decido di accettare perché mi sembrava di poter continuare il mio lavoro, anche se da una diversa postazione. Duecentomila persone mi votano e qualche mese più tardi, torno anche a fare il sindaco del mio paese. Sai dove ero stamattina quando mi hai chiamato? Ero a San Ferdinando, a qualche decina di chilometri da qui, assieme ad Alex Zanotelli e tanti altri per dire che quell’orrore di baraccopoli messa su sei anni fa per i braccianti africani va smantellata. È solo una delle vergogne di questo territorio. Te ne dico un’altra, quella di Ahmed, arrestato con l’accusa di essere scafista. Tutto falso. Malato terminale di tumore finalmente viene portato in ospedale a Locri. Troppo tardi. Ancora una: i progetti di accoglienza sono stati chiusi per noi da quando è cominciata la mia vicenda giudiziaria e mai più riaperti. Sai come faccio ad andare avanti? Con i soldi che mi dà il parlamento europeo. Infine, come si sta in questa doppia dimensione europea e locale? Io sono nato e cresciuto proprio dentro la doppia dimensione del locale e globale e del partire dal basso e dello stare dalla parte degli ultimi. Ovunque mi trovi, continuerò a farlo perché è la cosa migliore che posso fare. Quanto all’Europa, mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua ma la speranza mi fa muovere. In fondo, io faccio parte di quelli che sono abituati a credere all’impossibile. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Liberare il mio smartphone per liberare e stesso
https://hackordie.gattini.ninja/randioworld/wp-content/uploads/2025/02/hod_2025chip18febb.ogg Intervista a Kenobit sul libro: LIBERARE IL MIO SMARTPHONE PER LIBERARE ME STESSO è un breve libro che affronta l’impatto degli smartphone sulle nostre vite. Contiene riflessioni sulla natura oppressiva ed estrattiva delle app più diffuse e propone un metodo concreto per liberarsi dalle catene digitali e vivere meglio. https://www.kenobit.it/libri-e-fanzine/ https://livellosegreto.it/about A proposito degli smartphone senza google https://www.degoogled.es/ Appuntamenti > A-K-M-E – Chiacchierata sul progetto ULA con Autistici/Inventati https://www.ilcambiamento.it/eventi/digital-detox-day-come-ridurre-la-dipendenza-dal-proprio-telefono-cellulare
interviste
puntata
“Zone rosse” e sicurezza
Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi dell’Insubria di Emma Besseghini da Altreconomia Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti considerati “pericolosi”. La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza. Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che -anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici. Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto urbano? Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta ulteriormente. ⁠Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio pubblico? L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici, nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione. In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica? Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo “aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a nostro piacimento. Come stanno cambiando le città? Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del “ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali: tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate -e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari, nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come la segregazione scolastica nei quartieri periferici. ⁠I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di sicurezza? Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche. Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può permettere, magari) diventa prima o poi paura. Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più controllata dalle forze dell’ordine? Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione, l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi, con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove. > Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie > sicuritarie > Le zone rosse – (S)Margini – 01 > Zone rosse…di vergogna incostituzionale   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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misure repressive
interviste
Maysoon Majidi: «Finalmente sono libera. Su di me ho ascoltato bugie su bugie»
Intervista a Maysoon Majidi a cura di Silvio Messinetti per il manifesto Fuori dal tribunale di Crotone Maysoon Majidi ieri è uscita mano nella mano con il fratello Rezhan. Commossa e raggiante per l’assoluzione con formula piena. Ha citato, dopo la lettura della sentenza, il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Perché? Darwish viveva l’esilio come atto poetico e politico di resistenza di fronte a una realtà storica in cui libertà individuale e liberazione collettiva sono ancora da raggiungere. Io oggi ho raggiunto finalmente la mia libertà. Ed è un giorno per me indimenticabile. A chi dedica questa assoluzione? A chi mi è stato vicino in questa odissea, a tutti i rifugiati politici, al mio avvocato, alla mia famiglia che sta soffrendo per me da tanti mesi. Ma anche ai politici e ai tanti amici che ho conosciuto in questi mesi. I momenti passati in carcere sono stati durissimi. La prima cosa che pensi quando arrivi in un Paese democratico è alla libertà. Quando ho fatto lo sciopero della fame in carcere era perché non avevo avuto un’udienza, volevo che qualcuno ascoltasse la mia storia. Non ho mai incontrato un interprete. Non potevo parlare con i miei familiari. Ho fatto il viaggio con mio fratello e non ho potuto parlarci per due mesi. Non sapevo nulla di nessuno. Pensavo che tutte le 77 persone che viaggiavano con me fossero state arrestate perché non sapevo il motivo della mia detenzione. Se non avessi avuto intorno una rete di sostegno, con tante lettere e visite, non avrei saputo come fare per combattere lo scoramento. Le parole dell’accusa l’hanno colpita? In questi mesi, e ascoltando la pm, ho molto sofferto per quello che sentivo dire e leggevo sul mio conto. Secondo i giudici avrei dato ordini sulla barca, consegnato acqua e cibo. Nulla di più falso. Se ci fosse stata la possibilità, avrei aiutato qualcuno ma avevamo i nostri zaini con viveri e acqua. Nessuno dava niente ad alcuno. Dunque bugie su bugie. Un incubo che temevo non finisse mai. Da qualche settimana vive con suo fratello a Sant’Alessio in Aspromonte, pensa di restare a vivere in Italia? Il progetto Sai dentro cui siamo stati inseriti è stimolante. Ho ripreso a scrivere e a pensare a nuovi progetti artistici. Per adesso mi godo questo grande giorno. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
migranti
interviste
I casi Uva, Cucchi e gli altri torturati non hanno insegnato nulla
Luigi Manconi: “Osservo il rischio di una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per i pubblici agenti, di un regime processuale speciale”. di Valentina Stella da il dubbio Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente – “La scomparsa dei colori”, edito da Garzanti – racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto. In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa? Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele. Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità, si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità. I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva? È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell’ordine pubblico. Ma, pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità collettiva, dell’istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né, infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica. Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita? Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella Lucia Uva e dell’avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare. Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno delle forze dell’ordine? Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente, dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia. Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla violenza nell’attività di repressione, quando necessaria Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no? Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di stato, all’arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e non un ministro dell’Interno che, al momento di assumere il comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia intrapreso. Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su questo? Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria. Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all’infinito, e che, come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall’interno: da un poliziotto, da un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero desolante. Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato. Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe migliorato? Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma spiegai che, se fosse mancato un solo voto all’approvazione, mi sarei recato in Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un ruolo assai importante.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
interviste
malapolizia
Bestiari, Erbari, Lapidari. Il film di D’Anolfi e Parenti venerdì ad Astra Doc
(bestiari, erbari, lapidari) Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante, le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via Mezzocannone.  Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul Manifesto. *     *    * La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari, Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante tensione artistica comune. Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a questa riflessione? Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più metaforica come è quella della memoria. Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola. Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più narrativo. Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che tipo di lavoro fate sulla scrittura? Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene – sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica, dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo. Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani che sfogliano libri, scorrono pellicole… Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian, e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini, è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di questo mestiere.
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Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Seconda parte
(disegno di ottoeffe) Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra. Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia metalmeccanica e sindacalista meridionale. Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda. Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre, durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus. Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato delle città. Qui la prima parte dell’intervista.  NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO «A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di straordinario al giorno per il viaggio. «I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus. Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia. «Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006. Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si muovesse. Per un periodo è stato sempre così. «Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare. Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché, come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.  «In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus, ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo. «A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci. Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo, non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro. La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo, sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava. «In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano, sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante… «L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero di operai si è ridotto sempre di più. «Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo. Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.  L’ARRIVO ALLA IRISBUS «Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas. Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni. In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole, gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006 viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del 1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché lavoro da una vita come metalmeccanica. «All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine. Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano. Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici. Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai. Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice “signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io. “Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado… «Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il 2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto 1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni, dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)
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“Zone a vigilanza rafforzata”. Centinaia di allentamenti coatti
Nuovi strumenti di controllo e punizione in mano agli agenti nelle grandi e medie città. Mentre è atteso in Senato il cosiddetto decreto sicurezza (l’ex 1660), il Governo procede all’implementazione delle “zone rosse” nelle aree urbane. A Roma, nei prossimi due mesi nei quartieri Quarticciolo ed Esquilino, il prefetto Giannini ha disposto “zone a vigilanza rafforzata“: così definite le aree delle città in cui alle forze di polizia è data la possibilità di allonatanare coattamente chiunque, genericamente, assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Si tratta dell’estensione territoriale delle “zone rosse”, inizialmente disposte da Piantedosi a fine 2024 a Milano e Napoli città, dopo le prime sperimentazioni repressive di 3 mesi fa a Firenze e Bologna. Secondo il Viminale, dal 31 dicembre a oggi sono state controllate 25mila persone, con 228 allontanamenti coatti, quasi la metà dei quali solo a Milano: qui, su 8.303 controlli, 106 i provvedimenti disposti. Segue Bologna (7613 controlli e 43 allontanamenti), Firenze (6.217 controlli, 68 allontanamenti) e infine Napoli (2.854 controlli, 11 allontanamenti). Che tipo di strumento assumono le “zone rosse” per il governo delle città? A Radio Onda d’Urto per commentare i dati Italo di Sabato, dell’Osservatorio Repressione. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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