(disegno di cyop&kaf)
Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per
parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio
articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la
città”, ai tempi del mensile cartaceo.
Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene:
Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai
partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di
seguito.
* * *
Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una
cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il
momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la
differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della
ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura
angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane
negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni,
raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui:
rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e
reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre
che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America
Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe
– leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire
gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse
dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che
per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera,
pubblicando libri letti da generazioni.
«Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di
letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto
perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli
straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo
lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai
preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai
parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo.
Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi
interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista
radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi
troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la
trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la
performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è
un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il
cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di
partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano
tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due
persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium
che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il
rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu
aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica
che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la
televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che
riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva
all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di
ascoltare.
«Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la
capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui
parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno
dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro
sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la
sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa
che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello
che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai
attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo
di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la
capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la
presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire.
Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma
significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le
società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro.
«Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le
mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard
Times, Terkel cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più
problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande
depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è
questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura
questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti
delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente,
il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael
Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale
proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel
fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a
me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non
sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario
mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è
l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti
quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James
Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone.
«La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta
come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte
della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In
questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi
interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce
dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti
nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto
Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa
dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il
grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande
che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti
dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con
un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a
cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul
monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per
l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi
dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e
poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio
perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione,
di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs
Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di
umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene
fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero
dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una
rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un
punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la
relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in
cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te
che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e
resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli
anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times,
dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di
chiarire certi concetti metodologici.
«Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che
hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi
contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione.
Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come
trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione,
e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con
il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un
tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora
questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me
non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o
ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una
modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha
visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto,
cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della
narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza.
Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare
le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri
dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può
raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto
delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve
la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu
devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio
che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per
dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non
perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle
cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a
uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio
che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul
lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare
come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in
forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un
lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il
corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai
veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè
o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della
colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora
non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più
complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a
di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due
campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera,
intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e
l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di
qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo.
«Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di
ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non
sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei
consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la
persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La
dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in
conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto
ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli
Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo:
tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la
pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto
molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era
andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di
quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu
vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco
di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione
di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che
continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho
cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E
mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso
che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali
meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in
miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti
civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che
faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di
Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai
luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo
per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti.
Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto
di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo
storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono
loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in
grado di scrivere niente.
«Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in
due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi
sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una
tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia
persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce,
ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono
in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che
abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la
comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni
ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi
le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono
interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel
libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che
attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione
complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia
ma era diventato un racconto condiviso, comune».
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Intervista a Leonardo Bertulazzi, 74 anni sta scontando i domiciliari in
Argentina e rischia l’estradizione in Italia: «Ero un rifugiato, poi è arrivato
Milei…». Deve scontare 27 anni, ma non ha reati di sangue. L’ultima parola alla
Corte suprema
di Mario Di Vito da il manifesto
Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua
fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse
con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il
sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di
sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali:
due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina.
Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato
arrestato.
Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso
all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città
in cui vive dal 2002.
«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al
manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento
repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò
un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan
todos era lo slogan».
E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e
iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i
vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme
di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo
lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta
d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di
quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una
campagna in mio favore.
E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un
condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con
la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico,
perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i
processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le
condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della
giustizia.
Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho
cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un
grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria
con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti
musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos
Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due
effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro
di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.
Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo
si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione
che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha
espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso
con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si
percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che
la tortilla se de vuelta.
In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi
della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando
non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano
unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che
affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione
della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità
che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non
sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto
più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna
contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza.
Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi
unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo
già lasciato il paese da anni.
La procura di Genova scrive: «È ragionevole riconoscere che nessun elemento allo
stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e
delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua
contumacia».
Lo stesso giudice argentino che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la
richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo
che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura
che avrò diritto a un nuovo processo.
Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi
ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria,
anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare
l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la
richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma
ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si
abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova
presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale
giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di
essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un
nuovo processo.
Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per
ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è
apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di
10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha
determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava
conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e
stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia
generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano
studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti
antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è
l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto
“più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli
emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta,
mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il
fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non
si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro
che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che
hanno provocato il rigurgito fascista.
Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo,
per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel
periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi.
Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta
violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere
che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa
considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il
tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di
piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.
Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un
avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno
2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23
febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,
la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto
a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura
di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la
prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che
si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era
stato preso in considerazione.
Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.
La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata
nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato
da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi
volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un
dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai
più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il
perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la
prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare
la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.
Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di
qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si
erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi.
L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito.
Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato
in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza
diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho
pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho
vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua
immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni
esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello
che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.
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Intervista a Mimmo Lucano, per quattro volte sindaco di Riace e ora parlamentare
europeo. Odiato e perseguitato non soltanto da Salvini e dalle destre ma anche
da chi, nel centrosinistra, pensa che l’accoglienza sia “pericolosa” e faccia
perdere le elezioni. Storia di un uomo buono e di una speranza: esportare in
Europa il “modello Riace”
di Anna Pizzo da DINAMOpress
Riace si è fatta conoscere in tutto il mondo per tre dei suoi cittadini: Etocle,
Polinice e Mimmo. I primi due sono stati ripescati nel 1972 nel mare là davanti
e da allora tutti li chiamano “I bronzi di Riace” anche se nel paesino calabrese
sono rimasti ben poco, subito trasferiti nel museo di Reggio Calabria perché una
tale scoperta non poteva restare in uno sperduto paesucolo di 1.760 anime
spopolato dalle continue emigrazioni forzate. Il terzo è Mimmo Lucano, classe
1958, molto più giovane dei suoi due illustri concittadini ma altrettanto
imponente. Anzi “ingombrante”. A raccontarlo è lui stesso alla vigilia di una
delle ennesime imprese impossibili: quella di trasformare il suo “modello Riace”
in un progetto destinato a diffondersi in tutta Europa.
Perché dici di essere ingombrante?
Dal 2004 al 2014 per tre volte ho fatto il sindaco ed è quello che so fare
meglio perché mi piace e perché credo di saperlo fare, anche se una certa
magistratura la pensa diversamente. Ma di questo parliamo dopo. Ora ti dico
perché ho capito di essere considerato uno scomodo. Quasi al termine del mio
terzo mandato ho chiesto un incontro con l’allora presidente della Regione
Calabria, Mario Oliverio, per capire il senso delle scelte politiche dissennate
che l’allora governo di centrosinistra stava compiendo sui migranti. Chiedo che
interceda per farmi incontrare il ministro dell’interno, Marco Minniti, perché
noi, che dal 2007 avevamo partecipato all’accoglienza dei kurdi sbarcati,
stavamo facendo un magnifico lavoro, avevamo trasformato il nostro paese di
poche anime in un luogo vivo, ma non avevamo risorse e il governo stava
tagliando ulteriormente i fondi. E, aggiungo, addirittura una rivista americana
aveva citato la nostra esperienza. Forte di queste mie ragioni chiedo a Oliverio
di mettermi in contatto con il ministro dell’interno e lui alza il telefono e
chiama Minniti. Per tutta risposta quello gli dice che il partito, che sta
indietro nei sondaggi, non può dare spago a idee come quelle del sindaco che
pratica una accoglienza pericolosa e gli consiglia di non avere niente a che
fare con me.
Dalla accoglienza “pericolosa” ai procedimenti giudiziari, il passo è breve:
alla fine del 2016 la relazione del prefetto di Reggio Calabria, Michele Di
Bari, parla di anomalie nel funzionamento del sistema, che portano ad aprire una
indagine su di te. Vieni accusato di truffa e concussione, parte il processo
Xenia e poco più di un anno dopo vieni sospeso dalla carica di sindaco.
Esatto. Nel 2021 arriva la condanna in primo grado a tredici anni e due mesi.
Nemmeno due anni dopo in appello la condanna viene ridotta a un anno e sei mesi
con la sospensione della pena. Qualche giorno fa, la Cassazione ha confermato
quella condanna per un solo procedimento. Perché ho resistito? Per molte
ragioni, forse soprattutto perché un illustre giurista ed ex-magistrato come
Luigi Ferraioli mi diceva, con quel suo tono pacato e fermo che si trattava di
una aberrazione giuridica. Così, ho vissuto fino al 2014: da una parte i
ripetuti agguati di Salvini che è venuto un paio di volte per cogliermi in
fallo, dall’altra tanti riconoscimenti. Anche Giorgia Meloni ha voluto dire la
sua, all’indomani della sentenza, scagliandosi contro «l’idolo della sinistra
immigrazionista». Che sarei io.
Beh, un po’ famoso sei: nel 2010 Wim Wenders costruisce sulla tua figura il
cortometraggio Il volo. Nel 2016 vieni inserito dalla rivista americana
“Fortune” tra i cinquanta leader più importanti del mondo. E poi premi,
riconoscimenti. Fino alle elezioni europee del 2024.
Io volevo fare il sindaco, però quando Alleanza Verdi Sinistra mi propone la
candidatura alle Europee decido di accettare perché mi sembrava di poter
continuare il mio lavoro, anche se da una diversa postazione. Duecentomila
persone mi votano e qualche mese più tardi, torno anche a fare il sindaco del
mio paese. Sai dove ero stamattina quando mi hai chiamato? Ero a San Ferdinando,
a qualche decina di chilometri da qui, assieme ad Alex Zanotelli e tanti altri
per dire che quell’orrore di baraccopoli messa su sei anni fa per i braccianti
africani va smantellata. È solo una delle vergogne di questo territorio. Te ne
dico un’altra, quella di Ahmed, arrestato con l’accusa di essere scafista. Tutto
falso. Malato terminale di tumore finalmente viene portato in ospedale a Locri.
Troppo tardi. Ancora una: i progetti di accoglienza sono stati chiusi per noi da
quando è cominciata la mia vicenda giudiziaria e mai più riaperti. Sai come
faccio ad andare avanti? Con i soldi che mi dà il parlamento europeo.
Infine, come si sta in questa doppia dimensione europea e locale?
Io sono nato e cresciuto proprio dentro la doppia dimensione del locale e
globale e del partire dal basso e dello stare dalla parte degli ultimi. Ovunque
mi trovi, continuerò a farlo perché è la cosa migliore che posso fare. Quanto
all’Europa, mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua ma la speranza mi fa muovere.
In fondo, io faccio parte di quelli che sono abituati a credere all’impossibile.
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Intervista a Kenobit sul libro:
LIBERARE IL MIO SMARTPHONE PER LIBERARE ME STESSO è un breve libro che affronta
l’impatto degli smartphone sulle nostre vite. Contiene riflessioni sulla natura
oppressiva ed estrattiva delle app più diffuse e propone un metodo concreto per
liberarsi dalle catene digitali e vivere meglio.
https://www.kenobit.it/libri-e-fanzine/
https://livellosegreto.it/about
A proposito degli smartphone senza google https://www.degoogled.es/
Appuntamenti
> A-K-M-E – Chiacchierata sul progetto ULA con Autistici/Inventati
https://www.ilcambiamento.it/eventi/digital-detox-day-come-ridurre-la-dipendenza-dal-proprio-telefono-cellulare
Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del
ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e
allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della
complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente
controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a
essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista
a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi
dell’Insubria
di Emma Besseghini da Altreconomia
Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha
annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città
considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti
considerati “pericolosi”.
La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del
ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia
di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza.
Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che
-anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno
godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a
ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di
multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono
l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici.
Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero
avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano
abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia
presso l’Università degli Studi dell’Insubria.
Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto
urbano?
Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in
passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La
possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in
maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha
l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un
risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro
dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a
rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo
svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro
accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a
pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e
ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri
perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di
città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico
eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il
problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che
non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta
ulteriormente.
Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio
pubblico?
L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che
cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici,
nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di
praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una
molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve
essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo
di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione.
In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica?
Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di
accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo
“aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio
vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello
che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta
delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con
l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di
comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più
persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a
nostro piacimento.
Come stanno cambiando le città?
Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi
il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso
nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del
“ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si
tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali:
tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate
-e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari,
nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come
la segregazione scolastica nei quartieri periferici.
I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei
delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che
si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di
sicurezza?
Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da
quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche.
Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare
ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente
cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle
ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora
bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di
appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione
sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro
soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano
guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso
di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione
collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può
permettere, magari) diventa prima o poi paura.
Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più
controllata dalle forze dell’ordine?
Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura
sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una
minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma
del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza
e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non
favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti
emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione,
l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento
straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi
che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi,
con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove.
> Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie
> sicuritarie
> Le zone rosse – (S)Margini – 01
> Zone rosse…di vergogna incostituzionale
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Intervista a Maysoon Majidi
a cura di Silvio Messinetti per il manifesto
Fuori dal tribunale di Crotone Maysoon Majidi ieri è uscita mano nella mano con
il fratello Rezhan. Commossa e raggiante per l’assoluzione con formula piena.
Ha citato, dopo la lettura della sentenza, il poeta palestinese Mahmoud Darwish.
Perché?
Darwish viveva l’esilio come atto poetico e politico di resistenza di fronte a
una realtà storica in cui libertà individuale e liberazione collettiva sono
ancora da raggiungere. Io oggi ho raggiunto finalmente la mia libertà. Ed è un
giorno per me indimenticabile.
A chi dedica questa assoluzione?
A chi mi è stato vicino in questa odissea, a tutti i rifugiati politici, al mio
avvocato, alla mia famiglia che sta soffrendo per me da tanti mesi. Ma anche ai
politici e ai tanti amici che ho conosciuto in questi mesi. I momenti passati in
carcere sono stati durissimi. La prima cosa che pensi quando arrivi in un Paese
democratico è alla libertà. Quando ho fatto lo sciopero della fame in carcere
era perché non avevo avuto un’udienza, volevo che qualcuno ascoltasse la mia
storia. Non ho mai incontrato un interprete. Non potevo parlare con i miei
familiari. Ho fatto il viaggio con mio fratello e non ho potuto parlarci per due
mesi. Non sapevo nulla di nessuno. Pensavo che tutte le 77 persone che
viaggiavano con me fossero state arrestate perché non sapevo il motivo della mia
detenzione. Se non avessi avuto intorno una rete di sostegno, con tante lettere
e visite, non avrei saputo come fare per combattere lo scoramento.
Le parole dell’accusa l’hanno colpita?
In questi mesi, e ascoltando la pm, ho molto sofferto per quello che sentivo
dire e leggevo sul mio conto. Secondo i giudici avrei dato ordini sulla barca,
consegnato acqua e cibo. Nulla di più falso. Se ci fosse stata la possibilità,
avrei aiutato qualcuno ma avevamo i nostri zaini con viveri e acqua. Nessuno
dava niente ad alcuno. Dunque bugie su bugie. Un incubo che temevo non finisse
mai.
Da qualche settimana vive con suo fratello a Sant’Alessio in Aspromonte, pensa
di restare a vivere in Italia?
Il progetto Sai dentro cui siamo stati inseriti è stimolante. Ho ripreso a
scrivere e a pensare a nuovi progetti artistici. Per adesso mi godo questo
grande giorno.
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Luigi Manconi: “Osservo il rischio di una palese violazione del principio di
eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per i pubblici agenti, di un regime
processuale speciale”.
di Valentina Stella da il dubbio
Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A
Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei
diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente – “La scomparsa dei colori”,
edito da Garzanti – racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma
oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi
dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o
colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto.
In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei
seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere
avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate
dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità
diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se
ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il
perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro
degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa?
Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa
dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale
speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per
gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele.
Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà
dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di
condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una
fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa
amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della
terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se
il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel
registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile
previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse
affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al
ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per
poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità,
si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità.
I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della
polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva?
È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo
che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe
che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell’ordine pubblico. Ma,
pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità
collettiva, dell’istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né,
infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica.
Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone
abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita?
Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di
Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri
di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi
negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per
i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella
Lucia Uva e dell’avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare.
Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di
azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno
delle forze dell’ordine?
Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente,
dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a
infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola
minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà
corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di
ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto
ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far
crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia.
Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla
violenza nell’attività di repressione, quando necessaria
Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e
stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no?
Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di
vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di
stato, all’arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia
chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di
autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili
di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e
sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato
i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell’Arma dei
Carabinieri e non un ministro dell’Interno che, al momento di assumere il
comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia
intrapreso.
Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl
sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su
questo?
Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o
torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una
piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria.
Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all’infinito, e che,
come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle
marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall’interno: da un poliziotto, da
un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero
desolante.
Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò
l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato.
Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe
migliorato?
Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma
certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma
spiegai che, se fosse mancato un solo voto all’approvazione, mi sarei recato in
Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un
ruolo assai importante.
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(bestiari, erbari, lapidari)
Il 31 gennaio Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo la prima all’ultima
Mostra del Cinema di Venezia, presentano in prima visione a Napoli, nell’ambito
di AstraDoc, Bestiari, erbari, lapidari, documentario “enciclopedia”, diviso in
tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante,
le pietre. Il film verrà proiettato alle 19.30 al cinema Astra di via
Mezzocannone.
Bestiari, erbari, lapidari è un omaggio agli “sconosciuti” e per certi versi
alieni mondi fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per
scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo, in quanto parte
essenziale della nostra esistenza sul pianeta. Riproponiamo a seguire una
intervista di Cristina Piccino ai due autori, pubblicata ad agosto sul
Manifesto.
* * *
La locandina mostra un uomo e un pinguino, il primo avanza, il secondo
indietreggia, il fotogramma è preso da un filmato di Roald Amundsen che
documentò agli inizi del secolo scorso questo incontro nel corso di una
spedizione al Polo Sud. E da qui si dichiara il movimento di Bestiari, Erbari,
Lapidari il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi che sarà alla
Mostra del Cinema fuori concorso – per uscire in sala dal 5 ottobre. Un film
saggio, come dichiarano gli autori, fra i più attenti nel cinema italiano alla
ricerca di una forma con la quale confrontarsi coi molti interrogativi della
realtà contemporanea. A cominciare dall’uso degli archivi che si fanno nei loro
film trama attraverso la quale interrogare il senso delle immagini di oggi, e
che nelle loro narrazioni chiedono allo sguardo di riposizionarsi, di ritrovare
come in una fiaba lontana il piacere della meraviglia. Specie in questa opera in
tre atti che parla dell’umano e della sua relazione con la natura, un tema molto
attuale declinato nel pensiero e nella storia. Ne parliamo con gli autori in una
conversazione che mescola le parole dell’una e dell’altro in una costante
tensione artistica comune.
Bestiari, Erbari, Lapidari esplora la relazione fra l’uomo e la natura in una
prospettiva che è quella dell’immaginario e della memoria. E che pur nella sua
presenza centrale lascia l’umano fuori dall’inquadratura. Cosa vi ha portati a
questa riflessione?
Erano diversi anni che volevamo fare un film sulle piante, avevamo capito che
gli alberi si portano dietro delle storie, c’è una linea delle immagini e una
del racconto che viaggiano parallele ma le piante sono molto difficili da
filmare, dovevamo trovare un modo per avvicinarci a loro perché il mondo
vegetale sfugge alle nostre categorie dello sguardo. Un giorno un’amica ci ha
detto che dal veterinario del suo gatto c’erano due piccole tigri, tra l’altro
lo studio di questo veterinario è proprio vicino a casa nostra. Abbiamo scoperto
che era un esperto di animali del circo, tutte le famiglie circensi più
importanti si rivolgevano a lui. Le tigrotte erano nate in un circo e come
spesso accade agli animali in cattività la madre le aveva rifiutate così le
avevano portate da lui per salvarle. Abbiamo iniziato a filmare le tigri anche
se in realtà volevamo filmare le piante, a quel punto abbiamo pensato alle
pietre sui cui avevamo già lavorato in film come La fabbrica del Duomo. Il
nostro riferimento è stato l’enciclopedia medievale, a scuola nel Medioevo si
studiavano i bestiari, gli erbari, i lapidari con molte variazioni anche
fantastiche. Sui lapidari nelle immagini medievali è stato più difficile, le
pietre erano spesso più brutte nelle rappresentazioni, se ne parlava specie per
le proprietà magiche. Ci siamo detti che forse potevamo pensare a una pietra più
metaforica come è quella della memoria.
Quindi l’enciclopedia medievale è stata veramente una bussola.
Sì, ma anche un gioco nel senso che spesso nei nostri film scegliamo prima il
titolo e dopo ci chiediamo come farlo cercando una narratività che esiste anche
in modo indipendente da noi. In realtà questo film è cominciato da un altro
progetto, volevamo realizzare qualcosa durante la pandemia e avevamo pensato a
un Bestiari, Erbari, Lapidari in città. Doveva essere un lavoro piccolo che era
costruito però con una scrittura molto complessa, il riferimento era un po’ La
Ronde di Max Ophüls. C’erano molti episodi brevi che si passavano il testimone
l’uno con l’altro, dai veterinari agli alberi che crescevano e poi venivano
potati, dal sopra e al sotto della città e via dicendo. Non chiediamo mai alle
persone di fare delle cose per il film, lì però tutto era incastrato e
rileggendolo ci è sembrato troppo artificioso, quella scrittura si sarebbe
mangiata le cose che potevano succedere. Questo film è più esteso ma anche
semplice, ogni atto segue la sua narrazione, per noi è il nostro film più
narrativo.
Nei tre atti si viaggia attraverso degli universi che interrogano il passato e
il presente in quella che è appunto la posizione dell’umano rispetto alla natura
fra scienza, filosofia, botanica e soprattutto la materia delle immagini e le
sue emozioni, lasciando libero lo spettatore di seguire le proprie piste. Che
tipo di lavoro fate sulla scrittura?
Il cinema stesso ha un’ambivalenza, nei Bestiari è chiaro come il frame della
pellicola diventa una nuova gabbia. In un film come questo lo sviluppo
drammaturgico era fondamentale, la parte dei Bestiari doveva aprire il terreno
della meraviglia degli Erbari per ritornare al cuore dei Lapidari. Abbiamo
scritto un inizio più saggistico che ci permettesse di costruire un processo nel
quale progressivamente la parola diminuisce. È presente nei Bestiari, si
allontana negli Erbari – dove sentiamo una voce senza sapere a chi appartiene –
sparisce completamente nei Lapidari nonostante il ritorno all’umano. Nei
compendi medievali al primo posto c’è l’erbario poi gli altri, noi abbiamo
scelto invece l’ordine alfabetico perché c’era bisogno di un enigma come è
quello dei vegetali fra due momenti più sentimentali. Tornando alla scrittura
scriviamo tre volte come dice Wiseman, la prima è quella per la ricerca dei
finanziamenti, che riguardiamo man mano che si va avanti riaggiornandola. Nella
fase delle riprese (qui è Massimo D’Anolfi a parlare, ndr) scrivo giorno dopo
giorno, ho bisogno di filmare per capire il luogo, le relazioni, come io abito
quel posto. Di solito montiamo il film dopo due o tre mesi di riprese, per gli
Erbari era chiaro sin dall’inizio che aveva un arco temporale di un anno
attraverso le stagioni. Poi anche qui ci sono state delle sorprese come
l’erbario di guerra che è venuto fuori quasi per caso. Ma la realtà regala
sempre qualcosa e se filmi in un certo modo il montaggio te lo restituisce. La
chiave delle riprese è stata qui la pazienza dello sguardo, specie per le
piante, insieme alla cura che guidano il respiro di tutto il film. C’è un
aspetto ipnotico, di incantamento dato dalle immagini, dai suoni, dalla musica,
dai silenzi. E dall’assenza quasi totale di volti umani. Quando
nell’inquadratura manca qualcosa devi cercare altro, l’inquadratura è un
paesaggio visivo, ci vuole tempo e fiducia, ti affidi e la vivi fino in fondo.
Parliamo degli archivi, che sono oggi molto utilizzati al punto da diventare
persino «decorativi». Nei vostri film si proiettano sul contemporaneo, e anche
nelle immagini più «semplici» vi sono molte possibili letture di ciò che forma
la nostra cultura e il nostro sguardo. Spesso mentre li mostrate filmate le mani
che sfogliano libri, scorrono pellicole…
Le mani sono legate al fare, al lavoro, all’artigianalità, non abbiamo bisogno
della figura umana intera per il tipo di lavoro che facciamo. La ricerca in
questo film è stata complessa, ci abbiamo lavorato quattro anni, avendo ormai
un’esperienza con gli archivi, al di là della rete che è sempre una risorsa
eccezionale, siamo partiti da quello che conoscevamo, il Luce, la Cineteca
svizzera quella Nazionale ecc. Abbiamo coinvolto due studiosi, Sofia Gräfe e
Francesco Pitassio, Sofia ci ha parlato di un festival di cinema animale dove
abbiamo scoperto il patrimonio dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam che come gli
altri è entrato in produzione. Abbiamo utilizzato solo archivi europei perché i
compendi medievali riguardano l’Europa. Per noi l’approccio all’archivio deve
essere diegetico, abbiamo amato alla follia Farocki o Ricci Lucchi e Gianikian,
e con questi esempi cerchiamo un nostra riflessione rispetto agli archivi che
appunto è diegetica. A un certo punto con Guerra e pace ci siamo entrati
fisicamente ma gli archivi devono avere un senso, se non li risvegli muoiono e
per farlo devono essere interrogati, studiati, contestualizzati, capiti. Nel
finale dei Bestiari c’è una donna che mette il fiocco al collo a dei cagnolini,
è un film stupendo, a colori ma nerissimo nel mostrarci come quei cuccioli
diventano i bambini di casa. C’è un elemento quasi horror, che ci fa cogliere
nella meraviglia delle immagini l’orrore che sarà in futuro. Non abbiamo mai
sonorizzato né manipolato gli archivi, li usiamo nella loro interezza. Ridargli
un montaggio nel loro andamento cronologico contribuisce alla pulizia dello
sguardo e li rende un elemento solo decorativo. Ci sono trappole continue in
questa ricerca, ogni volta è una sfida, si può sbagliare ma è la cosa bella di
questo mestiere.
(disegno di ottoeffe)
Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione
delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per
il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla
festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a
pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra.
Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia
metalmeccanica e sindacalista meridionale.
Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda.
Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre,
durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per
partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria
automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato
costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La
conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte
e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus.
Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato
delle città. Qui la prima parte dell’intervista.
NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO
«A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista
quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre
e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman
che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un
pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi
operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire
una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente
davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da
Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a
carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse
sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il
costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di
straordinario al giorno per il viaggio.
«I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per
strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo
rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia
nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della
mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti
a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci
fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa
mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus.
Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un
cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia.
«Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì
alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006.
Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato
un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi
accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi
dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti
passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per
andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto
tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si
muovesse. Per un periodo è stato sempre così.
«Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro
e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini
piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché
altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie
perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una
recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di
dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare.
Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché
ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento
e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno
imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro
già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché,
come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.
«In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei
diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando
siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non
ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio
Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di
Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi
informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non
partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più
di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il
lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero
capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la
busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus,
ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi
candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo.
«A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino
partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci.
Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che
si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo
fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea
di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo
sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo
uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho
subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto
un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare
i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più
pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui
e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre
eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo,
non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di
olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di
respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo
ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di
inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro.
La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio
quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un
lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano
pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul
banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi
portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena
andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di
resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per
farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli
scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove
leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia
determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove
stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare
una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine
pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle
cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo,
sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove
c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino
alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di
catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come
stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e
subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha
sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava.
«In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della
Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine
furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva
l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a
preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la
stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro
era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo
scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo
l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo
recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello
stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo
stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli
uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e
mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei
tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti
uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano,
sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante…
«L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel
colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori
avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel
colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo
usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi
vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e
gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono
costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto
e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a
Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva
la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in
pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della
mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero
di operai si è ridotto sempre di più.
«Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto
sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo
sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di
Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche
viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo.
Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano
pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di
responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che
stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la
sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.
L’ARRIVO ALLA IRISBUS
«Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a
trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci
erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas.
Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è
nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni.
In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea
e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole,
gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006
viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo
stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a
trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non
si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di
Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e
appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del
1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata
per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età
pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono
aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché
lavoro da una vita come metalmeccanica.
«All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era
trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine.
Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli
laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti
del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì
l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei
lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano.
Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il
Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando
stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi
perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto
e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici.
Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non
accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si
arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo
un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con
queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai.
Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla
fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno
arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre
operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi
trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro
l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione
lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la
facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel
ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano
dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma
a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno
un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi
dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro
pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega
e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un
giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto
contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non
riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo
solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi
potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei
così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal
capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice
“signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta
in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto
un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla
da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati
positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo
officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua
e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un
cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non
mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello
preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il
caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono
una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti
che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto
della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io.
“Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì
c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di
lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva
il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le
chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado…
«Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la
scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li
mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il
2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a
Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto
1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni,
dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando
arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai
senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la
tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di
fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata
nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io
non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo
dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per
farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur
non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno
sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata
sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò
in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)
Nuovi strumenti di controllo e punizione in mano agli agenti nelle grandi e
medie città. Mentre è atteso in Senato il cosiddetto decreto sicurezza (l’ex
1660), il Governo procede all’implementazione delle “zone rosse” nelle aree
urbane.
A Roma, nei prossimi due mesi nei quartieri Quarticciolo ed Esquilino, il
prefetto Giannini ha disposto “zone a vigilanza rafforzata“: così definite le
aree delle città in cui alle forze di polizia è data la possibilità di
allonatanare coattamente chiunque, genericamente, assuma “atteggiamenti
aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”.
Si tratta dell’estensione territoriale delle “zone rosse”, inizialmente disposte
da Piantedosi a fine 2024 a Milano e Napoli città, dopo le prime sperimentazioni
repressive di 3 mesi fa a Firenze e Bologna.
Secondo il Viminale, dal 31 dicembre a oggi sono state controllate 25mila
persone, con 228 allontanamenti coatti, quasi la metà dei quali solo a Milano:
qui, su 8.303 controlli, 106 i provvedimenti disposti. Segue Bologna (7613
controlli e 43 allontanamenti), Firenze (6.217 controlli, 68 allontanamenti) e
infine Napoli (2.854 controlli, 11 allontanamenti).
Che tipo di strumento assumono le “zone rosse” per il governo delle città? A
Radio Onda d’Urto per commentare i dati Italo di Sabato, dell’Osservatorio
Repressione. Ascolta o scarica
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