(disegno di mattia xxx)
Georges Ibrahim Abdallah è un attivista libanese nato in una famiglia maronita.
Nel 1979 ha fondato un movimento rivoluzionario marxista-leninista in supporto
alla lotta palestinese. Arrestato in Francia nel 1984, è stato condannato
all’ergastolo nel 1987 con l’accusa di complicità con gli omicidi di un addetto
militare statunitense e di un diplomatico israeliano. Il 15 novembre 2024 un
tribunale francese ha accettato la domanda di liberazione di Abdallah, ma la
Procura nazionale anti-terrorismo ha presentato ricorso.
Anan Yaeesh è invece un palestinese, militante della seconda Intifada e in
seguito vittima di un agguato delle forze speciali israeliane. Ha lasciato il
suo paese nel 2013 e dal 2019 è rifugiato politico in Italia. Nel gennaio del
2025 è stato arrestato in Italia e Israele ne ha chiesto l’estradizione. Il
processo a suo carico è in corso e la giustizia italiana deve scegliere due
opzioni: rispettare il diritto internazionale che garantisce la tutela dei
rifugiati politici, oppure riconoscere le accuse fondate su indagini e
interrogatori condotti da uno stato straniero.
Circa un mese fa abbiamo intervistato alla Mensa Occupata di Napoli, a margine
di una iniziativa sul tema della prigionia politica dei palestinesi, gli
attivisti del comitato Free Anan e della sezione Paris Banlieue di Samidoun,
organizzazione parte di un network internazionale a supporto dei prigionieri
palestinesi nel mondo, che si batte tra le altre cose per la liberazione di
Georges Ibrahim Abdallah.
Proponiamo qui alcuni estratti della nostra conversazione.
* * *
Comitato Free Anan: Se si vuole parlare di causa palestinese in Italia, oggi, la
questione di Anan è la causa palestinese in Italia, oggi. Stiamo parlando di un
palestinese che viene accusato di aver progettato un’operazione di Resistenza a
una colonia e per questo lo stato italiano lo vuole processare. Parliamo di una
persona che viene accusata di aver resistito e che oramai da oltre un anno si
trova all’interno del carcere di Terni per questo.
In tutta una prima fase abbiamo cercato di tenere il dibattito sul caso
prettamente legale, per provare a evitare che la cosa assumesse una connotazione
esclusivamente politica, nonostante in realtà sia totalmente politica, ma era
una strategia processuale difensiva. Oramai questa cosa non c’è più: Anan sta
parlando e bisogna leggere bene le cose che dice, le sue dichiarazioni, perché
non c’è solamente un attacco all’entità sionista, c’è un attacco anche allo
stato italiano, al sistema di repressione che viene applicato dallo stato
italiano, ai regimi di detenzione differenziati, alle torture di alcuni regimi
come il 41-bis.
Anan parla di “Corte di amici” quando questa corte si relaziona con Israele. Lo
stato italiano si sta comportando come se fosse parte di un conflitto in corso,
come se ci fossero due alleati, Italia e Israele, nel corso di un conflitto.
I materiali che sta usando la corte dell’Aquila sono in larghissima parte
forniti dai servizi segreti israeliani. Sono frutto di interrogatori che sono
stati estorti a diciassette palestinesi, arrestati o rapiti, due termini che
possiamo utilizzare indifferentemente in queste circostanze. Stiamo parlando di
prigionieri che sono stati deportati all’interno del territorio palestinese
occupato, quello che chiamiamo stato di Israele, e sono stati interrogati con le
modalità che le organizzazioni internazionali denunciano da decenni: violenze,
torture, intimidazioni, abusi, anche sessuali. La cosa grave è che la Corte
dell’Aquila ha ritenuto di poter assumere questo materiale come elemento
probante all’interno di un processo: in questo modo l’Italia, sulla base di
interrogatori estorti da una entità occupante a danno di uomini e donne sotto
occupazione militare, ha costruito un capo di imputazione e un processo a carico
di un comandante partigiano.
Samidoun Paris Banlieue: In tutti questi anni di detenzione, Georges ha sempre
chiesto, attraverso il suo avvocato, la liberazione. L’ultima sua richiesta è
stata valutata l’ottobre scorso, il 7, quindi anche in questo caso l’aspetto
politico del suo processo continua a essere chiaro, nel fatto che abbiano scelto
questa data. A febbraio il tribunale di Parigi si è dichiarato favorevole per
l’ennesima volta alla sua liberazione condizionata e all’estradizione in Libano,
e questa volta non ci sarà bisogno del del beneplacito del ministero degli
Interni, una condizione che era stata messa in passato e che aveva fatto sì che
l’estradizione venisse negata.
Questa volta la sua liberazione è stata condizionata al pagamento di
un’indennità ai familiari delle due vittime, che è una cosa che Georges Abdallah
non considera come giusta, data la natura politica del suo atto, che è un atto
per la liberazione del popolo palestinese e del popolo libanese. A fine giugno
arriverà la sentenza. Noi di Samidoun continueremo la campagna, che va ormai
avanti in maniera strutturata da più di vent’anni anni, per cercare di arrivare
alla fine, e speriamo di poter vedere Georges salire su un aereo e tornare a
casa sua nella valle del Beqa’, in Libano.
CFA: Sulla figura di Anan facciamo continuamente iniziative di approfondimento,
ma ci sforziamo sempre di metterle nel contesto della carcerazione, perché la
questione dei prigionieri palestinesi è una questione fondamentale. Subito dopo
il 7 ottobre ciò che è stato detto è che tutto era stato fatto per la
liberazione dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane; questo è
sempre avvenuto negli anni, a partire dagli Ottanta, quando si dirottavano gli
aerei: non veniva richiesta con quelle azioni la liberazione dalla Palestina dal
fiume al mare, veniva richiesta la liberazione dei prigionieri dalle carceri
israeliane e di altri paesi.
In Italia c’è grande supporto nella rete di compagni che si occupano di carcere
e detenzioni, ma soprattutto nel periodo in cui c’era il rischio di estradizione
di Anan abbiamo anche avuto il sostegno, per esempio, da parte di una
parlamentare dei 5 Stelle, Ascari, che si è spesa per la questione. Sappiamo
bene che il supporto che ci può arrivare da quest’area, anche quella
dell’associazionismo, della società civile, è un supporto finalizzato a far
uscire la questione dal nostro gruppo di compagni, a raggiungere un livello
mediatico più ampio. Abbiamo dei contatti anche con europarlamentari che hanno
espresso l’interesse a voler visitare Anan in carcere, ci auguriamo che questo
possa essere un apripista per una riflessione più politica.
SPB: La campagna per Georges è cominciata relativamente di recente. Una cosa che
ne ha aiutato lo sviluppo è stata proprio la lunghezza della sua condanna.
Parliamo di un militante politico arrestato negli anni Ottanta, in Francia, con
delle accuse assurde che lo collegavano all’uccisione di due diplomatici, uno
statunitense e uno sionista, due uomini che si occupavano peralto di affari
militari, erano attaché militari per le loro rispettive ambasciate.
Da subito era chiaro che si trattava di un processo politico, e la conferma è
arrivata anche decenni dopo, quando nel 1999, a seguito di pressioni dagli Stati
Uniti, il governo francese ha deciso di non liberare Georges. All’inizio degli
anni Duemila è cominciata la campagna, che in una prima fase è stata portata
avanti da organizzazioni come il Soccorso Rosso internazionale e altri compagni
come quelli del collettivo Palestine Vaincra, che tra l’altro è stato sciolto
recentemente dal governo francese dopo una battaglia legale durata un paio
d’anni. Parliamo di compagni che si trovano per lo più a Tolosa, e che sono
geograficamente più vicini alla prigione di Lannemezan.
Col tempo la campagna è cresciuta, ha coinvolto molte organizzazioni. Ha un
livello chiaramente politico, dovuto al fatto che Georges è un militante
comunista, che non ha mai rinunciato alle sue convinzioni, e che anzi anche dal
carcere ha sempre parlato e studiato, è intervenuto nel dibattito sui processi
di lotta in Francia, per esempio sul tema dei Gilet gialli, e che ovviamente si
esprime su tutto quanto succede in Palestina e Libano. E poi c’è un elemento che
riunisce le forze progressiste, che è quello di lotta contro il carcere, contro
la persecuzione politica.
Nel 2014 anche Ahmad Sa’dat, segretario generale del Fronte popolare per la
liberazione della Palestina, si è espresso pubblicamente per la liberazione di
Georges, ha scritto di lui come di un combattente della causa palestinese, parte
del movimento dei prigionieri, la cui liberazione è un elemento fondamentale per
la vita politica della Palestina.
Samidoun Banlieue è un gruppo decisamente giovane, ha la capacità di attrarre
soprattutto la gioventù araba di Parigi e delle banlieue circostanti. Abbiamo
compagni di varie estrazioni politiche che hanno la priorità di portare la voce
dei prigionieri palestinesi di tutte le fazioni; parliamo di compagni che sono
in quartieri popolari come Belleville, Ménilmontant, Massy, quindi la periferia
sud di Parigi, proprio per questo abbiamo scelto questo nome, perché la
composizione è quella e perché il nostro sguardo non è solo sulla città di
Parigi, ma su tutto quello che c’è che c’è attorno. (redazione napolimonitor)
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Intervista a Gian Luigi Gatta ordinario di diritto penale dell’Università di
Milano: “Per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare le
pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la
criminalità”.
di Mario Di Vito da il manifesto
Dieci incontri in dieci atenei italiani, da nord a sud, per spiegare come si
coniugano – e quando si scontrano – i principi costituzionali e la politica
criminale. Nei giorni in cui il decreto sicurezza viene convertito in legge dal
parlamento, intervengono così nel dibattito gli iscritti all’Associazione
italiana dei professori di diritto penale (Aipdp). “È una manifestazione di
impegno civico, vogliamo cercare di stimolare qualche riflessione tra gli
studenti, nell’opinione pubblica e, possibilmente, anche tra i parlamentari”,
dice al manifesto Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università
di Milano e presidente dell’Aipdp.
Professore Gatta, l’intenzione è ammirevole, però, almeno per quanto riguarda il
legislatore, non sembra ci sia tutta questa intenzione di ascoltare…
Purtroppo è vero, abbiamo visto che c’è stata una chiusura a ogni proposta di
modifica. Devo dire che mi sembra un po’ preoccupante questo voler andare avanti
sempre e comunque a colpi di maggioranza. Chi pensa e scrive le leggi dovrebbe
sapere benissimo che possono essere necessarie delle correzioni alle idee
originarie. Il dibattito in fondo serve anche e proprio a questo.
Il titolo dell’incontro che avete organizzato per domani a Napoli (ore 14,
nell’aula Pessina dell’Università Federico II) è “Populismo globale vs
garantismo penale”. Lascia intendere che non parliamo di un problema soltanto
italiano…
No, infatti interverranno anche associazioni e docenti dalla Spagna,
dall’Argentina, dal Brasile e dal Cile. Il populismo del resto è un fenomeno
globale: è molto diffusa l’idea che si possa attrarre consenso elettorale
attraverso la medicina penale, per così dire, come se fosse la cura a tutti i
mali. Noi in Italia abbiamo il decreto sicurezza, ma stiamo vedendo cosa accade
nell’Argentina di Milei, negli Stati Uniti di Trump, nell’Ungheria di Orbàn e
altrove. È una tendenza che riguarda tutto il mondo.
Come rispondere?
Il punto è che per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare
le pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la
criminalità. Già Cesare Beccaria legava la tranquillità pubblica alle politiche
attive e all’organizzazione: diceva che servivano più agenti di polizia,
maggiore illuminazione nelle strade… Bisognerebbe intervenire sull’educazione,
sulle situazioni di disagio sociale e fare investimenti.
Chi è al governo direbbe che su questo fronte è stato già fatto il decreto
Caivano…
Che ha soltanto aumentato il ricorso alla carcerazione, soprattutto per i
minorenni, per i quali al contrario bisognerebbe il più possibile evitare di
utilizzare questo strumento. Infatti, da quel decreto, gli ingressi negli
istituti penali minorili sono raddoppiati. È stata anche aumentata la pena per
lo spaccio di lieve entità, che oggi consente la custodia cautelare in carcere.
Mi pare che da un lato ci si lamenti dell’elevato ricorso alla custodia
cautelare mentre dall’altro, innalzando le pene, la si aumenta in continuazione.
Ma è un’illusione puntare sulla pena per risolvere i problemi sociali.
Eppure siamo sempre allo stesso punto…
Nel 2014 Papa Francesco incontrò i docenti di diritto penale e parlò proprio
della falsa convinzione di convinzione che attraverso la pena si possano
risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie
ci venisse raccomandata la medesima medicina. Disse che in realtà servirebbero
politiche sociali ed economiche. Ma tutte le riforme di cui parliamo sono a
costo zero o quasi. L’unico capitolo di spesa previsto dal decreto sicurezza
riguarda le bodycam per gli agenti. Mi pare un po’ poco…
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Nicoletta Dosio la storica attivista del movimento No Tav sta terminando un anno
di detenzione domiciliare per la sua lotta contro la linea ad alta velocità
Torino-Lione. Nella valle c’è timore per l’aumento dei cantieri e per
l’inquinamento ambientale, con il rischio di diventare un corridoio invivibile e
desertificato. Dopo la disillusione verso il ceto politico, resta l’attivismo
dal basso. “Il movimento è ancora vivo nonostante l’accanimento giudiziario nei
suoi confronti”
Intevista a cura di Fabio Balocco per Altreconomia
Incontriamo Nicoletta Dosio nella sua grande casa di Bussoleno (TO), in Val
Susa. Ancora più grande da quando è morto Silvano, il suo compagno di una vita.
Fuori casa sventolano tre bandiere: No Tav, Che Guevara, Palestina, a segnare il
luogo e la persona. Ci vediamo in casa anche perché Nicoletta è ai domiciliari,
a seguito di una delle tante condanne che l’hanno colpita in questi anni per la
sua lotta contro la “grande opera”.
Nicoletta, ancora pochi giorni e termina la detenzione domiciliare.
Esatto, un anno di domiciliari per quanto successe durante e dopo la marcia del
28 giugno 2015 da Exilles al cantiere di Chiomonte. Un anno dal primo giugno
2024 a fine maggio 2025. Era una marcia popolare, festosa che doveva concludersi
a Chiomonte con una spaghettata, danze e canti. La marcia è stata bloccata lungo
il percorso previsto e siamo stati oggetto di lanci di lacrimogeni. A quel punto
siamo stati costretti a rifare il percorso a ritroso, sotto il sole a picco di
un mezzogiorno d’agosto. Perciò siamo ritornati ai cancelli della centrale di
Chiomonte, da cui parte la “strada delle le vigne” che porta alle gallerie di
prospezione geologica finalizzate al progetto Tav. Ancora una volta abbiamo
trovato il percorso bloccato. A questo punto io e altri “vecchietti” abbiamo
buttato giù uno dei jersey che sbarravano la strada e per questo siamo stati
inseguiti e individuati dalle forze dell’ordine. Il capo d’imputazione era di
violenza a pubblico ufficiale, per il quale sono stata condannata agli arresti
domiciliari preventivi, ma io, ritenendo la misura iniqua, non l’ho rispettata e
volontariamente mi sono comportata come se la misura cautelare non esistesse. Da
qui una condanna per evasione che sto finendo di scontare ora.
Qual è lo stato di salute del movimento No Tav?
Il movimento è ancora vivo nonostante l’accanimento giudiziario nei suoi
confronti, continua a esistere e a resistere. Anche se la situazione a livello
generale è sempre più buia. Della vivacità del movimento ne è stata un esempio
la marcia del 10 maggio scorso da Traduerivi a Susa, una marcia molto
partecipata che ha visto presenti diversi sindaci della valle e anche tanti
cittadini di Susa, più preoccupati dei danni che il territorio subirà piuttosto
che orgogliosi della possibile stazione ferroviaria internazionale. In compenso
non c’era il loro sindaco. Quello che adesso preoccupa e contro cui si è
manifestato sono i cantieri aperti e che hanno intenzione di aprire, sia di qua
sia oltreconfine. Il tunnel non è ancora iniziato ma con i cantieri si stanno
già producendo disastri. Guarda l’autoporto di Susa, che è stato spostato a San
Didero, tra l’altro eliminando un bosco spontaneo che era sorto sui rifiuti
della vicina acciaieria. La zona già occupata dall’autoporto nel progetto Tav
dovrà diventare un enorme cantiere e, in particolare quella che fu la pista
“Guida sicura”, è stata individuata come deposito dello smarino (materiale di
scarto) proveniente dalle gallerie in costruzione nonché dei rifiuti già
stoccati a Salbertrand, che sono in buona parte pericolosi perché derivanti
dalla realizzazione della galleria stradale di Claviere, aperta nel 2006 in
funzione delle Olimpiadi invernali. Va tenuto conto che ogni cantiere non
significa solo consumo di territorio, possibile alterazione del regime delle
acque e polluzione, ma anche ulteriore militarizzazione e quindi limitazione di
spostamento delle persone. Oggi il movimento manifesta e si attiva contro la
grande opera ma anche contro i piccoli cantieri, temendo innanzitutto per la
salute della popolazione. C’è una forte preoccupazione sia per il consumo
dell’acqua e per la sua qualità (sono stati scoperti dal monitoraggio di
Greenpeace livelli elevati di PFAS), sia per la qualità dell’aria: il vento
dagli accumuli di rifiuti solleverà polveri contenenti amianto e uranio, veleni
che il vento porterà lungo tutta la valle e oltre. Senza contare l’inquinamento
dell’aria derivante dal traffico di mezzi pesanti. La preoccupazione del
movimento oggi è che la valle diventi un corridoio invivibile e desertificato,
che è poi quello che il sistema vuole. Invivibile, desertificato e anche
militarizzato. La repressione del movimento tra l’altro si sta esprimendo anche
nella politica di limitazione della libertà portata avanti da questo Governo. Ma
la repressione non ci ha vinto, non ci ha diviso come voleva chi comanda.
Il Comune di Bussoleno si è addirittura candidato per la prima stazione sul
versante italiano: un segno dei tempi?
Il mio Comune è sempre stato in prima linea nella lotta alla grande opera,
mentre oggi c’è una maggioranza Sì Tav che non solo è favorevole alla
realizzazione dell’opera ma si candida come sede della futuribile stazione
internazionale in alternativa a Susa, che vanta una sorta di diritto di
primogenitura per essere sempre stato un Comune favorevole all’opera. Il fatto
che il Comune di Bussoleno sia favorevole all’opera non significa che lo sia la
popolazione. Qui è andato a votare meno del 50% degli aventi diritto e la
maggioranza che è in giunta ha ottenuto il 29% dei voti. Grazie al sistema
maggioritario chi vince prende tutto. Bisogna sottolineare che ormai i Comuni
contano sempre di meno politicamente. Hanno poche risorse e le decisioni che
contano passano sopra le loro teste. Tra l’altro Bussoleno è favorevole alla
stazione, sembra invece indifferente al fatto che, a seguito dei lavori della
grande opera nella piana di Susa, verrà sospesa la linea ferroviaria
Susa-Bussoleno e sostituita con autobus, per chissà quanti anni, presumibilmente
per sempre.
Questo è uno spunto per parlare dei partiti, e in particolare del Movimento
cinque stelle, che in valle raccolse una valanga di voti ma che poi si rivelò
una grande delusione.
Personalmente non ho mai avuto fiducia nel Movimento cinque stelle.
Indubbiamente ha costituito per molti in valle una grossa speranza, perché si
presentava come partito anti-sistema in un momento in cui il sistema ci stava
schiacciando. Ma è anche vero che tante figure nel Movimento non provenivano
dalle nostre lotte, non erano radicate sul territorio ma coglievano solo
l’occasione ghiotta di entrare nella politica attiva. Ma non si può nascere dal
nulla come parlamentare. Va sottolineato che i cinque stelle hanno fatto delle
scelte sbagliate a livello nazionale, su tutte la coalizione con la Lega di
Matteo Salvini per il primo governo di Giuseppe Conte, causando una diaspora di
parlamentari verso altre formazioni. Va aggiunto che molti esponenti dei cinque
stelle hanno fatto delle scelte in contrasto con i principi del Movimento,
riciclandosi per lavorare in alcuni settori “problematici”.
Finiamo parlando di te. Silvano è morto ma ha lasciato una bella eredità: uno
spazio comune di fronte all’osteria della Credenza.
Iniziamo con il dire che l’osteria la Credenza l’abbiamo fortemente voluta io e
Silvano nel 2004: è un’osteria ma anche e soprattutto un luogo di ritrovo per il
movimento No Tav. Si chiama Credenza non tanto perché il locale ospita una bella
e vecchia credenza ma in ricordo della “regola della credenza” di Danilo Dolci:
“da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Una
regola che fu fatta propria anche da Marx per prefigurare l’essenza del
comunismo. Di fronte all’osteria Silvano ha voluto acquistare uno spazio da
mettere a disposizione per le iniziative di cultura, di solidarietà e di lotta.
Uno spazio che, secondo la sua volontà, avrebbe dovuto ospitare anche un piccolo
museo della cultura contadina di montagna, a testimonianza del lavoro duro,
della vita povera e tenace, di quel “mondo dei vinti” al quale appartenevano
anche i suoi genitori, che abitavano qui sopra, nella montagna dell’Indiritto di
Bussoleno. E io voglio che questa sua volontà diventi realtà.
Un’ultima domanda che esula un po’ da questa intervista. Che cosa stai leggendo?
Sto studiando le opere del filosofo Walter Benjamin, in vista di una relazione
che dovrei tenere in autunno al Polo del ‘900 di Torino, nell’ambito delle
iniziative politico-culturali organizzate dalla sezione torinese dell’Anppia
(Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti).
Contemporaneamente sto leggendo il libro di Giuliano Giovine, una ricerca
storica di due anni fa molto documentata e appassionata sui bottai e piccoli
vignaioli delle Langhe: una realtà operaia e contadina prima sfruttata e poi
spazzata via dalla grande industria del vino. Si intitola “Re dei lavoratori e
re dei vagabondi. I bottai di Canelli e dell’Astigiano”. Poi leggo poesie per
tenermi compagnia e per mantenere in esercizio la mente, studio a memoria le
filastrocche di Gianni Rodari. Siamo persone vecchie ma non arrese.
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Intervista a Federico Giusti attivista dell’Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e dell’università sulla proposta di ripristinare
la leva obbligatoria
Si torna alla leva obbligatoria?
La leva obbligatoria non esiste dal 2005 in Italia e sopravvive solo in alcuni
paesi della Ue, tutte le altre nazioni hanno scelto l’esercito professionale. La
fine dell’esercito di leva rappresentava una svolta epocale dettata dai contesti
storici e geopolitici in evoluzione e dai processi tecnologici che andavano
rivoluzionando anche il settore militare.
I Comuni stanno completando le procedure per l’ aggiornamento delle liste di
leva, i nominativi di tutti i cittadini maschi di età tra i 17 e i 45 anni come
prevede il D.lgs n. 66 del 2010 (il Codice dell’ordinamento militare). Che poi
questo aggiornamento sia funzionale a un futuro ripristino della leva lo
vedremo, noi pensiamo che l’esercito professionale resti la struttura portante
per l’intero sistema s.
Ma l’esercito professionale come nasceva?
Dalla fine dello scontro Ste ed Ovest e dal 1989, se i vari paesi europei si
sono convinti, nell’arco di pochi anni, di superare la leva la spiegazione sta
proprio nell’evoluzione dello stesso concetto di guerra per il quale servivano e
servono elites militari di professione, addestrate e formate anche sul piano
ideologico. E una volta cessata la attività militare queste elites avevano e
hanno una corsia preferenziale per accedere ai concorsi nella PA e non solo
nelle forze di polizia. La riforma dell’esercito faceva parte di un disegno
complessivo, eliminando la leva non rimuovevi il militare dalla società ma
semmai andavi a costruire le basi di un processo di lenta e inesorabile
militarizzazione .
Con la guerra in Ucraina sono cambiati alcuni scenari da qui scaturisce la
necessità di avere organici numerosi, da impiegare in guerre logoranti che si
trascinano per anni con la occupazione e il presidio di vaste distese
territoriali.
Si parla di ruolo ideologico della leva
E’ indubbio che la leva svolga anche un ruolo ideologico, di fedeltà passiva
alla idea di patria che poi rappresenta il terreno ideologico sul quale si
costruiscono teorie e pratiche militariste e guerrafondaie. In una fase storica
come la nostra non ci sono poi le contro indicazioni degli anni Settanta e
Ottanta, per capirci ragioni etiche, morali e politiche così forti da favorire
la renitenza alla leva, l’obiezione di coscienza e una crescente disaffezione
verso la nozione di patria e il ruolo delle forze armate.
Dopo il 1989, anche a destra, il fascino per la divisa allora era entrato in
crisi, non c’era più da presidiare i confini difendendoli dalla minaccia dei
paesi socialisti, iniziavano i discorsi sulla riduzione della spesa pubblica e
l’idea che il vecchio continente avesse bisogno di un esercito professionale
come gli Usa. Dubito tuttavia che si possa paragonare un militare di professione
ad uno di leva, anche sul piano delle motivazioni ideologiche alla base della
sua scelta, parliamo di scenari ben diversi che poi mutano anche a seconda dei
contesti storici. E il ruolo dell’esercito professionale, dei riservisti (di cui
parleremo dopo) resta ben diverso da quello dell’esercito di leva.
Veniamo alle proposte di legge
Oggi la Lega avanza una proposta di legge per ripristinare la leva obbligatoria
e altre forze di destra si fanno promotori di analoghe istanze in altri paesi UE
Un servizio di leva per 6 mesi, nella propria Regione di residenza impiegando
ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 26 anni, Per gli obiettori di
coscienza ci sarà il servizio civile di durata identica occupandosi della tutela
del patrimonio culturale e naturale, di soccorso pubblico e Protezione civile.
E per chi si sottrarrà alla leva e al servizio civile ci sarà una accusa penale
ai sensi dell’articolo 14 della legge 230 del 1998 con la reclusione da sei mesi
a due anni.
Una proposta più completa della mini-naja proposta da La Russa ma tale da
provocare qualche perplessità anche a destra, almeno tra i fautori dell’esercito
professionale convinti che una leva obbligatoria rappresenti un eccessivo
incremento delle spese senza portare benefici reali ai dispositivi militari.
Tenete conto che in Germania sono i verdi a proporre un sistema analogo, i verdi
che per quanto guerrafondai non sono annoverabili nel fronte sovranista. Giusto
a ricordare che le distinzioni quando si parla di militare sono talvolta fallaci
e fuorvianti.
A detta di alcuni settori della nostra stessa società oltre a una parte della
classe politica sarebbe invece auspicabile il modello israeliano con la
militarizzazione di tutta la società e la istituzione della Riserva operativa in
cui far confluire ex militari che dopo aver trovato un diverso impiego sono
disponibili a essere richiamati, con giustificazione al lavoro, 2 o 3 mesi all’
anno per addestramento o emergenze. Questi riservisti li ritroviamo nella
occupazione di terreni e case palestinesi per favorire gli insediamenti
coloniali e per quanto impopolare sia oggi il premier israeliano nel suo stesso
paese la stragrande maggioranza della popolazione risponde con solerzia alle
chiamate del Ministero della difesa
Una ulteriore spiegazione per il ritorno in auge della leva potrebbe essere
anche motivata dal continuo e costante calo degli organici militari (dai 190
mila nel 2010 siamo passati a 154 mila nel 2024 e senza arruolamenti ulteriori
ci troveremmo da qui a 6\7 anni l’età media delle truppe attorno ai 50 anni) che
indurrebbe a mantenere da una parte l’esercito professionale ma dall’altra anche
qualche forma di leva prolungata, o di riservisti per destinare questi ultimi a
operazioni sul territorio nazionale che vanno dall’ ordine pubblico alla lotta
agli incendi, dalla protezione fino al presidio del territorio ricordando che
l’Operazione “Strade sicure”, impiega circa 7mila soldati che poi verranno a
mancare in eventuali scenari di guerra.
Quindi un uso dei militari anche ordine pubblico?
Se ne parla con sempre maggiore insistenza, senza dubbio spenderemo sempre più
soldi pubblici per il militare, se mancheranno le risorse andranno a prendere
dal welfare, poi non dimentichiamo la Bussola europea che prefigura forze di
intervento rapido a tutela degli interessi comunitari e per questo genere di
azioni servono professionisti…
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(disegno di cyop&kaf)
Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per
parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio
articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la
città”, ai tempi del mensile cartaceo.
Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene:
Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai
partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di
seguito.
* * *
Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una
cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il
momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la
differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della
ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura
angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane
negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni,
raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui:
rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e
reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre
che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America
Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe
– leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire
gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse
dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che
per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera,
pubblicando libri letti da generazioni.
«Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di
letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto
perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli
straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo
lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai
preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai
parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo.
Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi
interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista
radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi
troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la
trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la
performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è
un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il
cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di
partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano
tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due
persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium
che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il
rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu
aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica
che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la
televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che
riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva
all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di
ascoltare.
«Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la
capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui
parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno
dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro
sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la
sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa
che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello
che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai
attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo
di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la
capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la
presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire.
Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma
significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le
società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro.
«Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le
mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard
Times, Terkel cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più
problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande
depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è
questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura
questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti
delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente,
il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael
Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale
proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel
fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a
me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non
sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario
mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è
l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti
quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James
Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone.
«La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta
come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte
della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In
questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi
interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce
dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti
nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto
Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa
dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il
grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande
che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti
dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con
un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a
cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul
monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per
l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi
dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e
poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio
perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione,
di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs
Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di
umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene
fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero
dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una
rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un
punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la
relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in
cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te
che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e
resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli
anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times,
dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di
chiarire certi concetti metodologici.
«Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che
hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi
contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione.
Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come
trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione,
e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con
il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un
tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora
questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me
non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o
ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una
modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha
visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto,
cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della
narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza.
Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare
le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri
dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può
raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto
delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve
la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu
devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio
che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per
dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non
perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle
cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a
uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio
che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul
lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare
come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in
forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un
lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il
corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai
veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè
o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della
colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora
non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più
complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a
di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due
campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera,
intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e
l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di
qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo.
«Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di
ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non
sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei
consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la
persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La
dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in
conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto
ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli
Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo:
tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la
pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto
molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era
andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di
quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu
vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco
di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione
di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che
continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho
cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E
mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso
che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali
meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in
miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti
civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che
faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di
Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai
luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo
per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti.
Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto
di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo
storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono
loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in
grado di scrivere niente.
«Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in
due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi
sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una
tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia
persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce,
ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono
in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che
abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la
comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni
ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi
le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono
interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel
libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che
attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione
complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia
ma era diventato un racconto condiviso, comune».
Intervista a Leonardo Bertulazzi, 74 anni sta scontando i domiciliari in
Argentina e rischia l’estradizione in Italia: «Ero un rifugiato, poi è arrivato
Milei…». Deve scontare 27 anni, ma non ha reati di sangue. L’ultima parola alla
Corte suprema
di Mario Di Vito da il manifesto
Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua
fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse
con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il
sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di
sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali:
due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina.
Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato
arrestato.
Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso
all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città
in cui vive dal 2002.
«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al
manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento
repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò
un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan
todos era lo slogan».
E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e
iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i
vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme
di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo
lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta
d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di
quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una
campagna in mio favore.
E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un
condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con
la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico,
perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i
processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le
condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della
giustizia.
Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho
cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un
grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria
con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti
musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos
Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due
effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro
di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.
Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo
si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione
che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha
espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso
con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si
percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che
la tortilla se de vuelta.
In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi
della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando
non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano
unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che
affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione
della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità
che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non
sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto
più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna
contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza.
Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi
unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo
già lasciato il paese da anni.
La procura di Genova scrive: «È ragionevole riconoscere che nessun elemento allo
stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e
delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua
contumacia».
Lo stesso giudice argentino che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la
richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo
che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura
che avrò diritto a un nuovo processo.
Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi
ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria,
anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare
l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la
richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma
ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si
abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova
presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale
giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di
essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un
nuovo processo.
Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per
ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è
apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di
10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha
determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava
conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e
stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia
generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano
studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti
antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è
l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto
“più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli
emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta,
mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il
fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non
si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro
che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che
hanno provocato il rigurgito fascista.
Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo,
per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel
periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi.
Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta
violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere
che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa
considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il
tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di
piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.
Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un
avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno
2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23
febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,
la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto
a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura
di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la
prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che
si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era
stato preso in considerazione.
Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.
La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata
nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato
da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi
volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un
dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai
più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il
perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la
prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare
la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.
Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di
qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si
erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi.
L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito.
Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato
in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza
diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho
pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho
vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua
immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni
esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello
che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.
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Intervista a Mimmo Lucano, per quattro volte sindaco di Riace e ora parlamentare
europeo. Odiato e perseguitato non soltanto da Salvini e dalle destre ma anche
da chi, nel centrosinistra, pensa che l’accoglienza sia “pericolosa” e faccia
perdere le elezioni. Storia di un uomo buono e di una speranza: esportare in
Europa il “modello Riace”
di Anna Pizzo da DINAMOpress
Riace si è fatta conoscere in tutto il mondo per tre dei suoi cittadini: Etocle,
Polinice e Mimmo. I primi due sono stati ripescati nel 1972 nel mare là davanti
e da allora tutti li chiamano “I bronzi di Riace” anche se nel paesino calabrese
sono rimasti ben poco, subito trasferiti nel museo di Reggio Calabria perché una
tale scoperta non poteva restare in uno sperduto paesucolo di 1.760 anime
spopolato dalle continue emigrazioni forzate. Il terzo è Mimmo Lucano, classe
1958, molto più giovane dei suoi due illustri concittadini ma altrettanto
imponente. Anzi “ingombrante”. A raccontarlo è lui stesso alla vigilia di una
delle ennesime imprese impossibili: quella di trasformare il suo “modello Riace”
in un progetto destinato a diffondersi in tutta Europa.
Perché dici di essere ingombrante?
Dal 2004 al 2014 per tre volte ho fatto il sindaco ed è quello che so fare
meglio perché mi piace e perché credo di saperlo fare, anche se una certa
magistratura la pensa diversamente. Ma di questo parliamo dopo. Ora ti dico
perché ho capito di essere considerato uno scomodo. Quasi al termine del mio
terzo mandato ho chiesto un incontro con l’allora presidente della Regione
Calabria, Mario Oliverio, per capire il senso delle scelte politiche dissennate
che l’allora governo di centrosinistra stava compiendo sui migranti. Chiedo che
interceda per farmi incontrare il ministro dell’interno, Marco Minniti, perché
noi, che dal 2007 avevamo partecipato all’accoglienza dei kurdi sbarcati,
stavamo facendo un magnifico lavoro, avevamo trasformato il nostro paese di
poche anime in un luogo vivo, ma non avevamo risorse e il governo stava
tagliando ulteriormente i fondi. E, aggiungo, addirittura una rivista americana
aveva citato la nostra esperienza. Forte di queste mie ragioni chiedo a Oliverio
di mettermi in contatto con il ministro dell’interno e lui alza il telefono e
chiama Minniti. Per tutta risposta quello gli dice che il partito, che sta
indietro nei sondaggi, non può dare spago a idee come quelle del sindaco che
pratica una accoglienza pericolosa e gli consiglia di non avere niente a che
fare con me.
Dalla accoglienza “pericolosa” ai procedimenti giudiziari, il passo è breve:
alla fine del 2016 la relazione del prefetto di Reggio Calabria, Michele Di
Bari, parla di anomalie nel funzionamento del sistema, che portano ad aprire una
indagine su di te. Vieni accusato di truffa e concussione, parte il processo
Xenia e poco più di un anno dopo vieni sospeso dalla carica di sindaco.
Esatto. Nel 2021 arriva la condanna in primo grado a tredici anni e due mesi.
Nemmeno due anni dopo in appello la condanna viene ridotta a un anno e sei mesi
con la sospensione della pena. Qualche giorno fa, la Cassazione ha confermato
quella condanna per un solo procedimento. Perché ho resistito? Per molte
ragioni, forse soprattutto perché un illustre giurista ed ex-magistrato come
Luigi Ferraioli mi diceva, con quel suo tono pacato e fermo che si trattava di
una aberrazione giuridica. Così, ho vissuto fino al 2014: da una parte i
ripetuti agguati di Salvini che è venuto un paio di volte per cogliermi in
fallo, dall’altra tanti riconoscimenti. Anche Giorgia Meloni ha voluto dire la
sua, all’indomani della sentenza, scagliandosi contro «l’idolo della sinistra
immigrazionista». Che sarei io.
Beh, un po’ famoso sei: nel 2010 Wim Wenders costruisce sulla tua figura il
cortometraggio Il volo. Nel 2016 vieni inserito dalla rivista americana
“Fortune” tra i cinquanta leader più importanti del mondo. E poi premi,
riconoscimenti. Fino alle elezioni europee del 2024.
Io volevo fare il sindaco, però quando Alleanza Verdi Sinistra mi propone la
candidatura alle Europee decido di accettare perché mi sembrava di poter
continuare il mio lavoro, anche se da una diversa postazione. Duecentomila
persone mi votano e qualche mese più tardi, torno anche a fare il sindaco del
mio paese. Sai dove ero stamattina quando mi hai chiamato? Ero a San Ferdinando,
a qualche decina di chilometri da qui, assieme ad Alex Zanotelli e tanti altri
per dire che quell’orrore di baraccopoli messa su sei anni fa per i braccianti
africani va smantellata. È solo una delle vergogne di questo territorio. Te ne
dico un’altra, quella di Ahmed, arrestato con l’accusa di essere scafista. Tutto
falso. Malato terminale di tumore finalmente viene portato in ospedale a Locri.
Troppo tardi. Ancora una: i progetti di accoglienza sono stati chiusi per noi da
quando è cominciata la mia vicenda giudiziaria e mai più riaperti. Sai come
faccio ad andare avanti? Con i soldi che mi dà il parlamento europeo.
Infine, come si sta in questa doppia dimensione europea e locale?
Io sono nato e cresciuto proprio dentro la doppia dimensione del locale e
globale e del partire dal basso e dello stare dalla parte degli ultimi. Ovunque
mi trovi, continuerò a farlo perché è la cosa migliore che posso fare. Quanto
all’Europa, mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua ma la speranza mi fa muovere.
In fondo, io faccio parte di quelli che sono abituati a credere all’impossibile.
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Intervista a Kenobit sul libro:
LIBERARE IL MIO SMARTPHONE PER LIBERARE ME STESSO è un breve libro che affronta
l’impatto degli smartphone sulle nostre vite. Contiene riflessioni sulla natura
oppressiva ed estrattiva delle app più diffuse e propone un metodo concreto per
liberarsi dalle catene digitali e vivere meglio.
https://www.kenobit.it/libri-e-fanzine/
https://livellosegreto.it/about
A proposito degli smartphone senza google https://www.degoogled.es/
Appuntamenti
> A-K-M-E – Chiacchierata sul progetto ULA con Autistici/Inventati
https://www.ilcambiamento.it/eventi/digital-detox-day-come-ridurre-la-dipendenza-dal-proprio-telefono-cellulare
Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del
ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e
allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della
complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente
controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a
essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista
a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi
dell’Insubria
di Emma Besseghini da Altreconomia
Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha
annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città
considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti
considerati “pericolosi”.
La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del
ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia
di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza.
Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che
-anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno
godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a
ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di
multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono
l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici.
Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero
avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano
abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia
presso l’Università degli Studi dell’Insubria.
Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto
urbano?
Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in
passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La
possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in
maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha
l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un
risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro
dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a
rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo
svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro
accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a
pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e
ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri
perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di
città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico
eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il
problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che
non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta
ulteriormente.
Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio
pubblico?
L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che
cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici,
nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di
praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una
molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve
essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo
di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione.
In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica?
Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di
accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo
“aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio
vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello
che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta
delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con
l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di
comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più
persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a
nostro piacimento.
Come stanno cambiando le città?
Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi
il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso
nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del
“ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si
tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali:
tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate
-e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari,
nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come
la segregazione scolastica nei quartieri periferici.
I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei
delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che
si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di
sicurezza?
Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da
quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche.
Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare
ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente
cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle
ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora
bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di
appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione
sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro
soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano
guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso
di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione
collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può
permettere, magari) diventa prima o poi paura.
Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più
controllata dalle forze dell’ordine?
Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura
sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una
minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma
del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza
e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non
favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti
emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione,
l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento
straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi
che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi,
con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove.
> Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie
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> Le zone rosse – (S)Margini – 01
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Intervista a Maysoon Majidi
a cura di Silvio Messinetti per il manifesto
Fuori dal tribunale di Crotone Maysoon Majidi ieri è uscita mano nella mano con
il fratello Rezhan. Commossa e raggiante per l’assoluzione con formula piena.
Ha citato, dopo la lettura della sentenza, il poeta palestinese Mahmoud Darwish.
Perché?
Darwish viveva l’esilio come atto poetico e politico di resistenza di fronte a
una realtà storica in cui libertà individuale e liberazione collettiva sono
ancora da raggiungere. Io oggi ho raggiunto finalmente la mia libertà. Ed è un
giorno per me indimenticabile.
A chi dedica questa assoluzione?
A chi mi è stato vicino in questa odissea, a tutti i rifugiati politici, al mio
avvocato, alla mia famiglia che sta soffrendo per me da tanti mesi. Ma anche ai
politici e ai tanti amici che ho conosciuto in questi mesi. I momenti passati in
carcere sono stati durissimi. La prima cosa che pensi quando arrivi in un Paese
democratico è alla libertà. Quando ho fatto lo sciopero della fame in carcere
era perché non avevo avuto un’udienza, volevo che qualcuno ascoltasse la mia
storia. Non ho mai incontrato un interprete. Non potevo parlare con i miei
familiari. Ho fatto il viaggio con mio fratello e non ho potuto parlarci per due
mesi. Non sapevo nulla di nessuno. Pensavo che tutte le 77 persone che
viaggiavano con me fossero state arrestate perché non sapevo il motivo della mia
detenzione. Se non avessi avuto intorno una rete di sostegno, con tante lettere
e visite, non avrei saputo come fare per combattere lo scoramento.
Le parole dell’accusa l’hanno colpita?
In questi mesi, e ascoltando la pm, ho molto sofferto per quello che sentivo
dire e leggevo sul mio conto. Secondo i giudici avrei dato ordini sulla barca,
consegnato acqua e cibo. Nulla di più falso. Se ci fosse stata la possibilità,
avrei aiutato qualcuno ma avevamo i nostri zaini con viveri e acqua. Nessuno
dava niente ad alcuno. Dunque bugie su bugie. Un incubo che temevo non finisse
mai.
Da qualche settimana vive con suo fratello a Sant’Alessio in Aspromonte, pensa
di restare a vivere in Italia?
Il progetto Sai dentro cui siamo stati inseriti è stimolante. Ho ripreso a
scrivere e a pensare a nuovi progetti artistici. Per adesso mi godo questo
grande giorno.
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