
Ein, Zwei, Polizei
Osservatorio Repressione - Thursday, February 13, 2025Nella serie Acab le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa finiscono per essere considerate come l’unico argine a una generica «rabbia», impolitica ed effetto di una frustrazione generalizzata
di Enrico Gargiulo da Jacobin
A quindici anni dalla pubblicazione di Acab. All cops are bastards, libro di Carlo Bonini che racconta le vicende di alcuni membri del Reparto mobile di Roma, e a tredici dal film che ne è stato tratto, diretto da Stefano Sollima, è disponibile sulla piattaforma Netflix l’omonima serie tv. Un «prodotto» molto pubblicizzato, lanciato sul mercato dell’intrattenimento come logica continuazione del romanzo e della sua trasposizione cinematografica. La produzione, infatti, è dello stesso Sollima e tra le cinque persone chiamate a scrivere la sceneggiatura figura Bonini.
L’operazione sembra orientata a costruire un’egemonia non soltanto artistica ma anche culturale. La serie, diretta da Michele Alhaique, aggiorna in senso spazio-temporale il racconto delle vicende della celere romana, consolidando la visione politica e morale già proposta in precedenza. Al di là di una facciata cruda, cinica e iperrealistica, Acab condivide lo stesso carattere dell’opera di carta e di quella cinematografica, offrendo una lettura della società contemporanea che finisce per legittimare un certo tipo di ordine sociale.
La patologizzazione del conflitto sociale
La struttura delle serie, di tipo circolare, è significativa: le vicende della squadra di celerini romana iniziano e finiscono in un tunnel: nel cantiere dell’alta velocità durante le mobilitazioni No Tav in Val di Susa, nella prima scena, e in prossimità della stazione Termini a Roma durante la notte di Capodanno, nell’ultima. Ad accomunare l’alpha e l’omega di Acab è un senso di oppressione e inquietudine, che fa da contesto e preludio all’inevitabile aggressione subita dalla polizia: folle inferocite di «facinorosi» vestiti di nero attaccano i protagonisti della serie, sfogando una rabbia incontrollabile.
Lo schema narrativo è ben noto a chi conosce il romanzo e il film. Il vero protagonista del racconto è l’odio: un sentimento generalizzato e non meglio definito che accompagna, o per meglio dire avvolge, l’intera vicenda, assumendo la consistenza di una malattia capace di contagiare le diverse componenti della società, inclusa la polizia. Le ragioni dell’odio, tuttavia, non sono specificate. Le cause politiche ed economiche alla base dei conflitti e delle violenze sono tenute al margine della narrazione: emergono a tratti, ma in maniera frammentata e poco credibile. Del resto, non sono rilevanti nell’economia del racconto: la macchina narrativa, per funzionare, non ha bisogno di esplicitarle, dal momento che il conflitto sociale è patologizzato, non analizzato in profondità. La società, in altre parole, è rappresentata come intrinsecamente malata in senso morale. Di questo stato patologico bisogna soltanto prendere atto, accettando ciò che ne consegue. Inclusa la celere, che è parte integrante della «cura» contro il disordine.
La patologizzazione dell’odio e la rappresentazione della polizia come unico argine al caos fanno perno innanzitutto sull’isolamento. I Reparti mobili si trovano quasi sempre in radicale inferiorità numerica, in uno stato di totale abbandono: sono l’ultimo – e l’unico – baluardo di uno Stato che, per il resto, è del tutto assente. Meno nella prima scena ma in crescendo nelle successive, la squadra al centro della serie è sola contro soggetti che la odiano. La solitudine è percepita anche nei confronti degli altri apparati dello Stato, a cominciare dai funzionari – esterni al Reparto mobile – che dirigono l’ordine pubblico, per finire con i magistrati e con i politici.
L’isolamento non riguarda solo la vita professionale, ma anche quella privata. Ricalcando un consumato cliché narrativo, i protagonisti di Acab, al pari di quelli di molti romanzi noir, si sentono soli e incompresi dalle famiglie. Sociopatie e traumi familiari sono la regola, non l’eccezione. Il caposquadra Ivano Valenti, detto «Mazinga», ha un figlio che non gli rivolge la parola, deluso dal comportamento del padre che, anni prima, ha abbandonato lui e la madre, poi deceduta. Salvo, uno dei celerini, ha una relazione a distanza con una donna inesistente: come si scopre, è vittima di una truffa online finalizzata a ottenere regali e soldi. Marta, la poliziotta donna, ha una figlia di tredici anni con un uomo che, prima della separazione, la picchiava, tanto da arrivare ad accoltellarla, e che, ora, vorrebbe essere sempre più presente nella vita della ragazza. Anche Michele Nobili, un poliziotto «democratico» appena trasferitosi dal Reparto mobile di Senigallia, che dalla seconda puntata guida la squadra romana protagonista del racconto, inizialmente appare come il perfetto padre di famiglia, ma poi vede disfarsi il suo idillio familiare nel momento in cui la figlia viene violentata: non riuscendo ad affrontare la situazione, se ne va di casa.
Oltre all’isolamento lavorativo e familiare, un altro elemento centrale nello schema narrativo è il contagio. La traiettoria di Nobili lo dimostra in maniera cristallina. Nella prima serata passata in caserma dopo aver lasciato la famiglia, il nuovo caposquadra incontra Salvo, il quale gli esprime il suo dispiacere per quello che è successo a sua figlia e gli propone di uscire con il resto della squadra. Nobili declina la proposta e gli fa vedere la foto del violentatore, raccontandogli che lo ha seguito e l’ha visto sorridente e felice: un figlio di papà che casca sempre in piedi. Salvo e gli altri, allora, decidono di fare un «regalo» al loro caposquadra: al rientro dalla serata, lo svegliano e lo invitano a seguirli in un capanno isolato. Lì si trova il ragazzo: lo hanno rapito, legato e bendato. Nobili può scegliere se dare sfogo o no alla sua vendetta. Lo fa, lasciandosi contagiare dal resto della squadra. Poco dopo, ubriaco, lo ammette con Mazinga mentre stanno rientrando a casa dopo la cena di Natale in caserma:
«Tu avevi il comando. Sei tu che hai dato l’ordine perché c’era… c’era l’amico che stava a terra. Questa si chiama vendetta Mazì».
«Bravo, così si chiama».
«Non è fratellanza, questa. Questa… Questa è la fine di tutto. Ma tanto ormai mi avete contagiato, sono diventato come voi».
La de-politicizzazione
Rappresentare l’odio come una patologia che infetta la società intera e si trasmette anche a chi deve tutelarla deresponsabilizza le azioni della polizia e de-politicizza le ragioni del conflitto. In altre parole, sposta il discorso dal piano politico a quello morale. Si tratta di uno schema consolidato, che segna tanto il romanzo quanto il film ma che viene riproposto ora in una forma aggiornata. Il libro di Bonini, infatti, esce in uno scenario italiano e internazionale diverso da quello attuale. Nel 2009, la crisi economica era appena esplosa e doveva ancora investire l’Italia. Una delle questioni al centro dell’agenda politica nel momento in cui il racconto è ambientato era l’entrata della Romania nell’Ue, che aveva scatenato un’ondata di panico morale a cui il governo Prodi, nella breve legislatura 2006-2008, aveva risposto con un decreto sicurezza firmato dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato. Le «cacce al rumeno» erano la regola in quel periodo. A Roma, in particolare, la campagna elettorale per le elezioni comunali, che vedeva contrapporsi Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, era stata condizionata in maniera decisiva dallo stupro e dall’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di una persona rumena che viveva in un insediamento informale. Il successo della destra nel 2008 non è avvenuto soltanto nella capitale: la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni politiche dopo una campagna elettorale in cui l’idea di sicurezza ha giocato un ruolo di primo piano.
Il romanzo e il film mettono al centro della scena il presunto «degrado» dovuto alla presenza massiccia della popolazione rumena, trattandolo con toni tra l’allarmistico e il moralistico. Inoltre, evocano il G8 in modo esplicito: buona parte della squadra protagonista, infatti, ha partecipato alle giornate di Genova. L’eredità di quanto accaduto durante il vertice del 2001 è talmente pesante che il film si chiude con una sorta di momento di nemesi. La notte della morte di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un agente della polizia stradale in un Autogrill nel 2007, la squadra protagonista del racconto si trova isolata vicino allo stadio, in Piazzale Maresciallo Diaz – a cui è intitolata la scuola genovese della «macelleria messicana» –, e sente sullo sfondo le urla dei tifosi inferociti in cerca di vendetta.
Nella serie, invece, l’eredità del G8 è ormai lontana, se non del tutto assente. Anagraficamente, soltanto alcuni dei personaggi possono aver partecipato agli eventi di Genova. Tra questi Mazinga, unica presenza a garantire continuità con il film. Le giornate del luglio 2001, peraltro, non sono mai richiamate in modo esplicito. Lo scenario politico, più in generale, è cambiato. Il testa a testa tra centro-destra e centro-sinistra che aveva segnato la seconda metà degli anni Novanta del XX secolo e i primi anni Duemila si è risolto, di fatto, in uno spostamento a destra dell’intero asse parlamentare. Il fascismo nella polizia non è un più un tema oggetto di attenzione specifica. Il che non sorprende, dato che il mondo al cui interno operano i celerini protagonisti della serie sembra essere completamente spoliticizzato: un approccio morale e non politico al conflitto sociale è ormai normalizzato. Inoltre, le questioni al centro dell’agenda politica sono in parte diverse: la questione ambientale, quella abitativa e lo sciovinismo del welfare sono sempre più in primo piano, ma come dati di fatto, non come un aspetto della società su cui è possibile incidere. Infine, l’ingresso delle donne nei Reparti mobili è testimoniato dalla figura, centrale, di Marta.
Legittimare la violenza delle forze dell’ordine
In uno scenario del genere, i protagonisti di Acab riproducono una struttura tipica del romanzo moderno: sono eroi problematici in un mondo corrotto e degradato che cercano, in maniera confusa e disperata, un riscatto laddove un cambiamento radicale è impossibile e, forse, neanche voluto. Se è vero che ogni opera di finzione letteraria esprime in modo più o meno diretto un inconscio politico, la serie estremizza una visione della società che, dietro un presunto realismo, nasconde una difesa dell’ordine o, meglio, dei soggetti chiamati a tutelarlo. Con tutti i loro difetti e i loro tormenti interiori, i protagonisti di Acab incarnano, anche attraverso un senso di appartenenza al gruppo ripetutamente ostentato nelle varie puntate, valori positivi in un contesto politico e sociale irrimediabilmente corrotto, che non può essere cambiato.
E infatti, nonostante le parole che Salvo rivolge a Nobili durante la cena di Natale – «com’è quel fatto, Michè? Quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È una stronzata, quando tocchi il fondo, là rimani» – i diversi personaggi trovano un riscatto morale. Il punto, però, è come lo trovano, dato che la loro redenzione è segnata da azioni all’insegna del machismo e della maniera forte. Al riguardo, il tema del genere, inserito esplicitamente nella serie e trattato da una prospettiva che sembra quasi volutamente antifemminista, è rivelatore di tutte le ambiguità di Acab e, più in generale, di quanto la presenza femminile nelle opere poliziesche sia ammessa se e in quanto le protagoniste si comportano come, se non peggio, dei loro colleghi maschi. Marta risolve i problemi con il suo ex quando si accorge che questi picchia anche l’attuale compagna. Decide allora di aspettare la donna fuori dal supermercato in cui lavora e, dopo averla fatta salire in macchina con una scusa, la forza in maniera molto dura a raccontare i dettagli delle percosse subite. Sua figlia, seduta sul sedile posteriore, è costretta ad ascoltare: è lei il vero oggetto della «lezione». Nobili, dal canto suo, riceve una telefonata mentre sta per prendere servizio la notte di capodanno. Sua figlia gli fa promettere che il suo violentatore pagherà per quello che ha fatto. Il celerino le risponde che sì, lo farà. La sua risposta arriva dopo che il rapimento e il pestaggio sono già avvenuti.
Le modalità con cui i protagonisti della serie agiscono, cercando di dare sostanza ai valori che li orientano, esprimono dunque un orizzonte di senso piuttosto problematico. La violenza, psicologica e fisica, sembra essere l’unico strumento da opporre a un mondo degradato e corrotto. Certo, il copione prevede alcune eccezioni. Eppure, il quadro non cambia nella sua sostanza. La violenza e le maniere forti sono giustificate perché il mondo in cui i protagonisti della serie vivono è profondamente malato. E perché tutto è contro la polizia. L’irrealismo di molte delle situazioni descritte, al riguardo, è funzionale ad alimentare angoscia e paura del caos e, quindi, a legittimare le forze dell’ordine. A cominciare dall’isolamento dei celerini: la scena finale in cui, dopo che si è sparsa la notizia della morte del ragazzo entrato in coma dopo la rappresaglia a freddo della polizia successiva agli scontri con i No Tav, una sorta di influencer incappucciato diffonde un video, presto virale, in cui incita a pareggiare i conti, sembra uscita da un film di zombie: la squadra, più isolata che mai, è aggredita da due lati da folle inferocite e rigorosamente vestite di nero. Passando per la testimonianza di Nobili che, anni prima, ha denunciato due colleghi per avere picchiato una persona in stato di fermo. Per finire con l’ostilità della magistratura: chi ha un minimo di conoscenza della procura di Torino e del suo comportamento rispetto alla questione Tav/Tac si può rendere conto benissimo di quanto i personaggi descritti nella serie e i loro modi di fare siano lontani dalla realtà.
A testimonianza di un approccio patologizzante al conflitto sociale, le parole di Carlo Bonini sono significative. I celerini sono rappresentati
come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. […] Sono la faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato offre di sé. […] I nostri poliziotti, le cosiddette «forze dell’ordine», sono pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta faticosamente di espungere da sé […] Sono i prescelti a fronteggiare la minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il proteggersi l’uno con l’altro, senza lasciare che [i] sentimenti oscuri che provano prendano il sopravvento. I poliziotti si trovano, così, prigionieri di esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco rapporto. […] Il vero problema per i palombari è tornare a casa.
Del resto, l’idea che una generica «rabbia», impolitica e effetto di una frustrazione generalizzata, sia la cifra esplicativa degli ultimi vent’anni della società «occidentale» è ormai proposta anche da importanti esponenti dell’accademia internazionale.
La rappresentazione dei celerini come argine al caos è evidente in un passaggio della seconda puntata. Pietro, dimesso dall’ospedale e costretto su una sedia a rotelle, si rivolge così alla sua squadra durante una cena: «noi lo sapemo che ce so du polizie, la polizia di Stato e la polizia di governo. Ma noi chi semo? La polizia di Stato!». Acab la serie, dunque, gioca in modo ancora più esplicito, rispetto al romanzo e al film, con le categorie della cultura e del sapere di polizia. Nel dibattito scientifico, infatti, è richiamata di frequente la contrapposizione tra una polizia dei cittadini, democratica, e una polizia del sovrano, autoritaria. Con la sua uscita perentoria e sanguigna, Pietro va oltre questa distinzione. I celerini marcano la loro distanza dalla politica ma, allo stesso tempo, non si sentono cittadini come altri. Rivendicano piuttosto il loro essere il baluardo di uno Stato etico, non di un ordinamento giuridico neutrale. Due polizie, pertanto, di cui una sola autentica: quella a guardia di un ordine morale che deve essere tutelato, a ogni costo.
*Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Torino, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.
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