Merito o diritti? Bologna riscrive le regole per gli alloggi pubblici

NapoliMONiTOR - Thursday, February 13, 2025
(disegno di chiara tirro)

SELEZIONARE I “BUONI”
A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale nell’amministrazione pubblica.

Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali, educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.

Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare “predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere ugualmente tale “predisposizione”?

E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato? 

Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a rispondere:

Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua situazione attuale?

In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta bianca. 

Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione: dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico che legittima questa inquietante innovazione.

Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.

D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016 per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta.

CHI INSEGNA A CHI?
Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita, disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e partecipate”.

Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”. In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo.

Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di “facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di marketing.

C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che pervade il bando.

Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il bando prevede due passaggi. Il primo si chiama  “autoselezione”: “Dopo i primi otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”.

Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile, nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale, vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.

LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI
Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna.

XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di “normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti. Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.

Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del deserto urbanistico creato in quell’area […]”.

Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)